«Continuo a credere che quello che ho fatto sia del tutto normale». Ricordate Félix Croft? Di lui e degli altri “criminali solidali” vi abbiamo raccontato con Stefano Lorusso su Left del primo aprile. E non era un pesce d’aprile, purtroppo. Il 27 aprile è attesa la sentenza del processo, perché la procura del tribunale di Imperia accusa il ventottenne francese di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina» e per questo ha chiesto una pena di 3 anni e 4 mesi, oltre a una multa di 50mila euro. È la prima volta che un cittadino francese viene giudicato da un tribunale italiano per quello che noi abbiamo chiamato, anche con l’aiuto dell’avvocata Alessandra Ballerini, un «reato di solidarietà».
Che ha fatto Félix?
Ha dato un passaggio umanitario a una famiglia di sudanesi, una famiglia di rifugiati provenienti dalle zone di guerra del Darfur. E non se n’è affatto pentito: «Fino a quando gli Stati non si prenderanno cura di queste persone, è un dovere continuare ad aiutarle: penso sinceramente che quando la solidarietà si scontra con le leggi, sia l’umanità a dover prevalere», fa sapere Félix grazie a un appello che i volontari francesi e italiani ci hanno inviato (lo trovate cliccando qui, e vi invitiamo a scaricarlo e diffonderlo). «Sono nato in Francia da padre americano e da madre francese di origini italiane, anche la nostra è una storia di migrazione: ho agito secondo quelli che restano ancora i principi fondativi della nostra società: libertà, uguaglianza e fraternità. Oltre che nel rispetto dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra e degli articoli 13 e 14 della Dichiarazione universali dei Diritti dell’Uomo».
Il reato di solidarietà
Che sia declinato in favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, in violazione di ordinanze che in nome del decoro e della sicurezza sanitaria vietano la somministrazione di cibo e bevande ai migranti, di fatto assistiamo alla nascita di un “reato di solidarietà” quello che in Francia chiamano “délit de solidarité” e che ha visto aumentare i processi contro volontari o semplici cittadini che aiutano i rifugiati a mettersi in salvo o a ricongiungersi con le proprie famiglie. Si tratta di allarmanti iniziative di intimidazione e dissuasione nei confronti di quei cittadini europei che rimediano alla mancanza di accoglienza nei paesi membri di esseri umani che provengono da aree del pianeta colpite da guerre o carestie. Ed è per questo che il processo a Félix Croft merita tutta la nostra attenzione. La sentenza del 27 aprile potrebbe diventare un pericoloso precedente.
Per avere un’idea del terremoto che sta minacciando la rete di associazioni e cooperative che si occupano di cultura e welfare a Roma a causa della famigerata delibera 140 Marino sul patrimonio immobiliare, basta andare al parco del Celio, alle spalle del Colosseo. Qui cinque strutture rischiano lo sfratto, di queste, quattro si occupano di bambini e di ragazzi. Sono le scuole dell’infanzia Celio azzurro, Arcobalena e Centro educativo San Gregorio oltre l’Accademia internazionale di teatro. Circa 300 famiglie rischiano di non avere più un punto di riferimento per i propri figli. Sono luoghi, va detto, che dal punto di vista educativo sono esperienze originali ed esistenti da decenni.
Il Celio azzurro
Come il Celio azzurro, un esempio di intercultura, un asilo che ospita bambini di 20 nazionalità e che è stato anche protagonista del documentario di Edoardo Winspeare Sotto il Celio azzurro. Il film, racconta Massimo Guidotti, direttore e uno dei fondatori dell’asilo multiculturale, ha fatto il giro degli Istituti di cultura italiani all’estero. Adesso quella scuola fiore all’occhiello ha ricevuto lo sfratto dal Comune. «Stiamo facendo ricorso al Tar», dice Guidotti.
La delibera Marino voleva mettere ordine nel caos degli affitti, molti dei quali a carico di esercizi commerciali e nient’affatto sociali e solidali. Solo che l’operazione non è andata in porto.
Una rete sociale e culturale in crisi
Dopo la cacciata di Marino è subentrato il commissario Tronca e poi ci ha pensato la Corte dei Conti a passare ai fatti, utilizzando quel censimento e decretando che tutte le concessioni, indipendentemente dalla natura dei soggetti beneficiari, dovessero essere rivalutate secondo prezzi di mercato. Così il risultato è stato quello di affitti triplicati e addirittura retroattivi. Sono 235 associazioni e cooperative della Capitale in ginocchio con lettere di sfratto già spedite o in arrivo. Musica, volontariato, sanità, servizi educativi, teatro. Una spina dorsale sociale e solidale, che «avrebbe potuto fare della Capitale un laboratorio», dice Francesca Danese, ex assessore alle politiche sociali nella giunta Marino, adesso portavoce del Forum del terzo settore e in prima linea nel sostenere la battaglia delle associazioni. E tutto questo sta avvenendo nel vuoto assoluto della politica, perché nonostante le dichiarazioni dell’assessore Mazzillo, alle associazioni non è arrivata la bozza di Regolamento che dovrebbe, in qualche modo, ristabilire la giustizia. Cioè fare la dovuta differenza tra chi utilizzava beni comunali per fini commerciali come i ristoranti e chi invece, per fini sociali e culturali.
Arcobalena contro il degrado
Al Celio c’è un’altra realtà educativa dalla lunga storia. È la scuola dell’infanzia Arcobalena. «Tutte le mattine mi aspetto l’arrivo di quella lettera», dice Simona Bellazecca, fondatrice nel 1987 dell’omonima cooperativa che gestisce la scuola dove, va detto, viene curata al massimo la qualità del rapporto tra educatrici e bambini, con 11 dipendenti e 65 bambini. Dopo la prima lettera, ricevuta un anno fa, all’Arcobalena attendono la seconda e poi la terza con la data dello sfratto.
La storia del San Gregorio, dove opera l’Arcobalena, racconta Simona Bellazecca, si perde negli anni. Una struttura ex Omni, che viene occupata e poi regolarizzata nel rapporto tra Comune e cooperativa. «Il parco San Gegorio è dedicato all’infanzia da una delibera del 1985. E così è rimasto. Noi in tutti questi anni abbiamo mantenuto la destinazione d’uso, pur con indirizzi molto diversi tra di loro», precisa la fondatrice dell’Arcobalena. Tra l’altro anche con notevoli sacrifici, perché nel 2000 la cooperativa ha provveduto a sue spese a bonificare la scuola, «adesso il Comune si ritrova 400 metri quadrati tutti equocompatibili». Ma nel 2010 scade la concessione. «È lì che la politica è responsabile. Bisognava trovare una modalità per rinnovare quelle concessioni, ma nessuno ha fatto nulla. Noi abbiamo pagato il canone raddoppiato, ma per loro è finita là».
E dire che in questi anni le educatrici e gli operatori di quelle scuole e centri didattici non sono rimasti con le mani in mano, anzi. Hanno svolto una vera funzione civile nel mantenere l’ambiente del Celio, pulito e vivibile. Non solo hanno lavorato con i bambini ma hanno salvato dal degrado un’area del centro di Roma particolarmente delicata, rendendola viva. Non a caso l’unico spazio comunale che non è stato affidato ad associazioni, è l’ex biblioteca comunale che ormai è in disuso e deteriorato.
L’esposto alla Corte dei Conti
La lotta delle associazioni che ha trovato nella rete Decide Roma un coordinamento capillare, prosegue anche su un altro binario. Il 9 marzo, prima di una grande mobilitazione in Campidoglio, una rete di organizzazioni, coordinata da Cild, Cesv e Coordinamento periferie Roma, ha depositato un esposto indirizzato al presidente del Consiglio di autogoverno della Corte dei Conti, al Procuratore generale della Corte dei conti e a quello regionale del Lazio. L’esposto ha come oggetto, si legge, la “richiesta di deferimento del Vice procuratore della Corte regionale del Lazio Guido Patti alla commissione disciplinare”. Nell’esposto si parla di «abuso della funzione inquirente». Intanto il 6 aprile le associazioni con un flashmob hanno manifestato alla Corte dei Conti il disagio in cui versano. Se non arriverà il nuovo Regolamento, la macchina degli sfratti non si fermerà. Vedremo se il 6 maggio, giorno di una grande manifestazione di tutte le associazioni, il Comune di Roma avrà dato un segnale.
Il ministro dell'Interno Marco Minniti in aula durante il voto di fiducia sul decreto legge sicurezza al Senato, Roma, 12 aprile 2017. ANSA/ANGELO CARCONI
Bisogna tornare al 2013 che anche se sembra un’era fa è l’ultima volta in cui i partiti hanno dovuto scrivere nero su bianco un programma di governo. Provate a tornare lì con la mente, quando il Partito Democratico (in un precedente stato evolutivo, evidentemente) si immolava per contestare le ronde padane e gridava allo scempio per la legge Bossi-Fini. Ve li ricordate? Ai tempi, praticamente tutti i giorni, si trovava qualche sedicente piddino pronto a difendere i kebabbari e urlare allo scandalo contro chiunque volesse fare lo sceriffo.
Se sfogliate anche i giornali di quei mesi (erano le settimane in cui il centrosinistra immaginava di essere al governo poco dopo) si sprecano le promesse di un’immediata abolizione della legge Bossi-Fini. Lo urlavano tutti, indistintamente: sono gli stessi che in Parlamento oggi scodinzolano a Minniti. Rileggetevi le cronache: dicevano, i candidati del PD, che avrebbero chiuso i CIE e che sarebbe stata l’ora dello Ius Soli.
Ecco. Ora riaprite gli occhi e tornate qui. Oggi. Al tempo dello sceriffo Minniti. Provate a pensare se avreste mai potuto pensare nei vostri incubi peggiori che il presunto partito di centrosinistra non solo (come troppo spesso è successo) concede troppe amicizie ai forti ma addirittura comincia a legiferare contro i deboli. Leggete le parole esultanti dei “democratici”. Pensate che addirittura anche i “fuoriusciti” (gli “scissionisti” che tutti si aspettavano) hanno finito per votare un decreto che sembra il manifesto della Lega (solo con il linguaggio di qualche anno d’istruzione in più). Così.
epa05904187 Police secure the stadium ahead of the UEFA Champions League quarter final, first leg soccer match between Borussia Dortmund and AS Monaco at the Signal Iduna Park, in Dortmund, Germany, 12 April 2017. German team Borussia Dortmund's team bus was damaged by three explosions on 11 April evening, as it was on its way to the stadium ahead of the UEFA Champions League soccer match between Borussia Dortmund and AS Monaco. Borussia Dortmund's player Marc Bartra was injured and hospitalized, the match postponed to 12 April. EPA/FRIEDEMANN VOGEL EPA/FRIEDEMANN VOGEL
La polizia schierata allo stadio Signal Iduna Park, Dortmund, la sera dei quarti di finale di Champions League. Il match tra il padrone di casa, il Borussia Dortmund, e l’As Monaco, prevista per la sera dell’11 aprile, non ha però mai avuto luogo a causa delle tre esplosioni che hanno colpito il pullman della squadra, poco prima che questa raggiungesse lo stadio. Attentato che per fortuna non è andato a segno: l’unico a restare leggermente ferito a una mano è stato il calciatore spagnolo Marc Bartra. La partita è stata rinviata alle 18.45 di stasera.
Le esplosioni fanno riemergere la paura che pervase la Germania dall’attentato del 19 dicembre al mercatino di Natale di Berlino, nel quale hanno perso la vita 12 persone e ne sono rimaste ferite altre 50. Ed è di queste ore la conferma della polizia tedesca, secondo la quale l’attentato sarebbe di matrice terroristica: due gli indiziati, uno dei quali stato arrestato oggi, l’altro indagato, entrambi provenienti dal Nord Reno-Westfalia, la stessa rete islamista dalla quale proveniva dell’attentatore di Berlino Anis Amri. Nonostante i fortunati esiti, l’azione sarebbe stata progettata e messa in campo da mano esperta, come testimoniano anche le punte di metallo contenute nelle tre bombe.
A riprova di questa pista, la lettera di rivendicazione ritrovata nei pressi del bus: anche questa farebbe riferimento alla strage del mercatino, prefigurando una serie di attacchi a oltranza contro celebrità tedesche, in caso gli aerei tedeschi non dovessero essere ritirati dalle zone di combattimento di Siria e Iraq (e dunque di interesse dell’Isis), e fino a quando la base americana di Ramstein non sarà chiusa.
Tutto è cominciato con la rivista Emergenze, nata nel 2014 dall’idea di due artisti e due giornalisti Antonio Brizioli e Kristina Borg, Valentina Montisci e Antonio Cipriani, che ha diretto l’Unità, Epolis e l’unico free press di alto profilo culturale D News e racconta così questa sua nuova avventura: «Per noi di Emergenze, anarchici e barbari, fare arte, narrazione, editoria e attivismo sono pure forme di resistenza e sovversione nei confronti dell’oppressione del tempo. Un’oppressione che opera per assuefazione, pervasiva e terribile, agendo nell’arena mediatica con una rappresentazione spettacolarizzata che contiene il conformismo del potere e il suo doppio di trasgressione da marketing. Per questo agiamo con pazienza infinita e cuore ribelle, e scegliamo di non basare alcun progetto sul buon senso e di coltivare cultura. #NoPaura è il nostro hashtag da sempre».
Della rivista Emergenze fin qui sono usciti cinque numeri da collezione. Con un filo rosso molto preciso: «L’idea iniziale era quella di superare la fase della lamentela, che oggi percorre ogni strato sociale e ancor più la classe intellettuale, e concepire una risposta critica e creativa allo stato letargico dell’arte nel nostro Paese», racconta Antonio Brizioli. A questo appello ambizioso e affascinante, hanno risposto in tanti. Il quartetto iniziale si è presto arricchito di nuovi protagonisti, come Paolo Marchettoni «che accompagna le nostre attività fin dall’inizio», Giulia Cipriani, «che ha curato a livello grafico gran parte della nostra immagine», Matteo Minelli «che ha portato un indispensabile contributo teorico e ha fondato la nostra pagina affiliata Cannibali e re, mia sorella Irene, che mi aiuta a mandare avanti l’edicola e molti altri».
Il progetto si regge su due belle gambe: la rivista e azioni artistiche dirette, come Riprendere il filo, ideata da Antonio e Kristina. Nel febbraio 2015 sono riusciti ad unire le estremità della città di Perugia. «Lo abbiamo fatto con un filo rosso di 5 km montato collettivamente per 5 giorni e 5 notti». Ne resta documentazione nel bel film Gros Grain di Alberto Brizioli. A tutto questo si aggiunge «la nostra piattaforma online emergenzeweb ora in fase di ristrutturazione, nella quale abbiamo dato spazio a numerosi autori sconosciuti ed esordienti, che hanno subito guadagnato attenzione, scrivendo di città, arte, sogni e alternative». Insomma, un piccolo, grande, miracolo visto cheEmergenze «nasce con 0 euro».
Nel dicembre del 2014 «abbiamo stampato 1.000 copie del numero zero della nostra rivista e nei tre mesi che ci separavano dalla scadenza della fattura della tipografia le abbiamo vendute praticamente tutte», prosegue Brizioli nel racconto di questa originalissima esperienza. «Allora abbiamo lanciato una campagna abbonamenti che ha registrato oltre 600 sottoscrizioni, permettendoci di ripagare i quattro successivi numeri prima ancora di stamparli. In sostanza ogni mossa ha generato un surplus reinvestito in qualcosa di leggermente più grande. Dopo un anno di attività e una crescita indubbiamente dirompente, la nostra principale esigenza era quella di avere uno spazio fisico di riferimento. Le poche migliaia di euro sul nostro conto in banca non consentivano l’apertura di una libreria o di uno spazio d’arte, strutture che oltretutto non esercitano su di noi particolare fascino. Noi amiamo stare per strada e inventare cose nuove, abbiamo bisogno del contatto con le persone comuni più che di quello con gli addetti ai lavori. Così, vedendo quell’edicola abbandonata in uno dei punti più transitati e significativi della nostra città, le scalette di Sant’Ercolano, l’amore è stato immediato. Ci siamo informati subito, il prezzo era compatibile con le nostre disponibilità e quindi l’abbiamo comprata». E qui comincia la parte più “surreale” e divertente della storia: non appena acquistata l’Edicola, Antonio Brizioli e il suo compagno di strada Paolo sono andati a Spoleto per incontrare il distributore che rifornisce tutte le edicole dell’Umbria.
«Mentre stavamo ancora salendo le scale verso gli uffici – ricorda Brizioli – abbiamo sentito una voce femminile che gridava “Ecco, sono arrivati quelli della 518”. Io e Paolo ci siamo guardati come a dire “La 518?”. Abbiamo poi scoperto che loro hanno mappato tutte le edicole della regione con un numero identificativo, che nel nostro caso è il 518. Questo aneddoto è in realtà specchio fedele di come funziona la distribuzione editoriale». Ovvero? «Le edicole vengono rifornite semplicemente sulla base della loro capienza e delle statistiche di vendita nella zona, senza che all’edicolante sia garantito alcun criterio di selezione quantitativa e qualitativa dei prodotti.», spiega il co-fondatore di Edicola 518. «Questa prassi è poi fra le ragioni principali della chiusura delle edicole ed è soprattutto il contrario di ciò che stavamo cercando di costruire: un progetto consapevole, curato, dove ogni singolo titolo fosse scelto e rivendicato dagli edicolanti. Scendendo le scale dopo quell’incontro ci è bastato uno sguardo d’intesa per capire che non avremmo mai lavorato con quel distributore e infatti il rapporto non è proseguito. Però il giorno dopo, un po’ per provocazione, un po’ per scaramanzia, abbiamo deciso di chiamarci Edicola 518».
Inaugurazione Edicola 518, foto valentina montis
Così quel nome anonimo che gli era stato affibbiato, nelle mani di questo manipolo di giornalisti, attivisti, critici e artisti, è diventato il simbolo di unainiziativa creativa e libera da imposizioni, che fa un importante lavoro di scouting fra le riviste internazionalie più di tendenza. «In realtà tantissimi magazine internazionali di alto livello sono mal distribuiti o non distribuiti in Italia», precisa Brizioli. «Basti pensare anche a casi eclatanti come Jacobin, rivista di riferimento della sinistra americana e di molta di quella mondiale, che in Italia non trova distribuzione se non in Edicola 518». Amplissima è poi la scelta delle riviste d’arte. «Oltre alle più comuni abbiamo le ottime Elephant, Aesthetica, Modern Matter,Afterall, per la grafica Creative Review, Print, Brand, Slanted, per l’ architettura Mark, Detail, The architectural Review, Wallpaper, C20. E poi c’è un intero settore dedicato al viaggio con riviste come Lost di Shangai, Eldorado di Barcellona, ma anche la bellissima Cartography, che è italiana». Edicola 518 non trascura l’ambito enogastronomico: «sono presenza costante il wine magazine Noblerot, le riviste The gourmand, Cured, Put a egg on it, ma anche le italiane Dispensa e Cook_inc. Siamo aperti a progetti italiani di grande qualità comeSirene (magazine dedicato al mare su carta d’alga), Rivista letteraria (raccolta di scritti non fiction in forma di punkzine), Genda (notevole rivista di fotografia che vive in bilico fra Milano e Shanghai), Illustratore Italiano, che offre il meglio del disegno e dell’illustrazione nel nostro paese e altre. Presto faremo un catalogo online così sarà tutto più chiaro…».
In questo mare magnum di idee che viaggiano su carta, il critico Antonio Brizioli naviga con passione. «In realtà, pur essendo laureato in Lettere e poi in Storia dell’arte, mi sono sempre sentito più un artista che uno studioso» raconta di sé. «Al termine degli studi ho sentito chiaramente di essere a un bivio fra queste due esigenze che tuttora mi abitano: quella teorica, che avrebbe potuto ad esempio sfociare in un proseguimento del percorso accademico, e quella pratica, che mi rende indispensabile un confronto costante e critico col mondo esterno». Anche per questo Edicola 518 si configura come «un progetto artistico, che ha come motore la necessità di diffondere la poesia e contraddire lo stato presente delle cose. Il fatto che poi sia anche considerato un grandioso esperimento imprenditoriale, addirittura confortato dai numeri, è un qualcosa che faccio fatica a spiegare. Ma in fondo, non ce n’è bisogno».
Edicola 518, foto di Alberto Brizioli
Dietro a tutto questo si intuisce un grosso impegno di ricerca e di studio. «La parola “ricerca” che tu usi è senza dubbio vitale nel nostro percorso – risponde Brizioli -. C’è un lavoro incessante che ci porta ad avere una selezione sempre più curata e unica e questo inevitabilmente sta arricchendo la nostra vita di esperienze, conoscenze e rapporti». Ma non solo. Fin dall’apertura, Edicola 518 è sempre stata una piccola e selezionatissima libreria di strada. «Anzitutto è uno luogo di diffusione delle nostre pubblicazioni, che comprendono non solo la rivista Emergenze, ma anche una collana di libri alternativi sulla città che abbiamo concepito con Steve Gobesso, professore di grafica editoriale all’ISIA di Urbino che ha abbracciato con entusiasmo la nostra sfida. Il primo libro è stato Perugia Nascosta, una guida psicogeografica ai segreti della nostra città, mentre solo pochi giorni fa è uscito Fuori dalle righe, che ripercorre gli incontri di strada fatti in questi anni a Perugia». Ampio spazio in questa piccola rivoluzione formato quattro metri per quattro è dedicato alle riviste d’arte: «Da noi si possono trovare libei editi da Abscondita, da Johan & Levi, da Archive Books di Berlino di cui siamo gli unici distributori a livello nazionale, teniamo tutti i testi anarchico-libertari di Elèuthera, nostra base teorica insieme ad A Rivista Anarchica, che dal 1971 continua ad essere strumento di studio ed elaborazione del presente. Diciamo che la nostra forza è stata tornare ad incrociare l’arte con la politica, poiché concepiamo l’arte come uno strumento di cambiamento sociale e ricostruzione del presente».
Nata dal nulla e in poco tempo diventata un progetto multiforme, immaginiamo che Edicola 518 presto conoscerà nuovi sviluppi. Cosa state architettando per il futuro? « Edicola 518 è già un progetto pilota, che viene scrutato, studiato, imitato, parzialmente, in Italia e a livello internazionale. Questo, a distanza di pochi mesi dalla nostra apertura, è indubbiamente un traguardo notevole, specchio del fatto che ciò che facciamo ha saputo toccare le corde intime delle persone» sottolinea Brizioli con orgoglio. «Presto lanceremo uno store online per ampliare la diffusione dei nostri gioielli cartacei e dei nostri messaggi. Quanto alla possibilità di aprire altrove, di certo non la escludiamo anzi ci guardiamo intorno con molto interesse, però ci tengo a precisare che Edicola 518 non è concepita per essere un franchising. Noi pensiamo da artisti, parliamo da poeti e viviamo con poco. Andremo dove c’è bisogno di noi».
Incontro con Anna Villarini, 2016, foto Matteo Valentini
Il ministro dell'Interno Marco Minniti, con un aeroplanino di carta in mano, nell'aula del Senato durante il voto di fiducia chiesto dal governo sul decreto immigrazione. Roma, 29 marzo 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI
Il decreto Minniti, approvato da Senato e che dalla Camera, che ha già votato la fiducia al governo, contiene alcune norme che ledono gravemente alcuni principi costituzionali. Vengono, innanzitutto, istituite delle sezioni specializzate in materia di richiesta di asilo che appaiono in palese contrasto con quanto previsto dall’art. 102 della Costituzione che fa espresso divieto di costituzione di giudici speciali e straordinari.
Ai più potrà apparire una questione banale, ma la volontà del costituente, ratificata nell’art 102, 2 comma, della nostra carta fondamentale, era quella di impedire il ripetersi di fenomeni come quelli che, durante il fascismo, nel 1926, portarono all’istituzione del tribunale speciale per la difesa dello Stato, per colpire gli oppositori del regime, sostituendosi alla magistratura di ruolo, poco prona, nonostante tutto, ai desiderata del regime.
Il nuovo rito introdotto con il decreto Minniti limita in maniera inaccettabile il contraddittorio fra le parti, prevedendo un rito camerale senza udienza nel quale, al giudice che dovra decidere, verrà messa a disposizione la registrazione video del colloquio del richiedente asilo davanti alla commissione territoriale, senza che l’immigrato possa essere sentito. Immaginate un processo senza che la persona interessata possa parteciparvi: è un vero e proprio mostro giuridico.
Viene poi abolito l’appello, per ragioni di celerità, a scapito delle garanzie del giusto processo. Si tratta di un vulnus gravissimo allo stato di diritto liberale che apre, peraltro, un precedente per nulla rassicurante: oggi tocca agli immigrati, domani, chissà, magari ai lavoratori piuttosto che ai poveri, dopodomani agli oppositori. Quando si apre un piccolo varco nelle garanzie, il rischio che poi questo stesso varco possa essere utilizzato per introdurre ulteriori limitazioni nei confronti di altri cittadini è evidente, anche considerato il livello e lo spessore della classe politica italiana.
Non mi interessa chi ha votato o meno la conversione di questo decreto. È evidente che la destra del nostro Paese ha vinto culturalmente prima che elettoralmente, stabilendo l’agenda politica ai partiti ad essa avversi e riuscendo a tradurre i suoi slogan in leggi dello Stato. Penso sempre di più che in Italia ci sia bisogno di una sinistra radicale e populista anche perché, come dice un proverbio africano, la notte puó essere molto lunga, ma il giorno arriverà di sicuro
epa05899668 Demonstrators hold a placard reading 'Free country, free university!', as they protest against the amendment of the higher education law seen by many as an action aiming at the closure of the Central European University, founded by Hungarian born American billionaire businessman George Soros, in Budapest, Hungary, 09 April 2017. The controversial amendment regulating the activities of foreign universities in Hungary was passed by the Parliament on 04 April and demonstrators demand that the President of Hungary should veto the bill. EPA/JANOS MARJAI HUNGARY OUT
Domenica scorsa, decine di migliaia di ungheresi sono scesi per le strade di Budapest per protestare contro la legge che prevede (indirettamente) la chiusura della Central European University e invitare il presidente Janos Ader non ratificare il disegno di legge. Due giorni, mentre il ministro dell’istruzione László Palkovics spiegava a Bruxelles che il governo non avrebbe chiuso nessuna università, il presidente ha apposto il suo timbro sulla legge, ignorando le pressioni internazionali e quelle del partito popolare europeo di cui Fidesz, il partito del premier Orban, è parte. La legge prevede che i campus stranieri possano aprire nel Paese solo se hanno un campus aperto nel Paese di origine. La misura, sostengono a Budapest, non è diretta contro la CEU, ma contro tutte le università. Non proprio vero.
Possibly largest anti-government march of Orban era. We reached CEU building and end of crowd just leaving Buda. pic.twitter.com/Wli0mP4HdZ
Qual’è la ragione per la chiusura di un centro fondato nel 1991, con 1.440 studenti provenienti da 117 Paesi e molti corsi di scienze sociali che sono tra i migliori offerti al mondo? Semplice, l’università è finanziata da Soros, il nemico numero uno di Orban – che proprio grazie a una borsa di studio di Soros ha studiato a Oxford.
Ader è un alleato politico di Orban e con la sua firma, garantisce la costituzionalità del testo di legge e ignora gli appelli dei direttori di una serie di grandi università (Harvard, London School of Economics), editoriali su importanti giornali e le ramanzine dei colleghi popolari che hanno chiamato da Bruxelles. O le pressioni americane e canadesi, i cui rappresentanti diplomatici erano alla conferenza stampa dell’università. La Commissione europea ha annunciato che avvierà un dialogo con il governo ungherese sulla tenuta dello Stato di diritto – una procedura simile è stata avviata contro il governo polacco dopo l’approvazione di una legge che regola i media. E le pressioni e richieste al PPE affinché decida finalmente di espellere Fidesz dalle proprie fila, si fanno pressanti.
La misura è particolarmente grave perché è un intervento diretto sulla libertà di insegnamento: se le cose che si insegnano in una scuola che non costa allo Stato e che anzi porta cervelli stranieri a Budapest non ci piacciono, noi chiudiamo l’università. L’Europa democratica, che ha molti limiti, per carità, sta cambiando di natura in Ungheria. E questo è molto male.
È una notizia terribile quanto prevedibile: in Libia e in Niger c’è un mercato degli schiavi. I migranti e profughi che cercano di attraversare il Sahara in quella parte di Africa vengono soggetti alle torture e ai soprusi peggiori. A segnalarcelo è l’IOM, l’organizzazione mondiale per le migrazioni, che in Libia fa un lavoro serio e difficile e, grazie al suo status istituzionale, è impegnata in aree dove difficilmente altre organizzazioni internazionali arrivano. Nelle zone di confine al Sud, appunto. Prima di valutare cosa queste notizie comportino, raccontiamo una storia.
Adam (nome di fantasia) è stato rapito insieme ad altri 25 gambiani durante il viaggio tra Sabha a Tripoli, portato in una ‘prigione’ in cui erano detenuti circa 200 uomini e alcune donne provenienti da diversi Paesi africani. Adam ha raccontato che i prigionieri sono stati picchiati ogni giorno e costretti a chiamare le loro famiglie per chiedere loro di pagare un riscatto per la loro liberazione. Al padre di sono serviti nove mesi e ha venduto la casa per raccogliere abbastanza soldi.
I rapitori lo hanno portato a Tripoli dove è stato rilasciato. Lì, un libico lo ha raccolto e lo ha portato in ospedale. Pesava 35 chili. Il personale dell’ospedale ha pubblicato un post su Facebook chiedendo assistenza. Un funzionario IOM ha visto il post e avviato una procedura. Adam ha trascorso 3 settimane in ospedale per guarire dalle ferite. Poi, grazie all’IOM è stato rimpatriato. Questo aspetto va segnalato: in Libia l’IOM fa un lavoro di rimpatrio, aiuta le persone a tornarsene a casa, fa un lavoro nelle comunità di provenienza per raccontare cosa succede a chi cerca di attraversare il deserto. Insomma, c’è un lavoro di “propaganda” e di sostegno ai migranti. Eppure dal Gambia, che ha appena attraversato una pesante crisi politica, si parte. Così come da alcune aree della Nigeria o da Eritrea ed Etiopia – per non dire delle aree colpite da carestia.
L’organizzazione parla di veri e propri mercati nei quali i migranti vengono comprati e venduti come schiavi. Alle donne toccano gli abusi sessuali, ai maschi il lavoro di fatica o vicende simili a quelle di Adam, per le quali si viene tenuti in ostaggio, picchiati, denutriti, fino a quando la famiglia non paga un riscatto. Spesso ci sono diversi passaggi da un padrone all’altro e il riscatto aumenta di valore.
Bel quadro no? Questa notizia è di ieri e campeggiava, già nel pomeriggio su molti siti di grandi testate internazionali. Stamane abbiamo fatto fatica a trovarla (cercandola con parola chiave Libia) su diversi grandi siti di informazione italiani. Singolare, visto che la Libia è un po’ il cortile di casa.
E singolare visto che una delle politiche cruciali scelte per porre fine all’emergenza migranti da parte di Italia ed Europa, è l’accordo con il governo libico – bloccato da un tribunale di Tripoli, per quel che vale – per bloccare i flussi in partenza dalle coste del Paese attraversato da una guerra civile. L’Italia sta lavorando anche per tessere relazioni con il generale Haftar, signore della guerra e amico di Mosca che governa la Cirenaica. Nei giorni scorsi una missione italiana lo ha incontrato e due aerei hanno riportato suoi soldati feriti a curarsi in Italia. Segnali di distensione, chissà se mediati da Mosca, dove il ministro degli Esteri Alfano è stato nei giorni scorsi e, certamente, ha parlato di Libia.
Ora, la partita libica è complicata, lavorare a una Libia unita e stabile è l’obiettivo italiano e un lavoro viene fatto. Collegare questa partita al destino dei migranti è però sbagliato. Le rivelazioni dell’IOM, le stragi in mare, ci dicono come e quanto sia complicato gestire i flussi e come gli accordi con un Paese in guerra e senza istituzioni – e dove i diritti umani sono uno scherzo – sia un’illusione. O meglio, una scelta politica sbagliata per cercare di togliersi un problema di torno. Peccato che il problema non venga risolto e che, nel frattempo, le politiche cercate dal ministro degli Interni Minniti – che volò in missione a Tripoli pochi giorni dopo la sua nomina – contribuiscano a distruggere la vita di persone come Adam, il giovane del Gambia di cui l’OIM racconta la storia.
Per uno di quegli imprevisti che capita a noi umani, sempre così caduchi di fronte ai casi della vita, negli ultimi giorni mi capita di frequentare le sale sterilizzate che recintano amici e parenti di malati da rianimare o curare intensivamente. Ci si siede sulle sedie incatenate in fila stando attenti a non tossire con un sussulto che rimbalzerebbe fino all’altro estremo cercando di svicolare da lacrime che si spandono tutte in giro e preoccupazioni che gocciolano dal mento.
Qui, nelle sale dove ci si gioca in qualche centimetro la resa o il salvataggio del proprio caro, l’esterno rimbomba come l’inevitabile corso degli eventi senza riuscire a deviare un discorso nemmeno di fronte alla macchina del caffè. Ogni garza, prelievo, maschera d’ossigeno, misurazione di temperatura o curva dell’umore è più importante di qualche carabiniere corrotto, di qualche chiacchiera da Camera e delle patetiche giustificazioni occidentali di chi è intento ad armarsi e consumare armi per riarmarsi poi di nuovo.
C’è, in quelle sale, una feroce apertura dei pori della sensibilità che ci costringe a esercitare il rispetto che ci si era sclerotizzato in tasca: valutiamo gli sguardi e gli umori con la delicata cura di chi sa che ogni goccia (di dolore o di una bozza di sorriso) sono particolari che segnano la forma del nostro pomeriggio e la tranquillità del sonno successivo. La sala del reparto di rianimazione ci allena di nuovo, anche se ci siamo disabituati da una vita, a riconoscere i tic umani come segnali da cullare con cura, intensi e terrificanti per la loro verità. Si diventa, in quelle sale lì, infinitamente caritatevoli come non avremmo mai potuto pensare di esserne capaci.
Ci sarebbe bisogno di quell’aria lì. Dove le distrazioni e le cedevolezze alla superficialità sono un peccato mortale che non ci possiamo concedere per il bene che rischiamo di perdere. Dove la fratellanza è un comune sentire delle fragilità come tratti comuni.
Ci vorrebbe una politica che accenda quegli stessi nervi ma senza bisogno di un dramma, piuttosto con una speranza potabile e un progetto capace di sembrare comunione. Io non so perché ma la sinistra me la immagino così: una sala d’aspetto di un reparto di rianimazione solo con nessuno che rischia la vita. Ecco. Così.
Newly displaced Somali women queue with their malnourished children as they try to receive medical treatment on outskirts of Mogadishu on April 11, 2017.
The United Nations warned on April 11 of a growing risk of mass deaths from starvation among people living in conflict and drought-hit areas of the Horn of Africa, Yemen and Nigeria. UNHCR's operations in famine-hit South Sudan, and in Nigeria, Somalia and Yemen, which are on the brink of famine, are funded at between just three and 11 percent, said UN refugee agency spokesman Adrian Edwards, as the UN faces a "severe" funding shortfall to help people affected by famine. / AFP PHOTO / MOHAMED ABDIWAHAB (Photo credit should read MOHAMED ABDIWAHAB/AFP/Getty Images)
Nel mondo globalizzato delle nuove tecnologie e delle scoperte scientifiche d’avanguardia, la morte di massa per fame è in crescita. A lanciare l’allarme, l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che da oltre due mesi batte sull’aumento esponenziale della crisi tra le popolazioni del Corno d’Africa, lo Yemen e la Nigeria.
La siccità e la mancanza di fondi rischiano di rendere la situazione ancora più grave, provocando una crisi umanitaria peggiore di quella che nel 2011 provocò la morte di oltre 260 mila persone in Somalia.
Il conseguente aumento dei flussi migratori, si legge in una nota dell’agenzia Onu, ha costretto l’Unhcr a rivedere le proprie stime per il 2017. In Sudan, per esempio, dove la stima iniziale era di 60.000 arrivi dal Sud Sudan, il totale previsto per quest’anno è di 180.000 profughi. Stesso vale per l’Uganda, pronto a toccare quota 400.000 sfollati.
In tutto, sono circa 20 milioni le persone che si trovano in zone colpite da siccità, 4,2 milioni dei quali profughi, la maggior parte dei quali bambini (il 62 per cento). Anche in Somalia la paura sta portando all’aumento dello sfollamento interno, dove il tasso di malnutrizione è alto soprattutto tra i bambini e le madri che allattano. Mentre in Etiopia, nell’area di Dollo Ado, a Sud-Est del Paese, la malnutrizione acuta tocca dal 50-79 per cento dei bambini somali rifugiati, in un ‘età compresa tra i sei mesi e i cinque anni.
Per fronteggiare l’emergenza, l’Alto commissario Filippo Grandi ha indetto per domani a Berlino una riunione straordinaria ad alto livello che riunirà i rappresentanti dei Paesi donatori e dei partner umanitari allo scopo di intensificare la risposta internazionale alla crisi.