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Le foto più belle di una settimana burrascosa

Ansa EPA/HOW HWEE YOUNG

9 Aprile 2017. Istanbul, Turchia. Un comizio elettorale per il referendum costituzionale che si terrà il 16 aprile, sulla modifica del sistema parlamentare corrente in una presidenza esecutiva. (Photo BULENT KILIC/AFP/Getty Images)

Cairo, Egitto. La chiesa copta dopo l’esplosione avvenuta il 9 aprile (Photo STRINGER/AFP/Getty Images)

I vigili del fuoco lavorano per spegnere un enorme incendio scoppiato a campo Grande-Synthe, il campo profughi alla periferia di Dunkerque che ospita più di 1500 persone. (Photo PHILIPPE HUGUEN/AFP/Getty Images)

11 aprile 2017. Santiago, Cile. Una marcia degli studenti che chiedono l’accesso ad un’istruzione pubblica e gratuita per tutti. (Photo MARTIN BERNETTI/AFP/Getty Images)

12 aprile 2017. Dortmund, Germania. Poliziotti di guardia davanti a un bus della squadra di club di calcio francese AS Monaco, il giorno dopo l’attacco al bus della squadra del Dortmund. (Photo SASCHA SCHUERMANN/AFP/Getty Images)

Una donna turca con una bandiera raffigurante il fondatore della Turchia moderna Mustafa Kemal Ataturk, durante un comizio referendario. (Photo BULENT KILIC/AFP/Getty Images)

13 aprile 2017. Un soldato della NATO in servizio nelle forze di pace (KFOR) vicino al villaggio di Harilaq, Kosov. (Photo ARMEND NIMANI/AFP/Getty Images)

12 aprile, 2017. Pretoria, Sudafrica. Sostenitori della libertà economica durante una manifestazione. (Photo MARCO LONGARI/AFP/Getty Images)

13 aprile 2017. Caracas, Venezuela. Poliziotti della Guardia Nazionale in assetto antisommossa. Sono cinque le vittime degli scontri delle ultime due settimane, in seguito alle proteste contro il presidente Maduro. (Photo JUAN BARRETO/AFP/Getty Images)

Un oppositore del governo di Nicolas Maduro durante una manifestazione. (Photo JUAN BARRETO/AFP/Getty Images)

14 aprile 2017. Pechino, China. Una donna osserva la città avvolta dallo smog: nella capitale cinese è allerta arancione, quella che precede la massima, la rossa, per l’inquinamento atmosferico. (Photo FRED DUFOUR/AFP/Getty Images)

4 aprile 2017. Profughi iracheni in arrivo al un centro di smistamento a Mosul prima di essere trasportati nei campi profughi.
(Photo CHRISTOPHE SIMON/AFP/Getty Images)

Pendolari della Corea del Nord leggono i giornali locali in teche di vetro nella metropolitana a Pyongyang, Corea del Nord. Ansa EPA/HOW HWEE YOUNG

Rifugiati a Roma. Così Raggi provoca l’emergenza

Un momento della protesta degli occupanti del Centro Baobab in Campidoglio, in occasione della seduta straordinaria dell'Assemblea Capitolina su via Cupa e il Baobab, Roma, 11 ottobre 2016. ANSA/ CLAUDIO PERI

Dalla Val Roya a Roma, passando per Ventimiglia. Gli attivisti del Baobab di Roma sono a Ventimiglia. Mentre le istituzioni latitano, cittadine e cittadini si organizzano non solo nei territori ma anche facendo rete, dalla punta alla cima del Paese. «Abbiamo ritrovato qui molti di quelli che sono stati ospitati al Baobab», ci dice Andrea Costa e vuole precisare che sono ore tutto sommato piacevoli in cui si apprende che molti di loro stanno ancora bene. Ma non appena torniamo a parlare di Roma i sorrisi si spengono. «Ieri sera, e cioè appena 24 ore dopo l’approvazione del decreto Minniti, la polizia è venuta a farci visita al campo di Roma», racconta Costa. «Dei circa 80 ospiti presenti ne hanno trovati solo 36 e li hanno portati via per identificarli. E pensare che da settimane molti di loro tentano di farsi ricevere in questura perché vogliono accedere al percorso regolare di ospitalità». I 36, quindi sono stati identificati e poi liberati, e sono quindi tornati al campo. Sono in 80, dicevamo, e tra loro ci sono molti bambini e molte donne, qualcuna incinta, qualcuna reduce dagli stupri in Libia. «Lo stesso Paese con cui noi abbiamo appena stretto un accordo», sottolinea Andrea.

Poi non dite che è un’emergenza…
«Oggi a Roma manca ancora una struttura di prima accoglienza», dice l’attivista del Baobab con il tono di chi è quasi esasperato dalle sue stesse parole. Sono mesi, anni, che le romane e i romani lo denunciano. E non è la prima emergenza migranti nella Capitale. «Abbiamo cominciato a piantare le prime tende. E se abbiamo già 80 ospiti, vuol dire che a maggio saranno almeno 200. sappiamo bene che avremo anche quest’anno una situazione ingestibile». E il Ferrhotel che, lo scorso 30 dicembre, la giunta Raggi aveva promesso di allestire entro giugno?, chiediamo. «Ci è stato comunicato dal dipartimento al sociale che non sarà pronto prima di dicembre 2017 o gennaio 2018», risponde Costa. Un’alternativa all’ex albergo dei ferrotranvieri romani, sul piazzale della stazione Tiburtina, non è stata annunciata. Per questo il Baobab ha indetto l’ennesima conferenza stampa, per mercoledì prossimo. «Non ci crediamo finché non lo vediamo», avevano detto allora gli attivisti.

“Liberi tutti”, il debutto alla regia di Elda Alvigini con opere di Alessio Ancillai

Liberi tutti

Il 14 febbraio Liberi tutti, il nuovo spettacolo di Elda Alvigini e Natascia Di Vito ha debuttato al Teatro dell’Orologio a Roma, facendo il tutto esaurito. Poi, d’un tratto, è calato giù il sipario. Cancellate le repliche perché il teatro non era a norma, scattati i sigilli. Le opere d’arte di Alessio Ancillai che in questo spettacolo svolgono un importante ruolo drammaturgico, da co-protagoniste insieme agli attori,  restano “in ostaggio,” segregate per giorni.  Solo un lungo iter buracratico ha portato alla loro “liberazione”. Un’odissea impensabile in altre capitali europee. Ma siamo a Roma dove il teatro di ricerca, che propone idee nuove, rischia di  diventare clandestino, mancando spazi e finanziamenti.

Nelle settimane scorse, mentre la direzione del Teatro Eliseo annunciava il rischio di una nuova chiusura, c’è stato però un bel colpo di scena: Liberi tutti è tornato a vivere, questa volta sul palco del Piccolo Eliseo.  Il 12 aprile si sono riaccesi  i riflettori su questo originale lavoro diretto da Elda Alvigini che ne è anche interprete insieme a Marius Bizau, Valerio Di Benedetto e Jun Ichikawa.

Liberi tutti ha il merito di far riflettere su un tema doloroso: la separazione. Lo fa con humour e profondità.  Con calviniana “leggerezza”.  Al tempo stesso avendo il coraggio di raccontare il latente nella dinamica di rapporto delle due coppie, le cui si storie, a tratti, tragicomiche, si dipanano in parallelo.  Si ride molto.  Anche se spesso a denti stretti. Perché quello che le due autrici raccontano ci tocca da vicino.  Le vicende sono sì quelle di quei quattro giovani tipicamente italiani che vediamo in scena, fra mammismo, precarietà e sindrome da Peter Pan, ma c’è anche molto altro.

L’opera rossa di Alessio Ancillai (2017)

Sotto la veste scintillante delle battute si scorge qualcosa riguarda tutti. Già, perché – come suggeriscono indirettamente le note di regia – riuscire a sfangarla  nello svezzamento dalla madre, da piccoli, non è cosa da poco. Riuscire poi a realizzare una bella separazione da amanti, fidanzati e mariti, è un’altra portentosa scomessa.  Separarsi per sempre dalle persone amate, senza preciptare nel buio, è un passaggio cruciale in cui ci si gioca tutto….

I quattro attori, ognuno con una propria personalissima cifra,  spingono a guardare in faccia questi nodi, con la seduzione di una recitazione, in cui il linguaggio del corpo, del canto, della poesia è altrattanto importante delle immagini silenziose. La potenza del color sangue che promana dall’installazione di Alessio Ancillai, L’opera rossa (in foto) che evoca “il superamento del comunismo” ci coinvolge in una dolorosa presa d’atto: la necessaria separazione da una storia del comunismo, che parlava di “uomo nuovo”, ma è finita nelle purghe staliniane. Al contempo  proprio  la vitalità di quel rosso richiama un pensiero nuovo, che non rinuncia agli ideali che rimette in moto la ricerca. L’opera di Ancillai ci dice molto più di tante parole.

Così come la scena, molto fisica, quasi danzata, in cui Elda Alvigini dà voce e corpo ad un’altra difficile separazione, quella di una giovane migrante costretta a lasciare la propria terra e ad affrontare il mare. È uno dei momenti più forti e  toccanti di Liberi tutti,  spettacolo prismatico, con molti livelli di lettura, capace di passare con disinvoltura da un registro all’altro, fra un cambio di scena e l’altro, tutti realizzati a vista.

Ritrovandoti (2017) di Alessio Ancillai

 

Abbiamo parlato dei toni alti, drammatici, ma non mancono i momenti comici com’è nello stile  di questa formidabile coppia di autrici. Le note più esilaranti s’incontrano in scene familiari,  lo sguardo più acuto si posa sui tic di fidanzati mammoni e “Totti- dipendenti”. Memorabile la scena in cui una arcigna madre sulla sedia a dondolo, degna di Psycho, mette in campo tutti i propri acuminati “ami” non intendendo  mollare il suo “pesciolino” neanche se già sfiora gli “anta”. Ma anche i signori uomini avranno pane per i loro denti di fronte ai  maldestri tentativi di aspiranti fidanzate, che si dicono amanti, ma poi finiscono per fare di tutto, ma proprio di tutto, per prendere il posto della “cara mammina”.

Nuovo ed importante è il testo, brillante la rappresentazione, grazie al versatile talento dei quattro attori e nuovissima è l’interazione fra i personaggi e le opere d’arte create da Ancillai, come accennavamo, di grande forza espressiva.  Si tratta  di dipinti e di una installazione in tessuto rosso e led.  Opere ispirate dal testo drammaturgico e create ex novo, altre sono scelte  (fra le opere già realizzate da Ancillai) dai quattro protagonisti in base alle proprie esigenze espressive. Da sottolineare, in finale, è anche l’uso del video che contribuisce a fare di Liberi Tutti un’opera multimediale, in cui  si fondano diversi linguaggi.

Tutt* liber* di Alessio Ancillai, presentato ad Artissima off 2016

Siria, una guerra calda rinviata nella Russia delle proteste

TOPSHOT - A picture taken on January 25, 2017 shows a mural, vandalized with paint, depicting Russian President Vladimir Putin (L) and US President Donald Trump and bearing the Cyrillic letters reading "Kosovo is Serbia", in Belgrade. / AFP / ANDREJ ISAKOVIC / RESTRICTED TO EDITORIAL USE - TO ILLUSTRATE THE EVENT AS SPECIFIED IN THE CAPTION (Photo credit should read ANDREJ ISAKOVIC/AFP/Getty Images)

«Non è la prima volta che Assad si siede in una pozzanghera». Immagino che stia sorridendo amaramente mentre lo dice perché è una cosa che fa spesso nella sua nuova redazione vicino a piazza Majakovskij, a Mosca. La pozzanghera è un errore di calcolo, una svista svergognata, una bugia scoperta, e sedercisi dentro è l’espressione russa, comune e confacente, che usa per descrivere la situazione Boris Yunanov, giornalista al desk di uno degli ultimi magazine indipendenti di Mosca, il Novoe Vremja, anche conosciuto come il “New Times Russia”. È come interrogare l’enciclopedia di una vecchia volpe cinica, perché Boris osserva e riflette sull’uomo di cui il resto del mondo parla da lontano forse da troppo tempo. L’uomo la cui faccia impassibile, sempre con la stessa espressione, è in ogni aula di scuola in Russia, dal Baltico fino a Vladivostock, per finire sulle matrioske dell’Arbat del centro della Capitale. A dicembre, al gelo, i commercianti dicevano che le bambole di legno che si vendevano di più erano quelle di Putin, ma, per quanto inusuale, anche quelle di un altro presidente, nonostante americano, non andavano male.

Fino ad ora sono stati gli ordini – dati e ricevuti – da cacciatorpedinieri e squadre d’assalto marine, che hanno deciso l’ultima fase della guerra in Siria, ma battevano tricolore e aquila russa. «La strategia americana in Medio Oriente sta cambiando» dice Boris. La nostra conversazione cambia alla velocità delle copertine del suo giornale, si sposta in un solo secondo dalla piazza e dai manganelli di Minsk, da quelli della protesta contro la corruzione a Mosca, dall’attentato a Pietroburgo, alla base dell’aviazione siriana di al Shayrat, fino alla portaerei americana salpata da Singapore verso la penisola di Corea. Non parleremo più di Alekseij Novalnij, appena liberato «grazie a chi ha protestato ed è pronto a nuove azioni».

Su Left in edicola l’intervista a Boris Yunanov di Michela Iaccarino e Umberto Di Giovannangeli sul significato dell’attacco missilistico deciso da Donald Trump contro Assad.

Una guerra calda rinviata nella Russia delle proteste di Michela AG Iaccarino

Le manifestazioni di piazza a Minsk, l’attentato di Pietroburgo e l’attacco americano alla base di Assad, ecco il racconto dei giorni frenetici di Mosca. Che ha «il problema vero delle guerre in casa e della povertà», ci dice Boris Yunanov, giornalista del Novoe Vremja

Dove muoiono  le Nazioni Unite di Umberto De Giovannangeli

Cosa ci dicono i 59 missili Tomahawk lanciati la notte del 7 aprile? Che si preferisce, ancora una volta, l’uso della forza alla diplomazia. In una guerra senza fine e figlia dei tempi sovranisti. Dove non si cede potere a istituzioni sovranazionali

La Siria, la Russia e gli Usa su Left in edicola dal 15 marzo

 

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A che serve la madre di tutte le bombe sull’Afghanistan? Probabilmente a sviare l’attenzione dai guai della Casa Bianca

epa05905157 US President Donald J. Trump (R) listens to NATO Secretary General Jens Stoltenberg (L) speak at a press conference in the East Room of the White House in Washington, DC, USA, 12 April 2017. The White House says the President will use the meeting as an opportunity to reaffirm his commitment to NATO. EPA/JIM LO SCALZO

Cosa sta succedendo nella Casa Bianca di Donald Trump? Mettiamo da parte per un secondo la madre di tutte le bombe, la GBU-43/B, sganciata sul covo Isis in Afghanistan, che fortunatamente non sembra aver fatto vittime civili, o la strage di ribelli siriani commessa per errore.

In questi giorni ci sono stati incontri del massimo livello tra Mosca, Pechino e Washington nei quali si è parlato di Siria, relazioni bilaterali, Corea del Nord e commercio internazionale.

Dopo aver dato dei manipolatori di valuta ai cinesi, Trump ha detto di non ritenere che Pechino adotti politiche per abbassare il costo dello yuan e, così, il costo delle merci cinesi da esportare. Il presidente Usa ha anche detto che sulla Corea, Pechino saprà intervenire – e in effetti Pechino dovrebbe farlo se vuole davvero mostrare di essere un leader in Asia. Un incontro insomma, nel quale il presidente Usa ha fatto due passi indietro e mostrato una faccia sensata. Strano per uno che ha scelto come capo stratega una figura come Steve Bannon che ritiene che tra Cina e Stati Uniti una guerra sia inevitabile.

A Mosca è andata meno bene, ma non malissimo. Tra Russia e Stati Uniti il clima resta mediocre ma le due potenze sembrano aver intenzione di lavorare di più per mettere mano alla crisi siriana senza peggiorare ulteriormente una situazione caotica e tragica. «Due potenze nucleari non possono avere rapporti così» ha detto il ministro degli Esteri Lavrov. Non ci siamo ancora, Mosca non vuole mollare Assad e Washington vuole non rimanere umiliata. Ma, in fondo, c’è una volontà più marcata di quanto non ci fosse con Obama. A Mosca non volevano Clinton presidente e hanno ottenuto quel che cercavano. Nel frattempo però, la Nato (il presidente Usa si è visto anche con il segretario generale Stoltenberg) ha smesso di essere un’alleanza superata. Altro concetto espresso in campagna elettorale e anche una volta assunta la presidenza.

L’intensificarsi dei bombardamenti Usa e l’attacco successivo all’uso di armi chimiche da parte di Assad sono in questo senso un segnale a Putin. Un segnale di quelli da grande potenza impegnata in una specie di guerra fredda: muscolare ma non necessariamente foriero di escalation.

Il momento in cui cade la bomba

Sulla Cina, sulla Nato, sulla Russia e sulla Siria, Trump fa dunque diversi passi indietro e di lato. Nel caso siriano, si impegna in qualche forma a lavorare a una soluzione diplomatica, si invischia di più in un Paese dal quale aveva promesso di stare alla larga. Spara addirittura contro il dittatore la cui uscita di scena non è una priorità per lui – anche se la sua ambasciatrice americana all’Onu, in palese rotta di collisione con una parte dell’entourage del presidente, sostiene il contrario e litiga con Mosca.

Torniamo alla domanda iniziale, cosa sta succedendo?
Banalmente che le promesse elettorali su commercio e politica estera fatte da Trump non reggono alla prova dei fatti. E che nell’entourage del presidente è in corso una guerra furibonda tra i realisti, tutt’altro che moderati, ma non paranoici, e l’ala dura e messianica. Il primo gruppo ha alla testa il genero di Trump, Jared Kushner, il secondo lo stratega Steve Bannon. Questa settimana pare stiano vincendo i realisti: toni più pacati, negoziati, scelte fatte guardando al contesto e alle conseguenze. Bannon è anche stato escluso dal Consiglio per la sicurezza nazionale.

Problema: Trump ha vinto perché ha promesso cose che non stanno in piedi o che cambiano radicalmente il modo di governare e il ruolo americano nel mondo – e usato i toni suggeritigli da Bannon. Che ha anche fatto molto per costruire una base militante che è la colonna portante del sostegno al presidente. Dire addio a quelle idee e politiche senza sostituirle potrebbe essere un danno grave per Trump.

E qui torniamo alle bombe dopo aver dato un’occhiata al tweet del suo avvocato qui sopra: Trump usa la bomba per mantenere l’America sicura e viene elogiato da tutti. Appunto. dopo settimane di passi indietro, la sconfitta sulla riforma sanitaria Obama, gaffe, promesse non mantenute, il presidente aveva bisogno di mostrare qualcosa al proprio pubblico. Due gesti simbolici come i missili Tomawhak su Assad e la madre di tutte le bombe in Afghanistan sono modi per attirare l’attenzione, sviare il discorso, far dimenticare che la presidenza sta mettendo da parte molte delle proprie promesse elettorali. E funziona: in fondo oggi siamo tutti qui a commentare – negativamente – l’attitudine guerrafondaia di Trump. E così dimentichiamo le inchieste sui legami con la Russia, gli insuccessi dal punto di vista dei risultati prodotti, il caos che regna nell’amministrazione. Con quelle bombe, insomma, Trump ha ottenuto il risultato voluto. E basterebbe guardare Fox News che non parla d’altro che non del bombone e manda e rimanda le immagini che vedete qui sopra, con commenti al limite dell’imbarazzante. Quanto alla Siria o all’Afghanistan, nessuno sa cosa il presidente intenda fare. Nemmeno lui.

Owen Jones e gli errori del Labour, Podemos, Catalogna e Italia. Domande sulla sinistra

Se c’è una figura che incarna assieme la modernità e la tradizione della sinistra britannica, questi è forse Owen Jones. Trentadue anni, super attivo sui social media, brillante columnist di The Guardian, per il quale scrive soprattutto di sinistra, youtuber coi fiocchi, perché racconta la politica e la società britanniche telecamerina alla mano producendo interviste distese e approfondite che spesso fanno notizia e che vengono guardate da decine di migliaia di persone. Jones è per la prima volta in Italia, ospite del Festival del giornalismo di Perugia e ne approfitta per una serie di incontri/interviste sul libro che sta scrivendo, dedicato alla “sinistra della speranza”. «È un libro che invece di descrivere la realtà, cerca soluzioni ed esperimenti positivi nella sinistra europea. Una specie di cura», dice sorridendo. Owen è venuto a trovarci in redazione, ci ha fatto molte domande sulla politica italiana e sul Movimento 5 stelle e sul perché – un tema che ritorna – la sinistra italiana, come anche molta sinistra europea, non abbia guadagnato dalla crisi economica generata dalla finanza mondiale. Noi, a nostra volta, lo abbiamo lungamente intervistato sulla sua idea di sinistra, sulla Brexit, sul Labour di Jeremy Corbyn. Le risposte sono chiare come i suoi video, puntuali e veloci come il suo inglese. Siamo partiti da una specie di notizia, il suo prendersi una pausa dai social media.

Con Jones abbiamo parlato dei guai di Jeremy Corbyn e del perché, a suo parere, dovrebbe farsi da parte, dell’esperimento di Podemos come la cosa più interessante nata nella sinistra europea in questi anni, di quali siano i guai e del perché la crisi finanziaria e quella della Terza via non abbiano determinato una avanzata della sinistra radicale. Una delle risposte sta nel modo sbagliato di comunicare e organizzarsi. Con Jones abbiamo anche discusso di Matteo Renzi e del suo rifarsi all’esperienza del blairismo degli anni ’90.

A proposito di sinistra, su Left in edicola siamo andati a guardare all’esperienza catalana di Pais en Comù, lista unitaria della sinistra catalana che è un esperimento interessante. Specie se lo paragoniamo ai contorcimenti della sinistra italiana, che si riunisce per la festa dell’Arci ma non sembra farsi domande che non siano relative a schieramenti e posizionamenti. Per concludere con la sinistra ci siamo chiesti che fine stia facendo il Partito socialista francese. Due dei candidati che potrebbero finire al secondo turno delle presidenziali sono usciti, da destra e da sinistra e il candidato Hamon ha vinto le primarie a sorpresa ma on sembra destinato a grandi risultati. Una storia che va in pezzi e una sinistra francese che sta cambiando profondamente.

Perché la sinistra perde di Ilaria Bonaccorsi

Siamo stati alla festa per i 60 anni dell’Arci. Ci avevano detto ci sarebbe stata tutta la sinistra italiana. Volevamo fare una domanda che ci assilla: Perché la sinistra perde? Ma di risposte non ne abbiamo trovate. 

Quello che possiamo imparare dagli inglesi – parla Owen Jones di Ilaria Bonaccorsi e Martino Mazzonis

Dagli errori del Labour britannico la sinistra può capire moltissimo. Anche da quelli di Jeremy Corbyn, in evidente difficoltà. Left incontra Owen Jones, columnist di The Guardian. Tra social network, Brexit e Podemos, ecco quello che ci siamo detti

Il destino ambiguo della sinistra francese di Martino Mazzonis

Dopo il voto della prossima settimana assisteremo alla fine del Partito socialista cresciuto all’ombra di Mitterrand. A destra Macron e a sinistra Mélenchon sembrano destinati a raccoglierne le spoglie. Cosa è successo al Psf e qual è la forza del Front de gauche?

Mentre in Italia si parla in Catalogna si fa di Tiziana Barillà

Nasce a Barcellona Un país en comú, con la Alcaldessa Ada Colau, che unisce le anime di verdi e comunisti. Ma soprattutto dei cittadini. «È così che si pratica il cambiamento. Con politiche di coesione sociale», ci dice il numero due, l’ecosocialista Ernest Urtasun

L’intervista a Owen Jones, Paìs en Comù, la sinistra francese e quella italiana sono in edicola su Left 

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Verrà la storia a presentarci il conto. E ce ne vergogneremo

Gli immigrati fermi da alcuni giorni nei giardini adiacenti la stazione ferroviaria di Como San Giovanni a causa del blocco della frontiera da parte delle autorità svizzere, 8 agosto 2016. ANSA / MATTEO BAZZI

Lisa Bosia Mirra è una deputata del Gran Consiglio del Canton Ticino in Svizzera ed è stata condannata per “ripetuta incitazione all’entrata, alla partenza e al soggiorno illegale”. Il reato di solidarietà (che ha percentuali di condanna che fanno invidia ai reati di mafia e corruzione) si sarebbe consumato nell’agosto-settembre scorso quando Como era diventato un accampamento a cielo aperto di rifugiati bloccati alla frontiera.

Lei sulla sua pagina Facebook scrive:

«Sono stata zitta a lungo ma adesso sono pronta a raccontare a chiunque abbia la voglia e il tempo di ascoltare quello che ho visto a Como: delle ferite ancora aperte, delle donne stuprate, dei minori respinti. Di come quel parco antistante la stazione si sia trasformato nella dimostrazione più evidente della fine di qualunque umanità. E di come fosse impossibile fare diversamente da come ho agito. Perché quello che pesa, infine, più dell’ingiustizia, è il privilegio. Il privilegio di quel passaporto che permetteva a me di tornare a casa, a me che non ho fuggito la guerra, che non ho mai patito la fame, che non ho rischiato la vita nel deserto. Io tornavo a casa e loro restavano al parco. Anche quella ragazza il cui fratello era morto nel naufragio dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano entrambi; anche quell’uomo che aveva trascorso dieci mesi attaccato ad un muro da una catena. Non la tiro lunga, sono a Belgrado, anche qui disperata umanità senza diritti. È come sempre più utile fare che parlare ma sono pronta a raccontare, ma non è una bella storia.»

Verrà un giorno, forse ci metteremo anni, che la storia ci presenterà il conto di quest’epoca. Ci saranno quelli che fingeranno di non avere capito la gravità della situazione credendo di essere assolti: ci saranno coloro che marciranno patetici mentre fingeranno di tenere la posizione anche quando non li seguirà più nessuno; ci saranno i vigliacchietti che alzeranno le spalle parlando di “altri tempi”; ci saranno i politici contriti per provare a fare l’ultimo giro; e poi ci saranno i criminali solidali come Lisa.

Buon venerdì. Santo. Pensa te.

Le parole della sinistra che guarda al mondo

Comunque Left è una cosa misteriosa. Esci da un teatro e pensi che la sinistra non può neanche perdere perché proprio non esiste. In Italia. Poi alzi il naso, incontri Owen Jones, parli per qualche ora, vedi un cortometraggio su Gramsci e la sinistra di una giovane regista che ha girato mezza Europa alla ricerca della sinistra, intervisti uno spagnolo e una band che dice di essere un collettivo, Lo Stato sociale, e hai la certezza immensa che quell’idea di Left da cui eri partito è proprio giusta. Insindacabilmente giusta. L’intelligenza ci renderebbe pessimisti, lo diceva Gramsci, ma la volontà ci rende ottimisti, è proprio così. Cos’è la sinistra? Interesse per gli altri. Per la realizzazione degli altri. Di tutti, quanti più possibile. A Giorgia Furlan che gli chiedeva se c’è ancora speranza quelli de Lo Stato Sociale hanno risposto così: «C’è per forza. Non voglio pensare, come diceva Monicelli, che la speranza è una truffa. Dobbiamo cominciare a ripensare al futuro, ricominciare a ricostruire l’utopia. Sembra solo filosofia, una cosa alta, poco concreta, in realtà è una pratica quotidiana che inizia con piccoli gesti a favore della collettività. Quando la collettività sta meglio anche il singolo sta meglio». E come lo facciamo? Vi invito a trovare nei nostri pezzi le citazioni di Albert Einstein, fondamentali a tal proposito, e a seguire i consigli del “collettivo musicale”: «Come spiegava Italo Calvino, dobbiamo imparare a comunicare in maniera semplice i concetti difficili», altrimenti «non andremo mai da nessuna parte, rimarremo per sempre ombelicali». Ce lo ha ripetuto anche Owen Jones che ci ha detto «guardate bene a Podemos e al loro modo di comunicare con la gente». Occorre “ritrovare le parole” nel rispetto di idee giuste, anche datate. Ed in effetti, lo scrive Tiziana Barillà, in Spagna corrono, a Barcellona è nato Un país en comú, il partito unito della sinistra catalana, e ha in mente di realizzare: «Un nuovo modello economico ed ecologico fondato sul bene comune, un modello di benessere per una società giusta ed egualitaria, un Paese fraterno in tutti i suoi ambiti, una rivoluzione democratica e femminista per costruire un Paese inclusivo in cui tutti trovino il loro posto» e non ci sembrano solo parole. Allora iniziamo dal Quote, con Rosa Luxemburg e chiudiamo con Misty Copeland. In mezzo trovate la nostra idea misteriosa di sinistra che non può essere più italiana o inglese o spagnola. Che è già europea e presto guarderà al mondo.

L’editoriale è tratto dal numero di Left in edicola

 

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La Turchia al voto, in gioco il futuro democratico?

TOPSHOT - A Turkish woman supporting the "No" vote in the upcoming constitutional referendum campaign waves a Turkish flag with a picture of modern Turkey's founder Mustafa Kemal Ataturk in front of Yeni Camii on April 12, 2017 during a campaign rally for the "yes" in Istanbul's Eminonu district. The Turkish public will vote on April 16, 2017 on whether to change the current parliamentary system into an executive presidency. / AFP PHOTO / BULENT KILIC (Photo credit should read BULENT KILIC/AFP/Getty Images)

Domenica prossima la Turchia decide cosa vuole diventare. Se una specie di dittatura del presidente o continuare a essere quella democrazia imperfetta che è stata in questi anni, prima che il tentato colpo di Stato dello scorso anno non aprisse la strada alle purghe e alla repressione del dissenso da parte dell’apparato dello Stato che obbedisce agli ordini del presidente Erdogan. Che poi è il regista dell’operazione che prevede la riforma presidenziale della repubblica da sottoporre al plebiscito con il referendum del 16. In questi mesi lo Stato turco ha licenziato 130mila persone, da maestri e accademici a funzionari, da militari a autisti del trasporto pubblico. Risultato? Secondo il New York Times 1200 scuole, 50 ospedali e 15 università chiuse. E assunzione, al posto dei sospettati di essere vicini a Fetullah Gulen, il religioso esiliato negli Stati Uniti che Erdogan ha individuato come l’organizzatore del tentato golpe, con personale fedele alle organizzazioni islamiste vicine all’Akp, il partito del presidente.
Durante questi mesi anche la politica e la società curde sono state messe sotto pressione: bombe, città sotto assedio, rastrellamenti e arresto di tutti i leader dell’Hdp, che con Gulen non ha nulla a che vedere e che in questi anni è cresciuto fuori dalla comunità curda grazie alla sua visione moderna della questione nazionale.
L’interessante della vicenda e del voto di domenica in un Paese portato sull’orlo del precipizio da una serie di crisi in successione – il tentato golpe, la Siria e i suoi rifugiati, gli attentati islamisti, le tensioni con Russia, Iran e, a modo loro, con Stati Uniti ed Europa – è che l’esito del referendum non è affatto scontato. Gli ultimi quattro sondaggi danno tutti il Sì vincente ma mostrano un Paese molto diviso su una questione così delicata: il massimo di consensi raggiunti nei sondaggi dal Sì è infatti 53%, la media Reuters degli ultimi 9 sondaggi è 0,9%. Molto sotto il margine di errore. Molto quindi conteranno possibili brogli, incidenti, pressioni. E stiamo pur certi che ce ne saranno. Un risultato tanto è incerto è davvero strano se si pensa al livello di tensione diffuso nel Paese in questi mesi e anni. La tipica situazione in cui l’idea di uomo e potere forte può generare consensi.
Altro elemento di interesse è il fatto che diversi leader storici del partito di Erdogan, il più famoso è l’ex presidente Gul, il secondo l’ex premier Davutoglu, hanno evitato di pronunciarsi sul referendum o si sono schierati contro. Le spinte sono poi diverse: ci sono laici di destra che sono con Erdogan pur opponendosi al relativo smantellamento dello stato kemalista nato con Ataturk e religiosi moderati preoccupati dalla svolta reazionaria. Da qui a domenica, possiamo quasi esserne certi, assisteremo ad arresti, qualche attacco islamista e altri episodi che alzeranno la tensione.

Orientalia, il fascino misterioso della Serenissima a fumetti che ambisce allo Strega

Dopo Gipi e Zerocalcare, ancora una volta un fumetto è tra i candidati al Premio Strega. Per ora è uno dei 27 da cui giovedì 20 aprile usciranno le 12 opere “semi-finaliste”, dopo di che sarà proclamata la cinquina che va in finale e poi l’opera vincitrice il 6 luglio. Si tratta di “Orientalia. Mille e una notte a Venezia”, graphic novel dello scrittore Alberto Toso Fei e del disegnatore Marco Tagliapietra, edita da Round Robin editrice. Un affresco quasi cinematografico della Venezia turchesca narrata attraverso il racconto di Saddo Drisdi, l’ultimo turco rimasto nella Serenissima, che gli austriaci hanno allontanato dal Fondaco dei Turchi nel 1838. A entrare con lui, tra mito e storia, in un mondo di principesse e corsari, sultane e dogi, santi e guerrieri, sono sette bambini che insieme al lettore vengono così trasferiti attorno al Fondaco, luogo che per due secoli ospitò i nemici e alleati commerciali turchi, e ai personaggi di una Venezia di cui oggi restano poche tracce.

Tutte storie vere o appartenenti all’immaginario della città della Laguna, sceneggiate e disegnate (a colori, producendo un rilevante impatto visivo) con estremo rigore filologico: dalle vicende della Turchetta Selima, rapita dai veneziani e costretta alla conversione, al rapimento di Cecilia Venier Baffo, bimba destinata a diventare favorita di Selim II e poi sultana madre, fino alla leggenda del trafugamento delle spoglie di San Marco da Alessandra d’Egitto o alla vicenda del “corsaro eremita” Paolo da Campo.

A presentare la candidatura della graphic novel Orientalia per il Premio Strega sono stati gli “Amici della Domenica”, l’artista Mimmo Paladino e lo scrittore Roberto Ippolito. Ma anche l’attrice Ottavia Piccolo, nel video che segue, spiega che avrebbe voluto farlo – e poi è stata battute sul tempo – sia per il valore artistico dell’opera sia per il messaggio «di amicizia tra i popoli» che si trae dalle tavole disegnate da Marco Tagliapietra, già autore peraltro di un fumetto dal titolo “La peste a Venezia”, e “scritte” dal veneziano Alberto Toso Fei, scrittore ed esperto di storia della città lagunare e recupero della tradizione orale.

La ricerca iconografica, evidentemente, è stata lunga e impegnativa, e come spiega il disegnatore Marco Tagliapietra l’opera è un continuo omaggio ai «profondi intrecci e reciproci debiti, tra la cultura veneta e quella orientale, il motivo principe di tutto il libro concepito da Toso Fei». A quest’ultimo, che ci conferma di essere un buon lettore di fumetti, abbiamo rivolto alcune domande per comprendere meglio le ragioni di fondo dell’opera, le sue origini e il rapporto con la Venezia di oggi.

Alberto Toso Fei, com’è nata l’idea di un racconto a fumetti?
C’era una serie di storie potenti che aspettavano di essere solamente narrate, perché Venezia ahimè ha bisogno di recuperare molto rapidamente la sua memoria. Ma queste storie avevano bisogno di una forma di racconto non convenzionale, che andasse oltre la sola parola. È stato decisivo l’incontro con Marco Tagliapietra, che ha al suo attivo altre graphic novel molto belle, con un tratto molto personale e soprattutto una profonda conoscenza della città.

La ricostruzione filologica, così come la conoscenza approfondita della storia di Venezia, è pienamente nelle sue corde. Ma con quale obiettivo l’ha messa in campo in questo caso? Cosa cambia facendolo per un fumetto?
La novità è stata nel volermi e dovermi affidare a una persona che in qualche modo interpretasse i miei scritti. Questo forse è il dato interessante di questo romanzo a fumetti, anche in relazione alla candidatura allo Strega: nasce prima come lavoro di scittura intesa solo come tale, e poi diventa disegno e illustrazione. Questa seconda fase è stata affidata a Marco, nella scelta ad esempio delle inquadrature, anche se abbiamo lavorato a stretto contatto.

Come avete proceduto invece nel racconto dei luoghi e nelle ambientazioni?
C’è stata una ricerca molto impegnativa, condotta assieme ma ci ha lavorato moltissimo Marco. La cosa meravigliosa è che tutta la Venezia che noi vediamo attraversata nei secoli è ogni volta filologica. I luoghi sono dettati dalle storie. Dagli abiti al linguaggio alle diverse località, tutto è rigorosamente reale, anche nel loro essere fantastiche. Anche l’apparato leggendario è comunque filologicamente fedele alla tradizione veneziana.

Il vostro è un tributo solo alla Venezia di un tempo o ha qualcosa da dire anche a quella di oggi?
Se c’è un messaggio è per Venezia e non solo per Venezia, oserei dire. Nel momento della narrazione, il 1838, Venezia soffre un’occupazone straniera. Oggi in un certo senso subiamo un altro genere di occupazione, che è quotidiana, soverchiante e sta mutando profondamente la morfologia sociale della città, segnandone il futuro. Vedo un parallelo tra la situazione di allora e la situazione di oggi. Ciò che accade attualmente è l’esito di trent’anni almeno di governo approssimativo della città.

L’alleanza commerciale e la rivalità con i turchi, ci raccontano qualcosa anche di quello che accade oggi tra Occidente e Oriente?
Anche nei periodi peggiori, anche mentre si combatteva a Lepanto, mai veniva meno il dialogo e la reciproca presenza a Venezia e a Costantinopoli. Non è che si fosse dei benefattori, sia chiaro. Venezia aveva bisogno dei turchi perché erano una controparte commericale determinante e fortissima. Detto questo, nel momento in cui tu salvaguardi lo scambio di merci, con le merci fai circolare le persone e con le persone fai circolare i saperi, le idee, i cibi, le lingue, le culture… Metti in moto un meccanismo che ti cambia e al quale poi non puoi sottrarti. Non a caso ancora oggi in città tanto, dal cibo alle parole che usiamo a un sacco di altre consuetudini, arriva da questi scambi che avvennero con i turchi come con gli ebrei, con gli armeni e così via.

Rispetto ai suoi consueti lettori, che pubblico si aspetta per questo nuovo lavoro?
Sicuramente gli amanti delle graphic novel, che vado a incontrare per la prima volta. Poi mi auguro che aumenterà la platea di lettori amanti di Venezia e di una certa Venezia, che già sono moltissimi. E forse, per i temi che tratta “Orientalia”, tutto un gruppo di persone che si preoccupano un po’ di dove sta andando il mondo. Senza chissà quale pretesa di cambiarlo però: questo rimane pur sempre un romanzo a fumetti (sorride). Però qualcosa da dire ce l’ha e ha come alleata Venezia, che non è poca cosa.

Prima di questo fumetto ci sono stati Gipi e Zerocalcare nella vostra condizione. Quali sono gli elementi che a suo avviso hanno determinato la candidatura tra i 27 dello Strega?
Gipi e Zerocalcare sono dei grandi! Nel nostro caso il merito maggiore ce l’hanno le storie, perché hanno una potenza straordinaria e inaspettata. E vederle svolgersi pagina dopo pagina come uno storyboard da cui potrebbe paradossalmente nascere un romanzo, o addirittura un racconto cinematografico come ha detto Mimmo Paladino nel presentare la candidatura, mi conforta nella bontà della scelta di non fermarmi alle parole, di aver voluto fortemente un racconto per immagini. Il fascino del libro secondo me è che tavola dopo tavola si può andare sempre più in profondità, scoprendo più livelli di lettura, dettagli sempre nuovi e spesso strabilianti.