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Il Parlamento Ue condanna gli accordi «con i regimi da cui fuggono i migranti»

Un'immagine dei migranti e rifugiati intrappolati in Grecia e costretti a vivere in condizioni degradanti a causa dell'accordo Ue-Turchia, che rischiano la vita con l'arrivo dell'inverno e del freddo, 14 dicembre 2016. ANSA / oxfam +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Con la risoluzione approvata il 5 aprile, il Parlamento europeo ha di fatto bocciato i migration compact proposti dall’Italia e qualificato come non replicabili in altri Paesi gli accordi conclusi con la Turchia. In particolare l’Europarlamento si dice «profondamente preoccupato per il fatto che fra i Paesi prioritari figurino regimi repressivi che incarnano, essi stessi, la causa principale della fuga dei rifugiati dai loro Paesi». I 16 «Paesi prioritari» con cui l’Unione europea svolge dialoghi sono: Etiopia, Eritrea, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan, Ghana, Costa d’Avorio, Algeria, Marocco, Tunisia, Afghanistan, Bangladesh e Pakistan. Nel lungo testo della risoluzione, poi, si legge anche la condanna degli accordi di riammissione con Paesi terzi che non garantiscono il rispetto dei diritti umani e una tutela efficace contro la corruzione. «Rimettiamo al centro la solidarietà e i diritti fondamentali», ha detto l’eurodeputata di Possibile Elly Schlein.

Intanto in Italia…
Tutto questo mentre il Parlamento italiano prosegue dritto verso l’approvazione dei decreti Minniti-Orlando. Atti «blindati», hanno denunciato i deputati di Sinistra italiana Celeste Costantino e Daniele Farina, che hanno abbandonato i lavori in Commissione: «Abbiamo lasciato i lavori delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia per mettere fine a un rito non democratico su un decreto blindato, inemendabile, intoccabile e su cui il governo metterà la fiducia la prossima settimana. Sinistra Italiana è contraria alla giustizia su base etnica. I dispositivi contenuti nel decreto Minniti andavano cambiati ma se ne è negata a priori la possibilità. Bocciata ogni proposta diversa per la gestione dei flussi migratori e delle richieste di protezione internazionale. Il decreto Minniti ha sposato le linee di intervento delle destre italiane ed europee. Una cosa gravissima».

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La condanna delle politiche di Trump
È inequivocabile il giudizio sulle misure adottate da Washington. Il Parlamento europeo «esprime forte preoccupazione per la recente decisione con cui l’amministrazione degli Stati Uniti vieta temporaneamente ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana di entrare negli Stati Uniti e sospende temporaneamente il sistema di asilo negli Stati Uniti; ritiene che questo tipo di decisioni discriminatorie alimenti le argomentazioni xenofobe e anti-immigrazione, possa non essere conforme ai principali strumenti di diritto internazionale, ad esempio la Convenzione di Ginevra, e possa compromettere seriamente gli attuali sforzi globali verso un’equa ripartizione internazionale delle responsabilità per quanto concerne i rifugiati; invita l’Ue e gli Stati membri ad assumere una posizione comune forte nel difendere il sistema di protezione internazionale e la sicurezza giuridica di tutte le popolazioni colpite, in particolare i cittadini dell’Ue».

I dati sulle migrazioni
Tra le considerazioni del Parlamento, poi, troviamo un po’ di dati aggiornati. Dal quadro tracciato dall’Europarlamento – grazie ai dati forniti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) – emerge che, nonostante l’aumento dei salvataggi, il numero di morti nel Mediterraneo continua a crescere (5.079 nel 2016 e 3.777 nel 2015, secondo l’Oim). La mobilità umana ha raggiunto livelli senza precedenti: 244 milioni di persone emigrano volontariamente o involontariamente. Le migrazioni internazionali avvengono soprattutto nell’ambito della stessa regione e tra Paesi in via di sviluppo e i flussi migratori Sud-Sud continuano a crescere rispetto ai movimenti Sud-Nord: nel 2015 erano 90,2 milioni i migranti internazionali nati nei Paesi in via di sviluppo che risiedevano in altri paesi del Sud del mondo, mentre 85,3 milioni nati nel Sud risiedevano nei paesi del Nord del mondo;
Le donne migranti costituiscono la maggioranza dei migranti internazionali in Europa (52,4 %) e Nord America (51,2 %), e il numero di minori non accompagnati che attraversano il Mediterraneo è in costante crescita. Nel 2015, 65,3 milioni di persone (un numero senza precedenti) è stato obbligato a sfollare a causa di conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale nonché destabilizzazione: 40,8 milioni di sfollati interni e 21,3 milioni di rifugiati. Vite umane che si aggiungono a quelle degli sfollati a causa di calamità naturali, disuguaglianze, povertà, insufficienti prospettive socioeconomiche, cambiamenti climatici, mancanza di politiche adeguate. Negli ultimi cinque anni il numero di rifugiati è aumentato di oltre il 50 %. Infine, sono 6,7 milioni i rifugiati che vivono in situazioni di sfollamento protratto che, secondo le stime, si prolunga in media per 26 anni.

Cosa è successo ieri al Senato e perché Matteo Renzi è il principale indiziato per “l’incidente”

Matteo Renzi a un incontro nel quale ha presentato il ticket con Maurizio Martina per la segreteria Pd a Perugia, 26 marzo 2017. ANSA/ CROCCHIONI

Prima serve fare una breve cronaca per chi si fosse perso l’episodio o per chi, giustamente, non così addentro ai regolamenti parlamentari non avesse ben compreso il fatto, leggendo le sommarie ricostruzioni dei giornali, che si sono giustamente concentrati subito sulle reazioni politiche.

Lo hanno fatto, i giornali e gli editorialisti, perché in effetti quello che è accaduto ieri al Senato sarebbe stato un fatto più che marginale, in un altro momento. È successo questo: la presidente della commissione Affari costituzionale del Senato, Anna Finocchiaro, “nonna” se Boschi ne era la “madre” della riforma costituzionale, è stata come noto promossa, visto il successo, al governo, diventata ministro per i Rapporti col parlamento. Serviva dunque sostituirla, tenendo presente che il naufragar della riforma e dell’Italicum danno alla nomina un certo peso nel cammino della nuova legge elettorale (se ci sarà). Il Pd era convinto che non ci sarebbero stati problemi nell’eleggere Sergio Pagliari, uno dei suoi, renzianissimo. Che è stato però battuto, 16 a 11, in favore di Salvatore Torrisi, un alfaniano che ha fatto il reggente in questi primi mesi del governo Gentiloni. È sempre un membro della maggioranza e quindi non sarebbe nulla di grave.

Ma l’elezione – resa possibile dalla convergenza di opposizioni, alfaniani e bersaniani – è invece un caso politico. Perché se è vero che i bersaniani hanno così avuto modo di far notare il loro peso – senza di loro non ci sarebbe governo, salvo che il Pd non torni da Berlusconi – è vero anche che Renzi e i suoi hanno subito gridato al complotto, alla crisi, e messo in dubbio che Gentiloni possa così durare molto, chiedendo addirittura in un primo momento l’intervento del Colle – che generalmente non si disturba per cose così e per fatti che riguardano l’autonomia parlamentare.

Per Renzi l’occasione è insomma stata ghiotta – tant’è che c’è chi sostiene l’abbia ricercata – perché gli permette di creare un clima teso nei tempi giusti per preparare il terreno per eventuali accelerazioni dopo il voto delle primarie. «Punta al voto a settembre» dice Emiliano, che abbiamo intervistato la settimana scorsa, mentre questa vi proponiamo – in edicola da sabato – Andrea Orlando.

Una domanda, allora. Il Pd tra primarie, liti interne e referendum è veramente elemento stabilizzante della politica e della vita parlamentare? Non diamo noi la risposta, questa volta. (l’abbiamo suggerita con tante copertine dedicate alle contraddizioni di un partito omnibus) Suggeriamo però di chiedere un parere a Enrico Letta.

L’Italia lontana dall’Europa su aborto e fine vita

Rimandato a dopo Pasqua il nuovo step della ddl sul testamento biologico. Prima la resurrezione divina, poi, forse,  il 19 o il 20 aprile, faremo passi avanti nell’affermazione del diritto dei cittadini italiani ad una “morte opportuna” (l’espressione è di Welby), quando la malattia è ormai terminale. Così ha deciso l’Aula della Camera dove ieri è avvenuta una surreale discussione su una ridda di emendamenti al disegno di legge. Con interventi di crociati alla Buttiglione che confondono intenzionalmente i termini paventando che il biotestamento apra la strada al suicidio assistito e all’eutanasia. ( leggi Eutanasia, suicidio assistito, testamento biologico le differenze). Quando non ve n’è traccia in questa norma in discussione alla Camera che è quanto mai moderata, come abbiamo scritto e argomentato molte volte.

“La maggioranza Pd.M5s vuole introdurre l’eutanasia nel nostro ordinemento. Con questa legge  si riconosce il diritto  a poter morire per fame e di sete nella totale impotenza del medici, il quale diventerà un semplice necroforo. Stiamo denunciando in tutti i modi questa cultura della morte”. Così Alessandro Pagano della Lega Noi con Salvini. Lo citiamo per mostrare quanto siano prive di fondamento scientifico le argomentazioni dei conservatori cattolici che sietono nel Parlamento italiano.  Pagano sostiene che idratazione e alimentazione artificiale non siano trattamenti medici. Sembra di risentire gli anatemi dell’onorevole Quagliariello che urlava “assassini, assassini!”, sostendo che si volesse far morire di fame e sete Eluana Englaro, in stato vegetattivo permanente da oltre quindici anni dopo un grave incidente. Inascoltati dall’Aula furono allora gli interventi di medici e specialisti che ripetevano che per apportare idratazione e alimentazione artificiale occorre fare un intervento medico, fare un buco e inserire un tubicino. Cosa ben diversa da portare pane e acqua.  Ma i cattolici oltranzisti in Aula non intendono riconoscere questa banale evidenza, che li costringerebbe a rispettare la Costituzione: l‘articolo 32, infatti, prevede il diritto di rifiutare le terapie da parte del cittadino.

Visto l’ostruzionismo ingiustificato in Aula, l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica organizza una mobilitazione sabato 8 aprile una mobilitazione in 18 piazze italiane insieme a medici, infermieri e operatori sanitari per chiedere l’approvazione della legge sul biotestamento.

“Il Parlamento continua a trascurare sottraendosi all’urgenza di approvare una legge che regolamenti il fine vita, è anche la richiesta dei medici e della grande maggioranza degli italiani”  Lo chiede il 77% degli italiani se condo l’indagine SWG del dicembre 2016  “Le libertà individuali e civili”.

“Di fronte a questa urgenza sociale e per evitare che si affermi la strategia del rinvio continuo portiamo il testamento biologico nelle piazze: a Milano, Roma, Firenze e Bologna medici e notai saranno a disposizione dei cittadini per informarli e dare loro la possibilità di autenticare gratuitamente le proprie disposizioni anticipate di trattamento”, dice  Mina Welby, co-presidente dell‘Associazione Luca Coscioni, con  Matteo Mainardi, coordinatore della campagna Eutanasia Legale. “Perché al di là delle polemiche e di nozioni faziose che rispondono agli interessi dei partiti, è importante che i cittadini siano informati sui loro diritti e su come tutelarli. È importante che la legge venga approvata affinché le disposizioni anticipate di trattamento, che oggi hanno validità solo in un’aula di tribunale, diventino per legge vincolanti e che in questo modo al paziente sia garantito il rispetto della propria volontà”.

Intanto è arrivata a 1.000 firme la ‘Carta dei Medici per il Testamento Biologico’ promossa da Mario Riccio, l’anestesista rianimatore  che aiutò Piergiorgio Welby ( leggi l’intervista al dottor Riccio) , fra queste figurano come importanto come il Carlo Alberto Defanti ( lo specialista di fama internazionale  che seguiva Eluana Englaro), Michele Galluci, Fabrizio Starace e Alfredo Mazza.  Spicca anche la firma di  Roberta Chersevani, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (FNOMCeO), che considera il ddl sul testamento biologico in linea con il Codice Deontologico, auspicando che il testo venga approvato in questa legislatura. Oggi sulla testa dei medici  in Italia pende una spada di Damocle, occorrono” esenzioni di responsabilità civile o penale per il medico che rispetti la volontà del paziente”. Possono essere previste nel rispetto di tutte le posizioni in campo dal momento che, ribadisce  Chersevani  “il ddl sul testamento biologico non prevede alcun appiglio a derive eutanasiche,”.  Proprio la  mancanza di tutele, spiega il presidente della Federazione nazionale dell’Ordine dei medici, è la ragione per cui nonostante il 71% dei medici siano favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia, solo uno su due sarebbe disposto praticarla. Questo dato emerge con chiarezza dall’indagine di Sanità Informazione  su 1.609 medici italiani.

L’associazione Coscioni che lavora per portare al centro della politica la voce di malati inascoltati, ha anche promosso, insieme al senatore Luigi Manconi, la proiezione al Senato lo scorso 29 marzo di un film importante La natura delle cose. Racconta Il dramma che vivono i malati affetti da patologie devastanti come la Sla. Prodotto da Ladoc di Lorenzo Cioffi e diretto da Laura Viezzoli è il frutto di un anno incontri e dialoghi tra l’autrice e Angelo Santagostino, filosofo ed ex sacerdote malato terminale di Sla, che di fronte al progredire della malattia arriva a maturare l’esigenza di interrompere una vita che non gli appare più tale, avendo perso quasi ogni possibilità di relazionarsi con gli altri, essendo prossimo a perdere anche quel movimento degli occhi che gli permetteva di comunicare attraverso un apparecchio speciale.  Presentato in anteprima al Festival di Locarno, premio Corso Salani al Trieste Film Festival,  il fim arriva in sala a Napoli martedì 11 aprile alle 21 al cinema Pierrot a Ponticelli.  Il tour del film con Movieday proseguirà tra Milano, Roma, Torino, Mestre, Ancona e Urbino.

Dopo che l’Italia è stata bacchettata dal Consiglio d’Europa e dal Comitato per i diritti umani dell’Onu perché non garantisce i servizi di interruzione volontaria di gravidanza, dopo che la Regione Lombardia ha deciso di far pagare le visite nei Consultori anche alle ragazzine  ( leggi Visite a pagamento nei consultori lombardi), una buona notizia arriva dalla Regione Lazio guida data Zingaretti che, su spinta dell’associazione di ginecologi Amica ha accetatodi avviare una sperimentazione che prevede la somministrazione della Ru486 nei consultori. A dieci anni dall’immissione sul mercato di  questo farmaco per l’aborto farmacologico considerato sicuro  dall’OMS finalmente anche in Italia, come già accade in gran parte dell’Europa, le donne che decidono di interrompere la gravidanza potranno farlo anche senza l’obbligo del day hospital. 

La Toscana presto darà il via libera alla somministrazione della Ru486 nell’ex ospedale e poliambulatorio medico IOT, dove si pratica anche l’aborto chirurgico. L’Emilia Romagna ne farà una somministrazione ambulatoriale e nei consultori.

Mentre in tanti altri Paesi la Ru486 si può acquistare in farmacia, da noi l’introduzione di questo farmaco è stata a lungo ostacolata, fu il medico Silvio Viale ad avviare la battaglia per l’aborto farmacologico, molto meno invasivo di quello chirurgico, con la sperimentazione iniziata nel 2005, dopo il parere favorevole del Comitato Etico dellaRegione Piemonte, ma senza l’assenso del Ministero della Salute allora guidato da Sirchia e Storace. Nel dicembre 2009 la RU486 è stata legalizzata in Italia. Nell’aprile 2010 Viale e i suoi colleghi dell’Ospedale S. Anna di Torino hanno iniziato la somministrazione ordinaria del farmaco; in un anno hanno somministrato la pillola RU486 a 1.011 donne, il 25% delle IVG (interruzioni volontarie di gravidanza) avvenute nell’ospedale. La Regione Piemonte è al primo posto in Italia nella somministrazione della RU486.

Clima ed energia, perché siamo con l’acqua alla gola e come ne usciamo

Il 9 e 10 aprile l’Italia presiede il G7 Energia di Roma puntando tutto su sicurezza energetica, sostenibilità economica e crescita. Al tema del surriscaldamento globale, che negli Usa deve fare i conti con il rigurgito negazionista che anima le politiche e i tagli di Trump, è dedicato un generico riferimento che fa da sfondo a scelte politiche ancora troppo legate alle fonti fossili, gas in testa (ma a carbone e petrolio ancora non si dice un no secco). Eppure le consapevolezza sui danni del climate change e sull’inadeguatezza delle scelte attualmente in campo per raggiungere gli obiettivi fissati al vertice sul clima di Parigi del dicembre 2015 è ormai diffusa.

Siamo “con l’acqua alla gola” – come titola Left la copertina di questo punto da diversi punti di vista. Intanto quello letterale: il Mediterraneo si è innalzato di circa 30 cm negli ultimi mille anni rispetto ad un aumento più che triplo previsto nei prossimi 100 anni (dall’Ipcc dell’Onu). In Italia, ci dice la nostra Enea, 33 aree rischiano di finire sommerse dalla costa tra Trieste e Ravenna (con un innalzamnto da 90 a 140 cm) alle pianure della Versilia, di Fiumicino, del Pontino, del Sele e del Volturno, fino a Catania, Cagliari e Oristano.
Siamo con l’acqua alla gola anche quando abbiamo a che fare con gli eventi climatici estremi, quelli delle ultime settimane in Colombia e in Perù e quelli – mai così frequenti, ricorda il servizio di Martino Mazzonis – degli ultimi anni nel Nord America e non solo.

La colpa è dei cosiddetti gas serra, che le attività umane hanno fatto aumentare come mai prima. In 250 anni siamo passati da 280 parti per milione (ppm) di anidride carbonica in atmosfera alle oltre 405 attualmente rilevate dalla Nasa e dalla Noaa. E 25 anni fa eravamo ancora a 356 ppm, il 14% in meno. Mai, i carotaggi nel ghiaccio antartico, c’era stata una così alta concentrazione di CO2 da un milione di anni (ma gli scienziati ci dicono che probabilmente non avveniva da 20 milioni di anni).

Su Left in edicola proviamo a raccontare cosa accade al Pianeta, ma soprattutto che cosa si sta facendo (ancora poco) e si potrebbe fare per invertire la rotta. Vi raccontiamo perché la Strategia energetica in arrivo – e in particolare il documento che il ministro dello Sviluppo economica Calenda presenterà al G7 Energia di Roma – sono ancora molto timidi, ancorati al rispetto degli obiettivi fissati dall’Ue, e non imprimono un’accelerata alla transizione energetica in corso. Di questa transizione diamo conto con un approfondimento di Pietro Greco sulle dinamiche globali delle ecoenergie, che vedono la Cina a fare la parte del leone, e attraverso un dialogo di Michela Ag Iaccarino con Bill McKibben, uno dei più influenti ambientalisti degli Usa, tra queli che hanno fermato la Keystone Pipeline prima che Trump la resuscitasse e che ora prova a fermare la lobby del carbone e del petrolio. Perché siamo con l’acqua alla gola, ma se si lavora davvero per fermarla il pericolo sventato potrebbe addirittura diventare un’opporunità.

 

Ne parliamo su Left in edicola

 

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Se anche la politica è fake

Questa volta il messaggio si è evoluto. Niente tweet “stai sereno” e nemmeno rassicurazioni sorridenti come successe per Letta; ora il disarcionamento del Presidente del Consiglio (pur di sfamare le ambizioni personali di Renzi e compagnia) avviene con un logorio più sotto traccia, sottile: la sconfitta del candidato PD Pagliari ieri alla presidenza della Commissione Affari Costituzionali a favore dell’alfaniano senatore Torrisi è solo uno de tanti granelli infilati nel governo per provocarne lo stallo.

Un ballo dei pupi in piena regola. Il sempiterno Alfano ha il coraggio di dire che «l’elezione di Torrisi a presidente della commissione Affari Costituzionali è senz’altro un segno di stima da parte dei colleghi per il lavoro svolto in questi anni», come se non sapesse che il suo partito è stato utile e apprezzato come un muro quando si gioca di sponda e niente di più.

I capigruppi del Pd Zanda e Rosato fingono di non sapere che l’evento sia una pinta di cianuro servito a Gentiloni e cercano di buttarla in caciara dichiarando: «Il fronte politico che oggi si è formato per l’elezione del nuovo presidente della Commissione Affari Costituzionali al Senato riunisce in una singolare unità tutta l’opposizione, da Forza Italia ai Cinque Stelle passando per la Lega Nord. A voto palese litigano e si insultano, a voto segreto si muovono insieme. Oggi a questo inedito nuovo fronte si sono aggiunti, lo dicono i numeri, pezzi di maggioranza. Certamente non del Pd». Come dire: è colpa di tutti tranne noi. Come i bambini all’asilo.

Renzi (come al solito irraggiungibile nella simulazione della post verità) dichiara addirittura: «Che tristezza, mettono gli interessi personali davanti all’interesse del Paese».

Fingono di fare politica e sono convinti che da fuori gli si creda. E così anche la politica è fake.

Buon giovedì.

La Fotonews | L’oppio è ancora centrale per l’economia afgana

Photo NOORULLAH SHIRZADA/AFP/Getty Images

Siamo a Surkh Rod e un membro delle forze di sicurezza afghane distrugge parte di un campo coltivato a papavero da oppio. Lo scorso anno la produzione di oppio in Afghanistan è aumentata di circa il 43%. Secondo Unodc (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) l’aumento annuale sui livelli 2015 è dovuto in parte alla crescita, stimata attorno del 10%, della superficie coltivata, passata da 183.000 a 201.000 ettari.

L’Unodc ha stimato che la produzione del 2016 è pari a 4.800 tonnellate, e ha sottolineato un’ “inversione di tendenza preoccupante” negli sforzi per combattere i commerci di droghe illegali.

La coltivazione di oppio in Afghanistan è in aumento da 10 ani a questa parte, nonostante la caduta del 2015 causata dalla siccità, alimentata dall’insurrezione dei talebani, dalla diffusione e dall’aumento della tossicodipendenza.

Secondo le statistiche questo il terzo più alto livello di coltivazione in Afghanistan in due decenni, a seguito di livelli record nel 2013 e 2014. Nelle scorse settimane i talebani hanno conquistato alcune zone in cui l’oppio viene coltivato e Mosca incontra la leadership del gruppo militante e sostiene le domande di ritiro delle truppe straniere.

L’orrore di Idlib piomba sulla conferenza di Bruxelles (e perché abbiamo bandito le armi chimiche)

epa05888121 An Injured child receives treatment in a field hospital after airstrikes by forces allegedly loyal to the Syrian government, rebel-held Douma, Syria, 04 April 2017. More than 30 people got injured and one got killed. EPA/MOHAMMED BADRA

Sapremo mai cosa è successo a Khan Sheikhoun, nei pressi di Idlib e perché uomini, donne e bambini sono morti uccisi dal gas nervino? Probabilmente no. Non prima che la guerra combattuta e quella di propaganda saranno finite. I talking points delle parti sono identici a ogni tornata: Assad è un assassino brutale contro È un complotto dei ribelli e dei poteri forti contro Assad e Putin. Sarà bene rimettere in fila un po’ di informazioni di breve, lungo e medio periodo per fare il punto. Ricordando però che da Idlib sono arrivate e arrivano immagini terrificanti scattate anche dai fotografi delle principali agenzie giornalistiche. Che certo, possono essere di parte, ma il cui lavoro viene verificato da chi lo paga.

E ricordando anche che Isis e una parte dei ribelli pure commettono crimini di guerra e orrori. Con una differenza cruciale: quello di Assad è un governo nazionale che agisce in teoria dentro le regole internazionali di guerra e rispetta i trattati. Non è così per i gruppi salafiti, che dell’ordine internazionale se ne infischiano. La differenza è importante: se è tutto valido, gli omicidi mirati di nemici, la tortura sui qaedisti, le extraordinary renditions degli americani sono valide anche loro. E non lo sono.

Le versioni dell’accaduto

Un certezza la abbiamo: a Idlib le armi chimiche c’erano. La versione russa è infatti che le bombe di Assad siano cadute su un deposito di armi chimiche in mano ai ribelli. Versione che giunge dopo le smentite di Assad e ore in cui si è parlato di immagini false. Insomma, siamo alle solite e la campagna di propaganda accompagna quella militare come nemmeno nei peggiori anni di George W. Bush avevamo visto.

«Il territorio colpito ospitava un impianto di stoccaggio e laboratori per la produzione di proiettili riempiti di agenti tossici», ha sostenuto il generale russo Konashenkov, portavoce del Ministero della Difesa. Questo significa che, a differenza di quanto sostenuto in un primo momento, aerei di Mosca hanno partecipato al raid.  Nel 2013 Mosca aveva parlato dell’attacco al Sarin come di un tentativo di far precipitare la situazione e far intervenire gli americani.

Il comandante ribelle Hasan Ali Haj ha invece detto a Reuters che la tesi russa è «una menzogna», spiegando che i ribelli non hanno gli strumenti necessari per costruire armi chimiche. «Tutti hanno visto l’aereo che sparava gas.

L’altra novità è la condanna di Trump, che chiama l’attacco “ignobile” e, poi, attribuisce la colpa dell’attacco a Obama, che dopo aver tracciato linee rosse non agì. Agirete? È stato chiesto a Sean Spicer, portavoce di Trump, «No, ma abbiamo una posizione diversa sulla Siria», ha risposto. Quale questa sia è difficile da capire. Attaccare Obama dopo un fatto tanto tragico riporta la posizione americana a mera bassa cucina di politica interna. Peccato.

La conferenza sulla Siria, oggi a Bruxelles

La conferenza di Bruxelles

Oggi e domani nella capitale belga si riuniscono 70 Paesi con interessi diversi e senza u piano chiaro. La strage chimica di Idlib non fa che rendere più complicata l’individuazione di qualcosa che somigli a una transizione. Gli Usa e la Russia sembrano infischiarsene del destino di Assad, che pure condannano (i primi) e voler mantenere Assad al potere (i secondi), a prescindere da cosa questo significherebbe. La posizione dell’Europa è più sfumata, con Londra e Parigi molto duri contro il regime e un comunicato dei 27 che parla di “transizione politica” perché sono tutti i siriani a dover decidere.

L’inviato speciale Onu ha parlato con regime e opposizione in questi giorni e non vede all’orizzonte nessun accordo di pace, semmai qualche cessate il fuoco, corridoi, pause. L’alto rappresentante europeo Mogherini e lo stesso de Mistura incontreranno anche gruppi della società civile siriana, la cui partecipazione a qualsiasi accordo e ricostruzione e cruciale. In Libia, ma anche in Iraq (situazione molto diversa) si è spesso teso a coinvolgere solo chi spara nei processi di accordo nazionale. Questo significa attribuire troppo peso a chi ha fatto del male ed è armato ed escludere chi nel frattempo ha lavorato per fare informazione, aiutare, distribuire cibo, aiuti e così via. L’errore si vede solo dopo: questi gruppi, come i poteri locali, possono essere un pilone determinante per la ricostruzione, per il futuro del Paese. Oggi il capo dei Caschi Bianchi, Rahed al Saleh scrive un articolo su The Guardian nel quale sostiene che Assad non va incluso in nessuna transizione. È una posizione perdente: Assad sarà in qualche modo parte di qualsiasi transizione. Ma il tono dell’articolo di Saleh, difficilmente ce lo fa immaginare come un feroce jihadista, come spesso viene dipinto lui e il suo gruppo dai sostenitori (anche italiani) di Assad.

Difficilmente a Bruxelles vedremo risultati: la Turchia guarda in cagnesco l’Europa per la tensione con Germania e Olanda sui comizi per il referendum che cambia la costituzione in favore di Erdogan, l’Iran e gli Stati Uniti sono ai ferri corti e l’America di Trump sembra non avere a cuore il ritorno della pace in Medio Oriente – quella di Obama ha invece sbagliato ogni mossa per riportarcela.

Le armi chimiche

«Ricordiamo visioni terribili in ospedale, i pazienti in cura per il gas che, soffocando, tossivano i loro polmoni bruciati in grumi». È una traduzione fatta male di un passaggio di “Niente di nuovo sul fronte occidentale” Di Erich Maria Remarque e descrive l’orrore delle vittime di attacchi da gas nella Prima guerra mondiale. Molti i morti, ancora di più coloro che riportarono danni permanenti alle vie respiratorie negli anni a venire. In teoria l’uso dei gas era proibito già prima di allora dalla convenzione dell’Aja del 1899. Nel 1925, memori degli orrori della Grande guerra, la convenzione di Ginevra le bandisce, Hitler non le userà nonostante le avesse. E nel 1993 Stati Uniti e Unione Sovietica si accordano per smantellare gli arsenali che nel frattempo avevano accumulato. Restano alcuni regimi che ne fanno uso e le posseggono. Uno è Saddam Hussein, che le usa contro i curdi e l’Iran. Un’altra è Assad, che prima dell’attacco dell’agosto 2013 (di cui ha accusato i ribelli) non aveva mai ammesso di possedere un arsenale chimico.

Nel 2013 il regime lanciò un attacco contro Ghouta fuori Damasco e nonostante l’ultimatum lanciato da Obama, la linea rossa non valicabile (quella dell’uso di armi chimiche, ad esempio), gli Stati Uniti non si mossero. L’inazione di Obama allora, che smentisce molte delle teorie che vogliono negli Usa la mano dietro la guerra civile siriana, è forse una delle cause del disastro a cui assistiamo. Obama, all’epoca, accettò l’idea di uno scambio: resto fermo, Assad smantella il suo arsenale. Già, ma chi avrebbe fatto le verifiche del caso? Il processo di trasferimento e di verifica dell’arsenale da parte degli ispettori Onu non è filato molto liscio e questi sono i risultati.

In diverse occasioni, anche dopo l’accordo sulle armi chimiche con Assad, fotografi Reuters hanno visto feriti con sintomi da attacco da gas contenenti cloro e recipienti metallici gialli di forma identica a quelli prodotti da una impresa cinese che costruisce armi. Il cloro non è una sostanza proibita dalle convenzioni, ma può essere usato come arma chimica. Ma è pur vero che i sintomi dell’attacco di Khan Sheikhoun sembrano essere da Sarin, molto più pericoloso e terribile e che nell’aria, dicono i testimoni, non ci fosse puzza di cloro. Il Sarin colpisce il sistema nervoso e attraversa anche l’epidermide, rende difficile la respirazione e provoca la perdite del controllo delle funzioni corporee. Una cosa importante: una maschera anti gas e una tuta isolante costano poco e i militari in genere ne hanno una se coinvolti in guerre dove gli agenti chimici si utilizzano. A pagare il prezzo più caro sono i civili. In questo caso molti bambini, le cui foto, non dovremmo dimenticare mai.

Siriani manifestano contro i russi a Istanbul dopo la notizia dell’attacco

Siria chimica: Erode si è fermato Idlib

epa05887491 A video grabbed still image shows Syrian people receiving treatment after an alleged chemical attack at a field hospital in Saraqib, Idlib province, northern Syria, 04 April 2017. Media reports quoting the British war monitor Syrian Observatory for Human Rights state an alleged chemical attack in the rebel-held area of Idlib province on 04 April killed at least 58 people, including 11 minors, and wounded dozens others. EPA/STRINGER

«È stato Assad!» gridano tutti. Come se il mondo (e ancora di più la Siria) potesse essere il tavolo banale su cui giocano i buoni contro i cattivi, come se poi non ci fossero anche i morti di Mosul, come se lo Yemen invece fosse solo la cloaca dei morti di serie b oppure come se la fabbricazione di armi non sia un ricco banchetto tutto occidentale.

Nell’ordine di qualche ora la colpa dei bambini gasati è stata affibiata a Assad, ai ribelli, a Obama (da Trump), all’ONU, a Putin, più qualche manciata di scenari apocalittici dei complottisti rossobruni più affilati. Tutti alla ricerca di un nemico unico che sia riconoscibile, facile e banalmente tranquillizzante.

Molti con le risposte, pochi con le domande. Francesco Vignarca, ad esempio, scrive: «La parte preponderante di colpa per i terribili attacchi chimici avvenuti in Siria è in chi ha lanciato tali ordigni. Ma non è secondaria nemmeno la colpa di chi ha fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi. E vale per qualsiasi armamento, in ogni guerra. Troppo facile pensare che i “cattivi” siano solo quelli dell’ultimo pezzettino del viaggio tra l’ideatore di un’arma e la vittima finale…». Già, chi ha ” fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi”? Tornando indietro nel tempo, chi ha appoggiato festante le “primavere arabe”?

Oppure, per restare in tema, se il nostro premier Gentiloni dichiara “stop alle armi chimiche” poiché sono “un crimine contro l’umanità” perché non fermare anche le bombe che partono dall’Italia sotto gli occhi di tutti?

A quelli che chiudono la porta ai siriani al grido “aiutiamoli a casa loro” cosa viene in mente, oggi?

Se davvero Assad ne è il responsabile vale la pena turarsi il naso e “sopportarlo” in nome della lotta contro l’Isis? Esistono quindi despoti comodi?

La guerra è terribilmente complessa. Sempre. E noi ne siamo coinvolti. Sempre. Più di quello che ci piacerebbe credere. Beati coloro che serbano la convinzione di possedere la lente per dividere il mondo in buoni buoni e cattivi cattivi.

Erode ride. I bambini, intanto, muoiono. Ma sono puliti e immobili che non sembrano nemmeno morti.

Buon mercoledì.

 

Damasco accusata di usare (di nuovo) gas nervino. Decine di morti a Idlib

TOPSHOT - A Syrian man and girl flee past a man carrying a folded stretcher following a reported government air strike on the rebel-controlled town of Hamouria, in the eastern Ghouta region on the outskirts of the capital Damascus, on April 4, 2017. / AFP PHOTO / ABDULMONAM EASSA (Photo credit should read ABDULMONAM EASSA/AFP/Getty Images)

Vorremmo le prove, ma in territorio di guerra, le prove non le avremo. Anzi, avremo lo scambio di accuse e la notizia che, no, l’attacco chimico siriano-russo su Khan Sheikhun nei pressi di Idlib non c’è stato. Eppure le foto terribili di bambini con gli occhi sbarrati che vediamo arrivare dall’area, nonché numerose testimonianze ci fanno purtroppo, ritenere il contrario. Naturalmente, in una guerra di propaganda che sembra non avere fine né limiti, c’è già chi parla di foto false, ricorda la provetta agitata da Colin Powell nel 2003 per giustificare l’intervento in Iraq.

I fatti: nella città ultimo bastione dei ribelli salafiti siriani, ma non solo, ci sono 58 nuovi morti e un centinaio di feriti causati da un bombardamento di aerei siriani. Molti morti sono bambini e la foto di un gruppo di loro con gli occhi sbarrati rimarrà a lungo negli occhi di chi l’ha vista. Diversi testimoni, di parte ma non solo, raccontano di segnali chiari di come l’attacco sarebbe stato portato a termine con armi chimiche. Le autorità siriane negano l’uso di gas: «Non ne abbiamo usate oggi né mai, perché non ne abbiamo» è la linea ufficiale. Una linea discutibile se è vero che rapporto delle Nazioni Unite pubblicato lo scorso ottobre segnala come le forze governative abbiano usato cloro in un attacco su Qmenas nel marzo 2015 e su Talmenes nel marzo 2014. Nel marzo 2015 i rapporti dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche parlano di attacco al sarin e di uso di gas allo zolfo da parte dello Stato Islamico.

Nelle ore successive, aerei hanno colpito anche ospedali e cliniche intasati dai pazienti.

Le testimonianze: Hussein Kayal, un fotografo pro-opposizione ha detto ad Associated Press di essere stato svegliato dal rumore di un’esplosione alle 6.30 del mattino, nel luogo del bombardamento non c’era odore ma diverse persone sul pavimento, paralizzate o con le pupille contratte. Mohammed Rasoul, capo di un servizio  ambulanze (e quindi probabile membro dell’opposizione), ha parlato alla Bbc di diversi bambini soffocati in strada. I centri medici parlano di sintomi tipici dell’avvelenamento da gas per diversi pazienti e un giornalista di France Press riferisce di una ragazza, una donna e due anziani morti tutti con la schiuma tipica di chi muore per gas visibili ai bordi della bocca. Nell’agosto del 2013 nel sobborgo di Damasco di Ghouta, quando Obama parlò di linea rossa da non oltrepassare per poi non muovere un dito, si registrò un attacco simile che fece un numero imprecisato di morti. Si parlò di almeno 300, forse erano più di mille.

La Sirian American Medical Society, che aiuta gli ospedali nelle aree controllate dall’opposizione spiega che i suoi medici segnalano sintomi dei pazienti tipici dell’esposizione ai composti di fosforo come il sarin nervino, vietati dalla convenzione sulle armi chimiche. Una quindicina di pazienti sono stati evacuati in Turchia, dove ci sono ospedali in grado di curare gli effetti del gas nervino.

Un attacco di questo genere segnala che il regime di Assad è sicuro della propria posizione. Dopo aver liberato Aleppo dai ribelli e in una fase di relativo cessate-il-fuoco (che non include le zone controllate dall’Isis e dai qaedisti) il fatto di potersi permettere di utilizzare i gas è un guanto di sfida al mondo. “Avete bisogno di me e qui faccio come dico io” sembra dire Assad. In risposta all’attacco, la Francia e la Gran Bretagna hanno chiesto una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza Onu, mentre Erdogan ha telefonato a Putin per condannare quanto accaduto e minacciare di far saltare il processo di pace in atto. In questo caso, quello che è uno dei protettori principali di alcune delle fazioni ribelli, cerca la mediazione e le pressioni di Mosca affinché il regime di Damasco utilizzi il buon senso.

La sfida di Assad, in questo caso, sarebbe doppia: a Bruxelles è in corso una conferenza voluta dall’Unione europea – e con la presenza di 70 Stati – che apre ad Assad come interlocutore. Ma dopo le notizie di oggi, l’alto rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, non poteva non parlare di «attacco orribile» e di «oggettive responsabilità del regime siriano». Una novità in un consesso simile. Ma evidentemente a Damasco delle posizioni europee non interessa. Assad è molto sicuro di sé.

Dati Ocse Pisa, quello che la ministra dell’Istruzione Fedeli non dice

Valeria Fedeli in una foto d'archivio. ANSA / CIRO FUSCO

Nei giorni scorsi grandi titoli di giornali – dopo un bombardamento continuo di critiche – hanno salutato improvvisamente la scuola italiana come la più “inclusiva” d’Europa, un luogo di formazione dove le diseguaglianze sociali vengono abbattute. Anche la ministra dell’Istruzione ha celebrato i dati Ocse, trascurando di menzionare una parte della ricerca, quella Piaac da cui si evince che gli stessi studenti che a 15 anni avevano dimostrato buoni risultati pur provenendo da famiglie disagiate, 12 anni dopo finiscono nel gorgo dell’analfabetismo di ritorno o comunque in un gap formativo. Ospitiamo l’analisi di Bruno Moretto, segretario del Comitato bolognese scuola e costituzione.

Gli articoli comparsi nella maggior parte dei quotidiani e i servizi televisivi hanno montato una bufala, accreditando il fatto che una ricerca dell’Ocse avrebbe decretato il primato della scuola italiana in Europa sul terreno dell’inclusione. Sul tema sono intervenuti l’ex premier Renzi, la neo ministra Fedeli e Francesca Puglisi (responsabile scuola del Pd ndr) cercando di accreditarsi il merito di questi risultati.
Prima di tutto bisogna avere chiaro che la ricerca in questione confronta i risultati degli studenti quindicenni sottoposti ai test Pisa in comprensione del testo, matematica e scienze nel 2000 con quelli ottenuti dalla stessa coorte di individui nel 2012 (test Piaac) ovvero 12 anni dopo, quando questi dovrebbero essere inseriti in un’attività lavorativa. La ricerca ha quindi lo scopo di valutare le tendenze di lungo periodo dei vari Paesi nel campo delle competenze ritenute strategiche per lo sviluppo economico e scientifico. La ricerca studia in particolare questi esiti in base alle condizioni socio economiche delle famiglie di riferimento. Lo studio mostra che nella maggioranza dei Paesi l’intervento della scuola compensa fino ai 15 anni lo svantaggio derivante dalla provenienza famigliare, ma che successivamente, anche a causa della maggiore eterogeneità di esperienze e possibilità alla fine della scuola dell’obbligo (formazione professionale, università, entrata nel mondo del lavoro) si osserva un allargamento della forbice nelle competenze tra classi sociali. Chi perde sono più spesso gli studenti non altamente dotati accademicamente che vengono da famiglie svantaggiate.
Questo grafico spiega il contenuto della ricerca:

Per quanto riguarda l’Italia i rapporti del centro di ricerca Ocse Pisa hanno evidenziato fin dal 2000 che la scuola italiana dell’obbligo ha una vocazione sociale che la porta ad essere più inclusiva di quelle di altri Paesi. Anche il rapporto 2015 conferma questa tendenza storica che deriva dalla sua impostazione originaria di una Istituzione avente il compito di dare attuazione all’art. 3 della nostra Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.”

I dati Ocse 2015 evidenziano il rapporto di probabilità che ha uno studente 15 enne di condizioni socioeconomiche basse di ottenere risultati scarsi rispetto a uno di condizioni economiche alte. L’Italia si colloca leggermente sotto la media.
Ma come già detto i problemi sorgono principalmente dopo i 15 anni visto che dallo studio emerge che fra i 27 enni l’incidenza delle condizioni socio economiche sulle competenze è decisamente sopra la media.
D’altra parte l’Italia nel 2016 risulta il 16% di studenti ha lasciato gli studi mentre la media europea è pari al 10%. La percentuale di diplomati nella fascia di età 25-34 è del 71% contro la media Ocse dell’82. E siamo il fanalino di coda anche per numero di laureati.
In conclusione bisognerebbe occuparsi di più degli anni di transizione tra la fine della scuola dell’obbligo e l’età dei circa 30 anni che sono importantissimi per sviluppare conoscenze. Sarebbe pertanto necessario che il governo si occupasse seriamente di garantire l’accesso ai corsi universitari dei più svantaggiati. Al contrario, negli ultimi anni le borse di studio ai bisognosi e meritevoli sono state ridotte in modo sensibile così come è calato il numero degli iscritti all’Università.
E nessun intervento è stato prodotto per incentivare le aziende a proseguire l’attività di formazione anche culturale dei propri dipendenti. L’ultima riforma ha poi resa obbligatoria la cosiddetta alternanza scuola lavoro per tutti gli studenti del triennio superiore scaricando l’incombenza sulle scuole senza preoccuparsi di garantire agli studenti un inserimento realmente formativo. In tal modo migliaia di studenti sono stati utilizzati dalla aziende per sostituire il personale in lavori di bassa qualificazione.
Invece di intervenire nel post scuola tutti i governi degli ultimi anni hanno puntato sulla scuola producendo riforme che hanno avuto come comun denominatore la riduzione delle risorse pubbliche investite proprio nei segmenti della scuola di base che sono stati decisivi per garantire l’uguaglianza delle opportunità. Basti ricordare l’introduzione del sistema integrato pubblico privato nella scuola dell’infanzia che ha prodotto la riduzione del numero di bambine e bambini accedenti a questo grado scolastico, che anche l’ultima riforma in atto tende a ridurre al rango di servizio a domanda.
E la riduzione del tempo pieno nella scuola elementare e media a partire dalla riforma Gelmini del 2008 che continua ad essere negato a migliaia di alunni, senza alcuna inversione di tendenza. L’ultima riforma cosiddetta Buona scuola ha avuto come scopo primario l’inserimento della competizione, della meritocrazia, della valutazione, in una struttura che si fonda sulla cooperazione, andando pertanto in controtendenza rispetto alla funzione egualitaria da cui è nata la scuola pubblica democratica.
Non a caso nel famoso rapporto “La buona scuola” del settembre 2014 non compare neppure una volta la parola “uguaglianza”. Una riforma della scuola che ha preso a modello quello tedesco che è molto discriminante socialmente come si evince da tutti i dati, ma che poi è in grado di recuperare il gap grazie alla funzione formatrice che si svolge ad esempio nelle aziende.
In conclusione si può affermare che i governi degli ultimi 20 anni si sono occupati troppo di scuola e secondo una visione aziendalistica e molto poco del post scuola e ogni intervento è stato dettato non dalla necessità di garantire a tutti l’esercizio dei principi di uguaglianza e solidarietà a fondamento della nostra Costituzione e della possibilità di uno sviluppo del nostro paese nella società della conoscenza, ma dall’esigenza di ridurre i costi dell’istruzione.