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«Affrontiamo la crisi migratoria in maniera umanitaria»: fa leva sulla giustizia sociale il primo discorso di Martin Schulz

epa05758980 New appointed leader of the Social Democratic Party (SPD) and candidate for chancellor, Martin Schulz (C) gestures as he is about to speak at the SPD headquarters Willy Brandt House in Berlin, Germany, 29 January 2017. Schulz was officially nominated by the party chair at the meeting and is scheduled to be elected as party chairman during a extraordinary party confention in March. EPA/CLEMENS BILAN

Domenica 29 gennaio, Martin Schulz ha tenuto il suo primo discorso da candidato Cancelliere del Partito socialdemocratico tedesco (Spd). Parlando a una sala gremita presso il Willy Brandt Forum, nel centro di Berlino. L’ex Presidente del Parlamento europeo ha delineato i temi che saranno al centro della sua campagna elettorale, nonché la sua visione politica per la Germania e l’Europa.

«Il ruolo della Spd è quello di garantire la “giustizia sociale”, rafforzare la fiducia reciproca tra i cittadini e, così facendo, far avanzare il Paese», ha esordito Schulz invocando una politica vicina alla classe media e popolare. «L’Spd partecipa alle elezioni del 2017 per diventare la prima forza politica del Paese», ha annunciato. «E io corro per diventare Cancelliere federale».

Successivamente, l’ormai ex Presidente del Parlamento europeo ha parlato della necessità di affrontare la crisi migratoria attraverso un approccio «umanitario», attaccando «le cause del fenomeno». Queste sono da ricercare nei «livelli di povertà e di instabilità economica nei Paesi di partenza». Ma non si possono certo chiudere gli occhi di fronte alla presenza dei migranti nei nostri territori: le amministrazioni locali «vanno sostenute» finanziariamente e logisticamente, ha detto Schulz.

Dopo aver puntato il dito contro Donald Trump, Schulz ha parlato di Europa e si è rivolto alle forze politiche che cercano vogliono opporre gli interessi nazionali e quelli del Vecchio continente (Schulz ha fatto riferimento esplicito a Marine Le Pen e Geert Wilders): «La “politica europea” è “politica interna tedesca” e questa ultima, a sua volta, influisce sullo stato dell’Unione», ha affermato con vigore il politico originario di Hehlrath (ora Eschweiler, nel distretto di Aquisgrana, ndr.).

Poi Schulz ha fatto riferimento alla sua vita giovanile, marcata da problemi di alcolismo, e alla sua “rinascita” sociale: dapprima come libraio, poi come sindaco, fino ad arrivare al Parlamento europeo. Perché tanti elementi biografici nel suo discorso di iniziazione? Martin Schulz ha giocato la carta dell’uomo comune, che non solo conosce le esigenze della classe media, ma che pone l’«empatia» al centro del “fare politica”.

Infine Schulz ha elencato i temi che saranno al centro della sua campagna elettorale: un rapporto rinforzato tra Partito e sindacati; una politica di investimenti per la classe media che metta al centro famiglie e bambini (Schulz ha attaccato indirettamente il Ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, per voler usare gli avanzi di bilancio per una riduzione generalizzata delle tasse); la rigenerazione delle forze di sicurezza, dopo anni di «politiche neoliberiste che hanno dissanguato lo Stato»; una politica per la digitalizzazione che metta al centro anche le aree rurali del Paese; l’educazione in quanto strumento per rafforzare le pari opportunità; una lotta al caro-affitti perché «la casa è un diritto primario» e, infine, una politica ecologica sostenibile.

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Tumore all’ovaio. Con l’esame del sangue nuova diagnosi precoce

È un tumore che colpisce quasi seimila donne ogni anno in Italia. Il cancro all’ovaio è un «killer silenzioso» perché non sempre i sintomi sono facili da riconoscere e spesso si manifestano tardivamente, quando la patologia è già in fase avanzata. Quasi l’80 per cento delle diagnosi avviene quando le possibilità di guarigione sono limitate. Complici il modo subdolo, asintomatico, con cui si sviluppa, la scarsa informazione e strumenti di diagnosi, fin qui, non altrettanto efficaci di quelli che si utilizzano, per esempio, per il tumore al seno.
Una ricerca dell’Istituto Mario Negri ora prospetta una importante svolta. La diagnosi precoce del carcinoma ovarico si potrà fare con l’analisi del sangue. «Si tratta di un campo di ricerca ancora largamente inesplorato» spiega Maurizio D’Incalci, capo dipartimento di oncologia dell’Istituto diretto da Garattini «I dati vanno presi con cautela e validati in ulteriori studi». Ma «L’analisi comparativa dei profili di miRNA serici di 168 pazienti affette da tumore sieroso ad alto grado e di 65 donne di età simile, ma non affette dalla stessa malattia, ha tuttavia evidenziato delle differenze importanti e riproducibili. In particolare vi erano delle differenze nell’espressione di tre miRNA denominati miR1246, miR595 e miR2278».
I miRNA sono delle piccole molecole di RNA che svolgono importanti funzioni regolatorie. «Sono molecole molto stabili e per questo si è scoperto di recente che vengono utilizzate dal tumore e dai tessuti del nostro organismo come degli importanti messaggeri intracellulari», spiega una nota diffusa dall’Istituto Mario Negri. In sintesi «funzionano sia all’interno della cellula sia dopo essere rilasciati in circolo come messaggeri di un processo tumorale o infiammatorio».
Interessante anche il fatto che lo studio pubbicato su Cancer letter ( clicca  sul titolo della rivista di oncologia per leggere l’originale in inglese) dica che questa ricerca potrà servire anche per stabilire se gli stessi biomarcatori sono potenzialmente utili per misurare l’efficacia della terapia in modo più sensibile rispetto alle valutazioni tradizionali di tipo radiologico.
«La possibilità di rintracciare nel sangue di un paziente le molecole che sono rilasciate dai tumori – conclude Maurizio D’Incalci – rappresenta un nuovo, valido strumento, anche meno invasivo, per migliorare i percorsi diagnostici e terapeutici».

 

Dentro la protesta contro Trump

Un momento della manifestazione di protesta sulla Fifth Avenue di Nyc, 21 Gennaio 2017. ANSA/ UGO CALTAGIRONE

Il New York Times ha realizzato una serie di video a 360° che ci mostrano le proteste contro Trump dall’interno. Eccone uno per farvi capire “dall’interno” cosa sta succedendo negli Stati Uniti e come stanno reagendo le persone alle politiche folli di the Donald. Basta schiacciare play e muovere il mouse cliccando nella direzione verso cui ci si vuole spostare per avere una panoramica completa della protesta.

Hamon vince e parla ai giovani: «Sta a voi decidere in che Francia vivere»

epa05760429 French former Education minister Benoit Hamon gestures to supporters after winning the second round of the party primaries for the 2017 French Presidential Elections, in Paris, France, 29 January 2017. Poll estimates show Benoit Hamon winning the vote with 58.5 per cent of the vote against Valls' 41 per cent. EPA/JEREMY LEMPIN

Parigi. Alle 18.50, dieci minuti prima della chiusura dei seggi, la Maison de la Mutualité è già quasi piena. È qui che Benoît Hamon ha dato appuntamento ai suoi sostenitori e alla stampa per attendere i risultati del ballottaggio da grande favorito. L’ambiente è disteso, gli strateghi della campagna elettorale si prestano volentieri alle domande dei giornalisti, la maggior parte arrivata di corsa dal comizio di François Fillon, che ha parlato poco prima a nord della capitale francese, a Porte de la Villette. Nella vasta sala allestita al primo piano si respira aria di vittoria, in molti brindano; si riconoscono subito i cronisti, tutti con taccuino e penna in mano – gli smartphone sono riservati ai social – e i militanti, tutti sorridenti e festanti, come se Hamon avesse già vinto. Persino Alexis Bachelay, suo portavoce, si rivolge ai reporter che lo circondano dando per scontata la vittoria, ragionando sui prossimi passi da compiere: “La dinamica di Benoît viene da lontano, abbiamo cominciato la campagna in autunno e non ci credeva nessuno, vedrete che sarà lo stesso per le presidenziali”, afferma.

Alla domanda, scontata, su come farà il suo candidato a superare le divisioni della sinistra – che al momento vede in campo Emmanuel Macron e Jean Luc Mélenchon, oltre al candidato socialista – risponde che sono gli altri a dover rivolgersi ad Hamon, e non il contrario: “Non parlerei di sintesi, quanto di unione. E l’unione si fa intorno alle idee, non solo intorno alle persone: noi abbiamo una base solida, un progetto serio e approfondito. Possiamo arricchirlo ma non rinunceremo alla nostra identità e alle nostre proposte distintive”. Poi la bordata all’ex compagno di governo, il leader di En Marche!, che riempie i palazzetti e rischia di attrarre la parte dell’elettorato socialista meno entusiasta del progetto di Benoît Hamon: “Se Macron si ritiene di sinistra può parlare con noi, non abbiamo pregiudizi. Ma finora non abbiamo capito da che parte sta”.

Mentre Bachelay risponde alle nostre domande la sala continua a riempirsi di simpatizzanti, reagendo con fischi e ululati al passaggio sui maxischermi del servizio di France Info sul grande evento organizzato da François Fillon. L’età media nella sala è molto bassa, la maggior parte dei sostenitori che arrivano sono studenti o poco più e le motivazioni della loro scelta sono piuttosto simili. Melanie, vent’anni, studentessa, ci spiega che uno dei punti di forza di Hamon è stato mettere al centro il tema dell’istruzione: “Hamon ha capito il malessere degli studenti, la loro difficoltà a sostenersi durante gli studi e a trovare lavoro subito dopo. Il reddito universale serve anche a questo, a consentirci di studiare senza pressioni”. Poco più in là due ragazzi e una ragazza, tra i venticinque e i trent’anni, bevono un bicchiere di vino e raccontano entusiasti della loro prima campagna elettorale da protagonisti: “Abbiamo sempre seguito la politica, ma non c’eravamo mai messi in gioco. Quello che ci ha colpito in Hamon è stata la sua capacità di mettere in primo piano le sue idee e il suo progetto, piuttosto che la sua personalità”.

Ciò che ha attirato così tanti giovani è stata la sensazione che Hamon avesse un movimento molto radicato dietro di sé, che fosse alla testa di un progetto partecipato: “No, non scrivere dietro” mi corregge Jean, il più “politico” dei tre, “scrivi intorno. Il movimento di Hamon è orizzontale, partecipativo: è stato costruito insieme a noi, grazie a noi. Lui è solo la punta dell’iceberg”. Provo ad avanzare dubbi sulla realizzabilità della più controversa delle proposte, un reddito universale di esistenza di 750 euro al mese a tutti i cittadini, che costerebbe più di 350 miliardi di euro, ma i ragazzi non vogliono sentire ragioni: “Bisogna finirla con questo mantra della crescita a tutti i costi. Ça marche pas, non funziona. Il punto non è se il reddito universale sia realizzabile o meno, il punto è che questa proposta ci consegna finalmente un orizzonte, una speranza”, afferma Lisa. Questa frase è ricorrente, quasi tutte le persone con cui parlo delle fatidiche “coperture” mi rispondono allo stesso modo: “In questi cinque anni abbiamo smesso di sognare, Hamon rappresenta la riconciliazione con le nostre idee. Il punto non è se le sue proposte sono realizzabili o meno: sinistra vuol dire anche utopia, avere il coraggio di proporre un cambiamento radicale”, argomenta Clotilde.

Intanto alle 20.45 vengono annunciati i risultati, con più della metà dei seggi scrutinati Hamon è in testa con il 58%: una vittoria chiara, netta. La sala esplode, parte la musica, in molti si abbracciano, qualcuno balla. Nella baraonda generale riesco a scambiare due parole con Richard, uno dei ragazzi dell’organizzazione: “Molti analisti hanno scritto che questo è stato un voto contro la presidenza di Hollande, ma è un’analisi incompleta. Se è vero che in giro c’è tanta voglia di voltare pagina, di “tornare ai fondamentali”, è per il nostro futuro che abbiamo sostenuto e votato Benoît. Abbiamo sposato il progetto, la sua sensibilità ai temi dell’ecologia, di cui non parla nessuno. Così come abbiamo imposto il tema del reddito universale, imporremo anche quello della transizione ecologica”.

Mentre parliamo arriva, finalmente, Benoît Hamon che, visibilmente emozionato, si fa strada tra le telecamere e raggiunge il palco. Parla sette minuti, ringrazia Valls e si dice onorato di rappresentare il suo partito alle presidenziali dopo François Mitterrand, Lionel Jospin, Ségolène Royal e François Hollande. Parla di unità, dei grandi sforzi che farà per dialogare con i membri del suo partito e con chi si riconosce nella sinistra, specialmente Jean Luc Mélenchon, leader della sinistra radicale e Yannick Jadot, leader dei verdi; nessun pensiero per Emmanuel Macron, mai citato. 

Infine, un messaggio ai giovani, alla generazione nata tra gli anni ’80 e ’90 che ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione del suo progetto e della sua vittoria: “Ogni generazione, diceva Tocqueville, è un popolo nuovo. Voglio dirlo a voi che vi siete impegnati in queste primarie al di là di tutti i pronostici: sta a voi decidere che popolo volete essere e in quale Francia volete vivere e crescere, fare dei figli. Sono convinto che la vostra energia, la vostra creatività e la vostra solidarietà mostreranno la strada a tutti i francesi”. Poi, assediato dai microfoni riesce a lasciare la Mutualité per raggiungere rue Solférino, sede del Partito socialista, dove stringerà la mano al suo avversario, Manuel Valls. Ha inizio la prima delle tante sfide che lo attenderanno nei prossimi mesi: riunire la gauche. Vaste programme.

 

L’autore dell’articolo cura una newsletter sulle presidenziali francesi che si può leggere qui

Perché il bando agli immigrati di Trump è illegale (e altre cose da sapere)

epa05760414 Policemen stand guard as demonstrators gather to protest against US President Trump's travel ban executive orders, outside of the international arrivals terminal at Philadelphia International Airport in Philadelphia, Pennsylvania, USA, 29 January 2017. President Trump issued an executive order on 27 January barring entry to people from seven Muslim majority countries for 90 days, as well as an indefinite block of Syrian refugees. EPA/TRACIE VAN AUKEN

È più che la notizia di questi giorni: è un ritorno indietro di 15 anni, ma senza la giustificazione sbagliata di un attentato come quello dell’11 settembre. L’ordine esecutivo di Donald Trump che vieta l’ingresso da 7 Paesi, ferma la concessione di visti e aumenta la quantità di tempo e procedure per ottenerne se si viene da un Paese a maggioranza musulmana è anche un obbrobrio giuridico. E come tale è stato affrontato, oltre che con decine di manifestazioni e mobilitazioni in tutti i grandi aeroporti d’America. Che si sono ripetute anche ieri.

In queste ore Merkel ha fatto lezione di Convenzione di Ginevra (quella sui rifugiati) a Trump, nei Paesi musulmani infuria la protesta e il senatore repubblicano McCain ha detto che l’ordine è un favore all’Isis. Dopo il caos che l’ordine ha generato, la Casa Bianca fa sapere che verrà modificato e il presidente ne ha difeso la ratio pur sostenendo che non è diretto ai musulmani «come i media sostengono falsamente». La prima stesura prevede il divieto di ingresso anche a chi ha una Green Card, ovvero vive e lavora stabilmente negli Stati Uniti (e magari è andato in viaggio di affari o in vacanza): sabato scorso 200 dipendenti di Google sono rimasti a casa per questo, professori non sono saliti sugli aerei e così via. Sembra che quesa e altre cose cambieranno (in fondo spieghiamo come mai la prima stesura conteneva questa parte).

Proteste anche in Europa: all’aeroporto di Amsterdam ci sono state manifestazioni e in Gran Bretagna una petizione che chiede di annullare la visita di Stati del presidente Usa a Londra ha raccolto un milioni di firme in un giorno.

Ma cosa dice, perché è illegale, da cosa è ispirato e chi sono gli avvocati che hanno impedito che centinaia di persone giunte negli Usa fossero rispedite a casa come l’iracheno che ha fato l’interprete per l’esercito Usa per dieci anni e la sua famiglia, tirato fuori dal Terminal 4 del Jfk di New York dopo 16 ore?

Cosa dice l’ordine:
Il testo di Trump sospende l’ammissione di rifugiati per 120 giorni, così come il programma per i siriani, che avevano una quota e procedure a parte. Sospende gli ingressi e l’emissione di visti da Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Il bando vale anche per i cittadini che abbiano un altro passaporto: il campione olimpico britannico-somalo, dichiarato baronetto da Elisabetta non potrebbe entrare. Così come sembra non potrà entrare il regista iraniano candidato e già vincitore all’Oscar Asghar Farhadi. L’ordine assegna priorità ai cristiani, taglia le quote di rifugiati da ammettere e consente ai singoli Stati di rifiutarne l’arrivo sul loro territorio.

Perché è illegale?
Fino al 1965 gli Usa avevano un sistema di immigrazione e visti che tendeva a tenere fuori alcuni Paesi e favorirne altri. Negli anni ’20 il Congresso, con l’intento di tenere alla larga gli asiatici, votò un sistema che favoriva i Paesi dell’Europa occidentale e teneva fuori quasi tutti gli altri. Nel 1965, sotto la presidenza Johnson (lo stesso dei diritti civili e molto altro), viene approvato l’Immigration and Nationality Act che crea un sistema dove le discriminazioni per nazionalità sono specificatamente vietate. Trump, come spiega il New York Times, si rifà a una legge del 1952, ma il testo successivo lo supera ed elimina. Ed è stato in qualche modo confermato da un emendamento del 1996. La legge non vieta di impedire l’emissione di visti (parla di immigrati, non di turisti o studenti) o il divieto per religione. Ma mai nessun presidente ha vietato a un intero popolo il permesso di entrare – tra l’altro, dall’Iran ci vogliono mesi per ottenere un visto turistico, che viene processato direttamente a Washington dopo colloqui in ambasciata e, se si è studenti e si torna a casa per una festa, si riparte dal via, il visto per studio non vale più. Una corte ha cancellato una sanatoria a milioni di migranti tentata da Obama usando un ordine esecutivo perché aggirava una norma del Congresso. Questo caso è identico.

Perché l’elenco dei Paesi contenuto nell’ordine è un paradosso?
Bastano due figure. La prima è un elenco dei morti americani ammazzati da cittadini provenienti dal Medio Oriente, come si nota, dai Paesi banditi non è arrivato nessun terrorista (c’è stato qualche caso di cittadino americano originario di quei Paesi però, va ricordato). La seconda mostra (in giallo) i Paesi della regione esclusi dal bando. Sono quelli dove Trump ha investimenti. La scelta dei Paesi è dunque puramente simbolica: gli attentatori dell’11 settembre, con questa politica, sarebbero entrati. E anche il capo attuale di al Qaeda al Zawahiri (egiziano) o il defunto creatore di al Qaeda in Iraq, al Zarqawi.

Chi sono gli avvocati che sono riusciti a far entrare nel Paese centinaia di persone?

Nel giorno in cui il bando è entrato in vigore il caos si è impadronito dei posti di frontiera. Famiglie, bambini separati dai genitori, persone rimandate a casa nonostante avessero una green card (permesso di lavoro), scienziati che hanno vinto borse. A quelli bloccati negli aeroporti ha dato una mano la pressione delle manifestazioni, ma soprattutto gli avvocati della ACLU, la American Civil Liberties Union, nata nel 1920, che lavora per difendere i diritti in diversi ambiti e molto per via legale (così si è arrivati al riconoscimento costituzionale del matrimonio tra persone dello stesso sesso). Gli avvocati hanno fatto ricorso contro l’illegalità del bando e sono riusciti ad ottenere una sentenza da un tribunale di Brooklyn che sospende il bando per le persone arrivate negli Usa con un visto valido. Lo stesso è capitato in Virginia. Qui sotto il video del direttore di Aclu fuori dalla corte di New York, dopo la sentenza.

Viene applicata la sentenza?

In parte: le organizzazioni umanitarie che monitorano la situazione negli scali dicono che c’è ancora confusione e che in alcuni di questi la polizia di frontiera continua a non rilasciare le persone, a interrogare, ammanettare. A Washington, un rappresentante democratico della Virginia ha protestato con l’agenzia di frontiera perché non gli è stato concesso di entrare in aeroporto e verificare la presenza di persone detenuto in violazione dell’ordine del tribunale.

Chi è l’ispiratore dell’ordine?

All’origine dell’ordine c’è la necessità di mostrare di colpire i musulmani. Qualsiasi cosa dica Trump, che su questo tema viene criticato persino da gruppi molto conservatori come quelli finanziati dai miliardari fratelli Koch, la cassa dei gruppi legati al Tea Party. In campagna elettorale il presidente ha parlato molte volte dei musulmani «che l’11 settembre festeggiavano a Jersey City» e ricordato come l’uomo che ha commesso la strage di Orlando, americano-afghano, ha potuto uccidere perché gli Usa hanno ammesso lui e la sua famiglia. Ovvero, i musulmani hanno una predisposizione culturale (o genetica?) a diventare terroristi. Un assurdo: nel 2016 i morti per mano di persone musulmane, non solo in atti di terrorismo, ma in generale, sono lo 0,3 del totale dei morti negli Stati Uniti. L’ordine è l’ennesimo atto simbolico per mostrare di essere coerente e radicare l’impressione che . A questo si aggiunga che Steve Bannon, il fidato stratega di del presidente, ha un’idea molto simile a quella die partiti nazionalisti di destra europei sulle relazioni tra Occidente e Islam. È stato proprio lui a voler includere anche i detentori di carta verde (chi ha un permesso di lavoro decennale e risiede legalmente negli Usa) nell’ordine esecutivo. L’amministrazione, come scriviamo sopra, ha annunciato un passo indietro su questo punto specifico. Resta l’intenzione punitiva dettata dall’ideologia pericolosa di Bannon. Che per fortuna si è scontrata con la rivolta dei cittadini Usa e lo sdegno di molti repubblicani.

 

 

 

L’Internazionale fascista che venera Trump

Il segretario generale della Lega, Matteo Salvini (C) al comizio del candidato alle primarie dei repubblicani Donald Trump a Filadelfia, 25 aprile 2016. ANSA/ UGO CALTAGIRONE

Era la giornata della memoria. Il 27 gennaio. Un diluvio di contrizione e retorica dappertutto: sui social, nei logori comunicati istituzionali, nella retorica politica. Il 27 gennaio si esercita la memoria a compartimenti stagni, quella tutta nylon: la memoria avulsa dalla realtà e dalla contemporaneità, in cui la politica è maestra.

Poi il 27 gennaio Donald Trump (quello che “democratici e repubblicani pari sono”, diceva qualcuno) emette il suo provvedimento di blocco all’immigrazione. Questione di sicurezza, dice: è la sicurezza che il suo misero vigliacco personaggio del forte contro i deboli continui a proliferare. Quando gli ultimi si fanno la guerra tra loro la politica può permettersi di non curarsene, del resto.

Decide di bloccare gli ingressi di sette paesi a maggioranza islamica ma si “dimentica” di Egitto, Turchia e Arabia Saudita poiché l’odore dei soldi gli fa venire l’acquolina in bocca, ovviamente, e gli amici non si toccano. Dice che è per scongiurare il pericolo “terrorismo” e così congegna un’iniziativa che permetterebbe l’ingresso a Bin Laden, per dire.

L’Europa si indigna. Anche Gentiloni (poco e timidamente, com’è suo costume). Dice che le porte devono rimanere aperte, Gentiloni, e intanto tiene chiusa la rotta libica e manda avanti Minniti nel ruolo di sceriffo. Ovviamente però Gentiloni si scorda di citare direttamente Trump poiché l’odore dei soldi (e del potere degli altri) rende tutti scodinzolatori nell’animo.

Poi succede che qualcuno applauda Trump. Normale. Salvini si toglie i doposcì e corre sul traduttore di Google per complimentarsi in inglese. I destrorsi applaudono. Una nuova internazionale. Fascista.

E poi in ultimo arrivano i complimenti di Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele, tutto contento. Dice che Trump è un grande per la costruzione del muro con il Messico e per lo stop all’immigrazione “illegale” (anche non c’entra nulla l’immigrazione illegale ma si sa che Benjamin ha le idee confusi sui diritti dei popoli.

Tutto iniziato nel giorno della memoria.

Buon lunedì.

Antonio e Armando, dalle stelle alle stalle

The European Parliament's new President Antonio Tajani reacts following his election in Strasbourg, eastern France, on January 17, 2017. Italian centre-right politician Antonio Tajani was elected the new president of the European Parliament on January 17, 2017 after a final round of voting, officials said. Tajani, an ally of former Italian premier Silvio Berlusconi, got 351 votes while his socialist rival Gianni Pittella got 282, outgoing leader Martin Schulz said. / AFP / FREDERICK FLORIN (Photo credit should read FREDERICK FLORIN/AFP/Getty Images)

Se non lo avessero arrestato per corruzione all’alba del 16 gennaio, Armando Cusani, sindaco di Sperlonga, sarebbe partito per Strasburgo per festeggiare con gli altri colonnelli di Forza Italia del sud del Lazio l’elezione di Antonio Tajani alla presidenza del Parlamento europeo. Lo aveva annunciato su facebook il 14 gennaio, appena due giorni prima: «Ancora tre giorni Antonio… noi ci saremo». Poi le cose sono andate diversamente e mentre Tajani festeggiava, Cusani era nel carcere di Latina.
Ma è rimasto comunque nei pensieri degli amici, in primis del suo ex capo di gabinetto Pino Simeone, oggi consigliere regionale del Lazio, che a corredo delle immagini della trionfale elezione in Europa, ha scritto: «Armando doveva essere qui con noi in questi giorni… c’è comunque il suo sentimento che è qui insieme a noi. Abbiamo salutato Antonio anche a nome di Armando».

Eccolo qui il quadretto completo, “sentimentale” ma sempre solido, del potere di Forza Italia nel fazzoletto di territorio chiamato Agro pontino, dove ogni volta che scende in campo Antonio Tajani (e succede spesso) si creano eventi degni di un concerto rock. L’ultimo è stato quello del 19 novembre 2016: palazzetto dello sport di Fondi stracolmo per ascoltare gli uomini di Forza Italia e le ragioni per cui bisognava votare No al referendum costituzionale. “Bagno di folla, quattromila persone”, ha giustamente titolato il sito della tv locale. “Applausi scroscianti” per il senatore Claudio Fazzone che da queste parti controlla ogni cosa. E questo perimetro tra mari e monti ha sfiorato l’elezione di un parlamentare europeo: doveva essere proprio lui, Armando Cusani, che ha ottenuto 54mila preferenze – non abbastanza però per far scattare il terzo seggio dopo quello di Tajani, appunto, e quello di Alessandra Mussolini.

La coppia che fa rima, Tajani-Cusani, aveva fatto una campagna elettorale in tandem. Insieme ovunque su tutto il collegio, osannati, applauditi, nonostante il candidato pontino in quel momento fosse già sospeso ex legge Severino dalla carica di presidente della Provincia di Latina, in quanto condannato in primo grado nel processo per il suo albergo abusivo sul lungomare di Sperlonga intitolato all’imperatore Tiberio. Stesso nome dell’hotel e dell’inchiesta che ha portato all’arresto di Cusani la scorsa settimana.

L’articolo integrale lo trovate su Left in edicola dal 28 gennaio

 

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Il centrista e l’utopista, sfida tra le due sinistre

Young supporter of former French prime minister and candidate for France's left-wing primaries ahead of the 2017 presidential election Manuel Valls, plaster his campaign poster next to that of left-wing candidate Benoit Hamon (R) around the French capital Paris on January 11, 2017. / AFP / JACQUES DEMARTHON (Photo credit should read JACQUES DEMARTHON/AFP/Getty Images)

Sono due sinistre irriconciliabili quelle che si affrontano domenica 29 gennaio, al ballottaggio delle primarie del Partito socialista francese. Da un lato la sinistra utopista di Benoît Hamon, quella che “fa battere il cuore alla Francia” e “vuol far respirare la democrazia” come recitano i suoi slogan. Dall’altro la gauche de gouvernement incarnata da Manuel Valls, la sinistra realista cosciente di quanto “governare sia difficile” e che vuole battersi “per una società del lavoro, che sostenga la competitività e crei impiego e innovazione”.

Dopo una campagna elettorale abbastanza corretta, senza grandi scontri personali o ideologici, gli elettori socialisti si sono divisi tra due visioni della sinistra e della società diametralmente opposte. Valls e Hamon, che hanno evitato per tutta la campagna elettorale di assumere fino in fondo le divisioni e le fratture emerse durante cinque anni di governo, saranno costretti ad affrontare, finalmente alla luce del sole, le difficoltà di convivenza nello stesso partito.

Questo articolo, integrale, lo trovate su Left in edicola dal 28 gennaio

 

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8 bufale sui migranti a cui non dovete credere

Nell’era della post-verità, ecco 8 cose da sapere sui migranti per rispondere e disinnescare la maggior parte delle bufale che circolano in rete (ma non solo) :


È un’invasione!

Nell’Unione Europea, nel 2015, su oltre 510 milioni di residenti di ogni età solo il 7% è costituito da immigrati (35 milioni). In Spagna il 10%, in Germania il 9, in Italia l’8.

Ci rubano il lavoro

Non riducono l’occupazione degli italiani, ma occupano le posizioni meno quali cate abbandonate. I loro stipendi sono inferiori e decrescono: il 48% è a rischio povertà.

Non possiamo accoglierli tutti

Tra il 2015 e il 2025 gli italiani diminuiranno di 1,8 milioni. Per mantenere la popolazione dei 15-64enni è necessario un aumento degli immigrati di 1,6 milioni di persone nel decennio.

Li ospitiamo in albergo

Vengono prevalentemente ospitati nei centri di accoglienza straordinaria (Cas): strutture temporanee spesso improvvisa- te e non conformi agli standard minimi.

Prendono 30 euro al giorno

Il costo medio è di 35 euro al giorno (45 per i minori), servono a coprire le spese di gestione e manutenzione, pagare lo stipendio degli operatori. Il “pocket money” è di 2,5 euro.

Ci tolgono risorse per il il welfare

Tra welfare e sicurezza, i costi sono inferiori al 2% della spesa pubblica. E nel 2014, i loro contributi previdenziali hanno raggiunto quota 11 miliardi: 640mila pensioni italiane.

I rifugiati politici sono troppi

Solo 1,3 milioni (dei 16 milioni complessivi) sono ospitati nell’Ue, l’8,3%. In Italia sono 118 mila, lo 0,7%.

I terroristi islamici arrivano con i barconi

I primi 4 Paesi a subire morti per terrorismo islamista sono: Afghanistan (25%), Iraq (24%), Nigeria (23%), Siria (12%). In Europa occidentale sono meno dell’1%. E solo il 5,8% di chi vive in Europa è di religione islamica.


In quanto alla foto in apertura, quella no, non è una bufala, è vera ed è stata scattata da Massimo Sestini il 7 giugno 2014. Per questa immagine Sestini è stato premiato con il World Press Photo Award.

Ne parliamo su Left in edicola dal 28 gennaio

 

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