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Il tifo sui morti? No, grazie, la solidarietà non russa

epaselect epa05886383 A Russian man lays flowers to pay respect to the victims of an explosion at a metro station in Saint Petersburg, Russia, 03 April 2017. According to reports, at least 10 people were killed and dozens were injured in an explosion in the city's metro system. Russia's National Anti-Terrorist Committee said that the explosions hit a train between Sennaya Ploshchad and Tekhnologichesky Institut stations, media added. An anti-terror investigation is underway. EPA/TILL RIMMELE

La ferocia come legittima difesa? No. Grazie. Vale dentro un piccolo bar di campagna, vale dentro la tabaccheria rapinata, vale a San Pietroburgo, vale ovunque dove ci siano vittime che non hanno nulla a che vedere con le guerre che si giocano sopra le loro teste o sotto i piedi.

Alla notizia dell’esplosione nella metropolitana di San Pietroburgo (11 morti finora, all’ora in cui scrivo) insieme alle ovvie farneticanti felicitazioni di terroristi e paraterroristi si è dispiegata anche una certa malcelata soddisfazione per la punizione che quei morti indirettamente avrebbero compiuto nei confronti di Putin.

È il solito giochetto di chi convinto delle proprie ragioni crede di avere diritto a una ferocia, chissà perché, più nobile della ferocia degli altri. Quando il dramma succede per quelli che politicamente o umanamente sentiamo più vicini diventiamo ipersensibili alle ombre della solidarietà troppo timida o simulata mentre se accade per qualcuno che non amiamo allora lasciamo spuntare le unghie e affiliamo i canini.

No, grazie. Grazie, no. Sarò banale e buonista nel ricordami che morire per una bomba sia terribilmente crudele e ingiusto in qualsiasi nazione. Sarò miope nel credere ancora, ed esserne fermamente convinto, che un rivolo di sangue non abbia mai giustificazioni. Mai.

Mi interessano quegli undici corpi interrotti nella routine di una giornata di lavoro. Quelli. E se qualcuno ha intenzione di sventolare i cadaveri per un battaglia politica cedendo alla ferocia allora significa che il terrorismo ha già vinto, prima ancora delle bombe.

“La vendetta è una specie di giustizia primitiva alla quale, quanto più la natura umana ricorre, tanto più la legge dovrebbe mettere fine”, scriveva Francis Bacon. E sarebbe da ripeterselo tutto il giorno.

Buon martedì.

Raffaello, ricerca e studio dell’antico. Al cinema, la sua arte, in 3D

Raffaello in 3 d

È bello poter tornare ad ascoltare il direttore Antonio Natali, sentirlo parlare con la consueta eleganza e profondità del Rinascimento fiorentino, nel film Raffaello il principe delle arti   che da stasera al 5 aprile NexoDigital presenta in molte sale italiane. Ripercorrendo la formazione fiorentina dell’Urbinate, che fu accolto amichevolemente da Leonardo, che gli volle mostrare l’opera a cui teneva di più, quel misterioso ritratto della Gioconda da cui il giovane artista marchigiano rimase stregato. La rappresentazione dei “moti dell’animo”, la dinamica degli affetti, quella ricerca sull’invibile che rendeva vivi i volti nei quadri del maestro da Vinci, divenne il nuovo campo di studi di Raffaello che la declinò nella grazia femminile di Madonne con il bambino che non avevano nulla di sacro e di ieraticamente distante.
Questo film costruito in modo rigoroso dipanando il filo della storia, con interviste ai maggiori studiosi del Rinascimento e spettacolari immagini in 3D, ripercorre la breve e folgorante carriera di Raffaello fin dall’infanzia. Dopo la perdita della madre quando aveva solo 8 anni, a 11 anni, Raffaello perse il padre, dal quale aveva mutuato la passione per l’arte, ma anche per la scrittura. Da questo lungometraggio che mescola ricostruzione storica e inserti cinematografici emerge un ritratto a tutto tondo del pittore e dell’uomo Raffaello, che non fu genio solitario come Leonardo né tanto meno un artista introverso come Michelangelo dal quale cercò di apprendere la rappresentazione del movimento e la torsione dei corpi. Con ogni mezzo. Al punto di arrivare con la complicità di Bramante a spiare di nascosto il lavoro del Buonarroti, mentre affrescava la Cappella Sistina, come ricorda questo docufilm ricco di particolari biografici, realizzato da  Sky, Musei Vaticani e Nexo Digital, in collaborazione con Magnitudo Film. L’ex enfant prodige Raffaello aveva l’umiltà di confrontarsi con i grandi maestri, cercando il modo per emularli ed arrivare a una propria visione, ad un proprio modo rappresentare i soggetti sacri e profani. Pur  all’interno di una precisa poetica che puntava alla somma sprezzatura, cercando un effetto di semplicità e leggerezza, Raffaello non smise mai di sperimentare.  Con la Madonna del baldacchino arrivò ad una cifra altissima e poetica  ma anche – cosa insolita per lui cresciuto alla scuola del disegno tosco-emiliano – a sperimentare con il colore,  regalando una «impaginazione sinfonica» a questa pala originariamente destinata alla  brunelleschiana chiesa di Santo Spirito a Firenze.

Con la Madonna Sistina, poi, si aprì alla teatralizzazione dell’azione scenica, quasi anticipando il barocco  (e dipingendo quei due  indimenticabili angeli putti che, appoggiati alla balaustra, «guardano distratti e un po’ annoiati la scena sacra», come nota  l’ex direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci).  Per quanto le parti recitate risultino un po’ deboli questo film ha il grande pregio di raccontare molti aspetti della poliedrica personalità di Raffaello, compreso l’amore per l’antichità pagana e per lo studio che portò il Divin pittore non solo ad esplorare la Domus Aurea, ricavandone ispirazione per le grottesche della Loggia di Psiche nella dimora romana di Agostino Chigi, ma anche a scrivere con Baldassar Castiglione  una famosa lettera a Leone X  in cui l’artista si scagliava  perfino contro uno dei suoi maggiori mentori, papa Giulio II,  perché  (come e più di gran parte dei suoi predecessori) aveva saccheggiato i marmi antichi per costruire monumenti cristiani e celebrativi del papato.

Prima di morire a soli 37 anni Raffaello riuscì anche ad essere un grande soprintendente, consapevole del valore universale dell’arte e pronto a battersi per la sua salvaguardia anche andando contro i poteri più forti.

Il terrore arriva a San Pietroburgo

Emergency services personnel and vehicles are seen at the entrance to Technological Institute metro station in Saint Petersburg on April 3, 2017. Around 10 people were feared dead and dozens injured Monday after an explosion rocked the metro system in Russia's second city Saint Petersburg, according to authorities, who were not ruling out a terror attack. / AFP PHOTO / Olga MALTSEVA (Photo credit should read OLGA MALTSEVA/AFP/Getty Images)

Un’esplosione nella carrozza della metropolitana in viaggio tra due stazioni. L’orrore colpisce San Pietroburgo nel giorno in cui il presidente Putin fa visita alla città perla della Russia. La causa dell’esplosione, tra le stazioni Sennaya Ploshchad e Tekhnologichesky Institut, è ancora da definire nel senso che il tipo di ordigno usato non è ancora stato identificato. Un’altro ordigno è stato individuato in un’altra stazione della metro. Si parla di almeno 10 persone morte e di 50 feriti. Ma il russo Comitato nazionale anti-terrorismo, dice il bilancio delle vittime è di nove, con 20 feriti
Il presidente Putin, che nel frattempo ha lasciato la città, ha detto tutte le cause, terrorismo compreso, sono oggetto di indagine.

Il video postato su Instagram pochi minuti dopo l’esplosione mostra i soccorsi in arrivo

Che si tratti di un attentato terroristico è però quasi certo. La Russia aveva già conosciuto questo tipo di attacchi, a Mosca nel 2010 due donne kamikaze cecene si erano fatte saltare in due diverse stazioni della metropolitana. Nel 2011 era stato l’aeroporto di Domedovo, non lontano da Mosca, a essere preso di mira. In entrambe quelle occasioni i morti furono quasi quaranta. Nel 2009, una bomba era invece esplosa su un treno ad alta velocità in viaggio tra Mosca e San Pietroburgo, uccidendo 27 e ferendone 130.

Tutti questi attacchi sono stati rivendicati da gruppi islamisti, che il terrorismo in Russia è figlio delle brutali guerra condotte da Mosca in Cecenia e della tensione separatista – e spesso islamista – in Daghestan e in generale dalle vecchie repubbliche sovietiche a forte presenza musulmana – in Afghanistan e altrove gli uzbeki sono una parte importante dei foreign fighters. Ceceni combattono in Siria, Iraq e altrove dove ci sia la presenza dell’Isis o di altri fronti di guerra. A dire il vero, in Siria, combattono anche, aggregati alle forze russe, ma con un ruolo speciale dovuto alla loro conoscenza del nemici, 500 militari inviati dal presidente Kadyrov come omaggio a Putin.

Dai ghetti del Sud al palco di Roma. L’8 aprile va in scena “Le scarpe dei caporali”

Rosarno, Boreano, Rignano, Cassibile. Un viaggio, una denuncia, molte vite. “Le scarpe dei caporali” è un monologo teatrale che inscena la nuova schiavitù nelle campagne d’Italia. Si narra delle vite di più di 300mila braccianti agricoli che, disseminati tra ghetti e casolari, vivono in condizioni igienico sanitarie al limite. Sono i lavoratori sfruttati dai caporali e dalla criminalità organizzata: sfruttati al punto da rappresentare la schiavitù moderna.

«Una strana insalata: tre bolzanini, qualche centinaia di caporali, il Sud Italia, i ghetti e migliaia di braccianti agricoli africani», scrivono gli autori. Con un velo appena di sarcasmo e l’intensità che hanno sempre le storie di vita, Salvatore Cutrì racconta del caporalato e dei braccianti africani, italiani e dell’Est Europa, con la regia di Paolo Grossi. Lo spettacolo è figlio di un’inchiesta di Matteo De Checchi di Melting Pot Europa e Valentina Benvenuti, e oggi l’Associazione K_Alma e il Collettivo Mamadou di Bolzano lo portano in giro per il Paese, dopo il lungo viaggio, da gennaio a maggio 2016, tra Calabria, Basilicata, Puglia e Sicilia. Perché? «Per ridare diritti e dignità ai braccianti agricoli che, per pochi euro, raccolgono frutta e verdura che ritroviamo sopra le nostre tavole».

A Roma, l’8 aprile

Sabato 8 aprile “Le scarpe dei caporali” sbarca per la prima volta a Roma, al teatro del Villaggio Globale – in via Lungotevere Testaccio I, nei pressi della Città dell’Altraeconomia. Una serata voluta e sostenuta anche dall’Associazione Parsec e dalla campagna Coltiviamo i Diritti, da LasciateCIEntrare, Laboratorio 53 e Radio Ghetto, Terra! Onlus, MEDU e il Villaggio Globale. Con un tempo per degustare le creazioni equo e solidale di Makì – Sapori del mondo, il gruppo di cucina autogestito dai richiedenti asilo e dai rifugiati dell’associazione Laboratorio 53. e quello della poesia in musica del duo calabrese Tuya (ovvero Turi e Yaya). A presentare la serata ci saremo noi di Left.

 

LEGGI IL TESTO DELL’APPELLO

A Borgo Mezzanone (Fg), il 17 aprile

Un altro importante appuntamento è quello di lunedì 17 aprile a Borgo Mezzanone (Foggia) con la Marcia nazionale contro la mafia del caporalato. Dalle 11 del mattino cittadini, aziende virtuose, parlamentari, associazioni ed enti locali marceranno davanti al cosiddetto “ghetto dei bulgari” per rispondere all’appello lanciato da alcuni attivisti e scrittori per portare l’attenzione sui luoghi dello sfrttamento e per chiedere misure concrete contro il caporalato.

Perché la vittoria di Renzi nei circoli non è una sorpresa

Una foto tratta dal profilo Instagram di Matteo Renzi +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Lo scrive a penna – come sempre in stampatello – nell’ultima newsletter: «Numeri impressionanti, viva la democrazia, grazie a tutti». Così esulta Matteo Renzi che ha raccolto il 68 per cento dei consensi tra gli iscritti al Pd, nella prima parte del percorso congressuale. Che – apriamo una brevissima parentesi per chi non fosse così informato sulle regole – prevede che i pretendenti alla segreteria si sfidino prima nei circoli e solo poi, e solo chi avrà raccolto almeno il 5 per cento, si misurino nei gazebo, dove potranno votare anche i non iscritti, chiunque si dichiari elettore del Pd e versi due euro. Primarie che saranno il 30 aprile.

Ci si arriverà dunque così: Matteo Renzi – con una buona partecipazione, percentualmente superiore a quella del 2013 (59 a 55%) anche se numericamente inferiore – ha sfiorato il 70 per cento, al netto delle immancabili polemiche sui conteggi, che comunque non dovrebbero cambiare di molto la vicenda. È invece al 26 per cento Andrea Orlando e poco sopra la soglia del 5 per cento, sul 6 per cento, Michele Emiliano che noi abbiamo intervistato sul numero di Left in edicola, cercando di capire cosa ha spinto uno che dice di aver con Renzi una “visione opposta del mondo” a tentare la sfida nel partito, e non a seguire Bersani & co. Possono stare nello stesso partito due visioni opposte del mondo? Bah.

Comunque: il risultato. Renzi si mostra stupito, in realtà si confermano i pronostici. E noi azzardiamo ora una previsione ulteriore. Il consenso di Renzi crescerà ancora nei gazebo, diminuirà quello di Orlando, avanzerà ma di poco quello di Emiliano. Il perché è presto detto. Con la scissione – che ne è una conseguenza ma ha confermato il processo – il Pd è mutato in quello che gli oppositori chiamano Pdr – partito di Renzi – rimanendo però, al tempo stesso, il partito della fondazione, maggioritario e leaderistico in tempi che però sono ormai (finalmente per noi) proporzionali e – ma solo in parte – in overdose da leader e decisionismo.

Quindi Orlando – che intervisteremo nel prossimo numero di Left – sarebbe stato perfetto segretario di un partito che però non esiste se non nella sua mozione e che non interessa iscritti dissetati per anni con distillati di maggioritario; Renzi invece ha confermato agli iscritti – a quelli rimasti – il disegno delle origini e potrà ora aggiungere al consenso degli iscritti quello degli elettori dem. O meglio dei suoi elettori. Che saranno tanti ma, appunto, suoi. Sono anche di sinistra, alcuni, ma sono elettori convinti dalle solite e retoriche ragioni “governiste”, che partono dal falso di una sinistra irresponsabile, di soli gufi. A loro Renzi piace. Ma fuori?

Gli straordinari scatti dei Sony World Photography Awards

Submerged field. 1° premio. Categoria Open Movimento. © Camilo Diaz, 2017 Sony World Photography Awards

Il 28 marzo sono stati annunciati dei Sony world photography awards nella categoria open.
Le foto dei vincitori saranno esposte dal 21 aprile al 7 maggio a Londra, assieme ai lavori dei cinquanta finalisti degli altri premi in concorso nelle categorie professional, youth e student focus che verranno annunciato il 20 aprile.
Nella stessa occasione anche una grande retrospettiva dedicata alla carriera di Martin Parr, premiato quest’anno per il suo contributo al mondo della fotografia.

Oculus. 1° premio. Categoria Open Architettura. © Tim Cornbill, 2017 Sony World Photography Awards

Submerged field. 1° premio. Categoria Open Movimento. © Camilo Diaz, 2017 Sony World Photography Awards

Borderline. 1° premio. Categoria Open Natura. © Hiroshi Tanita, 2017 Sony World Photography Awards

FLAMINGO’S SOUL. 1° premio, Categoria Open Natura. © Alessandra Meniconzi, 2017 Sony World Photography Awards

Mathilda. 1° premio, Categoria Open Ritratti. © Alexander Vinogradov, 2017 Sony World Photography Awards

Gasing Up At Roy’s. 1° Premio. Categoria Open Viaggi. © Ralph Gräf, 2017 Sony World Photography Awards

Röntgenarchitektur. Categoria Open Architettura. © Oscar Lopez, 2017 Sony World Photography Awards

Multiexpo-london. Categoria Open Architettura. © Frank Machalowski, 2017 Sony World Photography Awards

Phoenix. Categoria Open Architettura. © Barry Tweed-Rycroft, 2017 Sony World Photography Awards

DSCF5703b. Categoria Open Culture. © Vito Leone, 2017 Sony World Photography Awards

A Bedouin Boy (Oman). Categoria Open Culture. © Mark Languido Vicente, 2017 Sony World Photography Awards

The Prayer. Categoria Open Culture. © Radu Dumitrescu-Elia, 2017 Sony World Photography Awards

Fish Park. Categoria Open Enhanced. © Yong Lin Tan, 2017 Sony World Photography Awards

Flying swarm. Categoria Open Movimento. © Mariusz Stanosz, 2017 Sony World Photography Awards

Diamond-Dust. Categoria Open Natura. © Masayasu Sakuma, 2017 Sony World Photography Awards

Green monster. Categoria Open Natura. © Maximilian Conrad, 2017 Sony World Photography Awards

Buffaloes and stars. Categoria Open Natura. © Andreas Hemb, 2017 Sony World Photography Awards

Hunting dolphins. Categoria Open Natura. © Eugene Kitsios, 2017 Sony World Photography Awards

Moonlight. Categoria Open Still Life. © Wilson Lee, 2017 Sony World Photography Awards

A Form Of Madness. Categoria Open Still life. © Esthaem, 2017 Sony World Photography Awards

I Lampiuna da Marina. Categoria Open Still Life. © Massimiliano Balò, 2017 Sony World Photography Awards

The lady crossing the road at the crosswalk. Categoria Open Street Photography. © Ash Shinya Kawaoto, 2017 Sony World Photography Awards

LaBoca. Categoria Open Viaggi. © José María Perez Nuñez, 2017 Sony World Photography Awards

Autumnal impressions. Categoria Open Viaggi. © Swapnil Deshpande, 2017 Sony World Photography Awards

Banalizzare, criminalizzare, purché non se ne parli: il metodo No Tav applicato ai No Tap

Un momento del trasporto degli ulivi espiantati durante la protesta degli attivisti davanti al cantiere della Tap a Melendugno, nel Leccese, contro il progetto di approdo del gasdotto dell'Adriatico, con agenti di polizia in assetto antisommossa che fronteggiano i manifestanti, 29 marzo 2017. ANSA/ CLAUDIO LONGO

Accade così: si alza la polvere facendo in modo di convincerci che la polvere sia il lascito dei violenti, si formano le squadriglie di picchiatori politici contro “quelli che dicono no a tutto”, si scialacqua solidarietà un po’ a caso in favore delle forze dell’ordine anche quando non ci sono disordini e si sventola il feticcio del progresso inevitabile (o del thatcheriano “non c’è alternativa”) per chiudere il discorso.

Ma il discorso, quello vero, quello che parte delle analisi e che per svilupparsi dovrebbe comprendere anche la possibilità che i decisori diano risposte convincenti, quel discorso in realtà non avviene mai. Ora ci manca solo che si faccia male qualcuno e poi anche i “No Tap” sono cotti a puntino per diventare la forma contemporanea dei “No Tav” in salsa pugliese. Le mosse piano piano si stanno incastrando tutte e anche l’ultimo tweet del senatore del PD Stefano Esposito (“Ogni giorno che passa i #NOTAP assomigliano drammaticamente ai #notav un grazie alle nostre #FFOO”) certifica che il processo si avvia a dare i suoi frutti.

Negli ultimi due giorni risuona soprattutto la barzelletta degli ulivi: “i no Tap? ambientalisti preoccupati per qualche manciata di alberi che verranno prontamente rimessi al loro posto” dicono più o meno i banalizzatori di partito. E fa niente se le ragioni della preoccupazione siano tutte scritte in un parere del 2014 di ben 37 pagine dell’Arpa protocollato dalla Regione Puglia (lo trovate qui); non importa che l’Espresso abbia raccontato come (ma va?) gli interessi particolari delle mafie abbiano messo qualcosa in più degli occhi sul progetto (è tutto qui) e non importa nemmeno che le motivazioni della protesta non siano contro il progetto in toto ma sulla località di approdo che era la peggiore delle soluzioni possibili: l’importante è che la protesta No Tap possa essere messa velocemente nel cassetto dei signornò e si divida subito tra le solite fazioni.

A questo aggiungeteci l’italica inclinazione alla servitù (come nel caso della viceministra Bellanova, PD, che si diceva contraria da candidata e ora seduta sulla poltrona da viceministro se la prende con Michele Emiliano perché si occupa più della sua regione piuttosto che della fedeltà agli ordini del capo) e vi accorgerete che di tutto si parla tranne che dell’analisi del dissenso.

Fate così: stamattina a chi vi parla di No Tap chiedetegli di elencarvi i motivi per cui dovrebbe essere giusto che il gasdotto sbuchi su una spiaggia per poi risalire verso Brindisi piuttosto che arrivare direttamente lì. Poi segnatevi le risposte. Rileggetele a voce alta e tenetele a mente; le ritroverete scritte sulle articolesse paternalistiche dei prossimi giorni. È il telefono senza fili, come da bambini, solo che qui chi ha fatto partire il comando è sotto gli occhi di tutti.

Buon lunedì.

Libertà per Demirtas, simbolo della Turchia laica

epa05346977 Turkish deputy Selahattin Demirtas, co-leader of the left-wing pro-Kurdish Peoples' Democratic Party (HDP), speaks during a rally for a bill lifting the immunity for certain lawmakers, in Istanbul, Turkey, 05 June 2016. Kurdish HDP lawmakers face having their immunity lifted claiming it is an attempt by the AKP to consolidate more power for itself. The AKP claims the HDP is the political wing of the Kurdistan Workers' Party (PKK) and that its MPs should therefore be criminally investigated. EPA/SEDAT SUNA

Aguzzino di Ankara e l’Obama curdo. Non è la trama accennata di un romanzo d’azione, ma la sintesi figurata di un crimine politico reale che si sta consumando nel silenzio complice della comunità internazionale e in particolare dell’Europa, che in spregio ai valori celebrati il 25 marzo nella Dichiarazione di Roma lascia marcire nella cella di un carcere di massima sicurezza Selahattin Demirtaş, parlamentare e leader dell’Hdp, il Partito progressista curdo terza forza politica del Paese, che il regime islamo-nazionalista del presidente Recep Tayyp Erdogan ha dichiarato fuorilegge.
Libertà per Demirtas. Una parola d’ordine, che va fatta vivere nelle aule parlamentari, nelle mobilitazioni di piazza. Libertà e vita per Demirtas. Perché l’obiettivo dell’Aguzzino di Ankara è quello di annientare, psicologicamente e fisicamente, quello che considera il nemico più pericoloso per il regime, perché Demirtas è il simbolo non solo della minoranza curda turca, ma più in generale di quella Turchia laica, plurale, che Erdogan sta cancellando con ogni mezzo: epurazioni di massa, carcere duro, giornali indipendenti chiusi con la forza, pulizia “culturale” nelle scuole e nelle università.
Le battaglie di libertà non possono durare il breve tempo di una interrogazione parlamentare o di un sit-in. Libertà per Demirtas è un impegno che va preteso dal governo italiano, una richiesta che va portata a Bruxelles, della quale deve farsi carico l’Alta rappresentante per la politica estera della Ue, l’italiana Federica Mogherini. Le accuse che hanno portato all’arresto del leader dell’Hdp sono fondate sul nulla, il processo a cui è stato sottoposto, una farsa. Demirtas è di fatto ostaggio di un regime che usa la magistratura come “arma legale” per regolare i conti con i suoi oppositori.
8 novembre 2016. «Ci aspettiamo e ci auguriamo che il popolo europeo e le istituzioni democratiche dell’Europa mostrino un approccio molto più efficace e produttivo contro gli atti illegali di oppressione» compiuti nella Turchia del presidente Erdogan, scrive dal carcere Demirtas arrestato quattro giorni prima, il 4 novembre, insieme ad altri 9 deputati. «Questo impero della paura si dissolverà presto. Continueremo la nostra lotta in qualsiasi condizione e senza perdere la fede nella politica democratica. Il fatto che noi siamo stati presi in ostaggio come risultato di quello che è un golpe civile non è solo un attacco a noi come individui, ma è un nuovo passo di quelli che, poco alla volta, attuano vari complotti per consolidare il governo di un solo uomo. Non bisogna dimenticare – aggiunge – che questo attacco, rivolto a noi difensori di uno stile di vita fraterno, paritario, libero e pacifico nel nostro Paese, è anche un attacco a tutte le forze della democrazia. Questo impero della paura sarà senza dubbio disperso presto. Continueremo la nostra battaglia in qualunque condizione e senza perdere la fiducia nella politica democratica. Anche se siamo tra quattro mura, continueremo a essere parte della battaglia fuori di qui». Il trattamento carcerario a cui è sottoposto il leader dell’Hdp viene denunciato dalle più importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani.

12 dicembre 2016. Rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Edirne, ai confini con la Bulgaria. Un penitenziario che, insieme agli altri di tipo F, è stato oggetto nel 2006 di un rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che parlò di condizioni potenzialmente degradanti e disumane. Il co-presidente dell’Hdp è colpito più di una volta da spasmi coronarici che se non curati appropriatamente,possono condurre anche all’infarto. Dopo aver richiesto un check-up medico è stato condotto, circondato da soldati, all’ospedale dell’Università della Tracia. Da allora, Demirtas si sarebbe ripreso e sarebbe tornato normalmente in carcere, dove vive in completo isolamento. Tuttavia il portavoce dell’Hdp, Ayhan Bilgen, ha dichiarato di voler far richiesta di un controllo medico indipendente: «Siamo preoccupati per lo stato di salute del nostro co-presidente. Chiederemo alla Doctor’s Union di far visitare Demirtas in un ospedale appropriato e sotto la supervisione di medici imparziali». A detta di Bilgen, infatti, sul report medico seguito al controllo, non sarebbe stato neanche menzionato il fatto che Demirtas abbia sofferto più di una volta di spasmi coronarici e che quindi non si tratti di un malore episodico. «L’isolamento è una forma di tortura e i nostri deputati e co-presidenti in questo momento stanno palesemente subendo torture» ha detto l’avvocatessa Meral Danış Beştaş.

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L’intervista a Left: Demirtas, “Erdogan usa l’ISIS per riportare il caos in Turchia”

Ne parliamo su Left in edicola

 

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Giovanna Marini, infaticabile ricercatrice di fantasia popolare

© FILIPPO TROJANO

Giovanna Marini ha appena compiuto ottant’anni. Ma nel suo lavoro di musicista, studiosa, insegnante è infaticabile. Si è diplomata in chitarra classica ma poi ha scoperto la potenza del canto e della musica popolare e oggi, oltre ad essere compositrice e cantautrice, rappresenta una delle  figure più importanti nello studio, nella ricerca e nell’esecuzione della tradizione musicale popolare italiana. Alla vigilia del concerto di presentazione del suo nuovo album realizzato con il Coro e con la Banda della Scuola di Musica Popolare di Testaccio che si terrà il prossimo 3 aprile all’auditorium Parco della Musica di Roma, si concede a una lunga chiacchierata.

Da trentanni fai ricerca nella Scuola popolare di musica di Testaccio. Cosa aveva e cosa ha tutt’ora di speciale questa scuola?

Eravamo completamente liberi, si stimolavano gli insegnanti a fare quello che pensavano fosse giusto per la scuola, certo coordinati dal direttivo e dalla commissione didattica, ma liberi. Non avevamo alcuna tradizione da preservare o tramandare, come invece avveniva nei conservatori. La didattica rendeva liberi, era pratica. E questo se era vero per il principiante che veniva da subito messo a suonare insieme agli altri, lo era anche per noi musicisti professionisti. Io avevo e ho tutt’ora un parco di musicisti e di voci che se scrivo un brano, lo cantano, lo eseguono. La grande frustrazione per un compositore è proprio il fatto che lui scrive e non lo suona nessuno!

La scuola nasceva anche per formare un pubblico di ascoltatori, per dare alle persone una capacità critica… non solo per formare musicisti, vero?

Sì, anche perché la scuola non era per soli bambini ma anche per adulti. Abbiamo arginato dal suo inizio la massificazione, l’omogeneizzazione che la logica del profitto, anche nello spettacolo, porta irrimediabilmente con sé. Esaltavamo le diversità, eravamo l’ambiente adatto per far nascere e sviluppare le diversità. E questo attraverso la pratica, che mai veniva disgiunta dalla teoria.

In che modo la cultura, prodotta in un certo modo, può aiutare la vita delle persone? E in cosa la scuola di Testaccio ti ha aiutata a capirlo?

Anche in questo caso è fondamentale il discorso sulla libertà. E della cultura fatta e prodotta insieme agli altri, e soprattutto senza divisioni. Proprio adesso leggo che un bambino autistico non è stato fatto entrare in una scuola. Ma come sarebbe? La scuola deve includere, come avveniva e avviene a Testaccio. Noi siamo pieni di bambini con disabilità di vario tipo.

La scuola, in effetti, è piena di persone per le quali la pratica musicale fatta con gli altri rappresenta un modo per superare proprie difficoltà, o nei casi più gravi, per rendere tali difficoltà compatibili con la vita sociale…

Certamente. E poi se vogliamo parlare specificatamente del mezzo musicale bisogna dire che proprio il suono ha una particolare influenza benefica sull’organismo. Le onde sinusoidali, quelle del suono, aiutano a stare bene perché sono armoniose, son dolci e ti colpiscono il vago simpatico. Quando entrano nel tuo centro nervoso danno una sensazione piacevole… guarda la gente che ascolta una banda, la prima cosa che fa è sorridere!

L’intervista continua su Left in edicola

 

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