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La scelta populista (e pericolosa) di Theresa May

epa05913358 British Prime Minister Theresa May ahead of delivering a statement outside 10 Downing Street in London, Britain, 18 April 2017. British Prime Minister Theresa May has announced that she will call for a snap general election for 08 June. EPA/ANDY RAIN

L’annuncio di Theresa May di convocare elezioni a sorpresa il prossimo 8 giugno è un colpo di mano e una specie di golpe istituzionale. Fino a poche settimane fa dal governo giuravano che non ci sarebbero state elezioni anticipate. Non è più vero: il governo di Sua Maestà Britannica ha votato per sottoporre alla camera dei Comuni una mozione che convoca i comizi elettorali. Servono due terzi dei voti, ovvero anche una parte dell’opposizione.

Ci servono elezioni perché serve stabilità e perché abbiamo una finestra di opportunità mentre l’Europa ragiona su come si presenterà al tavolo della trattativa sulla nostra uscita dall’Unione europea – così ha spiegato May – Da quando sono premier ho detto il contrario (ovvero che non ci sarebbero state elezioni straordinarie), ma l’unica soluzione per avere stabilità è un voto e una chiara maggioranza… Ho una sfida all’opposizione: avete minacciato di bloccare le leggi e un’opposizione durissima a questo governo. È il vostro momento: votiamo per elezioni e facciamo decidere il popolo britannico».

Nel suo discorso la premier conservatrice ha rilanciato un’idea aggressiva di Brexit e magnificato il futuro lontano dall’Europa e attaccato gli oppositori che cercano di rallentare o ammorbidire il processo della Brexit, ricordando come i Lords che si oppongono alle sue scelte siano «non eletti». «Se non votassimo adesso ci troveremmo a fare la campagna elettorale a ridosso delle trattative cruciali con Bruxelles» ha detto May aggiungendo di volere un «Regno unito che traccia al sua strada, riconquista il controllo sulla propria moneta e sulle proprie frontiere, stipulando accordi commerciali con vecchi e nuovi partners».

C’è qualcosa di interessante nel discorso di May: l’appello diretto al popolo, la critica della “casta” dei Lord (una bestemmia per un conservatore), il ritorno al controllo di frontiere e moneta. Se non fosse un leader conservatore si potrebbe dire che è il discorso di una Marine Le Pen qualsiasi. I Tories, insomma, sembrano voler occupare lo spazio dell’Ukip e cavalcare quegli istinti bassi che hanno prodotto la vittoria del Leave. La stessa scelta poco istituzionale e non concordata, discussa con gli altri partiti di un’elezione anticipata è il segno di una tradizione della politica britannica che va in pezzi assieme alla Brexit. Come aveva fatto il premier Cameron scommettendo sul referendum per prendersi il partito e riaffermare la propria leadership nazionale, forte come era delle difficoltà laburiste, May scommette su se stessa e sulle proprie posizioni, invece di puntare alla stabilità del Paese e alla ricostruzione di un discorso istituzionale condiviso.

In casa laburista c’è il panico. La leadership di Jeremy Corbyn è in discussione dal primo minuto e la sua incapacità di guidare il partito a una vittoria è stata ribadita in queste settimane anche da molti suoi sostenitori. Ad esempio Owen Jones, che in un’intervista a Left in edicola aveva parlato di una sinistra laburista «non pronta per quella vittoria: non abbiamo le istituzioni intellettuali e le basi per una vittoria di quella portata. Mi ci metto anche io, sia chiaro. In genere ci definiamo attraverso battaglie difensive nelle quali la nostra identità si definisce sulla base di ciò a cui ci opponiamo. Basta privatizzazioni, no alla guerra, no allo smantellamento del servizio sanitario nazionale…manca una visione della società. E questo è un problema enorme». Jones pensava fosse necessario un cambio di leadership, ma oggi, con un editoriale su The Guardian, dice: perderemo ma dobbiamo limitare i danni e unirci attorno a Corbyn. Il tempo per un cambio di leadership non c’è più. Corbyn dal canto suo dice di essere pronto a raccogliere la sfida. Una sconfitta grave – e probabile – vedrebbe la sua leadership diventare tra le più brevi della storia del Labour. Al momento però non c’è nessuno che appaia in grado di diventare una figura capace di unire il partito. Chi si sfrega le mani sono invece i Liberal Democratici, gli unici a essere in maniera inequivoca uniti contro l’uscita dall’Europa, come del resto il 48% degli elettori britannici.

La scelta di May è scriteriata e non ha nulla a che vedere con le trattative con Bruxelles per diverse altre ragioni. La leader conservatrice spiega: con una maggioranza ampia saremo più forti al tavolo del negoziato. Falso: a Bruxelles non interessa quanto forte sia il mandato, a questo punto e data la posizione rigida del governo di Londra, ciascuno punta al miglior risultato per sé. A prescindere dal mandato nazionale. Poi ci sono la Scozia e l’Irlanda del Nord, con questa scelta e nell’eventualità che le posizioni conservatrici si rafforzino, cresce di molto la possibilità che a Edimburgo e Belfast decidano davvero di tenere dei referendum e staccarsi dal Regno Unito (e nel caso del Nord Irlanda, unirsi alla Repubblica irlandese). Questi sono tempi di crisi, le scelte politiche non convenzionali spesso pagano ma generano nuovo disordine. La premier conservatrice, in questo caso, sembra aver scelto di partecipare alla creazione di disordine. Qualsiasi sia l’esito delle elezioni da lei convocate.

Un post in ritardo sullo shopping nei giorni di festa (e sull’ambizione di Netflix)

epa05819421 Co-founder and CEO of Netflix, Reed Hastings, delivers his speech during the opening day of Mobile World Congress in Barcelona, northeastern Spain, 27 February 2017. More than 101,000 professionals and 2,200 exhibitiors attend the congress running until next 02 March. EPA/ALBERTO ESTEVEZ

«Noi siamo in competizione con il sonno» – leggo su il Post – ha detto Reed Hastings, il Ceo di Netflix. È una battuta, capisco, ma a me non fa ridere. Soprattutto dopo un fine settimana passato a pensare, personalmente, al saggio di Jonathan Crary, 24/7, il capitalismo all’assalto del sonno, pubblicato in Italia da Einaudi.

È una lettura consigliatissima, infatti, quella di Crary, che volevo usare per fare un post pensoso sulla polemica pasquale sullo shopping nei giorni di festa. Un brano di quel libro sarebbe stato perfetto per far bella figura e, scansando la compagnia di Luigi Di Maio, schierarmi contro la liberalizzazione degli orari di lavoro, invocando, se non un pentimento legislativo – che pure ci starebbe – almeno una maggiore responsabilità nei consumi, cosa che alla fine dipende solo da noi.

Ci servono tutte le cose che compriamo online e ci facciamo recapitare “in meno di 24 ore”? Siamo sicuri di dover proprio comprare a mezzanotte quel pugno di insalata, peraltro incartato in un chilo di plastica? Quell’ennesima magliettina a prezzo stracciato, un vero affare, ci piace tanto da sorvolare sulle condizioni di lavoro e la retribuzione di chi l’ha cucita? Eccetera, eccetera. Le domande retoriche che avrei messo in fila sarebbero state di questo tenore, ognuna utile per evocare un pezzo di una più generale sfida sul consumismo consapevole, che va dall’eccesso di carne nella dieta agli imballaggi di troppo, dal sostegno al commercio di prossimità alla qualità, ovviamente, del lavoro di chi produce, consegna o vende ciò che noi allegramente, e spesso superficialmente, consumiamo.

Domande a cui ognuno di noi – compatibilmente con le proprie disponibilità mentali, di tempo e di denaro (non voglio dilungarmi sui vantaggi economici di determinate attenzioni) – può ovviamente dare la risposta che reputa più giusta, sapendo però che siamo tutti su una stessa ruota – quella dell’iper lavoro e dell’iper consumo – e che qualcuno dovrà pur, a un certo punto, se non fermarla, almeno farla rallentare.

Il post però, alla fine, non l’ho fatto, preso da una sana pigrizia festiva (o meglio, sfinito dal traffico del ponte).

La frase di Hastings, però, mi permette di farlo adesso senza passare per quello che si accanisce. Crary, nel agile saggio pubblicato da Einaudi, racconta di farmaci che riducono il bisogno di sonno e di ricerche militari dalla sicura applicazione commerciale, snocciola statistiche sulle ore dormite dall’americano medio (dieci ore nel primo Novecento, sei e mezzo adesso), anticipa l’obiettivo confermato dal capo di Netflix: conquistato il nostro tempo libero – ormai prevalentemente votato al consumo e al lavoro, al lavoro e al consumo – il mercato ha puntato i nostri bioritmi, il nostro riposo.

E lo sta già conquistando: fateci caso. Perché non lavoriamo solo fino a tardi; fino a tardi, con l’iPad che ci illumina il cuscino di azzurro, siamo ad esempio sollecitati da pubblicità costruite sui nostri gusti e bisogni, irresistibili per il lavoratore che troverà lì magra consolazione alla condanna delle mail fuori dall’orario di lavoro.

Mi direte: nessuno ti obbliga a far shopping su Amazon a mezzanotte, e guardare un film, poi, è attività ricreativa. Vero. Però è vero anche che l’economia è un sistema. E negare che il consumo 24/7 sia tutt’uno con il lavoro 24/7 – con gli straordinari obbligatori, con la reperibilità non retribuita, con le partite Iva – è un po’ come darsi la zappa sui piedi.

Ecco: quello che avrei scritto a Pasqua e che scrivo oggi, è che l’apertura dei centri commerciali nei giorni di festa, se volete, è un simbolo ed ha quindi tutti i problemi delle battaglie simboliche, che possono sembrare pretestuose. Opporsi non serve però solo a ricordare che raramente il lavoratore – precario, stagionale, comunque “sostituibile” – può effettivamente scegliere se fare o meno lo straordinario; storcere il naso serve a evocare la sfida generale, che è forse la più urgente dei nostri giorni.

Il lavoro sta cambiando (come stanno cambiando i consumi) e il rischio è che sempre più ci sia chi lavora e consuma troppo, e viene comunque pagato poco, e chi lavora e consuma troppo poco. Buone leggi e buone pratiche (anche semplici, come quella, ad esempio, sul diritto alla disconnessione dopo l’orario di lavoro) servono a questo: contrastare la crescente disuguaglianza. Che rende infelici tutti, alla fine, salvo qualche amministratore delegato.

Dalla svolta del 18 aprile 1917 tutte le tappe di un anno rivoluzionario

Il 18 aprile 1917 una grande manifestazione a Pietrogrado per la giornata internazionale del Primo maggio, in nome della pace e della fratellanza fra i lavoratori, segnò un punto importante nelle tappe che portarono alla rivoluzione di ottobre. Le ha ripercorse per Left il professor Guido Carpi, docente di lingua russa all’università orientale di Napoli e autore di numerosi saggi, fra i quali Russia 1917, un anno rivoluzionario, da poco pubblicato da Carocci.

17 febbraio Pietrogrado. Gli operai delle immense officine Putilov chiedono un aumento salariale del 50% e annunciano sciopero; la vertenza dilaga. Le motivazioni politiche sono inizialmente assai vaghe.

22 febbraio In concomitanza con la partenza dello zar da Pietrogrado per il quartier generale, una delegazione operaia delle Putilov si reca dai deputati socialisti alla Duma Aleksandr Kerenskij e Nikolaj Čcheidze per ottenere una sponda politica.

23 febbraio Giorno della festa della Donna secondo il calendario giuliano in vigore in Russia. Una marea di popolane si riversa nelle strade per chiedere pane, mentre scioperi e tafferugli dilagano per la città

24 febbraio Lo sciopero è ormai totale, ma senza armi il movimento popolare non può avere la meglio.

25 febbraio Dopo altre manifestazioni oceaniche, verso le 9 di sera lo zar ordina al comandante militare della città, generale Sergej Chabalov, di «far cessare i disordini» tramite l’uso della forza. I soldati, in grande maggioranza contadini in armi, si mostrano recalcitranti.

26 febbraio Una compagnia del reggimento Pavlovskij fa fuoco sui gendarmi che stavano sparando sulla folla inerme.

27 febbraio La rivolta coinvolge anche le altre guarnigioni dell’esercito. Nel frattempo, sotto la direzione del menscevico Čcheidze, inizia a coagularsi l’ossatura di un Consiglio (Soviet) dei deputati degli operai e dei soldati, rappresentativo delle realtà produttive e militari dell’intera capitale. Il neonato Soviet di Pietrogrado – o Petrosovèt – si ispira agli omonimi consigli sorti spontaneamente durante la rivoluzione del 1905, ma assume fin da subito un ruolo e un’autorità senza precedenti, date le condizioni di insurrezione generale e il conseguente vuoto di potere. La folla vittoriosa occupa il Palazzo di Tauride, sede della Duma, e il Comitato esecutivo del Petrosovèt vi si insedia.

1 marzo Il Comitato esecutivo del Petrosovèt emana il cruciale Ordine № 1, che chiama le guarnigioni di Pietrogrado a far ritorno in caserma, e insieme istituisce comitati della truppa in ogni unità militare, decretando che, «quanto alle questioni politiche», i soldati debbano attenersi non più agli ordini dei superiori, ma alle disposizioni di tali comitati; i diritti politici e civili dei soldati sono equiparati a quelli di tutti i cittadini, i titoli per gli ufficiali sono aboliti.

2 marzo. Nicola II firma l’abdicazione in favore del fratello Michail, che rifiuta; la dinastia dei Romanov termina nell’indifferenza generale. A Pietrogrado nasce il primo governo provvisorio, definito nel corso di una riunione del Comitato provvisorio della Duma. I 12 ministri appartengono quasi tutti al Partito Costituzionale-Democratico (cadetti), più alcuni indipendenti del mondo delle professioni e degli affari; primo ministro diviene il presidente dell’Unione delle amministrazioni locali (zemstva) principe Georgij L’vov, ma il vero dominus del governo sarà per un mese e mezzo il leader cadetto e ministro degli esteri Pavel Miljukov. Unico ministro socialista è Kerenskij, alla giustizia.
4 marzo. A Mosca, alla temperatura di –10°, sulla Piazza rossa si tiene una parata\processione di grande effetto.
10 marzo. Viene firmato l’accordo fra Soviet e associazioni imprenditoriali sull’introduzione della giornata lavorativa di 8 ore.

15 marzo il Soviet emette un appello Ai popoli del mondo, secondo cui «è giunta l’ora di iniziare una lotta decisa contro le ambizioni predatorie dei governi di tutti i Paesi; è giunta l’ora che i popoli prendano nelle proprie mani la soluzione della questione sulla guerra e sulla pace»; al «proletariato germanico», finora convinto di «difendere la cultura d’Europa dal dispotismo asiatico», si fa presente che «la Russia democratica non può essere una minaccia alla libertà e alla civiltà».

23 marzo Sul Campo di Marte a Pietrogrado vengono celebrati i funerali delle vittime della rivoluzione.
Inizio aprile. Per tutto il Paese si riuniscono comitati contadini che iniziano a elaborare le proprie rivendicazioni e le proprie strategie sulla questione agraria.
3 aprile. Sera. Assieme a numerosi compagni, il leader bolscevico Vladimir Il’ič Lenin (Ul’janov) torna a Pietrogrado dopo avere attraversato la Germania (su un treno messo a disposizione dal governo tedesco), la Svezia e la Finlandia.

Dal 29 marzo al 4 aprile Prima Conferenza panrussa dei Soviet, che ribadisce il sostegno condizionato al governo, istituisce un Soviet panrusso (di cui il Petrosovèt non è ormai che una sezione, seppure la più rilevante) ed elegge un Comitato esecutivo centrale (Ispolkòm) ancora saldamente in mano ai socialisti centristi: menscevichi e socialisti-rivoluzionari (o esèry).

4 aprile. Lenin espone ai delegati della Conferenza panrussa dei Soviet le proprie Tesi d’aprile, che definiscono la nuova strategia bolscevica: la rivoluzione è attualmente in un momento di passaggio dove si pone con forza il tema del potere, che deve passare dalla borghesia al proletariato; pur in minoranza nei soviet, i bolscevichi devono spiegare alle masse «la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet», poiché in un momento in cui già esistono i soviet come forma di democrazia popolare, tornare alla repubblica parlamentare borghese sarebbe un passo indietro: sull’esempio della Comune di Parigi, la «repubblica dei soviet dei deputati degli operai, dei salariati agricoli e dei contadini» dovrebbe sopprimere polizia, esercito e corpo dei funzionari, sostituendoli con milizie popolari e funzionari eletti e revocabili; confiscare tutte le grandi proprietà fondiarie, nazionalizzare tutte le terre e metterle a disposizione dei soviet locali dei contadini; fondere tutte le banche del paese in un’unica banca nazionale sotto il controllo dei soviet. «Il nostro compito immediato non è l’“instaurazione” del socialismo, ma, per ora, soltanto il passaggio al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei soviet dei deputati operai».

18 aprile Grande manifestazione a Pietrogrado per la giornata internazionale del Primo maggio, in nome della pace e della fratellanza fra i lavoratori. In serata però, il ministro degli Esteri Miljukov emette una nota alle potenze alleate, in cui si ribadisce la determinazione della Russia a proseguire la guerra «fino alla piena vittoria».

20-21 aprile A Pietrogrado si tengono manifestazioni contrapposte: in centro il ceto medio manifesta a favore della prosecuzione della guerra, mentre dalle periferie e dalle caserme muovono cortei di operai e di soldati che manifestano per la pace. Si verificano scontri che spingono gli operai a organizzare i primi reparti di una propria Guardia rossa.

5 maggio. Esce dal governo l’ormai indifendibile Miljukov, entrano ministri socialisti, e il baricentro del potere si sposta su Kerenskij, nuovo ministro delle Guerra. Il Soviet accetta di partecipare al governo nella speranza di poter indire a breve una conferenza internazionale socialista che avvicini le trattative di pace, ma di congressi internazionali pacifisti non si parlerà più.

Maggio Si svolge il I Congresso panrusso del Soviet dei deputati contadini: fra le masse rurali crescono tanto le spinte autonomiste quanto l’irritazione per la mancata redistribuzione delle terre.

14-22 aprile Si riunisce la conferenza cittadina dei bolscevichi pietrogradesi (57 delegati di 12.000 membri), che approva le Tesi di Lenin a stragrande maggioranza.

23 aprile Vengono legalizzati i già capillari comitati di fabbrica: all’inizio essi si accontentano di controllare assunzioni, licenziamenti e bilanci, senza entrare nel merito delle scelte produttive; ma iniziano presto a vedere nella diretta cogestione dell’impresa il proprio compito principale, per impedire ai padroni di far danni. Il 19 maggio il pieno controllo operaio diviene politica ufficiale del Partito bolscevico, che si avvia velocemente a diventare egemone nelle fabbriche.
Fine maggio. Alle elezioni dei municipi di quartiere a Pietrogrado trionfano esèry e menscevichi, ma i bolscevichi conquistano il quartiere di Vyborg (45% di operai sulla popolazione). Il predominio di esèry e menscevichi è generale anche nei capoluoghi di governatorato (57,2%) ma anche i bolscevichi ottengono un’importante affermazione di media (12,9%), con picchi nelle roccaforti operaie.

Fine maggio – inizio giugno Si tiene il III congresso del Partito dei socialisti-rivoluzionari (esèry), vero e proprio “partito della nazione”, forte di più di 1 milione di iscritti, riuniti in 436 organizzazioni in tutti i governatorati, nelle flotte e su tutti i fronti della guerra. L’estrema divaricazione delle posizioni all’interno del partito non consente però di elaborare una linea condivisa e ne paralizza l’azione. Inizia a coagularsi un’opposizione interna di sinistra, guidata dall’ex terrorista Marija Spiridonova e decisa a battersi nel modo più energico possibile per la pace e la socializzazione delle terre.

3 al 24 giugno I Congesso panrusso dei Soviet, tenutosi a Pietrogrado, in rappresentanza di 8 milioni di soldati, 5 milioni di operai, 4,2 milioni di contadini; i moderati godono di una larga maggioranza (285 esèry, 248 menscevichi e 105 bolscevichi, più decine di indipendenti o appartenenti a piccoli gruppi, dai socialisti popolari agli anarchici); eppure, l’azione del Congresso è bloccata dall’incertezza sulla linea politica da seguire.

1 luglio A Pietrogrado le razioni alimentari vengono ridotte. Operai e soldati iniziano ad agitarsi. Assente Lenin, i bolscevichi decidono di aderire alle proteste e di promuovere una manifestazione «pacifica ma armata».

3 luglio Delegazioni di soldati si dirigono alle fabbriche per chiamare gli operai alla grande manifestazione che avrebbe dovuto conferire tutto il potere al Soviet. Per tutta la città si moltiplicano sparatorie e tafferugli.

4 luglio Nonostante Lenin abbia invitato alla «calma, prudenza, fermezza», verso mezzogiorno il Palazzo di Tauride, sede del Soviet, è circondato da una folla immensa che rifiuta di andarsene se il Soviet non assume i pieni poteri. Infine la manifestazione si scioglie da sola; mentre in città giungono truppe fedeli al governo, per le strade infuriano i combattimenti, i saccheggiatori spadroneggiano e anche i comuni cittadini devono ricorrere alle armi per proteggere le proprie case: alla fine, i morti negli scontri saranno circa 700. Lenin si dà alla macchia (finirà per riparare in Finlandia), mentre il partito bolscevico subisce repressioni e arresti, ed entra nella semi-illegalità.

6 luglio Finisce in modo inglorioso l’offensiva militare che si trascina da due settimane, i tedeschi avanzano su tutti i fronti e la dissoluzione dell’esercito russo entra nella fase irreversibile.

7 luglio Kerenskij diviene primo ministro.

26 luglio – 3 agosto. In un’atmosfera di semilegalità, i bolscevichi tengono il proprio sesto congresso (il secondo dell’anno). Lev Trockij e il suo gruppo confluiscono nel partito bolscevico. Se pure in forma vaga e incerta, la prospettiva insurrezionale diventa la linea guida del programma bolscevico.

13 – 15 agosto A Mosca, nel teatro Bol’šoj, lontano dalle sediziose masse pietrogradesi, si svolge la Conferenza di Stato (Gosudarstvennoe soveščanie), pletorica assise in cui 2.500 rappresentanti della politica, dell’economia e della società civile sono chiamati a dibattere sulle prospettive della democrazia russa. L’iniziativa però fallisce: masse popolari e ceti privilegiati non possono ormai trovare un terreno comune. Ormai più di Kerenskij, vero eroe dell’ala destra della Conferenza di Stato è il comandante in capo dell’esercito, il generale Lavr Kornilov, che richiama i delegati alla necessità di ristabilire legge e ordine nelle retrovie e disciplina al fronte. A latere delle sedute, industriali, finanzieri e politici si accordano con Kornilov e il suo entourage circa i finanziamenti dell’imminente colpo di Stato, con le necessarie coperture.

20 agosto I bolscevichi trionfano alle elezioni municipali di Pietrogrado, col 33%, laddove alle elezioni di quartiere, in maggio, avevano ottenuto solo il 20%.

22 agosto La battaglia di Riga si conclude disastrosamente, con l’occupazione della città-chiave del Baltico da parte dell’esercito germanico. Fra caduti, feriti, dispersi e prigionieri, i tedeschi hanno perso circa 4.500 uomini, i russi circa 25.000. La caduta di Riga apre ai tedeschi la strada verso il golfo di Finlandia e verso Pietrogrado.

27 agosto Il generale Aleksandr Krymov, su ordine di Kornilov, muove su Pietrogrado con la sua divisione di cavalleria. Kerenskij, che inizialmente aveva trescato coi golpisti, capisce che questi – occupata la capitale – instaureranno una dittatura militare e per prima cosa esautoreranno lui: dichiara dunque Kornilov “ribelle” e si affida alla difesa della capitale nel frattempo approntata dal Soviet e dai reparti della Guardia rossa, organizzati in un Comitato militare rivoluzionario (Revkòm) egemonizzato dai bolscevichi. In un paio di giorni, la divisione golpista si sbanda, Krymov si spara e Kornilov viene esautorato e arrestato.

Agosto-settembre A Helsingfors\Helsinki, nell’opuscolo Stato e rivoluzione (pubbl. fine 1917), Lenin dà una sistemazione organica alle riflessioni degli ultimi anni, e si concentra sul ruolo dello Stato, ossia sul carattere e sull’esercizio del potere nella fase di passaggio al socialismo: i comunisti preparano la sostituzione di un meccanismo di oppressione classista – quello borghese – con un altro meccanismo di coercizione organizzata, atto ad esercitare la dittatura del proletariato. La macchina dello Stato borghese va spezzata, le sue strutture – esercito, istituzioni politiche, burocrazia – vanno demolite e sostituite, sull’esempio dato dalla Comune di Parigi, da «qualcosa che non è più propriamente uno Stato», ma una sorta di comitato liquidatorio per l’estinzione di quest’ultimo. Lo Stato proletario attua una graduale soppressione di se stesso: l’esercito va rimpiazzato da milizie popolari, le istituzioni parlamentari borghesi vanno sostituite da una democrazia di base, organizzata dai lavoratori nei luoghi di produzione (i soviet), e in luogo della burocrazia che regola le infrastrutture deve subentrare il controllo operaio.

7 settembre Prosegue lo smottamento delle masse verso i bolscevichi: a questi ultimi va la maggioranza del Soviet di Pietrogrado, da sempre architrave degli equilibri fra socialisti, e ora in netta opposizione nei confronti dell’Ispolkòm, ancora in mano ai moderati. Alla presidenza del Petrosovet sale Lev Trockij, che da questo momento svolgerà negli avvenimenti un ruolo chiave, non inferiore a quello dello stesso Lenin. Nel medesimo periodo, gli esèry di sinistra escono definitivamente dal partito-madre, indebolendo così la maggioranza moderata dell’Ispolkòm e del governo.

14 settembre A un mese esatto dalla Conferenza di Mosca, al teatro Aleksandrinskij di Pietrogrado si apre la Conferenza democratica. La nuova assise non comprende i partiti “borghesi” e le organizzazioni padronali, ma affianca ai delegati del Soviet una nutrita schiera di rappresentanti delle cooperative, delle municipalità e degli zemstvo: la Conferenza ha infatti lo scopo di allargare la base di legittimazione di un Ispolkòm ormai screditato e traballante, nonché di decidere se il governo venturo dovesse essere nuovamente di coalizione coi partiti borghesi, oppure se fosse venuta l’ora di un esecutivo “omogeneo”, ossia composto dai partiti socialisti delle varie sfumature. Non stupisce dunque che alla fine, le votazioni incrociate della Conferenza portino a una risoluzione paradossale, che certifica l’impasse istituzionale: a favore di un governo di coalizione con la borghesia, ma – contro ogni logica – senza i cadetti, che della borghesia sono il referente politico! «La sinfonia patetica si è spezzata su un cialtronesco accordo di balalajka», commenta il 21 settembre il giornale della destra menscevica “Den'”.
20 settembre La Conferenza democratica vara il nuovo, assai pasticciato governo e istituisce un Consiglio provvisorio della Repubblica russa (o “Preparlamento”): nelle intenzioni, esso avrebbe dovuto indirizzare l’azione di governo, ma viene subito ridimensionato a organo consultivo, ossia del tutto inutile.

7 ottobre I bolscevichi escono dal Preparlamento, col che si chiude ogni spiraglio per una soluzione pacifica, “parlamentare” della crisi.

10 ottobre Si riunisce in contumacia il Comitato centrale bolscevico, alla presenza di Lenin e Zinov’ev ancora latitanti. Si decide per l’insurrezione, malgrado alcuni obiettino che «l’insurrezione armata può anche portare alla vittoria, ma poi che si fa?»; al che i sostenitori dell’insurrezione – ricorda Trockij – ribattono: «E voi che proponete?» «Beh, agitazione, propaganda, compattare le masse, et cetera…» «Sì, ma poi che si fa?»

12 ottobreIl Comitato esecutivo del Petrosovet inizia a mobilitare il Revkòm e la Guardia rossa, formalmente per tutelare l’ordine nella capitale. Il 18, le guarnigioni di Pietrogrado dichiarano che eseguiranno solo gli ordini operativi con la controfirma del Revkòm, col che il potere reale è già passato sostanzialmente ai bolscevichi, che nominano un commissario del Revkòm in ogni unità militare.

23 ottobreLe guardie governative tentano di chiudere il giornale bolscevico, e il Revkòm coglie il casus belli atteso da giorni, impartendo il segnale di attacco.

24 ottobre Piccoli drappelli della Guardia rossa agiscono in modo molecolare e chirurgico, disarmano le sentinelle governative, occupando stazioni, centrali elettriche, poste e telegrafi, da giorni sotto discreta sorveglianza; le operaie della Siemens organizzano il pronto soccorso mobile, con più di 200 infermiere. Dal punto di vista della preparazione tattica, l’Ottobre è un vero capolavoro.

25 ottobre Alla mattina, ai governativi rimane solo il Palazzo d’Inverno, presidiato da due compagnie di allievi ufficiali, da 40 cavalieri di San Giorgio invalidi e dalle soldatesse «spaventate a morte» del battaglione femminile (circa 140 unità), trascinate al Palazzo col pretesto di una parata. Il Revkòm diffonde il proclama Ai cittadini della Russia, che annuncia la presa del potere. Una cannonata a salve dalla fortezza dall’incociatore “Avrora” – ormeggiato in pieno centro! – dà il segnale dell’assalto al Palazzo d’Inverno. Alle 22 e 45 si è aperto il 2° Congresso panrusso dei Soviet, dove i bolscevichi godono di una solida maggioranza assieme ai pur recalcitranti alleati esèry di sinistra.

26 ottobre Il Congresso dei Soviet forma il primo governo sovietico: il Consiglio dei commissari del popolo, o Sovnarkòm, nonché il Comitato centrale esecutivo panrusso (Vcik), organo supremo del potere legislativo; fra i due organi non c’è una chiara divisione dei poteri. Alle 20 e 40 Lenin sale alla tribuna del Congresso e dà lettura del Decreto № 1 sulla pace: il governo operaio e contadino, forte dell’appoggio dei Soviet, propone a tutti i popoli belligeranti (e poi – ai loro governi!) l’immediato inizio di trattative per una pace giusta e democratica senza annessioni e senza indennità; per la prima volta nella storia, la legittimità dei possessi coloniali e la pratica della diplomazia segreta vengono ufficialmente rigettate, e il governo sovietico, nel proporre un armistizio, si rivolge in particolare agli «operai coscienti delle tre nazioni più progredite dell’umanità» – Francia, Inghilterra, Germania – affinché leghino la lotta per la pace a quella per il socialismo. Quando gli applausi si spengono, Lenin passa a illustrare il Decreto № 2 sulla terra, fondato sulla risoluzione del congresso contadino di primavera: la grande proprietà fondiaria è abolita senza indennizzo e la terra «è dichiarata proprietà di tutto il popolo e passa a tutti coloro che la lavorano»; hanno diritto al godimento della terra tutti i cittadini dello Stato russo (senza distinzione di sesso) che desiderano coltivarla con l’aiuto della loro famiglia o in cooperativa . Il lavoro salariato non è ammesso».

Ciò che segue è altra storia.

Perché i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane fanno lo sciopero della fame

Dalla fine della scorsa settimana più di mille palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno cominciato uno sciopero della fame. A promuoverlo è stato il leader di Fatah, in carcere da 15 anni, Marwan Barghouti – forse la figura politica più popolare tra i palestinesi. Lo stesso Barghouti è stato messo in isolamento dopo che un suo articolo è stato pubblicato dal New York Times e che, domenica, migliaia di persone hanno manifestato nei Territori. Nel testo il leader di Fatah spiega che lo sciopero è «la forma più pacifica di resistenza a nostra disposizione».

Il governo israeliano, per bocca del ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan, ha reso noto che non intende in nessun modo negoziare con i detenuti. Altri ministri hanno usato toni ancora più duri, il ministro dei Trasporti e dell’Intelligence Katz ha scritto su Twitter che la cosa migliore per figure come Barghouti è la pena di morte.  Le loro richieste riguardano le condizioni di detenzione: abolizione della detenzione senza processo, abolizione dell’isolamento, più visite dei familiari, un telefono a pagamento in ogni sezione. In passato ci sono stati molti altri scioperi simili, ma mai tanti prigionieri vi avevano aderito. L’avvocato di Barghouti ha fatto sapere che l’organizzazione dello sciopero della fame va avanti da un anno. Neppure il rifiuto di trattare da parte del governo israeliano è una novità, ma in passato, quando le condizioni dei detenuti hanno preso a peggiorare e si è posto il problema dell’alimentazione forzata, dei negoziati ci sono stati. Rifiutare il cibo è vietato e, in teoria, i detenuti potrebbero essere alimentati a forza, ma la cosa genererebbe un aumento delle proteste nei Territori.

Ma a cosa è dovuto questo sciopero e perché adesso? La presidenza Trump e la volontà presunta da parte del genero Jared Kushner di restituire agli Stati Uniti un ruolo e rilanciare una qualche forma di processo di pace sono una prima spiegazione. Da mesi, dopo la richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese all’Onu fatta dal presidente Abbas, la leadership dell’Anp non sembra avere una strategia da opporre all’intransigenza e apparente disinteresse di Netanyahu. Barghouti sembra voler intervenire in questa assenza di leadership che è anche frutto della lunga e lenta lotta per la successione al presidente.

Ma quanto peserà questo sciopero? Lo vedremo nelle prossime settimane, quando le condizioni dei detenuti peggioreranno e la pressione delle manifestazioni crescerà di conseguenza. Un grande tema, oggi, per i palestinesi è il disordine regionale del quale si trovano a essere vittime. Se per decenni la loro vicenda è stata centrale per la politica mediorientale – nel bene e nel male, con governi che hanno usato la loro causa per cercare consenso e indicare un nemico (Israele, gli Usa) – oggi, tra Siria, Yemen e tensioni crescenti altrove, l’impatto che le proteste potranno avere è minore che in passato. Al contempo, la tensione è già talmente alta in Medio Oriente che una nuova sollevazione palestinese dovrebbe preoccupare tutti e far riflettere il governo di Israele sulla necessità di lavorare a qualcosa che non sia il trascinarsi dello status quo a cui si aggiunge la provocazione dei nuovi insediamenti.

 

 

 

Mamma li turchi! Ma è l’Europa il vero zerbino

epa05912779 Turkish President Recep Tayyip Erdogan (R) speaks during a rally after referendum victory, at the Presidential Palace in Ankara, Turkey, 17 April 2017. Media reports Turkish President Erdogan won a narrow lead of the 'Yes' vote in unofficial results, 17 April 2017. The proposed reform, passed by Turkish parliament on 21 January, would change the country's parliamentarian system of governance into a presidential one, which the opposition denounced as giving more power to Turkish President Erdogan. EPA/TUMAY BERKIN

Un golpe fallito (e dalle dinamiche dubbie) che ha trasformato la Turchia in un sultanato ai piedi di Erdogan. E poi ci sono i numeri: Erdogan e il governo turco hanno arrestato 43mila persone, sequestrato 800 società, chiuso diversi giornali ed emittenti televisive, mandato in carcere 150 giornalisti (per 16 è stato chiesto l’ergastolo), allontanato dal lavoro 140mila dipendenti pubblici (tra cui funzionari, dirigenti, giudici, poliziotti), svuotato la magistratura e occupato tutte le fonti di informazione.

Sarebbe bastato questo, in un’Europa che aspiri a essere davvero presa sul serio, per sollevare un’indignazione internazionale che diventasse anche politica. E invece niente. Anzi, peggio: l’Europa finanzia Erdogan perché faccia della sua nazione il sacchetto dell’umido dell’immigrazione, trattando i rifugiati come percolato da nascondere quanto prima nel sacchetto dell’umido.

Poi, nei giorni scorsi, è arrivato anche l’esito del referendum sulla riforma costituzionale: Erdogan si cuce una costituzione su misura e diventa il padrone di un Paese che sembra correre veloce verso i suoi tempi più bui. Schede non autenticate eppure conteggiate, una campagna elettorale con nessuno spazio per il dibattito democratico, scrutini aperti ai rappresentanti del no solo dopo una buona mezz’ora dall’inizio dello spoglio e una lunga serie di amenità da terzo mondo dei diritti.

E l’Europa che fa? Un sussulto? Niente. Uno starnuto? Nulla. Anzi, continua imperterrita a portare avanti le trattative perché la Turchia ne diventi membro. Da una parte Erdogan esulta e promette in tempi brevi un nuovo referendum per ripristinare la pena di morte; dall’altra la politica europea si affida a grigiastri ragionieri affilatissimi con i bilanci e vigliacchetti con i prepotenti.

Bene. Avanti così.

Buon lunedì.

Cantare l’anima dolce e ribelle di Chavela Vargas

Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata ritornano ad ammaliare il pubblico con l’epica vita e le canzoni di Chavela Vargas. Il 19 aprile sul palco del Quirinetta di Roma riportano in scena “Un mondo raro”, la storia raccontata, ma soprattutto suonata e cantata, del loro viaggio in Messico sulle orme della cantante che fece innamorare Frida Kahlo e impazzire Ava Gardner. Dopo Roma le tappe di Firenze, il 22 aprile alla Sala Vanni, e Terni, il 9 maggio a Anteprima Encuentro. In attesa di ascoltarli ecco la nostra intervista ai due cantautori, pubblicata su Left n. 5 in occasione dell’uscita del disco e del libro “Un mondo raro” dai quali è tratto lo spettacolo .

Donne, grandi sbronze, canzoni romantiche e schiere di cuori infranti. È una vita piena quella vissuta da Chavela Vargas, nata in Costa Rica ma simbolo indiscusso del Messico. I cantautori siciliani Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata hanno deciso di raccontarla tra parole e musica con Un mondo raro, un libro (La nave di Teseo) ma anche un disco (Picicca dischi) dallo stesso titolo. Quella della Vargas è una storia epica e assume le dimensioni della leggenda perché parte dalla strada. Quella fatta da Di Martino e Cammarata per ripercorrere dalla Sicilia al Messico le orme di Chavela e quella fatta da lei stessa a 17 anni quando nel 1935 lascia, con il fagotto in spalla e il cuore carico di ambizioni, un Paese piccolo e bigotto per conquistare quello che in quegli anni era il regno di Frida Kahlo, Diego Rivera e Tina Modotti. Un Messico vivo, rivoluzionario e in fermento, come l’animo ribelle di Chavela che si vestiva da uomo, indossava un poncho rosso da mariachi e una fondina con una pistola per darsi un’aria da dura per poi sciogliersi appena apriva bocca per cantare le sue struggenti nenie d’amore.

«Il libro inizia con una porta in faccia e un produttore musicale che le dice: “Signorina Vargas lei ha una voce terribile”», racconta Antonio Di Martino. «Non è la prima porta in faccia che prende Chavela, ma volevamo sottolineare come i rifiuti fossero per lei uno stimolo, ad andare avanti e metterci ancora più impegno. Un mondo raro è la storia di una rivincita continua nei confronti della vita». Un canto, come le canzoni racchiuse nel disco, che invita a non darsi per vinti. «Tutta la sua esistenza è stata un andare contro un destino che sembrava avverso. O, se la si guarda da un’altra prospettiva, un inseguire un destino di cui solo lei all’inizio sembrava riconoscere il suono e il richiamo», spiega Fabrizio Cammarata, il primo dei due cantautori ad innamorarsi del mito di Chavela Vargas e a trascinare l’amico in questa avventura. «Non era una cosa così scontata essere una donna anticonformista e dichiaratamente omosessuale nell’America Latina, intrisa di machismo, degli anni 30 e 40» spiega Fabrizio «e non era una strada in discesa misurarsi con un Paese che non era il suo e con un genere musicale prettamente maschile. Quella di Chavela è stata una guerra continua contro gli elementi». Un’impresa epica appunto, fissata lì a monito ed esempio per chi per passione decide di andare contro, di insistere. «Come cantautori ci siamo sentiti dire di no innumerevoli volte e continuiamo a prendere porte in faccia» racconta Di Martino sorridendo, «ma forse – gli fa eco Cammarata – fa anche un po’ bene ricordarsi che nulla va dato per scontato, a qualsiasi livello della propria carriera si sia giunti».

Quello di quegli anni è un Messico vivo, rivoluzionario e in fermento, come l’animo ribelle di Chavela che si vestiva da uomo e indossava un poncho rosso da mariachi e una fondina con una pistola per darsi un’aria da dura

Ma la vita della Vargas è anche porte che si aprono, amicizie e incontri straordinari. Come quello con José Alfredo Jiménez, il più grande autore messicano di ballate rancheras. Una sera in una taverna di Città del Messico José sente Chavela cantare, la ascolta sbalordito e la invita a bere con lui. È la prima di molte altre serate alcoliche, ma soprattutto di un’amicizia e di una collaborazione fino alla fine indissolubili. La sete per la tequila, per la musica e per la vita in Chavela è inestinguibile. Beve, ma non ne ha mai abbastanza, «è un desiderio costante il suo, lo si vede soprattutto sul palco – dice Di Martino – dove emana un’enorme energia che allo stesso tempo riceve in cambio dal pubblico».

«Nella vita e durante i concerti, funzionava come una sorta di catalizzatore», aggiunge Cammarata «guardando i video delle sue esibizioni si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcuno che sta cercando di raccogliere e cantare tutte le emozioni, il male e il bene delle persone presenti, sentimenti trasversali che ci fanno essere quasi un corpo unico… l’amore, la disperazione, la solitudine, la nostalgia e li trasforma in un rito. Chavela di fatto era una sciamana, questo la rendeva unica». Vargas infatti interpreta alla perfezione quella vita intrisa del senso della morte che è l’anima della mexicanidad, ma che possiamo ritrovare anche nella cultura della nostra Sicilia. «La Sicilia e il Messico forse sono fra i pochissimi posti al mondo in cui si celebra una vera e propria Festa dei morti», raccontano i due cantautori, «era come un secondo Natale, da bambini ci immaginavamo questi fantasmi che la notte fra l’1 e il 2 novembre entravano in casa per portarci i dolci. La Sicilia è intrisa di un senso tragicomico dell’esistenza, la morte è semplicemente il lato b della vita. Questo sentire ci ha reso più facile entrare nel mondo raro, prezioso e strano, di Chavela Vargas».

La sete per la tequila, per la musica e per la vita in Chavela è inestinguibile. Beve, ma non ne ha mai abbastanza


Un mondo nel quale non mancano aneddoti e volti noti. Ad Acapulco negli anni 50 si riversavano molti divi della Hollywood degli anni 50 alla ricerca di esperienze esotiche, ricorda Di Martino: «Di quelle notti Chavela amava raccontare di quando vide l’alba fra le gambe di Ava Gardner». La sensualità della cantante messicana è un altro tratto travolgente della sua personalità: «Durante il nostro viaggio in Messico abbiamo conosciuto anche Lila Downs, erede musicale dalla Vargas. Lila conobbe di persona Chavela quando lavorarono insieme sul set del film Frida con Selma Hayek. Chavela all’epoca aveva più di ottant’anni, Lila, trenta, ed era bellissima e carica di energie. Nonostante questo ci ha giurato che Chavela senza alcuna esitazione tentò un abbordaggio, non tradendo il suo spirito passionale». «C’è un brano che Vargas ha follemente amato cantare negli ultimi anni della sua vita», ci svelano i due cantautori come un segreto prezioso «si chiama “Las simples cosas”, “Le cose semplici”, e descrive, meglio di qualsiasi capitolo, anche i vent’anni di silenzio e di sparizione dalle scene pubbliche che hanno caratterizzato la vita di Chavela. Nella canzone ci dice che per lei la libertà era una cosa meravigliosa ma per possederla davvero bisognava pagare un prezzo altissimo: per lei quel prezzo era la solitudine».

#LeftPlay Chavela secondo Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata

 

Mentre in Italia si parla, in Catalogna si fa

«Ci sono persone che se le rappresenti votano». Sembra tutto così semplice quando lo dice Ada Colau che non a caso è sindaca della sua città, Barcellona. La città rifugio che scende in piazza per difendere i diritti dei migranti, la città che cresce – anche economicamente – in un Paese governato con l’austerity di Rajoy. E mentre in Italia si fa un gran parlare di “come costruire un soggetto unitario della sinistra”, val la pena stare attenti a cosa succede in Catalogna dove lo hanno appena fatto. Loro lo chiamano «processo partecipativo per costruire un nuovo e unitario spazio politico e sociale della sinistra». E precisano – le parole sono ancora di Colau – che è e deve essere «uno spazio in cui nessuno deve rinunciare alla propria identità e che permetta ai partiti del 3% di costruire l’egemonia, e di fare fronte al ritorno dell’estrema destra in Europa». Sabato 8 aprile, al padiglione di Vall d’Hebron di Barcelona, si è tenuta l’Assemblea Fundacional di “Un país en comú”, il partito unito della sinistra catalana, che ha eletto come suo leader il deputato al Congresso spagnolo Xavier Domènech.

Oltre la coalizione

«¡Unidad! ¡unidad». Come a Vistalegre lo scorso febbraio, anche a Barcellona è questo il refrain. Più che sulle identità di ognuno – e più che a spaccare il capello in quattro – qui si sono concentrati sugli obiettivi comuni: un nuovo modello economico ed ecologico fondato sul bene comune, un modello di benessere per una società giusta ed egualitaria, un Paese fraterno in tutti i suoi ambiti, una rivoluzione democratica e femminista, un Paese inclusivo in cui tutti trovino il loro posto, un progetto di Paese che parta da tutti i territori. Queste le cinque chiavi che aprono la porta al progetto unitario. «Siamo una forza inarrestabile e non cadremo nella trappola dei poveri contro i poveri», ha detto Colau. Del resto il partito nasce a sua immagine e somiglianza, e così ha convinto i movimenti sociali nati con la crisi economica a unirsi ai partiti. Una sorta di “cessione di sovranità” in un nuovo soggetto politico, dagli ambientalisti di Iniciativa per Catalunya Verds ai comunisti di Esquerra Unida i Alternativa, fino a – ovviamente – En Comú Podem, Barcelona en Comú, Podemos e gli indipendenti. Ma come si fa a mettere tutti insieme? Lo abbiamo chiesto a Ernest Urtasun, ecosocialista ed eurodeputatato catalano molto popolare nella sua terra, il secondo più votato all’assemblea di sabato scorso. «Abbiamo molto discusso come fare l’unità, eravamo di fronte a due modelli: un processo di coalizione, e cioè creare una struttura condivisa mantenendo le militanze separate e dunque componendo gli organi comuni in base alle quote di ogni partito o movimento. Questo modello non ci è sembrato ambizioso, perché semplicemente gestionale, perciò lo abbiamo superato per creare un nuovo partito». Un nuovo partito in cui il demos sono i militanti, di qualunque formazione o partito e, soprattutto, di nessuna organizzazione: «Il modello della coalizione non allarga, perché semplicemente somma l’esistente. Superare la coalizione, con un soggetto completamente nuovo, invece, è un grande richiamo per la maggioranza dei cittadini che al momento non partecipa da nessuna parte».

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Il lavoro? Lo danno le bombe sganciate sullo Yemen

NL01 - 19981013 - VILLAFRANCA, ITALY : Six MK 82 free falling bombs of 500 pound each are ready to be loaded onto Dutch F 16 jet-fighters at the military airbase Villafrance, 13 October. The Dutch Royal Airforce are still preparing for possible NATO actions against Yugslavia despite the agreements between Holbrooke and Serb president Milosovic. (ELECTRONIC IMAGE) EPA PHOTO ANP/MARCEL ANTONISSE

Nel Sulcis delle miniere dismesse, delle vertenze storiche come quella di Alcoa, Carbosulcis o Eurallumina, e della disoccupazione giovanile record, 74 operai costruiscono ogni giorno ordigni bellici. Nei periodi di “super-produzione”, frequenti negli ultimi tempi, quei 74 diventano anche 200, 250, dando inizio a una strana catena di montaggio che inizia nel sud della Sardegna, a Domusnovas, prosegue su navi e aerei che attraversano il Mediterraneo e termina drammaticamente sul suolo yemenita per opera delle forze armate dell’Arabia Saudita, per citare una delle destinazioni di cui più si è discusso negli ultimi anni. La fabbrica di armi e munizioni in cui sono “barricati” questi operai, costretti per contratto a un particolare vincolo di riservatezza, è in un anonimo edificio giallo ocra a poca distanza dal centro cittadino («ma abbastanza da non sentirla come una minaccia», ci dice il “minatore rosso” Antonello Tiddia). Si tratta della Rwm Italia Spa, partecipata del gigante tedesco Rheinmetall Waffe Munition Gmbh, meglio noto come Rheinmetall Defence, con sede principale a Ghedi (Brescia) e un secondo stabilimento a Domusnovas, sorto nel 1972 sulle ceneri di una società che produceva esplosivi per le miniere della zona.

Non ci sono insegne né cartelli a indicare la strada per arrivarci. A qualche centinaio di metri dalla Rwm, tenuti a debita distanza da circa duecento agenti, lunedì 3 aprile oltre sessanta attivisti hanno per l’ennesima volta manifestato contro la produzione delle bombe – tra cui le micidiali Mk83 o le bombe d’aereo di penetrazione Blu-109 cadute sullo Yemen, come conferma anche l’Onu – per poi dirigersi in paese, dove le proteste antimilitariste sono tutt’altro che gradite. «Ogni volta che in questa regione ci opponiamo a decisioni calate dall’alto ci ritroviamo davanti schieramenti notevoli  di forze dell’ordine», racconta Rosalba Meloni, attivista del Cagliari social forum e del Movimento anti-militarista sardo. «Ma quando si tocca il discorso militare le cose peggiorano: il 3 aprile ci siamo ritrovati davanti sette cellulari pieni zeppi di poliziotti, numerose auto dei carabinieri, Digos, truppe speciali e un elicottero che girava sopra le nostre teste. Non oso immaginare quanto sia costato quest’apparato di sicurezza spropositato a noi contribuenti. Hanno creato una notevole tensione, ma noi non avevamo alcuna voglia di essere pestati e abbiamo semplicemente fatto e detto le cose che ci eravamo prefissati di dire e fare, anche discutendo animatamente. Soprattutto, con il nostro sit-in abbiamo impedito il cambio turno costringendo la fabbrica a trattenere gli operai del primo turno fino alle 18, anche se il nostro obiettivo iniziale era quello di bloccare la produzione».

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L’appuntamento

Venerdì 28 aprile il Movimento antimilitarista sardo ha in programma un corteo dall’ingresso del Poligono di Quirra (Cagliari) per chiedere di liberare la Regione dalla presenza di basi militari e dalla produzione di armi, che occupano territori da bonificare e da restituire ad agricoltura e turismo di qualità. Sui danni della servitù militare di Quirra è in corso un processo a Lanusei. Da uno studio presentato in udienza l’8 marzo da un avvocato di parte civile risulta la presenza di torio, uranio, piombo, arsenico nelle carni degli animali da pascolo.

 

Bamboccioni a chi? Intervista alla band bolognese Lo Stato Sociale

«Lavori per non pensare a che lavoro fai per chi ti chiede sempre di più. La paura non serve a nulla. L’amore al peggio ti fa dimagrire e non resta niente dei tuoi sogni, se da sveglio non valgono più» cantano i ragazzi de Lo Stato Sociale in “Sessanta milioni di partiti”, il brano che racconta al meglio come sono e che apre il loro ultimo album Amore, lavoro e altri miti da sfatare frutto di quasi due anni di lavoro. Lo Stato Sociale, lo si capisce già dal nome, non è una band come tante altre. I cinque bolognesi, Albi, Bebo, Lodo, Carota e Checco non hanno mai nascosto la loro passione per le “canzonette” e una certa anima pop, ma allo stesso tempo, fra cronaca e ironia, riempiono i loro brani di istanze sociali. «Abbiamo capito di essere un collettivo e l’importanza di questa parola, sempre meno usata e sempre più svuotata» spiegano. E allora chi meglio di loro, rappresentati per l’occasione da Bebo, per fare due chiacchiere sul mondo là fuori. Sulla politica che non interessa alla gente; sulla sinistra che non c’è; sull’avere trent’anni e non sapere dove sbattere la testa perché manca il lavoro, ma alla fine «finché c’è l’amore c’è speranza». E sulla musica, ovviamente.

Quali sono questi “altri miti da sfatare”?

Sono tutte quelle certezze che sono state pian piano smantellate dal Novecento in poi. Nel 2008 con l’arrivo dell’ultima crisi economica, abbiamo cominciato a mettere in dubbio molte di quelle che, fino a quel momento, erano le fondamenta della crescita personale. La nostra generazione, quella dei trentenni, si è affacciata su un mondo del lavoro completamente inesistente. Abbiamo assistito all’assassinio dell’Articolo 18, all’arrivo dei voucher e siamo stati traghettati nell’era Jobs Act. Non proprio il mondo fatto di stabilità e certezze che ci avevano raccontato. Gli altri miti da sfatare sono quelli che hanno conquistato la ribalta negli ultimi 10 anni. Facebook, per esempio, i selfie e il culto della personalità diffuso ad oltranza sui social, ma anche l’idea che il successo sia l’unico modo per sentirsi realizzati o il mito delle frontiere da alzare per proteggersi e la convinzione che i migranti ci rubino il lavoro e prendano 36 euro al giorno.

“Sessanta milioni di partiti” parla proprio di questo.

Il testo è uno spaccato piuttosto ampio di come guardiamo a quello che succede oggi. È una sorta di “bignamino” di quello che accade nel disco ed è la canzone a cui siamo più affezionati.

L’album è un ritratto fedele della vostra generazione. Quella dei millennials che i giornali spesso bollano come bamboccioni.

Raccontare la nostra generazione è complicato, ci siamo trovati di fronte a un guado e noi stessi siamo stati incapaci di dar vita a una nostra narrazione quando c’era il bisogno di essere compatti e tirare fuori delle istanze. Forse eravamo troppo occupati a ritrovare una bussola che era smarrita, perché ci stavano mettendo i bastoni fra le ruote dal punto di vista economico e sociale. Se già fatichi tu a saperti raccontare, non puoi certo aspettarti accuratezza dagli altri, soprattutto se parliamo dei media tradizionali che sono dei dinosauri. Quando ho letto Gli sdraiati di Michele Serra, avrei voluto dirgli «bella vez» ( “ehi vecchio” in bolognese) sono 50 anni che fai quel mestiere lì, c’hai tre quattro poltrone, due case, due famiglie, facile dire che noi siamo una generazione affaticata, quando tu te ne stai seduto comodo comodo su un trono del Novecento. A parte questo qualche forma interessante per raccontarci l’abbiamo trovata, ci sono dei bravi cantautori e dei bravi autori, Zerocalcare per esempio è uno che è partito dal movimento ed è diventato una star. Forse stiamo riprendendo un po’ in mano la narrazione, la possibilità di spiegarci ecco…

Nelle cuffie de Lo Stato Sociale

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Cronaca di un pomeriggio a teatro cercando la “sinistra”

Un' immagine della Costituente comunista al Circolo Arci San Lazzaro (Bologna) per ricreare il partito della falce e martello puntando a fare, del nuovo partito, un approdo per tutti i comunisti italiani, Bologna, 25 giugno 2016. ANSA/GIORGIO BENVENUTI

Perché la sinistra perde? Con o senza punto interrogativo, questo era il compito che i miei colleghi mi hanno assegnato per la storia di copertina del numero di Left che trovate in edicola. Dopo aver chiacchierato per quasi due ore con Owen Jones ed essere rimasti senza parole di fronte a domande – a cui noi di Left avremmo dovuto invece saper rispondere in grande scioltezza (del tipo: Perché nonostante in Italia la crisi sia molto forte, la sinistra non vince?) -, sono stata spedita al festeggiamento dei 60 anni dell’Arci perché la sinistra, quella italiana, sarebbe stata tutta lì. Tutta in prima fila sulle poltroncine del teatro Orione, in via Appia a Roma.

E in effetti in prima fila c’erano tutti. Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, Matteo Orfini, presidente del Partito democratico, Giuliano Pisapia, leader di Campo progressista, Susanna Camusso, segretaria della Cgil, Andrea Orlando, ministro della Giustizia e contendente alle primarie del Pd di Matteo Renzi, Roberto Speranza, leader di Articolo Uno, Michele Emiliano (in collegamento), presidente della regione Puglia e terzo candidato alle primarie del Pd, Paolo Ferrero, ex segretario di Rifondazione comunista, Riccardo Magi dei Radicali e anche Sergio Staino, vignettista, padre di Bobo ed ex direttore de l’Unità.

Insomma c’era tutta – ad eccezione forse di Possibile – la sinistra italiana. Sulla carta almeno. Sul palco insieme a loro c’erano pure le sagome (questa volta di cartone) dei protagonisti del Quarto stato di Pellizza da Volpedo e una presentatrice che si irritava ogni volta che l’invitato a parlare sforava i dieci minuti di tempo che gli erano stati concessi. E il pubblico, sessanta persone circa che riempivano sì e no, a macchia di ghepardo, una platea davvero troppo vuota. Dov’è il popolo? Quello della sinistra? Com’è che non è lì?

Non serve troppo tempo per capirlo. Soprattutto avendo in testa le parole – queste sì di sinistra, che leggerete sul nostro settimanale – scambiate poche ore prima con Owen Jones che abbiamo incontrato in redazione. Basta guardare la distrazione della platea. Sarebbe bastato chiedere a quei 60 spettatori se si fossero mai sentiti “pensati” dagli invitati sul palco, e anche se avessero ancora fiducia nel fatto che quelle parole, tante parole di quegli invitati, sarebbero poi diventate prassi politica, e azione. Collettiva.

Io rispondo – qui in sintesi, sul giornale più lungamente. Per me, due soli picchi emotivi (superati presto dalla visione serale di un documentario, Avanti!, di una giovane regista, Lucia Senesi, che vi consiglio, che ha girato l’Europa con Gramsci in testa). Banali, nel senso di molto molto familiari, ma almeno picchi. Il primo quando Nicola Fratoianni rivolgendosi ad Andrea Orlando, cofirmatario del famoso decreto Minniti-Orlando di cui abbiamo lungamente scritto, dice al ministro: «Attento perché il Daspo uccide un pezzo della Storia migliore di questo Paese». Bello, perché Fratoianni ritiene evidentemente pezzo migliore della Storia di questo Paese l’accoglienza e la solidarietà. E bello, perché ritiene che uno strumento come il daspo, un foglio di via, per barboni, migranti… soggetti ritenuti dalle autorità “socialmente pericolosi”, uccida quella Storia migliore. Uccida quell’idea insindacabile e universale di un’uguaglianza che è alla nascita e che nessun colore o ruolo sociale o Paese d’origine o mezza politica o interesse nazionale potrà mai intaccare. Il secondo picco è quando Paolo Ferrero si avvicina al palchetto, sempre con la sensazione di essere fuori posto e fuori tempo (un po’ lo è, in effetti), e cita Albert Einstein: «Il cervello è come un paracadute, funziona solo se si apre» dice. Lo so che può sembrare una sciocchezza, eppure lì con quelle sagome di cartone del Quarto Stato, la presentatrice irritata, gli ospiti concentrati su smartphone e tablet, la platea semivuota, mi è sembrato un miracolo di “presenza”. Umana e politica.

Di picchi emotivi per i 60 anni dell’Arci basta così, per il resto le ragioni per cui la sinistra perde (senza punto interrogativo) si susseguono sul palco. Qui ne anticipo due: Matteo Orfini che spalleggia il decreto Minniti (e Orlando) e sostiene che “sicurezza” è una parola di sinistra quanto “integrazione”. Anzi che la “sicurezza” non va lasciata alla destra e ci racconta perle dal suo quartiere di periferia che gli chiede proprio sicurezza. Massimo Bray che spiega ai 40 (a quel punto) in platea che la terra è in prestito, come dice papa Francesco, e quindi non la dobbiamo rovinare perché non è nostra.

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