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Non sono solo “la sorella di” e vi racconto perché. Intervista a Manuela Diliberto

«Due anni fa pensavo bastasse scrivere un libro, che il difficile fosse quello, non pubblicarlo… Ho capito solo dopo che essere scrittori debuttanti non è facile. Anzi, qui è ancora più difficile che in Francia, in Italia ci vuole “il lancio” e allora, visto che comunque per un periodo sarei stata costretta ad essere, purtroppo e fastidiosamente, “la sorella di”, tanto valeva sfruttare la cosa. Mettere subito le carte in tavola e dichiararlo apertamente». A parlare è Manuela Diliberto, suo fratello è Pif, ex iena, conduttore televisivo e regista di La mafia uccide solo d’estate. Manuela nella vita ovviamente non fa solo la “sorella di”, oltre a lavorare come archeologa a Parigi, ha appena pubblicato L’oscura allegrezza il suo primo romanzo. «È il frutto di un lavoro lunghissimo, ho iniziato a scriverlo a19 anni e l’ho finito di scrivere solo due anni fa. Di getto, perché alla fine dopo averlo portato con me per tutto questo tempo avevo già tutto in testa» racconta. Il risultato è un libro sfaccettato e ricco di dettagli storici, ambientato più di cent’anni fa, ma comunque capace di farci leggere somiglianze con molti fatti che occupano quasi tutti i giorni le prime pagine dei quotidiani. 
C’è tutto in L’oscura allegrezza: la crisi economica, il lavoro che manca, i populismi e i nazionalismi che dilagano fra la gente, favoriti anche dalle politiche di un establishment sempre più miope e lontano dalle esigenze del Paese reale. I parallelismi funzionano talmente bene che ci si chiede “siamo sicuri che si tratti proprio del 1911?”. «I punti in comune con quello che succede oggi sono tanti» ci dice Manuela «nell’Italia e nell’Europa di allora aleggiava la stessa “paura di perdere” che ci ossessiona in questo momento storico. La paura di perdere il lavoro e dover emigrare; la paura di perdere la propria identità e quindi la necessità di riaffermarla con forza…», insomma innalzando muri o gridando “prima gli Italiani!” per dirla con retorica salviniana.
A tirare un fil rouge fra ieri e oggi sono anche le lotte sociali, le battaglie per i diritti dei lavoratori e per la parità di genere, cose che qualcuno probabilmente preferirebbe catalogare come relitti novecenteschi, ma che (per fortuna) sono più vive che mai. Basta pensare alle proteste in Francia contro la Loi Travail, dove per mesi la gente è scesa in strada, o alla marcia delle donne su Washington per manifestare contro l’elezione di Donald Trump, a favore della parità di genere. «Il passato e la storia funzionano da specchio, siamo quello che siamo stati. Leggere dei limiti e pregiudizi contro i quali si scontrava una donna nel 1911 ci dà un’idea dei progressi che abbiamo fatto, ma anche la misura di come, a più di cent’anni di distanza, molte ingiustizie continuino ad essere perpetrate. Il mondo è cambiato, certo, ma non così tanto e non quanto avremmo voluto», si infervora Manuela quando parla di parità di genere, almeno quanto la protagonista del suo romanzo, Bianca che prende a modello la rivoluzionaria Aleksandra Kollontaj.

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Terrevive, ma non troppo

Man pulling red swiss chard from the ground in a plantation

Si chiamano in modo suggestivo – Terrevive, Campo Libero – oppure in modo più ambiguo – Banca della Terra – e vengono propagandati come un’opportunità per il ricambio generazionale in agricoltura. Sono i provvedimenti con cui il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con il ministero dell’Economia e delle finanze, hanno dato il via da tre anni alla vendita e, in minima parte, all’affitto di migliaia di ettari di terreni, destinandoli innanzitutto agli agricoltori under 40. Terre dislocate soprattutto in Calabria, Puglia, Lazio, ma ci sono appezzamenti di rilievo anche in Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna.

Aste al rialzo e Grande distribuzione
Coldiretti è entusiasta: «Negli ultimi anni stiamo assistendo a un vero e proprio ritorno alla terra, soprattutto da parte dei giovani», spiega a Left Maria Letizia Gardoni, leader delle Giovani imprese di Coldiretti. E ci fa notare che nel 2016 gli under 35 che hanno scelto di lavorare in agricoltura sono aumentati del 12%: un record se paragonato alla crescita di altri settori attestata sull’1%. «Questi risultati non sono un caso bensì il risultato di una serie di politiche», tiene a precisare Gardoni, riferendosi al decreto “Campo libero”, ai finanziamenti di Ismea. E, da ultimo, ma solo a livello temporale, al progetto Banca della Terra che, grazie a un sistema di mappatura delle terre permette di individuare i terreni agricoli di natura pubblica in vendita e riportare l’agricoltura anche le aree incolte. «Un progetto importante – secondo Coldiretti – perché a regime prevede la messa a disposizione di ben 22mila ettari di terra, valorizzando un patrimonio fondiario pubblico, a oggi scarso, e fornendo una soluzione concreta agli ostacoli che limitano un vero e duraturo ricambio generazionale in agricoltura, ovvero l’accesso al credito, alla terra e gli eccessivi oneri burocratici». Per Coldiretti, insomma, va tutto bene. Ma, è lecito chiedersi, se le aste sono al massimo rialzo mentre la Grande distribuzione organizzata impone il doppio ribasso e si accaparra così la produzione ortofrutticola (lo denuncia la campagna Filiera Sporca), quale modello di agricoltura c’è nei piani del governo?

Il viaggio nell’agricoltura italiana continua su Left in edicola

 

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Da Kuala Lumpur a Idlib, le foto della settimana

(Photo JUAN BARRETO/AFP/Getty Images)

2 aprile 2017. Mosca. Agenti di polizia russi pattugliano la Piazza Rossa. Più di 1.000 persone sono state arrestate a Mosca il 26 marzo durante una protesta anti-corruzione, una delle più grandi manifestazioni non autorizzate svolte durante i 7 anni di potere di Putin.
(VASILY MAXIMOV/AFP/Getty Images)

Il vagone danneggiato alla stazione della metropolitana di San Pietroburgo il 3 aprile 2017 per un attentato terroristico. (Photo STR/AFP/Getty Images)

L’ alluvione a Rockhampton, Queensland, Australia il 06 Aprile 2017. (Ansa EPA/DAN PELED)

4 aprile 2017. Van, Turchia. Una veduta aerea della diga sul lago Zernek. (Photo by Ozkan Bilgin/Anadolu Agency/Getty Images)

“Poesie di Neon”, una installazione luminosa, durante la settimana del Design a Milano. (ANSA)

4 aprile, 2017. Damasco, Siria. Dopo l’attacco aereo
(Photo ABDULMONAM EASSA/AFP/Getty Images)

(Photo AMER ALMOHIBANY/AFP/Getty Images)

5 aprile 2017. Poliziotti afgani distruggono un raccolto di papavero illegale nel quartiere Surkh Rod della provincia orientale di Nangarhar.
(Photo NOORULLAH SHIRZADA/AFP/Getty Images)

Mogadiscio, Somalia. Un’autobomba è esplosa in un ristorante nei pressi del ministero somalo della sicurezza interna. Almeno sette persone sono state uccise e 10 feriti. (Photo MOHAMED ABDIWAHAB/AFP/Getty Images)

Mosul, Iraq. Il campo profughi di Hamam al-Alil. (Photo by Carl Court/Getty Images)

5 aprile 2017. Scontri tra studenti e polizia durante una manifestazione a San Cristobal, Venezuela. (Photo GEORGE CASTELLANOS/AFP/Getty Images)

Studenti cinesi e i loro genitori durante un concorso di scacchi nell’Open Day in una scuola elementare a Shenyang nel nord-est della Provincia di Liaoning, (Photo TR/AFP/Getty Images)

Un barcaiolo nel lago di Srinagar, Kashmir. (Photo TAUSEEF MUSTAFA/AFP/Getty Images)

6 aprile 2017, New York. Times Square sotto la pioggia del primo mattino. (Photo TIMOTHY A. CLARY/AFP/Getty Images)

Una protesta contro il governo del presidente Nicolas Maduro a Caracas. (Photo UAN BARRETO/AFP/Getty Images)

Il pilota australiano Daniel Ricciardo e la sua auto durante la prima sessione di prove della Formula Uno Gran Premio di Cina a Shanghai (Photo JOHANNES EISELE/AFP/Getty Images)

Un murales su un edificio nel centro di Kuala Lumpur (Photo MANAN VATSYAYANA/AFP/Getty Images)

Maurizio Acerbo: «Per fare la sinistra occorrono idee, la forza di poterle dire e credibilità»

«Da noi non cediamo lo scettro, piuttosto la bicicletta per pedalare in salita», sorride Maurizio Acerbo. Da pochi giorni è stato eletto segretario di Rifondazione comunista, in un clima pacifico e con un ampio consenso, e con una sinistra unitaria da costruire. È venuto a trovarci in redazione, di buonumore come sempre. Ha riattaccato il telefono appena arrivato dicendo al suo interlocutore: «Ti lascio, sono arrivato nell’unica rivista di sinistra in Italia». Gli abbiamo fatto molte domande, eccone alcune.
Dopo 9 anni e in un Paese che si è trasformato sotto gli occhi di tutti, che partito ti lascia Paolo Ferrero?
Un partito che ha resistito ad anni di oscuramento mediatico, che ha tenuto la linea decisa nel 2008, di alternativa al Partito democratico che stava per nascere, avendo intuito che la mutazione genetica era oramai definitiva. E che ha fatto una lunga traversata nel deserto. Quelli che sono rimasti sono dei veri resistenti.
Ma è un partito che è rimasto fuori dal Parlamento e da molte amministrazioni locali.
Sì, ma sappi che, nonostante le nostre scelte ci abbiano portato a perdere la rappresentanza, rimaniamo la rete di militanti più diffusa e capillare del Paese.
Oscurati dai media, dici. Ma l’impressione è che anche all’interno della sinistra abbiate sofferto un certo isolamento. Mette imbarazzo la falce e martello?
Sicuramente c’è un’idea diffusa, anche tra le persone che la pensano come noi sui temi concreti, che la parola “comunista” sia impronunciabile. Ma il problema vero è stato soprattutto una forte tendenza a rifiutare la centralità del sociale. Penso, però, che questa fase sia ormai superata, adesso c’è la consapevolezza che le difficoltà della sinistra politica sono le stesse della politica sociale. Se davanti a un appuntamento come il vertice Ue del 25 marzo non si riesce a portare più di qualche migliaia di persone in piazza il problema non può essere solo che la sinistra radicale è fuori dal Parlamento. Quindici anni fa saremmo stati in 100 o 200mila.

L’intervista a Maurizio Acerbo su Left in edicola

 

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Stoccolma, un camion di birre sulla folla. Il premier svedese: «Si è trattato di un attentato»

«Tutto indica che si è trattato di un attentato», dice il primo ministro svedese Stefan Lofven. A Stoccolma, alle 15 di oggi (ora italiana), un camion ha fatto irruzione dentro un negozio di un centro commerciale, investendo diversi pedoni. Siamo nel centro della capitale svedese, all’incrocio con Drottninggatan, la via pedonale più frequentata della città. Al momento si contano almeno due vittime confermate e diversi feriti, ma un reporter della radio pubblica Ekot dice di aver visto almeno cinque persone morte.

La polizia – che tratterà l’accaduto come un «possibile attacco terroristico» – ha riferito di aver ricevuto chiamate dalla persona che era alla guida del camion, di proprietà dell’azienda produttrice di birra Spendrups. «Durante una consegna al ristorante Caliente qualcuno è saltato nella cabina del conducente ed è andato via mentre l’autista stava scaricando», ha confermato il direttore delle comunicazioni della ditta all’agenzia di stampa svedese TT.

C’è un uomo a terra, circondato dagli agenti, testimoniano invece alcuni dei presenti. La persona sarebbe stata fermata, anche se non è ancora chiaro se si tratti del camionista. L’area è stata isolata dalle forze dell’ordine e intanto il governo svedese ha convocato una riunione di emergenza. Mentre il Parlamento è stato blindato dalle forze speciali e la polizia ha invitato la popolazione a non avvicinarsi all’area di piazza Sergeltorg. Nello stesso punto in cui, l’11 dicembre 2010, due autobomba esplosero in quello che è il primo attentato suicida nei Paesi scandinavi.

«Renzi è un leader anni 90»

Il presidente dl Consiglio, Matteo Renzi (D), con il ministro della Giustizia Andrea Orlando durante la conferenza stampa al termine del Consiglio dei Ministri, Roma, 30 giugno 2014. ANSA/ANGELO CARCONI

Il senso della battuta di Andrea Orlando con cui titoliamo l’intervista (che troverete integrale da sabato 8 aprile in edicola) è abbastanza chiaro: Matteo Renzi è un leader – e non è detto che sia comunque il leader giusto – per tempi ipermaggioritari; io, il compagno Orlando, sono invece il segretario giusto (non per forza il leader) per tempi più proporzionali, quando serve una maggiore propensione al dialogo. Io, in sostanza, ho a cuore il partito (e mi commuovo quando penso alla lotteria della festa dell’Unità), Matteo Renzi ha invece dimostrato di aver a cuore soprattutto se stesso, non capendo per tempo, per esempio, che «sovrapporre il ruolo di premier e quello di segretario non ha aiutato a capire quando sbagliavamo».

In questo senso Matteo Renzi è un leader anni 90, individualista, anche se non ci è chiaro in quale decennio collocare invece lo sfidante. Sul prossimo numero di Left, in edicola e in digitale, a Luca Sappino Andrea Orlando ha detto però di più.

Ci ha detto alcune cose interessanti e altre che a noi suonano curiose. Tipo quella di dirsi convinto per primo che il 4 dicembre («ma già le elezioni 2013») abbia «bruscamente archiviato» lo schema bipolare, con tutto il mito dell’alternanza, e però dirsi anche convinto di poter «far sopravvivere in questa nuova fase l’idea della vocazione maggioritaria», costruendo «attorno a noi un campo largo di un centrosinistra politico e sociale» – insomma, alleandosi con Pisapia. A noi sembra invece che alla fine il Pd le alleanze le abbia sempre fatte (persino quello veltroniano, che scelse l’Idv) e che il punto, il cortocircuito, sia la natura stessa del Pd. Ma son punti di vista.

Tra le cose interessanti che invece ci dice (no: non gli abbiamo chiesto delle sue vicende amorose, che pure spopolano sui social) c’è questa: «nella sua mozione», gli chiediamo, «usa le “bolle”, le “echo chambers” dei social, dove gli algoritmi spingono gli utenti a interagire solo con chi gli è simile, per descrivere le dinamiche tra correnti nel Pd. Pensa sia una questione della sola politica o più profonda?». Risposta: «Credo sia più profonda. È un fenomeno sociale. Viviamo in una società in cui sempre più spesso prevale l’incomunicabilità. Abbiamo scoperto nuovi pianeti, ma spesso non sappiamo cosa avviene nel quartiere accanto al nostro».

L’intervista a Orlando è sul numero di Left in edicola da sabato 8 aprile

 

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A che gioco gioca Trump in Siria

epa05892465 US President Donald J. Trump participates in a television interview in the East Room shortly before attending an event hosting participants of the Wounded Warrior Project Soldier Ride, at the White House in Washington, DC, USA, 06 April 2017. A cycling event to help Wounded Warriors restore their physical and emotional well-being, the Soldier Ride also raises awareness of US veterans who battle the physical and psychological damages of war. EPA/MICHAEL REYNOLDS

Gli Stati Uniti non hanno più una politica estera. Oppure ce le hanno tutte. Pericolose. A due giorni dall’ennesima linea rossa passata dal regime di Assad con l’utilizzo di gas sarin in un bombardamento, e nonostante, dal punto di vista delle certezze assolute e delle indagini che in questi casi vanno fatte, gli americani hanno colpito una base aerea siriana.

I missili sono stati lanciati da due cacciatorpediniere della Marina – l’USS Ross e USS Porter e hanno colpito la base aerea di Shayrat nella provincia di Homs, da cui gli aerei di Assad che hanno condotto l’attacco chimico a Idlib sarebberi partiti. Gli obiettivi colpiti sono difese aeree, aerei, hangar e depositi di carburante.
Gli americani parlano di aerei e infrastrutture di supporto danneggiate pesantemente. La Tv di Stato siriana parla di aggressione e spiega che un attacco americano ha colpito un certo numero di obiettivi militari all’interno.


Il video del Pentagono

Il comunicato di Donald Trump, che ha ordinato l’attacco, è un fritto misto: si parla di «meravigliosi bambini crudelmente assassinati in una attacco molto barbaro» e del fatto che «Nessun bambino di Dio dovrebbe mai subire tale orrore» per poi fare riferimento al «vitale interesse per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti per prevenire e scoraggiare la diffusione e l’uso di armi chimiche letali…Anni di precedenti tentativi di modificare il comportamento di Assad sono falliti e falliti in maniera disastrosa». E questa è la ragione, si legge per cui «la crisi dei rifugiati continua e la regione continua a essere destabilizzata, minacciando gli Stati Uniti e i loro alleati… Invito tutte le nazioni civili ad unirsi a noi nel tentativo di porre fine al massacro e spargimento di sangue in Siria, ed anche per porre fine al terrorismo di tutti i tipi».

Da isolazionista menefreghista di quel che succede nel mondo a leader interventista del mondo libero nello spazio di un giorno. Vedremo che conseguenze avrà questo attacco, se l’amministrazione Usa deciderà di mettere in campo altro, deciderà di intervenire in Siria in qualche forma e a fianco di chi e cosa – non è facile capire con chi e come. O se questo è un modo di mostrare i muscoli alla propria opinione pubblica che non avrà conseguenze reali.

Ricordiamo che, quando Assad superò la linea rossa tracciata da Obama, che non ebbe conseguenze per il dittatore e rese la sua posizione molto più stabile, l’attuale presidente intimò al suo predecessore di non immischiarsi in Siria e non mandare soldati. Ricordiamo che pochi giorni fa gli Usa, a differenza dell’Europa, in consiglio di sicurezza hanno detto che l’uscita di scena del presidente siriano non è un requisito per la transizione e, infine, ricordiamo che da quando l’amministrazione è in carica si è avviata una qualche forma di distensione con la Russia e di innalzamento della tensione con l’Iran, entrambi alleati di Damasco. L’invito a combattere tutti i terroristi è un messaggio a Mosca, contraddetto dalle bombe contro Assad.

Oggi Mosca chiama le bombe americane «un’aggressione». Le prosime ore ci diranno se quella di Trump è una mossa per negoziare con Mosca, l’inizio di un intervento massiccio e senza chiari obbiettivi regionali, la discesa in campo a fianco dei turchi e dei sauditi e contro Assad, o cosa. L’impressione è che sia una reazione di pancia: Trump ha visto l’attacco chimico, capito che ha colpito l’opinione pubblica e deciso di fare qualcosa di visibile. Infilandosi in un pantano complicato in una fase in cui Assad sta vincendo sul campo o quasi. L’altra lettura possibile è ancora più interna: ieri il capo della commissione che investiga sui legami tra la campagna Trump e Mosca si è dimesso perché aveva comdiviso informazioni con personale dell’amministrazione in segreto. Le rivelazioni sul Russiagate sono una al giorno. E Trump attaccando vuole mostrare che lui non concorda nulla con Mosca. I prossi giorni, le prossime ore, ci diranno in che gioco si è infilato l’erratico presidente Usa. L’unica certezza è che è un gioco brutto e pericoloso.

Torturati ad avere ragione. Ma senza reato di tortura.

Un giovane militante del Genoa Social Forum fermato la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001 dopo la perquisizione compiuta da polizia e carabinieri nella scuola Diaz, sede del Genoa Social Forum, a Genova. ANSA / LUCA ZENNARO

Non è una vittoria il risarcimento che l’Italia ieri ha dovuto riconoscere giocoforza a sei ricorrenti presso la Corte Europea dei Diritti Umani. No. Quei 45.000 euro (comprensivi delle spese legali oltre ai danni morali) nei confronti di sei cittadini per quanto subito nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio 2001 sono la paghetta buona per sbolognarsi quello che qui da noi in molti considerano un semplice “incidente di percorso” se non addirittura una comprensibile eccesso di difesa da parte di un nugolo di forze dell’ordine degne dei sultanati che si finge di condannare in giro per il mondo.

La verità “giudiziaria” sui sanguinosi giorni di Genova, della Diaz e Bolzaneto è scritta nelle sentenze che in questi 16 anni: lì c’è tutto quello che si dovrebbe sapere (e si è saputo poco e male), tutto ciò che avrebbe dovuto aprire il dibattito (che ancora sedici anni dopo è mero tifo) e lì c’è tutto quello che sarebbe servito alla politica per fare politica. Chi ha seguito i processi non può accontentarsi di un “la verità, finalmente” che torna ciclicamente.

Per i fatti di Genova non ha pagato nessuno. Farsi carico di ciò che è successo avrebbe significato che oggi in Italia avremmo quella legge sulla tortura che sarebbe l’unico vero e sensato risarcimento dignitoso. Continuare a fare credere che lo Stato sia contrito per qualche gruppo di arrogantelli in divisa che, a detta loro, avrebbero fatto macelleria semplicemente per soddisfazione personale è un imbroglio.

L’unica indennità è una legge seria sul reato di tortura. L’unica indennità è scrivere nel codice penale l’argine perché non accada ma più o, se accade, non serva andare fino a Strasburgo. Non è così difficile.

Buon venerdì.

L’amore per l’umanità e la rivoluzione green

epa05619749 An Indian man and his family ride a bike during heavy dust and smog in New Delhi, India, 06 November 2016. People in India's capital city are struggling with heavily polluted air after smoke released from fireworks set off during the Diwali celebrations last weekend still lingers in the air of the metropolis. The air has forced many local schools - especially those run by the government - to close for the day and the Delhi government put a ban on construction and demolition works for five days. Visibility in the city has been reduced to 400 meters as Delhi pollution levels rose to 15 times more then the safe limit, a news reports said. EPA/HARISH TYAGI

Mai stata ambientalista in vita mia. Ho sempre fatto una fatica immensa a concentrarmi sull’ambiente soltanto. Per anni ho vissuto senza quello che mi circondava. A meno che non lo dovessi studiare. L’atteggiamento era certo di distacco. Più importanti gli uomini di piante, fiori e frutta. Di laghi e mari. Quelli erano sempre lì e sempre uguali. Gli esseri umani no, li dovevi cercare. E spesso non li trovavi, e non erano mai uguali. Tutte le energie erano lì. Poi gli ulivi, la gente che si aggrappa, che si rifiuta e che difende la propria terra. E prima le trivelle e il mare. E prima Taranto, l’Ilva e il cancro. E poi la connessione inevitabile tra vita umana e quello che la circonda. Tutto si intreccia perché tutto è intrecciato. Se rovino quello che mi circonda, distruggo qualcosa. È meno grave distruggere la natura di un altro essere umano? “Certamente” verrebbe da dire, ma se poi questa distruzione materiale diventa distruzione di altri esseri umani? Ilva Taranto cancro…

Allora ho pensato che dovevo unire due amori. Quello per un uomo o una donna o un bambino e quello per il sole, per il mare, per la montagna, per gli ulivi e per la terra rossa. Perché poi il nodo è questo. Come si uniscono due amori? Forse desiderando per quell’uomo, quella donna e quel bambino il sole, il mare, la montagna e gli ulivi più belli e più sani che si siano mai vissuti. Forse si fa così. Immagino il filo dell’amore, quello che si prova quando si guarda un bambino, un uomo, una donna, e quello che cerca un mondo bello abbastanza perché quel bambino (o ogni essere umano di oggi e di domani) non si debba ammalare ma anzi possa godere di un sacco di cose belle. Io per ora ho fatto così, poi ho trovato un condirettore che mi “appassiona” con l’ambiente, che mi spiega l’ozono troposferico e mi racconta che sua figlia non entra da McDonald’s. Ma soprattuto che sua figlia non ci vuole entrare da McDonald’s perché le patatine fritte le fa con lui (per ora!).

Ma a parte tutto questo, la storia è seria. Trump taglia i fondi per l’ambiente, rompe gli accordi sul clima di Parigi, mette in difficoltà il mondo mentre l’Italia continua ad essere codarda. Il G7 sull’energia è alle porte e il ministro Calenda si limita a fare il suo “minimo sindacale” presentandosi con un documento mediocre. Noi proviamo a spiegarvelo, proviamo a raccontarvi del 2012 e dell’uragano Sandy, proviamo a dirvi che se continuiamo così, presto saremo con l’acqua alla gola. E invece è ora di fare la rivoluzione green. E poi pure blue.

Ne parliamo su Left in edicola

 

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Che cosa non succede in Venezuela

TOPSHOT - Students opposing Venezuelan President Nicolas Maduro wearing gas masks throw back tear gas grenades at police police during a demonstration in San Cristobal, Venezuela on April 5, 2017. University students and police clashed Wednesday during a protest in the Venezuelan city of San Cristobal (western border with Colombia), with a balance of at least a dozen injured. / AFP PHOTO / George Castellanos (Photo credit should read GEORGE CASTELLANOS/AFP/Getty Images)

Studenti universitari si oppongono al governo Maduro, indossano maschere antigas per resistere ai lacrimogeni lanciati dalla polizia. Dodici i feriti. Venezuela, San Cristobal, confine occidentale con la Colombia, 5 aprile. Cosa non succede in Venezuela è il caso di dire. Violenze continue e uno scenario sempre più allarmante. Lo scontro tra governo e opposizione è sempre più aspro. La manifestazione contro il governo di Nicolas Maduro di mercoledì scorso a Caracas è degenerata in una serie di scontri violenti. Ai manifestanti, e persino al presidente dell’Assemblea Nazionale, è stato impedito di raggiungere la sede del Parlamento. Le forze armate hanno sparato contro il corteo. Obiettivo dell’opposizione era accompagnare il presidente del Parlamento, Julio Borges, e altri leader dell’opposizione fino alla sede dell’Assemblea per aprire un procedimento contro i giudici della Corte suprema che pochi giorni prima avevano esautorato il Parlamento delle proprie funzioni e consegnato tutto il potere nelle mani di Maduro e del Tribunale Supremo di Giustizia (Tsj). Ovviamente la partita in gioco supera i confini nazionali: il governo vorrebbe stringere accordi energetici con Rosneft, il colosso dell’energia russo. Mentre l’opposizione guarda a Washington, che ovviamente non gradisce alcun accordo con Mosca.