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Viareggio e il cuore sonante di Moretti

Mauro Moretti durante il convegno ''il Messaggero dellEconomia.Obbligati a crescere''. Roma 5 ottobre 2016, ANSA/GIUSEPPE LAMI

Era il il 3 luglio 2009. Quattro giorni dopo l’incidente di Viareggio: un treno che diventa bomba e brucia la stazione, le strade, le case, le auto tutte intorno. 33 morti e 25 feriti. 11 sono morti immediatamente, gli altri si sono consumati per le ustioni nei mesi successivi.

«Uno spiacevolissimo episodio» lo definì l’allora amministratore delegato di RFI e Ferrovie. Lo disse quattro giorni dopo l’incidente, con l’odore di GPL bruciato che non si era ancora alzato dalle strade, audito al Senato per riferire sull’incidente: «“Vi prego di considerare che quest’anno, per la sicurezza  abbiamo ulteriormente migliorato: siamo i primi in Europa”, disse Mauro Moretti, come se i morti e il dolore possano essere un fastidioso intoppo nel raggiungimento degli obiettivi di bilancio.

Del resto 24 ore dopo l’incidente Moretti, arrivando in comune, annunciò tronfio che lui non c’entrava nulla e che la sua azienda non avrebbe sborsato un soldo. Ci sono uomini che sul cuore hanno il timbro delle matrici dei libretti degli assegni, si vede.

Un anno dopo il Presidente della Repubblica (il sempiterno Napolitano) decide di insignirlo con la medaglia di Cavaliere del Lavoro. Del resto la politica stravede per Moretti: nominato da Berlusconi, confermato da Letta e addirittura promosso a capo di Finmeccanica da Renzi che sul merito ha costruito una bella fetta della sua favoletta elettorale. Quando i magistrati chiesero per Moretti una condanna a 16 anni il ministro Delrio corse dai giornalisti a difenderlo come i fan con il loro cantante del cuore.

Ieri in primo grado Moretti è stato condannato a sette anni per disastro colposo, incendio colposo, omicidio plurimo colposo e lesioni gravissime. Lui dice che non ci pensa nemmeno a dimettersi. Figurati. Certo siamo solo al primo grado di una Giustizia che deve fare il suo corso. Ma la cautela è una virtù. E la sensibilità anche.

Buon mercoledì.

Il diritto negato allo studio. Sinistra e M5s uniti nella battaglia

Il corteo degli studenti sfila per le vie del centro di Torino dopo la manifestazione organizzata a sostegno del diritto allo studio,14 Dicembre 2013. The march of students through the streets of Turin after the rally organized against the austerity policy of Enrico Letta's government and in support of the right to education, December 14, 2013. Protesters clashed with police and launched colour bombs which emitted a red smoke. Police used batons in response and several arrests followed. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Strano ma vero, sul tema della garanzia del diritto allo studio si sono ritrovati d’accordo gruppi parlamentari di Sinistra italiana, Possibile, Movimento 5 Stelle e udite udite anche esponenti del Pd. «Grazie alla nostra proposta di legge, non per intese tra di loro», precisa sorridendo Andrea Torti coordinatore nazionale di Link-Coordinamento Universitario. Ma tant’è, in mezzo a tante divisioni, congressi, febbri e maldipancia preelettorali sembra un fatto positivo che alcune forze di opposizione – con innesti Pd – si schierino per un diritto fondamentale, sancito dalla Costituzione, agli art.34 e art.3. E cioè che tutti i capaci e meritevoli siano messi nella possibilità di studiare, con tanto di borse di studio – così si legge – e che gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana debbano essere rimossi dallo Stato.

Ci piace ricordare questi principi perché lo Stato italiano se n’è dimenticato negli ultimi anni. Con la scusa della crisi e dei tagli orizzontali i governi di destra ma anche di sinistra hanno falcidiato il diritto allo studio. Così come le Regioni, alle quali è demandata una parte dei finanziamenti, non ce l’hanno fatta, anche perché hanno ricevuto meno risorse dallo Stato. Il risultato non è da poco: ci ritroviamo con una perdita di immatricolazioni e di abbandoni universitari che ci collocano nella blacklist europea. Negli ultimi dieci anni abbiamo perso circa 40mila matricole. I dati europei ci collocano agli ultimi posti per numero di laureati. E questo non è un dato da poco. Significa meno sviluppo della conoscenza, meno innovazione, meno crescita per quei territori che ospitano le università. Il rapporto tra lo studio e lo sviluppo economico non è uno sfizio radical chic, è un dato provato dai fatti. Non a caso risultano più in crescita le economie di quei Paesi che pur negli anni di crisi hanno investito nella scuola e nell’università e naturalmente nel mondo della ricerca.

Da soli gli studenti hanno lanciato un anno fa la campagna All in! Iniziando a raccogliere le firme per una legge di iniziativa popolare. La raccolta ha prodotto 57mila firme e adesso la proposta di legge è stata sottoscritta con le firme di un ampio schieramento politico. Oggi la presentazione alla Camera dei deputati con deputati di Sinistra italiana (Annalisa Pannarale), M5s (Gianluca Vacca) e altri di Possibile e anche del Pd. «Chiediamo al parlamento e a tutte le forze politiche di discutere e approvare questa proposta di legge» dicono i promotori di All in!. E intanto chiedono al nuovo ministro dell’Istruzione di convocare un tavolo «per definire i Livelli essenziali delle prestazioni del diritto allo studio dove porteremo le nostre proposte». Perché adesso, come spiega Andrea Torti, la situazione in Italia è a macchia di leopardo dove spicca il limbo in cui finiscono gli studenti  idonei per il loro reddito familiare ma che non  ricevono la borsa di studio perché non ci sono risorse. Dal 2002 al 2012 sono stati 25mila coloro che non hanno potuto usufruire di un aiuto per poter studiare. Qualche risultato nell’ultimo anno è stato raggiunto con l’innalzamento della soglia del modello Isee. «Quasi tutte le regioni si sono adeguate ad eccezione di due, Campania e Molise che sono ancora al di sotto dei 16mila euro», dice Andrea Torti. «Noi con la nostra proposta di legge abbiamo fissato il tetto massimo per tutti a 23mila euro. Su questo il governo può fare molto, non è necessario un grande sforzo». I promotori della campagna All inn! sottolineano il punto dolente del diritto allo studio in Italia: «l’ottica assistenzialista con cui le amministrazioni hanno fino ad oggi gestito la materia, quasi che vigesse la logica della «beneficenza» piuttosto che l’obbligo, da parte delle istituzioni, di garantire un diritto».

«La nostra legge ha più punti – continua Torti – occorre un grande finanziamento per far entrare il nostro Paese nei parametri europei e ma bisogna fare chiarezza nel finanziamento del diritto allo studio, comprese le competenze tra Stato e Regione. Bisogna fare in modo che le borse di studio in Italia vengano coperte tutte, e che la figura dello studente idoneo non beneficiario di borse di studio, vada eliminata. E questo il governo lo può fare, per questo abbiamo chiesto di convocare subito un tavolo sui Lep, i livelli essenziali di prestazione. Poi nella proposta chiediamo borse di studio per più studenti e quelli che hanno un reddito superiore al tetto previsto oggi, devono avere comunque i servizi del diritto allo studio, alloggi, mense». Non solo. Viene fatta anche la proposta di un reddito di formazione che già esiste in altri Paesi europei, «uno strumento per dare indipendenza agli studenti senza la logica familista come avviene ora in Italia» e che si intreccia, almeno idealmente, nel dibattito sul reddito di cittadinanza adesso al centro del dibattito di alcune forze politiche. Anche se la logica dell’assistenza ai poveri sembra prevalere su tutto il resto.
Secondo quanto riportato dall’ultimo rapporto sull’educazione dell’Ocse,  si legge nella presentazione del testo di legge, «l’Italia spende per l’università circa lo 0,9 per cento del proprio Pil, di cui solo una quota pari allo 0,04 destinata al diritto allo studio e l’80 per cento degli studenti italiani non riceve una borsa di studio, in Francia la percentuale è del 70 per cento; la percentuale scende al 60 per cento in Germania, mentre in Olanda addirittura al 4 per cento». Da qui si comprende come in Italia vi sia uno dei tassi di abbandono universitario tra i più alti d’Europa, il 18,5 per cento, ben al di sopra di altri Stati come Olanda, pari al 7 per cento, o Gran Bretagna, pari all’8,5 per cento.

Ecco i nomi dei parlamentari che hanno sottoscritto il testo: Pannarale, Civati, Vacca, Giancarlo Giordano, Scotto, Airaudo, Bordo, Brignone, Costantino, D’Attorre, Duranti, D’Uva, Farina Daniele, Fassina, Fava, Ferrara, Folino, Fratoianni, Luigi Gallo, Gregori, Kronbichler, Maestri, Marcon, Martelli, Matarrelli, Melilla, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pastorino, Pellegrino, Piras, Placido, Quaranta, Ricciuti, Sannicandro, Zaratti.

Il sindacato irlandese: «L’Europa ha perso legittimità agli occhi dei giovani e dei lavoratori»

Jack O’Connor, il Presidente di Siptu, il più grande sindacato irlandese, ha lanciato un nuovo j’accuse contro le politiche di austerità in Europa.

Come riporta Martin Wall per il Irish Times, in occasione di un celebrazione commemorativa, svoltasi ieri a Dublino, O’Connor ha chiamato in causa i partiti europei della destra, sostenendo che avrebbero potuto «tutelare milioni di vite di cittadini europei dall’indigenza e dalla disperazione attraverso un piano di investimenti pubblico volto a mitigare gli effetti dell’austerity».

«La solidarietà condizionale all’implementazione di misure di risparmio draconiane ha condannato un numero imprecisato di cittadini europei alla disoccupazione, all’emigrazione, se non alla miseria», ha rincarato O’Connor, prima di screditare anche il progetto di integrazione europea: «Ha perso di legittimità agli occhi di milioni di lavoratori e giovani».

O’Connor ha poi criticato i criteri del Patto di stabilità e crescita e chiamato in causa i partiti della sinistra europea: questi ultimi dovrebbero riportare al centro della politica «i diritti dei lavoratori».

E se ha accusato i rappresentanti della socialdemocrazia per aver «bruciato» un capitale immenso, partecipando ai governi delle destre, non ha risparmiato neanche la sinistra radicale: «C’è una sinistra frammentata, che si definisce soltanto in rapporto a ciò che avversa, e che non propone una visione di ciò che vuole».

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Strage di Viareggio, condannati Moretti e gli altri dirigenti. Una sentenza attesa 7 anni

foto scattate dalla Polizia di Stato a Viareggio sul luogo del disastro

Non fu tragica fatalità, ma ha dei precisi responsabili, l’inferno di via Ponchielli che 7 anni fa causò la morte di 32 persone.

Arriva dopo 7 anni la sentenza di primo grado sulla strage di Viareggio. Sette anni di reclusione per Mauro Moretti, ex amministratore delegato di Rfi e poi ad di Fs. E, fino a oggi, amministratore delegato di Finmeccanica. Sette anni e mezzo per gli altri dirigenti di Ferrovie e Rete ferroviaria: Michele Mario Elia, allora direttore tecnico della Rfi, e Vincenzo Soprano, ex ad di Trenitalia e di Fs Logistica. Condannate dal giudice anche le società Rete Ferroviaria Italiana e Trenitalia, mentre sono state assolte Ferrovie e Fs Logistica.

In tutto, sono 33 gli imputati nel processo, con accuse di vario titolo che vanno da disastro ferroviario a omicidio colposo plurimo, incendio colposo e lesioni colpose per i quali i pm avevano chiesto 260 anni di reclusione complessiva. dieci dei quali sono stati assolti.

Ad accogliere la sentenza nell’aula del tribunale di Lucca, i familiari delle vittime e 32 sedie vuote con le foto delle vittime del disastro ferroviario. Presenti anche sindaci e rappresentanti delle istituzioni. «Sono stati individuati tutti i maggiori responsabili, ma più di questo non abbiamo capito – rispondono i parenti delle vittime, ancora storditi e confusi dalla complicato dispositivo pronunciato dai giudici. «Dai 16 anni richiesti dai pm ai 7, perché? I nostri avvocati ci spiegheranno», dichiarano a caldo ai giornalisti. «Siamo solo familiari», ribadisce Marco Piagentini, che nella strage perse moglie e due figli: «La sicurezza non funziona. Questo l’abbiamo capito. E abbiamo iniziato a dirlo 7 anni fa». Ma per ulteriori dichiarazioni, il portavoce dell’associazione delle vittime del 29 giugno, Il mondo che vorrei, dà appuntamento a domani alle 11 per una conferenza stampa.

I familiari delle 32 vittime della strage di Viareggio in attesa della sentenza al processo a Lucca, 31 gennaio 2017.ANSA/RICCARDO DALLE LUCHE

Quella notte del 29 giugno 2009
Fiamme, fiamme, fiamme. Ce le ricordiamo tutti, quelle immagini. Sono le 23:48 del 29 giugno 2009, e a Viareggio sulla ferrovia divampa un incendio che inghiotte un quartiere intero, il Terminetto, uccidendo 32 persone. Bambini, donne e uomini che dormivano nelle loro case. Molte di loro moriranno solo dopo giorni di agonia. Decine di altre vittime riporteranno ustioni gravissime, altri dovranno convivere con la morte di uno o più familiari.

Le testimonianze raccolte durante le oltre 140 udienze sono agghiaccianti. Oggi, è arrivata la sentenza di primo grado a ristabilire una verità che le vittime e le istituzioni locali chiedono – e sostengono – da 7 anni. Il processo è iniziato il 13 novembre 2013.

Ma cosa è successo? Un treno merci, il 50325 Trecate-Gricignano, che trasporta 14 cisterne contenenti ciascuna 40mila litri di gpl di proprietà della austriaca Gatx, deraglia. Una delle cisterne sbatta con violenza tale – il treno viaggiava alla velocità di 90km/h – da rompersi. L’esplosione inghiotte le case di via Ponchielli, ma per fortuna non coinvolge le altre cisterne. Ma perché è deragliato? E su cosa è andato a sbattere esattamente?

A cercare di ricostruire ogni tassello della vicenda, la  procura di Lucca. I pm Giuseppe Amodeo e Salvatore Giannino aprono immediatamente l’inchiesta. Per loro si è trattato di «superficialità, macchinari obsoleti e controlli non corretti. In poche parole, la banalità del male». Per questo vogliono risalire fino al più alto grado di responsabilità di quella che avrebbe potuta essere una vera e propria apocalisse. Sono 33 gli imputati nel processo, più sette società, per disastro ferroviario colposo, omicidio colposo plurimo, incendio colposo e lesioni personali colpose. 260 gli anni di reclusione complessivi richiesti.

Prima di tutto per Mauro Moretti, prima a capo di Rfi (Rete Ferroviaria Italiana) e poi della Holding Ferrovie dello Stato, per il quale l’accusa ha chiesto 16 anni, mentre 15 anni sono stati chiesti per Mario Michele Elia, alla direzione tecnica delle Rete ferroviaria italiana al tempo dei fatti.

Prima della sentenza, i familiari delle vittime hanno sfilato davanti al tribunale di Lucca. Il sindaco di Viareggio Giorgio Del Ghingaro: «La città chiede da tanti anni che giustizia venga fatta, e con il massimo rispetto delle istituzioni della magistratura e dei giudici, credo – ha detto prima di entrare – che le famiglie e la stessa città di Viareggio abbiano diritto ad avere risposte».

L’arrivo del corteo dei familiari delle vittime della strage di Viareggio al Polo fieristico, dove si e’ aperta la 145/a udienza del processo per il disastro avvenuto alla stazione della cittadina della Versilia il 29 giugno del 2009 che costò la vita a 32 persone, Lucca, 31 gennaio 2017. ‘Viareggio 29-6-2009 niente sarà più come prima’ è lo striscione con le foto di tutte le vittime che apre il corteo silenzioso dei familiari. Con loro anche una rappresentanza dei macchinisti delle Ferrovie, una bandiera del gruppo delle ‘Tartarughe lente’, alcuni rappresentanti dei No Tav. ANSA/ RICCARDO DALLE LUCHE

Tra i comitati arrivati al Polo fieristico dove è in corso l’udienza finale, anche i familiari delle vittime del Moby Prince, No Eternit da Casale Monferrato, i No Tav, i macchinisti di ‘In marcia’, etanti altri gruppi di sostegno di Viareggio e Lucca.

Come mandare a casa Trump con l’impeachment

Si è insediato appena dieci giorni fa Donald Trump e già c’è chi spera (e scommette) sull’impeachment. Mentre in strada imperversavano le proteste contro i primi provvedimenti e le dichiarazioni razziste del presidente milionario, dalla marcia delle donne alle manifestazioni contro il bando dei musulmani dagli Usa, online è comparso ImpeachDonaldTrumpNow.org un portale web realizzato su iniziativa di Free Speech for People e RootsAction (entrambe associazioni della sinistra liberale) che ha raccolto ormai ben 500mila adesioni. Se l’obiettivo di ImpeachDonaldTRumpNow è dare corpo a un movimento civile, questa non è l’unica presenza in rete a puntare sull’impeachment di Trump, anche il sito di scommesse Paddy Power (non certo per una questione di civismo) valuta 4 a 1 la possibilità che il presidente appena insediato finisca sotto accusa entro i primi sei mesi.

Ma è davvero possibile che Donald Trump venga imputato?

Come funziona l’impeachment e in che casi potrebbe essere applicato?
L’impeachment è un particolare istituto giuridico stabilito dall’articolo 2, sezione 4 della Costituzione degli Stati Uniti che i padri fondatori avevano inserito come sistema giuridico di garanzia per rimuovere dall’incarico esponenti pubblici (Presidente, vice-Presidente e Ufficiali pubblici) sospettati di aver commesso un abuso nell’esercizio del loro potere. Funziona così: la Camera dei Rappresentanti è la promotrice del procedimento di impeachment contro un pubblico ufficiale, qualora questa valuti a maggioranza che ci siano i presupposti per un processo, la palla passa al Senato che ha il ruolo di giudice, per condannare l’accusato sarà necessaria la maggioranza dei due terzi dei presenti. Ad oggi solo due presidenti degli Stati Uniti hanno subito questo tipo procedimento: il repubblicano Andrew Johnson nel lontano 1868 e Bill Clinton nel 1999. Per Clinton l’imputazione era di Spergiuro, Bill era stato accusato infatti di aver mentito sulla sua relazione con Monica Lewinsky, all’epoca stagista alla Casa Bianca, e di aver esercitato pressioni e ostacolato la giustizia per occultare i fatti.

Perché Donald Trump potrebbe subire l’impeachment?

Secondo i movimenti per i diritti civili Free Speech for People e RootsAction, promotori della campagna web, il presidente Trump rifiutandosi di lasciare da parte i sui interessi commerciali è in una posizione di palese conflitto di interessi e violazione della “Foreign ” e della “Domestic Emoluments Clause” della Costituzione oltre che con lo Stock Act federale. Secondo le clausole sugli emolumenti sopra citate infatti un «persona che detiene una qualsiasi carica per il governo degli Stati Uniti» non dovrebbe accettare «alcun dono, stipendio, carica o titolo, o qualsiasi altro da governi di uno stato straniero». Anche se la causa per impeachment dunque è estremamente rara, interessi d’affari come quelli di Donald sono qualcosa che, prima della sua elezione, non avevano mai caratterizzato un presidente degli Stati Uniti e presentano, secondo gli esperti, non pochi punti critici che potrebbero portare alla messa in stato d’accusa di Trump. Donald infatti, grazie ai suoi affari internazionali, riceverebbe di fatto dei compensi personali ricavati da agenti e Stati stranieri, mentre svolge il ruolo di presidente degli Stati Uniti (qui un report che spiega bene di cosa si tratta). Mentre c’è chi sottolinea come il fatto che business men, leader stranieri ecc che soggiornano nelle proprietà di Trump, hotel e resort, costituiscano un enorme conflitto d’interessi per la presidenza (noi che abbiamo avuto Silvio Berlusconi al governo per anni capiamo bene di cosa si tratti), i legali del milionario si appellano al fatto che la parola “emolumenti” della Costituzione non va interpretata in un senso così ampio e che il fatto che Donald abbia degli interessi commerciali (e dei ricavi sostanziosi derivati da questi interessi) non implica necessariamente che sia corrotto o di parte nello svolgimento della sua funzione pubblica.
Ciò che è certo è che un caso del genere non si è mai verificato nella storia degli Stati Uniti e che il rischio è effettivamente elevato.

Ma il conflitto d’interessi non è l’unico capo d’accusa che potrebbe portare Trump ad un processo di impeachment, il nuovo presidente infatti ha varcato la soglia dello studio ovale portando con sé dozzine di cause aperte e anche questo lo rende estremamente vulnerabile.
Un altro motivo di messa in stato d’accusa potrebbe essere un’eventuale collusione con il governo russo, che vista l’amicizia che lo lega a Putin e l’ingerenza che avrebbero esercitato da Mosca sulle elezioni, secondo quanto riporta il Daily News potrebbe non essere un’ipotesi così remota.

Ora, avete materiale sufficiente per provare a scommettere e sperare che Trump lasci la Casa Bianca prima del prossimo muro o del prossimo ban contro una qualche altra minoranza.

E adesso dove lo rimpatriamo il terrorista canadese?

Quindi alla fine si scopre che Alexandre Bissonnette, lo studente franco-canadese che ieri ha ucciso sei persone in una moschea di Quebec City, inneggiava a Trump, Marine Le Pen e alle forze di difesa israeliane. Xenofobo, insomma, oltre che criminale, accecato dall’odio religioso e razziale contro i musulmani: un jihadista, ma al contrario.

E così basta semplicemente invertire l’ordine degli elementi per osservare ancora una volta l’inceppamento patetico e tragico di uno schema d’odio che non sa cosa dire sulla strage canadese: la moschea al posto della chiesa, i musulmani piuttosto che i cattolici frenano le dita espansive di chi cavalca i morti per qualche zero virgola in più alle prossime elezioni. La banalità della violenza è un moccioso che ha bisogno di un mondo che gli assomigli perché è incapace di leggerlo; così ai destrorsi non riesce nemmeno un tweet di solidarietà finta. I politici leoni, ieri, cinguettavano patetici di tutt’altro.

E dove lo rimpatriamo allora il terrorista canadese? Lo infiliamo nei pantaloni di quelli che sono in tournée ad esaltare la superiorità cristiana con il mazzo da poker in mezzo ai denti? Lo prestiamo a quel politico verde chiedendogli di “portarselo a casa sua”? Chiediamo aiuto all’ex editorialista (di cui nessuno ha mai letto gli editoriali) che si è convertito un paio di volte alla ricerca dell’integralismo perduto (e di un seggio in Parlamento)?

Oppure, semplicemente, alziamo lo sguardo dalle miserie dell’odio e ci interroghiamo sulla violenza liberandoci delle categorie umane di cui ci vorrebbero ingozzare. Nel suo bel libro Tesi sulla violenza Friedrich Hacker scriveva che la violenza è semplice ma le alternative alla violenza sono complesse. C’è tantissimo da fare, quindi. Sapendo, sempre citando Hacker, che “la violenza è il problema di cui ritiene d’essere la soluzione”.

Buon martedì.

 

M5s, in Emilia-Romagna il consigliere comunale diventa segretario di Partito

Max Bugani, candidato sindaco M5S a Bologna, durante una conferenza stampa con gli aspiranti primi cittadini pentastellati delle principali città italiane, 19 maggio 2016 a Roma. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Non si arresta la guerra dei Cinquestelle in Emilia-Romagna, nella terra dove tutto è cominciato.
Ora, l’ex M5s Federico Pizzarotti ha annunciato la ricandidatura della sua squadra al governo di Parma, ma a qualcuno non è andata giù. Ed ecco che, a colpi di interviste nazionali e provocatori post sul blog, ricomincia la campagna elettorale.

A prendersi l’incarico, è Massimo Bugani, il consigliere comunale di Bologna fedelissimo della Casaleggio Associati, che in un’intervista all’Huffington spara a zero sull’ex primo cittadino del Movimento. «Pizzarotti, legittimamente, fa politica. Con suoi obiettivi, che poi sono obiettivi di potere. Obiettivi romani». «È inutile che ci giriamo intorno: Pizzarotti è come una persona che vuole lasciare la moglie facendole crederle che la colpa è proprio della moglie. Ma non è così: lui ha voluto evitare le battaglie che sono nelle corde dei Cinque Stelle».

Il consigliere bolognese, poco noto ma molto attivo, è diventato – senza che vi sia stata nomina né voto on-line, ma nemmeno un’investitura di Grillo – una specie di segretario di partito, dopo una lenta epurazione iniziata con il colpo di mano che nel cancellò un meetup intero, e proseguita pezzo dopo pezzo, con la perdita di chi nella regione, manteneva una certa autonomia di pensiero. Ed era, va detto, più in vista di lui.

Dall'(auto)eliminazione del delfino di Grillo (nonché suo odiato nemico) Giovanni Favia, primo epurato del Movimento a causa di un brutto fuorionda in cui lamentava la mancanza di democrazia e trasparenza all’interno dei M5s, la scalata a cane da guardia della Casaleggio associati – tanto da diventarne dipendente – è sempre stata fatta di uscite pubbliche – ma più spesso private. Memorabile fu il suo atteggiamento nei confronti della collega di scranno, Federica Salsi, cacciata perché andata in tv. Il giorno dopo, Bugani evitò di sedersi al suo fianco in Comune come fosse un’appestata.

L’intervista ha toni che la stampa locale, che spesso ha ospitato interventi a gamba tesa del zelante consigliere nei confronti dei compagni di partito, conosce bene. Delegittimanti seppur generiche, sempre allusive, raramente dirette. E mai e poi mai, in un faccia a faccia pubblico.

Dello stesso tenore, è il post uscito stamattina sul blog, sul quale Massimo Bugani spesso scrive. L’articolo parla in generale degli eletti che hanno abbandonato la retta via e spiega che «la cosa che li accomuna tutti è l’effetto cadrega, che poi è la vera ragione del tradimento. Ognuno di loro si è ancorato alla sua poltrona e al suo stipendio fregandosene di essere stato eletto con un simbolo e un programma che hanno tradito». L'”effetto cadrega”è una palese citazione a sberleffo di “Effetto Parma”, nome della neonata lista civica del sindaco parmense.

Il post non porta naturalmente la firma di Bugani, ma è difficile pensare che a Milano si preoccupino, in un momento in cui il Movimento ha ben altri problemi, di provocare il sindaco parmense, che tra l’altro non è più questione che li riguarda. Soprattutto, è difficile non pensare al bolognese, autore di numerosi post contro Pizzarotti, alcuni dei quali gli costarono valanghe di insulti degli iscritti proprio a causa dell’accanimento contro il collega di partito. Ed è difficile non pensare a lui, che proprio la settimana scorsa si è (auto)dichiarato responsabile di ricostruire una lista a Parma in vista delle prossime elezioni. «È stata una mia idea, ne ho parlato con Grillo e ho avuto il via libera. Non vogliamo abbandonare una città dove il Movimento 5 stelle è stato tradito da un sindaco che subito si è seduto al tavolo con banchieri e industriali», ha dichiarato al Resto del Carlino di Bologna. L’8 febbraio il consigliere comunale sarà a Parma proprio per lavorare a questo obiettivo, nonostante Beppe Grillo non faccia che ripetere che: “i consiglieri facciano i consiglieri”.

C’è di più. Sempre all’Huffington, Bugani spiega il segreto di Bologna, dando perfino un consiglio al capo politico: «Da noi, a livello comunale, abbiamo sempre promosso persone conosciute, che abbiamo visto crescere fin dal 2005, gente fidata, che sappiamo come lavora, con cui costruire progetti chiari e visibili. L’unico consiglio che potrei dare a Beppe è di prendere una strada come questa, di guardare bene con chi lavori».

Vero, Bologna (e a ruota l’Emilia-Romagna) una strada l’ha presa. Ma certo non con i risultati di cui parla il capogruppo felsineo. Dopo l’eliminazione di Defranceschi alle regionali, l’uscita della deputata imolese Mara Mucci e quella di Pizzarotti a Parma, l’operazione di “bonifica” di Bugani sembra quasi compiuta. Traballa la senatrice Elisa Bulgarelli e si tiene alla larga l’attuale capogruppo in Senato Michela Montevecchi. Solo “gente fidata”. Come Marco Piazza, l’altro storico consigliere comunale attualmente indagato nell’inchiesta sulle firme false.

E a rimetterci, è proprio la salute del Movimento, che in provincia di Bologna ha perso consiglieri su consiglieri, attivisti e inevitabilmente, voti, tanti. Ne sono stato esempio lampante le elezioni regionali e l’imbarazzante risultato alle scorse comunali, dove il Movimento 5 stelle è riuscito a conquistare Torino e Roma, mentre a Bologna non si è nemmeno lontanamente avvicinato al ballottaggio, nel quale a sfidare il sindaco uscente Virginio Merola è stata la Lega Nord. L’ultima defezione a Budrio (qui un’intervista ad Antonio Giacon, che spiega bene lo svuotamento della base attualmente in corso nel bolognese).

L’intervista di Bugani viene riportata a Pizzarotti, che comprensibilmente, si infuria. E qualche sassolino dalla scarpa, se lo toglie.

«Bugani è un emissario della Casaleggio Associati e di Beppe Grillo. Una persona dannosa, che a Bologna ha fatto solo macerie e che ora vuole mettere le mani su Parma. Non ha un ruolo definito, a Bologna molti consiglieri se ne sono andati. Ormai essere ortodossi e obbedire al padrone è un trend, così come lo è difendere solo chi resta allineato. Guardate Genova: Putti è una brava persona, intelligente e preparata, ma aveva idee contrapposte alla fedelissima e talebana Salvatori. E allora in Liguria M5s ha sempre difeso la Salvatori senza ascoltare gli altri. Il fatto è che la libertà fa paura».

L’intervista completa a Federico Pizzarotti, uscirà sul prossimo numero di Left in edicola il 4 febbraio.

«La sinistra rialza la testa e guarda al futuro». Il discorso integrale di Benoît Hamon

epa05753281 Supporters hold signs to support French former education minister Benoit Hamon (C) after his speech during his meeting before the secound round of the party primaries in Montreuil, France, 26 January 2017. According to the latest reports Hamond placed first with 36.12 percent of votes. Former education minister Benoit Hamon will take on former prime minister Manuel Valls in a run-off vote on 29 January 2017. EPA/CAROLINE BLUMBERG

«Per prima cosa ringrazio tutti gli elettori di sinistra che hanno partecipato a queste primarie. La vostra mobilitazione è il segno di una sinistra viva e vibrante, che mi dà stasera una forza considerabile per rappresentarvi e vincere queste elezioni presidenziali. Questa sera la sinistra rialza la testa, si volta verso il futuro e vuole vincere. Ringrazio l’alta autorità e il suo presidente Thomas Clay per la qualità del lavoro svolto, e porgo un saluto sincero, caloroso e amichevole a Manuel Valls con cui ho appena parlato a telefono. Durante il nostro dibattito di mercoledì, che è stato sereno, abbiamo spiegato le nostre differenze ma abbiamo saputo dire, credo, che non saranno irriducibili quando dovremo affrontare i nostri veri avversari. Ringrazio con molta emozione quelli che hanno votato per me oggi e le migliaia di persone che si sono mobilitate durante questi mesi di campagna: siete il cuore valente e battente della Francia.

Misuro, cari concittadini e concittadine, con gravità e lucidità la responsabilità che mi avete affidato stasera, la misuro con fiducia, non è un peso ma un impulso. Ho l’onore di poter incarnare, dopo François Mitterrand, Lionel Jospin, Ségolène Royal e François Hollande, ciò che attendete rispetto al progresso e la vostra domanda di giustizia. Ma voglio tracciare un cammino nuovo. Ho la convinzione che davanti ad una destra dei privilegi, una destra conservatrice e un’estrema destra distruttrice, il nostro paese ha bisogno di una sinistra, ma di una sinistra moderna, innovatrice, volta verso il futuro, che pensa il mondo per com’è e non per com’è stato, che sia capace di fabbricare e portare avanti un futuro desiderabile.

Tutta la mia campagna elettorale si è svolta verso questo orizzonte, tutti gli incontri che ho fatto hanno rinforzato la certezza che siamo una nazione che si appassiona alla giustizia, che ama la libertà, che è aperta alle differenze e al mondo ma che si dimentica e si perde quando guarda nostalgicamente al passato, si chiude nei conservatorismi, non riesce a lasciarsi alle spalle le discussioni passate. Bisogna scrivere una nuova pagina della nostra storia che vogliamo tutti. Vogliamo prosperare nel lavoro e nel tempo libero, vogliamo quindi inventare la protezione sociale e il pieno impiego del ventunesimo secolo davanti alle mutazioni del lavoro, alla persistenza della povertà, a una disoccupazione che rimane alta e allo sviluppo delle condizioni di vita e di lavoro precario. Io non mi rassegno alla fatalità.

Il reddito universale di esistenza, permetterà di vivere il lavoro più liberamente, di sceglierlo piuttosto che subirlo. Possiamo vivere anche in un ambiente armonioso e accogliente. La nostra economia ha bisogno di un nuovo modello di sviluppo che non fondi tutto il suo successo sulla crescita della ricchezza economica ma che si impegni risolutamente nella transizione ecologica rispettosa della biodiversità, della nostra salute e del nostro quadro di vita. Vogliamo infine decidere collettivamente del nostro avvenire: grazie alla sesta repubblica restituirò il potere che non avrebbe mai dovuto cessare di essere nelle vostre mani.

Ma vorrei anche fornire i mezzi affinché una politica di eguaglianza nella scuola e nei servizi pubblici sia una realtà e non solo una parola. Il bel principio di laicità sarà il fondamento della coesione della nostra società. Lo dico e lo confermo, non credo all’uomo della provvidenza, non pretendo di detenere la verità, che la lascio ai filosofi e agli uomini di fede. Preferisco sempre il noi all’io, la mia responsabilità di proporvi un cammino che vi invito a intraprendere al mio fianco, lucidamente, seriamente, sapendo che ciò che non impedisce di essere risoluti, positivi e sorridenti.

Domani comincerò a riunire i socialisti, tutti i socialisti, perché i socialisti sono la mia famiglia politica e a loro ho consacrato trent’anni di impegno. So cosa devo a Michel Rocard, alla sua incredibile capacità di percepire e anticipare le mutazioni del mondo e proporre delle risponde sia giuste che innovative; so cosa devo a François Mitterrand e alla sua convinzione che l’unità della sinistra è stata il talismano del suo successo e che i socialisti non devono mai tirarsi indietro davanti alle responsabilità del potere. Sarò fedele a questo doppio impegno.

Bisognerà anche unire la sinistra e gli ecologisti: se esistono delle differenze le idee che condividiamo sono altrettanto numerose , mai le forze progressiste rinunceranno a parlarsi a costruire insieme. Da lunedì proporrò a tutti i candidati di queste primarie, ma anche a tutti quelli che si riconoscono nella sinistra e nell’ecologia politica, e penso in particolare Yannick Jadot e Jean Luc Mélenchon, di non pensare che all’interesse dei francesi anche a scapito di quello personale. A loro proporrò di costruire insieme una maggioranza di governo coerente e durevole per il progresso sociale, ecologico e democratico.

Stasera voglio, infine, parlare alla gioventù francese. Ogni generazione, diceva Tocqueville, è un popolo nuovo. Voglio dirlo a voi che vi siete impegnati in queste primarie al di là di tutti i pronostici: sta a voi decidere che popolo volete essere e in quale Francia volete vivere e fare dei figli. Sono convinto che la vostra energia, la vostra creatività e la vostra solidarietà mostreranno la strada a tutti i francesi. Certo, non mancano ragioni per essere inquieti e il mondo che vi è promesso è più instabile che mai: l’ascesa al potere di Donald Trump negli Stati Uniti, la pressione portata da Vladimir Putin sull’Europa e sulla situazione nel vicino e Medio Oriente, la minaccia del terrorismo islamista alle nostre porte, i pericoli ecologici che accrescono il debito che abbiamo nei confronti della natura. Ma noi sappiamo che se affrontiamo queste sfide con paura finiremo con i candidati della paura. Voglio quindi riunire i francesi, tutti i francesi intorno a un futuro desiderabile: costruiremo una nuova Francia fiera di se stessa, noi siamo sessantasei milioni di cuori che battono, insieme faremo battere il cuore alla Francia. Viva la Repubblica, viva la Francia!»

Traduzione a cura di Francesco Maselli

L’ultimo live dei Beatles e l’apice della loro «morte lenta». Don’t let me down

Il 30 gennaio 1969 i Beatles suonano per l’ultima volta dal vivo, in quello che è passato alla storia come il Rooftop Concert. Dopo aver vagliato le ipotesi di suonare su una nave, in un anfiteatro in Tunisia o nella cattedrale di Liverpool, i quattro baronetti scelgono la terrazza del loro quartier generale londinese, la Apple, al numero 3 di Savile Row per quello che sarà il loro ultimo concerto dal vivo. L’occasione sono le riprese per il progetto Get Back, un nuovo lavoro con cui i produttori provano a far superare i contrasti tra i quattro. «Tornare alle origini», come ai tempi di Please Please Me, il primo disco registrato in un’unica seduta di 12 ore nel 1962, questo doveva essere Get Back: un disco spontaneo e poco ricercato, registrato in diretta senza ricercatezze e senza elaborazioni in studio. Gli operatori addetti alle riprese e una manciata di curiosi, sarebbero stati il pubblico.
Ma solo per poco, però, finché la massa di fan che avevano appreso in qualche modo la notizia si riversano sotto il palazzo, tra le decine di poliziotti che provano a fatica a tenerli a bada.

Un giorno dopo quel live, i quattro musicisti si rinchiudono in sala d’incisione per registrare i video delle ultime tre canzoni che avrebbero dovuto completare l’album Get Back. Ma la fine dei Beatles – la band «più famosa di Gesù Cristo» – è ormai cominciata. Qualche giorno dopo, il 3 febbraio, durante la riunione d’affari della Apple (la loro società) si consuma la spaccatura: Harrison, Lennon e Starr vogliono assumere il manager degli Stones, Allen Klein, mentre McCartney vuole affidarne la gestione allo studio legale Lee Eastman Inc, lo studio del padre di Linda. A notte fonda e senza nessun risultato i tre lasciano McCartney da solo nella sala riunioni. Si consuma così quella che Lennon chiamò la «morte lenta» dei Beatles.

Dopo di allora, quello che rimane, è l’ultimo album registrato in studio dai quattro: Abbey Road. La Emi, infatti, pressa e riesce a conseguire una tregua temporanea: tra luglio e agosto del 1969, negli studi della strada da cui l’album prende il nome, Abbey Road appunto, i Beatles scrivono, provano e registrano le loro ultime canzoni insieme. Meno di un mese dopo è pronto il loro testamento artistico: Because, Something, Here Comes the Sun. Sono solo alcuni dei brani del disco che passeranno alla storia.

Non ignoriamo che la sequenza cronologica nella discografia ufficiale indichi Let It Be come ultimo album, pubblicato nel 1970, ma in verità fu registrato in presa diretta nel gennaio 1969.