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La Shell (quasi) ammette di aver pagato milioni di tangenti in Nigeria. L’Eni sotto inchiesta per la stessa vicenda

epa05281746 A photograph made available 28 April 2016 shows a general view of a Shell fuel station in Abidjan, Ivory Coast, 25 April 2016. According to global energy consultancy group Wood Mackenzie Africa's place as a significant producer and net exporter of oil in the world is forecast to grow to 15 per cent by 2020 due to new discoveries in West Africa. Substantial growth potential exists in West Africa with 40 billion barrels of discovered but undeveloped reserves and 55 billion barrels of yet-to-find oil. Since Jubilee discovery in 2007 companies are exploring other parts of the region between Ghana to Mauritania looking for analogous Cretaceous turbidite prospects. Offshore explorations in Sierra Leone and the Ivory Coast are high potential areas for investment beyond that of Nigeria and Angola. EPA/LEGNAN KOULA

Il muro di gomma messo in piedi da Eni e Shell per rigettare tutte le accuse di corruzione sul caso OPL 245 in Nigeria sembra finalmente iniziare a incrinarsi. E a sorpresa è la stessa compagnia anglo-olandese a fare delle prime, clamorose ammissioni.

«Nel corso del tempo abbiamo capito che Dan Etete era coinvolto nella Malabu e che l’unico modo per risolvere l’impasse negoziale consistesse nel raggiungere un accordo con Etete e la Malabu, che ci piacesse o no…poi il governo federale della Nigeria avrebbe indennizzato la Malabu per risolvere le sue pretese sul blocco petrolifero». Questo è questo quanto riferito da un portavoce dell’azienda al New York Times. Ieri della questione avevano parlato Buzzfeed e Sole24Ore.
Insomma, per aggiudicarsi il mega-giacimento OPL 245 al largo della costa del Delta del Niger (9,3 miliardi di barili stimati) quanto meno la Shell era perfettamente a conoscenza del fatto che il blocco petrolifero era della società (Malabu) il cui proprietario occulto era l’ex ministro del petrolio del governo del dittatore Sani Abacha (Etete), il quale era universalmente conosciuto come “personaggio controverso”, nonché condannato in Francia per riciclaggio di denaro sporco. Fino a ieri questa scomoda verità era stata sempre negata, così come non si era mai ammesso che i soldi sarebbero solo transitati da un conto del governo nigeriano a Londra per poi entrare nella disponibilità della Malabu. Da lì il miliardo e 100 milioni pagato per OPL 245 si sarebbe poi diviso in mille rivoli diretti verso politici nigeriani, faccendieri e, ipotizza la Procura di Milano, anche manager dell’EniLeft aveva ricostruito questa la vicenda qui.
Il cambio di linea della Shell è stata sicuramente condizionata dai numerosi articoli apparsi sulla stampa internazionale e dal rapporto di Global Witness e Finance Uncovered in cui si riportano intercettazioni ed email confidenziali tra i vertici dell’azienda che di fatto “anticipano” l’ammissione fatta nelle ultime ore.

Secondo quanto raccontato nell’ultima puntata Report, anche l’Eni era a conoscenza delle scomode verità riconosciute dalla Shell. A corroborare la sua tesi, anche la trasmissione di Rai 3 cita email confidenziali di alti dirigenti della multinazionale italiana.
Giovedì 13 aprile l’Eni terrà la sua assemblea degli azionisti, che certificherà la riconferma dell’amministratore delegato Claudio Descalzi ai vertici della principale partecipata di Stato (30% della società è ancora in mai pubbliche). Descalzi è una delle 11 persone fisiche, oltre a Eni e Shell, a essere oggetto di una richiesta di rinvio a giudizio da parte dei pm milanesi Fabio De Pasquale e Serio Spadaro. Esattamente una settimana dopo l’assemblea, si terrà l’udienza preliminare che dovrà stabilire se per la vicenda OPL 245, sulla carta uno dei più grandi casi di corruzione della storia, ci sarò bisogno di un processo, che si annuncia lungo e complesso. Ma, alla luce, delle prime ammissioni fatte dalla Shell, non sono escluse sorprese.

La Camera al voto sul securitario decreto Minniti

Un momento della manifestazione di protesta dei migranti "Non ci arrendiamo!" organizzata dall'associazione Ashai a Bologna, 6 aprile 2017. ANSA/GIORGIO BENVENUTI

Fiducia numero 83 dall’inizio della legislatura. Oggi la camera vota uno – quello sull’immigrazione – dei due ormai celebri decreti Minniti (che sono in realtà Minniti-Orlando, a doppia firma, motivo per cui Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana può peraltro approfittare delle manifestazioni contro i decreti per confermare che da sinistra non arriverà allo sfidante di Renzi, ministro della Giustizia, alcun supporto alle primarie).

Si vota con un voto di fiducia, l’ennesimo, ed è quasi noioso segnalare la mortificazione a cui è costantemente sottoposto il parlamento, passacarte del governo di turno. Se ai parlamentari piace così, d’altronde, noi si può far poco. Il decreto, che vuole intervenire sull’immigrazione clandestina, verrà comunque approvato, e introduce alcune novità.

Su Left vi abbiamo spiegato nel dettaglio le cose che non ci convincono, tra cui l’abolizione del secondo grado di giudizio nei procedimenti relativi al riconoscimento della protezione internazionale e l’impiego dei richiedenti protezione internazionale in attività di utilità sociale, che potrà anche non esser retribuita. Navigando un po’ sul nostro sito troverete dunque tutto quello che vi serve per farvi un’idea sul provvedimento.

E allora, mentre sotto Montecitorio una manifestazione di protesta accompagnerà il voto, noi oggi ci soffermiamo sulle note politiche che il decreto, già approvato al Senato, solleva. La prima è che non esiste crisi politica, non esiste crisi di maggioranza, sui provvedimenti, quindi al netto delle contese interne al partito democratico che si dimostra ancora una volta elemento destabilizzante delle maggioranze che anima, nel continuo inseguirsi di primarie, congressi, interviste. La seconda riguarda invece il Movimento democratici e progressisti, che sta vivendo ore di gran ambascia. Metà del gruppo è per votare no, metà per votare sì. Si cerca una mediazione dell’ultima ora, è vero – si vedono alle 15 – ma per esser l’avvio di una forza politica non è dei migliori.

M5S: a forza di forzare la politica poi la magistratura diventa una segreteria (politica)

Beppe Grillo durante la kermesse "Sum #01-Capire il futuro" organizzata dal Movimento 5 Stelle a Ivrea, 8 aprile 2017. ANSA/ ANTONINO DI MARCO

Leggere prima di commentare compulsivamente. Vale per tutti: per i piddini antigrillo che in queste ore sono diventati feticisti di quelle stesse Procure che tutti i giorni gli stanno decimendo il partito e, d’altra parte, i piè veloci grillini che commentano partendo dal titolo come fanno gli ultrà che scambiano strisce pedonali per bandiere.

Dunque: che una sentenza possa essere strumentalizzata come ente decisionale ultimo della candidatura a sindaco per un città come Genova mette i brividi. Gli anti-Travaglio in pratica sono diventati per un giorno dei ciucciamanette pur di attaccare il nemico senza rendersi conto della goffaggine messa in scena. Si tenta (male) di convincere una schiera di fideisti che la Cassimatis (bocciata da Grillo e il fantomatico staff) debba essere la candidata del Movimento 5 Stelle. Si racconta, insomma, che un tribunale abbia ordinato a Grillo di perdere. E c’è gente che ci crede, pure. Come se domani Emiliano vincesse le primarie del PD per sentenza (sì, ciao) e Renzi venisse condannato di essere il tesoriere del circolo di Canicattì e niente di più.

Di là invece c’è la questione grillina e la politica fatta come se fosse una partita a burraco tra amici: le regole, ahimè, oltre che scriverle bisogna rispettarle. E così le regole a caso scoreggiate da Grillo in accappatoio diventano (giustamente) contestabilissime di fronte a qualsiasi autorità giudiziaria. Per fare un esempio: se davvero (come scrive il blog di Grillo) le “comunarie” di Genova sono irregolari perché indette con meno di “24 ore di preavviso come stabilito da regolamento” allora sono nulle le liste di Padova, Piacenza e Verona. Solo per citarne qualcuno. Per fortuna non esiste un movimento politico che possa fondarsi sugli umori del proprio capo. Chiunque sia. Se la cialtronaggine impera è normale che la magistratura sembri una segreteria politica.

Facciamo i seri. Su. Politica. Seria.

Buon martedì.

Fotonews | Egitto, stato di emergenza

(Photo MOHAMED EL-SHAHED/AFP/Getty Images)

Due attentati, 47 morti e 126 feriti. E tre, i mesi di stato d’emergenza dichiarati dal presidente egiziano Al Sisi. Sono questi i numeri delle due esplosioni che hanno insanguinato la domenica delle Palme nelle chiese copte di San Marco al Cairo e San Giorgio di Alessandria. Nella foto, due donne piangono i loro morti, le cui esequie sono state celebrate già ieri sera, giorno della strage. Nella settimana Santa infatti, è proibito celebrare funerali.

Rivendicati dall’Isis, e messi in pratica da due egiziani, gli attentati – in questo caso contro i cristiani-, non sono i primi purtroppo e non saranno gli ultimi, come annunciato dai terroristi: «I miscredenti pagheranno con il sangue dei loro figli, che scorrerà a fiumi».

La militarizzazione del Paese, non è bastata, dunque. Ieri nella protesta davanti alla chiesa di san Giorgio c’era tutta la paura dei cittadini: «Il governo non ci protegge». E allora ecco misure di sicurezza rafforzate al Cairo davanti a hotel, edifici pubblici e alla centralissima piazza Tahrir, col dispiegamento di unità speciali dell’esercito per garantire la sicurezza nei luoghi più sensibili. Alle quali si aggiungono i procedimenti tipici dello stato di emergenza, che sospendono i normali diritti: la sospensione del diritto alle manifestazioni e le adunate di oltre cinque persone, la possibilità di accordare fermi per un periodo indeterminato, estensione dei poteri delle forze di polizia, e la possibilità di intraprendere procedimenti giudiziari per civili da parte di tribunali militari.

Ciononostante, è confermata la visita del Pontefice, che sarà nel Paese il 28 e 29 aprile.

Nel frattempo però, Israele chiude la frontiera fino al 18 aprile, termine della Pasqua ebraica, per paura di possibili attacchi ai cittadini israeliani.

A Genova, il Tribunale dà ragione a Cassimatis. È il candidato sindaco M5s

Marika Cassimatis, ex vincitrice delle Comunarie del M5s esautorata da Beppe Grillo, esce dal Palazzo di Giustizia dove si e' tenuta l'udienza sul ricorso per la riammissione della sua lista, Genova, 7 aprile 2017. ANSA/ LUCA ZENNARO

Stavolta, fra la decisione di Beppe Grillo e i suoi attivisti, c’è un giudice. Stamattina, il magistrato Roberto Baccialini, del Tribunale di Genova, ha sospeso l’esclusione di Marika Cassimatis, che ora rientra in forza sulla scena politica come candidata sindaco del Movimento 5 stelle. La vincitrice delle comunarie del 14 marzo, era stata estromessa assieme alla sua lista per volontà del “garante”, a causa di supposti atteggiamenti contrari al Movimento 5 stelle, che ne avrebbero leso l’immagine. Fra questi, il sostegno – in era preistorica – all’allora ancora pentastellato sindaco Federico Pizzarotti.

Cassimatis non aveva nemmeno fatto in tempo a realizzare la “scomunica”, che già erano state indette nuove votazioni, allo scopo di confermare lo sconfitto Luca Pirondini come nuovo legittimo candidato sindaco. Ma appena l’insegnante si riprende, dà battaglia: aspetta 10 giorni di avere motivazioni ufficiali da parte di Grillo e dello staff in merito alla sua esclusione. Poi, in conferenza stampa, annuncia: porterò Grillo in tribunale.

Tribunale che ora si è pronunciato in suo favore, annullando anche la seconda votazione e riabilitandola come candidata scelta dall’assemblea – ovvero gli iscritti al Movimento 5 stelle. Va ricordato che il “Non-partito” è a tutti gli effetti un’associazione, sulla quale dunque si applicano non solo le norme del codice civile, Grillo non se ne abbia, ma anche quelle dello Statuto interno: entrambe prevedono che le votazioni dei soci siano vincolanti.

Resta però un dettaglio. Allo scopo forse di giocare d’anticipo sul pronunciamento del giudice civile, Grillo giovedì scorso ha sospeso Cassimatis dal Movimento. Il che significa, ora, che la candidata di diritto del Movimento 5 stelle, non potrebbe usare il simbolo del Movimento 5 stelle. Che è, di fatto, proprietà privata.

Per sapere come andrà avanti, restiamo sintonizzati. Su blog e tribunale.

Ma al di là della vicenda ligure, c’è un problema nel Movimento 5 stelle: non avere valori di riferimento all’infuori del Movimento 5 stelle stesso. A guidarli, non sono destra e sinistra – nonostante un’interessante analisi di Ilvo Diamanti oggi su Repubblica ne evidenzi il limite dovuto proprio degli estremismi degli elettori M5s, che obbligano il Movimento a non intraprendere scelte troppo “politiche” -, ma i due leader. Visionario uno, il defunto Gianroberto, irriverente l’altro, non a caso definiti “guru”.

Ora Casaleggio è morto, e l’eredità del pensiero e della gestione di partito e azienda sono nelle mani del figlio Davide. Che a Ivrea ha dato una sterzata netta a quello che deve essere il Movimento 5 stelle. Ci presentano, candidato alla guida del prossimo governo, un partito di ragazzi composti, seduti in platea ad ascoltare e imparare il futuro che le aziende – in maggioranza tecnologiche – possono offrirci.

Affidabili. Umili. Speranzosi. Benissimo.

Un messaggio che Grillo rilancia, stamattina, scrivendo sul blog che: «Non è più tempo di manifestazioni in piazza a carattere provocatorio, facili a sfogare nella violenza, è diventato il tempo di disegnare il nostro futuro, per questo siamo qui».

Poi però, si gira la carta e c’è l’altro, di Movimento. Quello della pratica di tutti i giorni, che scontra la libertà di pensiero e iniziativa dei singoli attivisti con i diktat dei proprietari dal marchio. Garanti dell’immagine del Movimento, meno delle persone che lo rappresentano sul territorio e per il quale lavorano tutti giorni.

Succede così che a Genova ora c’è una candidata sindaco del Movimento 5 stelle che però non potrà usare il simbolo del Movimento 5 stelle. Lei ha dalla sua parte il giudice, lui la proprietà del simbolo. E nel partito del blog, almeno sui territori, a guidare l’azione politica sono ancora i diktat del capo politico.
E un po’ di violenza, noi , qui la riscontriamo.

Come dialogherà con questo autoritarismo il nuovo partito aziendale? Come si declinano, nella pratica, gli alti valori e le grandi speranza lanciate dal palco di Ivra?

Spiace fare i prosaici, ma è un fatto di orientamento. Fateci capire nella pratica, non sui palchi, cos’è il Movimento 5 stelle

Guarda il video

 

Greenpeace a Calenda: «Italia poco ambiziosa su clima ed energie pulite»

All’apertura dell’ultimo giorno di lavori del G7 Energia a Roma, Greenpeace ha consegnato consegnando ai ministri delle potenze mondiali un gigantesco termometro, simbolo della temperatura del Pianeta che continua a salire. Al ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, presidente di turno del G7 energia, gli ecoattivisti hanno chiesto di isolare le posizioni negazioniste e anti-scientifiche della nuova amministrazione Trump, rappresentata al G7 Energia dal segretario del dipartimento energia Rick Perry.

Dal canto suo, Calenda ha rassicurato sul rispoetto deglo obiettivi fissati alla conferenza sul clima di Parigi del dicembre 2015, «ma questo non basta», spiega Luca Iacoboni, responsabile della campagna clima e energia di Greenpeace Italia. «Se davvero vogliamo mantenere l’aumento di temperatura entro i 2°C, o ancor meglio sotto la soglia di 1,5°C, bisogna fare molto di più. E l’Italia, che ha la presidenza di turno del G7, deve dare l’esempio non limitandosi a fare i compiti a casa ma facendo pressione su chi non sembra prendere sul serio i cambiamenti climatici». Al tema – e in particolare alla strategia troppo timida del governo italiano – è dedicata la copertina del numero di Left in edicola, con dati, testimonianze, reportage, e un’intervista a Bill McKibben, lader dell’organiGzazione ambientalista Usa 350.org.

Il ministro dello Sviluppo economico ha anche annunciato che nella settimana dopo Pasqua presenterà in audizione alla Camera la nuova Strategia energetica nazionale. «L’auspicio è che non sia l’ennesimo piano energetico basato sulle fonti fossili, ma purtroppo la decisione di separare la Sen dal Piano integrato energia e clima sembrerebbe confermare l’idea del ministro di mettere al centro del piano energetico il gas, relegando le energie rinnovabili a una fonte marginale, senza prendere impegni per un definitivo abbandono del carbone», continua Iacoboni. «Speriamo che il ministro ci smentisca con i fatti, ma ad oggi il governo sembra avere davvero poca ambizione. Non è questo ciò che ci aspettiamo da un Paese investito della presidenza del G7, e non smetteremo di farlo presente al governo».

Ne parliamo su Left in edicola

 

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È che ci vuole il fisico, per sapere non fare la guerra

epa05900612 US President Donald J. Trump walks on the south Lawn after arriving at the White House in Washington, DC, USA, 09 April 2017. EPA/OLIVIER DOULIERY / POOL

Angelino Alfano, ministro agli Esteri: «L’Italia comprende le ragioni di un’azione militare USA proporzionata nei tempi e nei modi, quale risposta a un inaccettabile senso di impunità nonché quale segnale di deterrenza verso i rischi di ulteriori impieghi di armi chimiche da parte di Assad, oltre a quelli già accertati dall’ONU».

Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio: «L’azione ordinata dal presidente Trump. È una risposta motivata a un crimine di guerra. L’uso di armi chimiche non può essere circondato da indifferenza e chi ne fa uso non può contare su attenuanti o mistificazioni».

Nicola La Torre, senatore del PD, presidente della Commissione Difesa al Senato: «L’azione USA è un’opportunità. Obama con Mosca sbagliava strategia. Ogni sforzo diplomatico era azzerato. L’attacco ha fermato la china criminale e può riaprire il negoziato».

Queste le dichiarazioni. E il commento, alla fine, non c’è nemmeno bisogno di scriverlo perché l’ha già detto come meglio non si poteva dire George Orwell nel 1938: «Una delle più orribili caratteristiche della guerra è che la propaganda bellica, tutte le vociferazioni, le menzogne, l’odio provengono inevitabilmente da coloro che non combattono».

Chissà quanto durerà ancora la litania di quelli che vogliono la guerra perché si smetta di fare la guerra.

Se anche la Svezia fa finta di non vedere

Una delle entrate del mercato di Kviberg, periferia di Goteborg, frequentato ogni weekend da 10-15 mila persone, quasi unicamente migranti. Nelle ultime settimane la polizia ha fatto diverse retate, alla ricerca di lavoratori senza permesso di soggiorno. © Jordi Perez Donat

Göteborg- Sotto il sole racchiuso dalle strisce, rossa e verde, di una sbiadita bandiera del Kurdistan, Abdullah stringe una tazza di tè ormai vuota mentre scruta il flusso incessante di passanti che attraversa la stretta via che congiunge il padiglione dei vestiti a quello degli alimenti. Il fratello Mahmood tiene sott’occhio una coppia di somali che da cinque minuti fruga nella cesta dei caricatori provando a incastrarne, a turno, gli spinotti nell’entrata di un vecchio cellulare Nokia. Due giorni a settimana i due fratelli, curdo-iracheni di Dohuk, vendono accessori elettronici al mercato di Kviberg, un complesso di casermoni costruiti a fine Ottocento per ospitare i reggimenti d’artiglieria di Göteborg. Ogni weekend si trasforma in un suq tentacolare, dove rifugiati e migranti storici possono trovare a buon mercato di tutto, da rasoi di seconda mano ai sottaceti libanesi, dagli hijab multicolori a vecchi Commodore, rari anche tra i collezionisti. Qui tutti i sabati e le domeniche migliaia di persone tastano la frutta, comprano scarpe, si tagliano i capelli e compiono tutti quei gesti che aiutano nel tentativo di ricostruire, da esiliati, un senso di normalità.

Abdullah e Mahmood sono molto tesi, qualche settimana fa la polizia ha portato via dodici persone con un’irruzione spettacolare tra le bancarelle. Già, perché tra i banchi di Kviberg ci sono anche loro: i papperslösa, i senza documenti, quelli che la Svezia del politicamente corretto non chiama “clandestini” ma che di fatto educatamente espelle. Sono gli ultimi della società, in fuga dalla polizia ma con la certezza che qualsiasi prospettiva è più allettante rispetto all’essere mandati a morire nei propri Paesi di origine. La coppia somala si allontana, non ha trovato il caricatore che cercava. Abdullah poggia la tazza e poi guarda l’orologio. Tra circa mezz’ora si smonta. Anche oggi, forse, si potrà tirare un respiro di sollievo.

Su Left in edicola il reportage di Joshua Evangelista e un racconto su Malmoe, città che i media di destra descrivono come una specie di Gomorra islamista.

Il reportage da Goteborg continua su Left in edicola

 

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Quel segno nero da cui nasce Primo Levi

Ho letto la storia di Primo Levi centinaia di volte, ho letto i libri di Primo Levi in ogni stagione vissuta sin qui della mia vita, e sento ancora quel tonfo per la tromba delle scale, forte, di quel giorno d’aprile di trent’anni fa, quando ho saputo che quella era la fine di Primo Levi. Perché il nero era tornato e aveva tolto tutta la luce. Sono trent’anni quest’anno che è morto Primo Levi. E quando ho letto questa sua vita disegnata che vita non è, come scrive l’autore Matteo Mastragostino nella postfazione («Questo fumetto non è la storia di Primo Levi, una sua biografia, ma è la storia del mio Primo Levi… e con questa storia chiudo il cerchio di una notizia sentita trent’anni fa, che mi è rimasta incollata nell’anima»), ho pensato che fosse un piccolo capolavoro. Tutto segno nero. Aggrovigliato. Che racconta di un momento facendone esplodere cento.

Ne parliamo su Left in edicola

 

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IL FUMETTO
Dal 13 aprile sarà in libreria Primo Levi, testo di Matteo Mastragostino e disegni di Alessandro Ranghiasci. Una rilettura personale dello scrittore torinese scomparso l’11 aprile 1987. Pochi mesi prima di morire Levi aveva visitato la scuola elementare di Ranghiasci, parlando dell’orrore di Auschwitz. E oggi anche quella memoria riaffiora nella graphic novel pubblicato da BeccoGiallo.

Mobilitarsi e disinvestire: la cura McKibben per Trump

«Nel luglio scorso Rolling Stone pubblicò un mio articolo in cui davo un po’ di cifre sul riscaldamento climatico. L’articolo, lungo e – pensavo – un po’ noioso, usciva su un numero che in copertina aveva Justine Bieber. Dopo un paio di giorni il direttore mi chiama: la versione online dell’articolo stava superando Justine per numero di visite e condivisioni». Così raccontava Bill McKibben nel 2012, prima di salire sul palco per lanciare una campagna di mobilitazione nazionale. Era il 2012 e l’uragano Sandy aveva appena cambiato la percezione degli americani di cosa sia l’effetto serra e di quanto il cambiamento climatico sia un’emergenza da affrontare.

Bill McKibben è un giornalista, autore e attivista ambientalista tra i più influenti degli Stati Uniti. Il Boston Globe lo ha definito «il più importante ambientalista americano» e Foreign Affairs lo ha inserito nella classifica dei 100 global thinkers più influenti. Il suo ultimo libro, Oil and Honey (2013), parte dalla storia di un apicoltore del Vermont per raccontare della necessità di mettere in connessione le azioni locali. L’obiettivo è fare pressione sui governi perché prendano decisioni risolutive per fermare il riscaldamento globale. Il suo primo libro, End of Nature, del 1989, è stato tradotto in 25 lingue.

McKibben è tra i fondatori di 350.org, campagna ideata per spingere le fondazioni di università e Chiese a disinvestire dalle compagnie che estraggono idrocarburi. Una strategia che in alcuni Paesi, dove le università e i sindacati hanno fondi investiti, ha avuto e continua ad avere molta efficacia. Come attivista è stato protagonista della più importante azione di disobbedienza civile degli ultimi anni, a Washington, quando il movimento protestò contro la XL Keystone pipeline che dovrebbe trasportare petrolio estratto dalle sabbie bituminose del Canada verso gli Usa. McKibben e molti altri si fecero arrestare. Il progetto venne fermato da Obama e oggi viene rilanciato da Trump.

Su Left in edicola, McKibben, intervistato da Michela Iaccarino, ci racconta di come gli ambientalisti possono e devono organizzarsi per fermare Donald Trump. Cosa fare e come farlo, perché, per fermare il riscaldamento climatico siamo già ampiamente in ritardo.
Sempre su Left in edicola, un racconto-reportage dei giorni dell’uragano Sandy e di come cambiò le cose. Un racconto del passato che potrebbe essere la normalità del futuro: con parti importanti di New York City e delle coste del New Jersey che, se non cambierà la dinamica del clima, prima o poi finiranno regolarmente sotto l’acqua.


Su Left in edicola:

Mobilitarsi e disinvestire: la cura McKibben per Trump di Michela Ag Iaccarino
È uno dei più influenti e partigiani ambientalisti d’America. Ha guidato le proteste che fermarono la Keystone Pipeline prima che Trump la resuscitasse. Dialogo con Bill McKibben, che ora prova a fermare la lobby del carbone e del petrolio

Manhattan sott’acqua. Cronaca di ieri e di domani di Martino Mazzonis
Nell’ottobre 2012 la costa est degli Stati Uniti venne spazzata dall’uragano Sandy e scoprì la propria vulnerabilità. Da allora cambiò l’attitudine nei confronti delle trasformazioni del clima. Fino all’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Reportage dal passato

L’intervista e la storia di Sandy sono su Left in edicola

 

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