Matteo Renzi a margine dell'assemblea degli amministratori del Pd a Rimini, 28 gennaio 2017.
ANSA/PASQUALE BOVE
Fatemi capire, per favore: ora Renzi si inventa i vitalizi che non esistono (lo spiega bene Luca qui) per cercare di anticipare le elezioni già a giugno. Dice Renzi che si abbasseranno le tasse, che si cancelleranno i privilegi e che ci sarà il ritorno al futuro.
Però. Però il governo eletto ha come socio di maggioranza lo stesso partito di cui Renzi è segretario (ma la vera domanda è: esiste ancora quel partito?) e gli basterebbe poco quasi niente per una legge che abbassi le tasse oppure che tolga presunti (inesistenti) privilegi agli eletti in Parlamento.
Ma lui no. Lui, che è un paninaro vero nell’accezione peggiore del termine, ritiene questa legislatura una pleonastica coda della sua sconfitta. E continua, per comodo suo, a credere che la gente davvero abbia a cuore un cambiamento atto ad avere lui come Presidente del Consiglio. E fa niente che nell’ultimo referendum i milioni di no che l’hanno portato alla sconfitta siano schiaffi contati uno a uno al suo bullismo da bossetto di periferia: Renzi vuole tornare a fare il Renzi in una legislatura in cui la sua presenza è l’elemento discriminante tra il bene e il male.
E chissà se qualcuno gli avrà detto, tra i suoi fedeli servili, che oggi anche nel PD alla Camera hanno applaudito contro di lui; chissà che qualcuno gli abbia riferito che nei corridoi del Parlamento si dice che addirittura si sia messo a rispondere sardonico agli sms dei nemici. «Nemmeno Crozza riuscirebbe ad imitarlo» diceva ieri qualche piddino.
Lui torna. Bullo. Ovviamente. E tutti continuano a credere che sia un’esagerazione di rivincita quando banalmente è la sua natura.
Poi si pentiranno. Da servi amici servilmente diventeranno suoi oppositori. Sperando, come al solito, che nessuno se ne accorga.
Il Festival di Berlino 2017,in programma dal 9 al 19 febbraio, si presenta all’appuntamento con la 67esima edizione con una serie di film attesissimi, a cominciare dalla pellicola che segna il ritorno di un autore cult come il finlandese Aki Kaurismaki ovvero The other side of hope che racconta di un ristoratore con la passione per il gioco d’azzardo e il suo incontro con un rifugiato siriano appena arrivato in Finlandia in cerca d’asilo. È il secondo capitolo della sua trilogia sulle città portuali: il racconto stavolta è quello di un rifugiato siriano (Simon Hussein Al-Bazoon) in cerca di asilo a Helsinki. Il film sarà presentato in concorso e c’è grande attesa, sperando che possa essere un capolavoro come il precedente film Miracolo a Le Havre. Ecco un assaggio del nuovo film:
Romanzo bruciante, di forte denuncia, The Dinner di Oren Moverman (il regista di The Messenger, Rampart) tratto dal romanzo La cenadi Hermann Koch uscito in Italia per i tipi di Neri Pozza. Romanzo importante per il modo in cui, coraggiosamente, fotografa il vuoto assoluto di affetti in famiglie alto borghesi.
Famiglie agiate, in cui la vita scorre in modo “normale”, fra impegni professionali e cene di lusso. Durante le quali si parla di tutto, progetti, vacanze, ma non del dramma che si è consumato mente loro erano “disattenti”. I loro figli quindicenni Michael e Rick, hanno picchiato e ucciso una barbona mentre ritiravano i soldi da un bancomat. Le videocamere di sicurezza hanno ripreso gli eventi e le immagini sono state trasmesse in televisione. I due ragazzi non sono stati ancora identificati ma il loro arresto sembra imminente, perché qualcuno ha scaricato su Internet dei nuovi filmati, estremamente compromettenti. Un gesto efferato compiuto senza motivo, per fatuità, che apre uno squarcio di verità agghiacciante. Con un cast stellare, a cominciare da Richard Gere (che proprio ai barboni di Roma l’anno scorso aveva dedicato un suo film da regista).
E ancora The Partycon Cillian Murphy, Emily Mortimer, Timothy Spall, Kristin Scott Thomas, Patricia Clarkson, Bruno Ganz. La regia è di Sally Potter (Orlando e Lezioni di Tango). The Party è una commedia ma si ride a denti stretti… partono le coltellate. Alla berlinale 67 anche Logan, ultimo capitolo dedicato al suo eroe con gli artigli Wolverine. Charlie Hunnam interpreta il colonnello Percival Fawcett, versione britannica di Indiana Jones, figura realmente esistita. Con lui Sienna Miller e Robert Pattinson. Per Trainspotting 2 arriva solo Danny Boyle (se ne parla su Left in edicola da sabato).
E poi si vedranno anche il dramma familiare Mahanadel neozelandese Lee Tamahori (Once we were warriors) e poi Saint Amour di Benoît Delépine e Gustave Kervern con Benoît Poelvoorde e un Gérard Depardieu nei panni di un bovaro e il fantasy Midnight Special di Jeff Nichols con Kirsten Dunst e Adam Driver.
Tra gli eventi speciali, inoltre, da segnalare la storia di un esploratore inglese in Amazzonia raccontata in The Lost City of Zdi James Gray, storia vera
ente accaduti questo film che racconta la storia del soldato e agente segreto britannico Percy Fawcett, che agli inizi del Novecento lasciò l’Inghilterra per partire verso l’Amazzonia, dove divenne ossessionato dall’idea di scoprire una civiltà avanzata che secondo lui si nascondeva nel profondo della foresta pluviale, la Città di Z del titolo. Una ricerca dalla quale non tornò mai più.
L’edizione 2017 della Berlinale fa anche il pieno di musica. Fin dall’apertura all’insegna della musica manouche con il film Django, un biopic sul leggendario chitarrista Django Reinhardt. Il film racconta la vita del geniale musicista jazz e zingaro manouche. Fu lui a inventare il Gipsy Swing, facendo tesoro della tradizione manouche capace di entrare in simbiosi con culture differenti e sussumerle e reinventarle in nuovi brani: «Il film è un appassionante ritratto di uno dei capitoli della sua vita movimentata e racconta un’importante storia di sopravvivenza. Il pericolo costante, la fuga e le atrocità commesse dalla sua famiglia non hanno mai avuto il potere di farlo smettere di suonare», ha detto il direttore del Festival di Berlino, Dieter Kosslick, in conferenza stampa. Il film è interpretato dall’attore francese Reta Kateb e diretto da Etienne Comar. Ancora ottima musica, questa volta con energia rock, con On the Road del britannico Michael Winterbottom, film che riprende la rock band indie Wolf Alice durante una tournée nel Regno Unito e in Irlanda. Protagonisti Ellie Rowsell, voce e chitarra, Joff Oddie alla chitarra, Joel Amey alle percussioni e Theo Ellis al basso. Ancora musica con E: The story of our song: storia della canzone Maori che nel 1984 arrivò in vetta alle classifiche.
Davvero straordinaria quest’anno la sezione dei documentari con il docufilm in bianco e nero su Joseph Beuys il controverso artista sciamano anni Settanta che dopo aver fatto parte dell’esercito nazista decise di dedicarsi all’arte e al pacifismo. Raccontato da Andres Veiel in elegante bianco e nero e molti spezzoni d’epoca, quando Beuys aveva un seguito da rockstar.
Last but not least il premio a Milena Canonero, costumista e quattro volte premio Oscar, che riceverà l’Orso d’oro alla carriera dopo la proiezione di un cult del cinema ad “alta tenzione” (con un indimenticabile Nicolson nel ruolo scrittore in crisi che impazzisce e continua a scrivere una sola frase «Il mattino ha l’oro in bocca”, prima di prendere un’ascia invece che una penna) ,Shining di Stanley Kubrick e di una retrospettiva con dieci titoli tra cui “Barry Lyndon” e “Il Padrino Parte III”. E ancora, da segnalare, la presenza nella sezione “Panorama” del nuovo lavoro di Luca Guadagnino “Chiamami col Tuo Nome” con un cast internazionale in cui spiccano Armie Hammer e Timothée Chalamet. Il film è stato sceneggiato dallo stesso Guadagnino con James Ivory e Walter Fasano. Il tema in effetti evoca celebri film di Ivory, come Camera con vista. Qui si racconta l’incontro in una calda estate italiana tra il diciassettenne cosmopolita Elio e il giovane accademico americano Oliver, narrata nel romanzo omonimo di André Aciman.
Come si rappresenta il silenzio? Che immagine avrebbe se fosse una foto? Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti hanno provato a rispondere dando vita a La Trilogia del Silenzio, un progetto espositivo declinato in tre mostre in programma fino al 31 luglio alla White Noise Gallery di Roma. Attualmente alla galleria potete trovare esposto fino al 25 marzo il primo capitolo della trilogia: “Fast Forward”di Jason Shulman, artista inglese di fama internazionale per la prima volta in Italia.
Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, Jason Shulman
La peculiarità del lavoro di Shulman esposto alla White Noise è quella di riuscire a comprimere in un unico scatto interi film. 13 fotografie a grande formato ciascuna delle quali di volta in volta racchiude l’America di Sergio Leone (Per un pugno di dollari), l’orrore di Dario Argento e Mario Bava (Suspiria, Inferno, I 3 volti della paura, Diabolik), l’Italia di Visconti (Il Gattopardo) e quella di Pasolini (Salò o le 120 giornate di Sodoma e Il Vangelo secondo Matteo) o la Roma di Sorrentino (La grande bellezza) e Fellini (La dolce vita). Ogni scatto composto da migliaia di frame, veri e propri frammenti di pellicola sovrapposti, si trasforma allo stesso tempo in un’enigma da risolvere che percepiamo come distante e in un qualcosa che, per ragioni istintive, colore, forme accennate, riconosciamo come vicino, attivando nel visitatore un’immediata reazione estetica.
Jason Shulman – Caligola (1979) – Fotografia digitale – 85x45cm
Proprio la dominante di colore è uno degli elementi che porta infatti lo spettatore a ricollegare la foto all’opera di un determinato regista. Se, ad esempio, la dominante ocra rimanda alla polvere del vecchio west di Sergio Leone, la dominante rosa rimanda subito ai fenicotteri ricorrenti nelle sequenze de La grande bellezza di Sorrentino. Impossibile non pensare e non vedere il riferimento ai dipinti di Gerhard Richter visitando la mostra di Jason Shulman.
Le scene del film si sovrappongono, l’audio sparisce, il movimento viene condensato e la logica del racconto perde di significato in favore di un’impressione del tutto emotiva. Ecco dunque che si è creato ad arte il silenzio.
La dolce vita di Fellini, Jason Shulman
La Grande bellezza di Sorrentino, Jason Shulman
La Trilogia del silenzio prosegue l’8 aprile con una mostra intitolata “Stand-by” dove saranno esposti i dipinti del britannico Lee Madgwick nei quali il mondo viene congelato in un’eterna istantanea, e si chiude il 14 giugno con “Rewind” dell’artista spagnola Mar Hernàndez, che, con le sue opere tra disegno, incisione e fotografia, racconta la realtà attraverso le tracce e i fantasmi di un passato che non esiste più.
Dove e quando
Jason Shulman – Fast Forward 28 gennaio – 25 marzo 2017
White Noise Gallery
via dei Marsi, 20/22 – Roma
Un fermo immagine preso dalla diretta streaming sulla webtv della Camera dei deputati mostra un momento dell'incontro, nella Sala del Cavaliere di Montecitorio, tra Pierluigi Bersani e la delegazione del Movimento 5 Stelle, Roma, 27 marzo 2013. Pierluigi Bersani e Enrico Letta per il Pd (s) e Vito Crimi e Roberta Lombardi capigruppo del M5S (d).
ANSA/FERMO IMMAGINE
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L’aveva già detto Massimo Bugani che il Movimento 5 stelle, per governare, se mai sarà primo partito alle prossime elezioni (che, per stare sulla notizia di giornata, sono allontanate da Giorgio Napolitano, che ha così messo a verbale uno stop alle tentazioni renziane) dovrà fare qualche alleanza. O meglio, ha detto – e oggi l’ha spiegato meglio a L’aria che tira, su La7 – che il Movimento 5 stelle per far nascere un suo governo, qualora dovesse ricevere un incarico dal Colle, dovrà trovare qualcuno che voti la fiducia, su «una serie di punti precisi».
Non vuole che si parli di alleanze, Bugani – sia mai! – e anzi ringrazia Myrta Merlino per la domanda: «Così posso chiarire», dice. Ma alla fine di quello parla. Un po’ come hanno scritto molti retroscenisti – guadagnandosi, come Tommaso Ciriaco di Repubblica, una smentita dal blog di Beppe Grillo – che indicano nella Lega il primo possibile interlocutore, non fosse altro per il profilo protezionista e antieuro.
Dice Bugani: «Con una legge proporzionale, non con l’Italicum, il M5s deve con trasparenza dire oggi che se vuole governare, qualora fossimo la prima forza politica, si dovranno indicare dei punti chiave e vedere però chi è disposto a darci la fiducia. Non parlo di alleanza, ma se noi vogliamo governare qualcuno che ci dà la fiducia ci deve essere».
Ma chi è Bugani? Ignoto a chi non è addentro alle questioni pentastellate, nel Movimento non è uno qualunque. Di lui su Leftabbiamo scritto più volte. Non è un peones ma uno dei principali uomini di Casaleggio, consigliere comunale a Bologna e fra i gestori dell’associazione Rousseau, quella che governa la piattaforma web dei 5 stelle. La sua non è la posizione ufficiale del Movimento, ovviamente, ma poco ci manca, visto che come sappiamo non si può parlare senza l’autorizzazione dello staff della Comunicazione. E soprattutto, svela un ragionamento peraltro assai ragionevole. È la politica, d’altronde, che funziona così: quella che il Movimento sta imparando a conoscere passo passo, crescendo lentamente, un po’ come è capitato sul mito delle dimissioni al primo avviso di garanzia: se governi anche solo un condominio il principio è quantomeno suicida oltre che costituzionalmente scorretto.
Le parole di Bugani dunque, oltre a testimoniare ancora una volta il percorso evolutivo del Movimento – che ancora ci riserverà sorprese – fa venire un po’ di curiosità. Perché se quello che pensa Bugani diventerà la linea – magari nella rodata formula di un governo di minoranza o, come precedente nostrano, della “non sfiducia” – logica vorrebbe che il principio valesse anche per governi altrui, per esecutivi non proprio 5 stelle. E la mente non potrà così che andare al 2013. Al celeberrimo streaming con Pier Luigi Bersani.
Se i 5 stelle fossero stati meno politicamente analfabeti, meno chiusi nei loro slogan, Lombardi o Crimi avrebbero potuto proporre qualcosa a Bersani, un nome alternativo, una squadra a cui dare chessò un anno o due di vita? Chi ci sarebbe oggi a palazzo Chigi? Ma soprattutto: avremmo tutti questi voucher, il jobs act, la buona scuola, eccetera eccetera? Ah, vivere di rimpianti.
epa05678851 President of Argentina Mauricio Macri takes part during a joint press conference with his Chilean counterpart Michelle Bachelet (not pictured), at the presidential residence of Olivos in Buenos Aires, Argentina, 16 December 2016. Macri, who received his Chilean counterpart, Michelle Bachelet at his residence, seeks to strengthen ties with Chile and the signing of several bilateral agreements. EPA/David Fern·ndez
Il presidente argentino Mauricio Macri ha firmato un decreto esecutivo e ha modificato la legge sull’immigrazione, aumentando le restrizioni d’ingresso e permanenza degli stranieri in Argentina, indurisce i controlli sugli stranieri che hanno precedenti penali, soprattutto se legati alla criminalità organizzata e al traffico di stupefacenti. E accelera il procedimento di espulsione, si legge sul Bollettino ufficiale di lunedì 30 gennaio. Solo nel 2016 sono stati naturalizzati 215mila stranieri in Argentina, Paese aperto che prende le distanze da Trump con i suoi portavoce, Paese dell’immigrazione per antonomasia. Lo stesso presidente Macri, non a caso, è figlio di un italiano, un calabrese che a 18 anni è venuto a cercare fortuna a Buenos Aires. Ma il vento sembra stia cambiando. Un deputato argentino, Alfredo Ormedo, ha proposto persino di costruire un muro alla frontiera con la Bolivia. E altre due categorie sensibili sono finite nel mirino degli ultraconservatori: quei “piccoli delinquenti” di minori e quei “terroristi” dei mapuche.
Dnu. Il Decreto di necessità e urgenza.
Elaborate congiuntamente dai ministeri della Giustizia, della Sicurezza e degli Esteri, dal dipartimento Diritti umani e dalla Direzione nazionale delle migrazioni, le modifiche all’attuale legge migratoria includono «cause di impedimento di ingresso e permanenza degli stranieri in territorio nazionale». L’ingresso è adesso vietato ai cittadini stranieri che abbiano precedenti penali, anche se le condanne non sono definitive per «traffico di armi, di persone, di stupefacenti o per riciclaggio di denaro, di investimenti in attività illecite e reati per i quali la legislazione argentina prevede restrizioni di libertà da tre anni in su». Per quello che concerne i delitti legati al terrorismo sarà sufficiente una semplice informazione dei servizi di sicurezza per fare scattare lo stop alla frontiera. Buenos Aires, spiegano le fonti governative, intende così rendere più evidente la separazione tra i reati comuni e quelli connessi all’espulsione dei migranti.
Il decreto presidenziale include anche altre cause ostative all’ingresso nel Paese: l’aver omesso condanne penali nel Paese di origine ed essere stati parte di reti criminali organizzate dedite al traffico di stupefacenti o di esseri umani. Di più, stabilisce che si potrà impedire l’ingresso o si potrà richiedere l’espulsione anche solo con un «rapporto che dica che la persona è coinvolta in una rete terroristica». Uno dei principali effetti della misura sarà l’accelerazione del procedimento di espulsione degli stranieri con precedenti penali, anche con “processi per direttissima”. Prima del decreto servivano 6-7 anni, adesso i migranti ai quali verrà notificato il procedimento avranno appena tre giorni per presentare ricorso – prima erano 30 giorni – al quale la Giustizia dovrà rispondere entro altri tre giorni. Il reingresso nel Paese, infine, è proibito per cinque anni in caso di delitti colposi e per otto anni in caso di delitti dolosi. Lo scorso agosto, poi, il governo Macri ha annunciato la costruzione a Buenos Aires del primo centro di detenzione per immigrati e rifugiati che sono entrati o permangono irregolarmente nel Paese, tra la levata di scudi di giuristi e organizzazioni umanitarie che insistono: le irregolarità migratorie non sono motivo di detenzione.
Le ragioni della contestazione.
Per giustificare la riforma, nel testo del decreto si segnala che il numero degli immigrati nelle prigioni del Paese è aumentato: nel 2016 gli stranieri rappresentano il 21,35% della popolazione carceraria nel Paese, e che il 33% dei detenuti per delitti legati al narcotraffico non sono argentini. Cifre che, sostengono dalla Casa Rosada, configurano «una situazione critics chr richiede l’adozione di misure urgenti». L’Argentina è uno dei Paesi del continente con la maggiore tradizione migratoria. Secondo l’ultimo censimento nazionale, conta il 4,5% della popolazione straniera. E tra i gruppi più rappresentativi ci sono il 30,5% dei paraguaiani, il 19,1% dei boliviani e l’8,7% dei peruviani.A esprimere «preoccupazione e sconcerto» per una riforma «assolutamente infondata» sono più di 130 organizzazioni di migranti, dei diritti umani, di Chiesa, accademiche e i movimenti sociali che chiedono un incontro urgente con il capo di gabinetto argentino, Marcos Peña. In una lettera aperta alla cancelliera argentina Susana Malcorra, e al segretario dei Diritti umani, Claudio Avruj, si contestano i numeri diffusi dal governo: secondo le organizzazioni meno del 6% della popolazione carceraria è composta da stranieri, e non il 21,35 come sostiene il governo. Il testo, poi, avverte sul pericolo che legare la questione migratoria a quella penale può «abilitare episodi di xenofobia e violenza contro i migranti». Anche la Caref, la Commissione argentina per i rifugiati e i migranti, ha sottolineato che «un’irregolarità amministrativa non è un delitto». E che «è stata invertita la dinamica delle politiche migratorie. Adesso una persona deve dimostrare che la sua situazione è regolare e fare in fretta».
Non solo migrante, nella stretta anche minori e minoranze.
La riforma della legge migratoria è una delle tre questioni al centro dell’opinione pubblica argentina in queste settimane: riforma della legge penale per i minorenni e violenta repressione di un gruppo “mapuche” nella Patagonia sono le altre due. Sui minori, si pensa alla riduzione dell’età di punibilità da 16 a 14 anni. Il dibattito segue al polverone mediatico esploso con la morte a Buenos Aires di Brian Aguinaco, un adolescente argentino di 14 anni, ucciso da un ragazzo peruviano di 15 durante una colluttazione provocata dallo scippo di un cellulare. La possibilità di detenere e condannare i minorenni coinvolti in reati gravi (a partire da 14 anni), si incrocia quindi con la decisione di respingere i migranti con precedenti penali. Intanto, al Sud del Paese, in Patagonia, si inasprisce la violenta repressione di alcuni membri della comunità “mapuche”, che avevano bloccato la ferrovia. L’intervento delle forze dell’ordine inviate dal governo Macri accendono nuove e vecchie questioni: “terroristi” o popoli originari che rivendicano i propri diritti?
Italian former Prime Minister, Matteo Renzi, talks during his speech at the National Assembly of Local Administrators in Rimini, Italy, 28 January 2017.
ANSA/PASQUALE BOVE
«Votare quest’anno o nel 2018 per me è lo stesso. L’unica cosa è evitare che scattino scattino i vitalizi perché sarebbe molto ingiusto verso i cittadini. Sarebbe assurdo». Così ha scritto l’ex premier e segretario del Partito democratico a Dimartedì, il programma di La7 condotto da Giovanni Floris. È con un sms dunque che Matteo Renzi interviene ufficialmente nel dibattito sulla necessità o meno del voto anticipato. Per giustificare – mostrandosi disinteressato alla scadenza – la sua voglia di urne. Parla di vitalizi, Renzi, anche perché altrimenti, si potrebbe dire, la voglia sarebbe difficile da comprendere rispetto a quando detto e fatto dal Pd negli ultimi 6 anni nel nome della responsabilità. In parlamento, infatti, c’è stessa maggioranza di prima e a palazzo Chigi un premier dello stesso partito. Volendo, insomma, di cose – ritenute dal Pd il bene del Paese – se ne potrebbero ancora fare. Invece è meglio votare, e farlo il prima possibile, innanzitutto per un certa impasse sulla legge elettorale e ora per evitare i vitalizi.
Peccato però che il vitalizio per i parlamentari non esista più. E Renzi non può non saperlo, dimostrandosi così ancora una volta disinibito nell’usare facile demagogia. È dal 2011, infatti, con applicazione dal primo gennaio 2012, che il parlamento ha introdotto per i membri di Camera e Senato un trattamento previdenziale basato su un calcolo contributivo. È una pensione, dunque, non un vitalizio. Una pensione (generosa, è vero, ma nulla di paragonabile con il passato) che scatta – solo se il parlamentare ha fatto almeno 5 anni di mandato, ed ecco a cosa si riferisce Renzi – quando l’eletto compie 65 anni. Che possono scendere fino a 60, questo sì, scendendo di un anno ogni anno di mandato ulteriore.
Le prime simulazioni calcolano che un deputato eletto nel 2013 quando aveva 27 anni (così ha ipotizzato il Fatto Quotidiano) e che cesserà il suo mandato nel 2018 senza essere riconfermato per il secondo, percepirà a 65 anni una pensione compresa tra i 900 e i 970 euro al mese. Se eletto per un secondo mandato, invece, la pensione scatterà a 60 anni e sarà di 1.500 euro al mese. Il vitalizio, invece, per un parlamentare con dieci anni di mandato – per capirci – era di 4.900 euro e rotti, sempre dai 60 anni.
L’argomento peraltro non è nuovo, e anzi Renzi riprende paro paro un allarme lanciato dai 5 stelle, sempre pronti a cavalcare presunti interessi della casta, incuranti del fatto che è proprio il loro gruppo, quello del Movimento, ad avere il 100 per cento degli eletti che, con una scadenza anticipata, perderebbero i contributi versati e, tutti al primo mandato, non avrebbero altro tipo di assegno. La nuova legge, infatti, vale ovviamente per chi non avesse già maturato altri diritti. Nella stessa situazione (qui i dati) è – per dire – il 64 per cento degli eletti Pd, sia alla Camera che al Senato, l’80 per cento di quelli di Sinistra Italiana alla Camera e il 75 al Senato, o il 14 per cento dei deputati di Forza Italia e il 33 per cento dei senatori.
#Renzi vuole evitare scatto #vitalizi e per questo vuole le elezioni?Con una semplice votazione li possiamo abolire subito.Noi siamo pronti!
Per ammantare la sua voglia di ritorno (un ritorno personale, visti i numeri in parlamento e il profilo dell’attuale presidente del consiglio, di continuità), Renzi dovrebbe dunque trovare argomenti più convincenti.
La filiale del Monte dei Paschi di Siena in via Manzoni, a Milano, in una foto del 19 dicembre 2016. ANSA/MATTEO BAZZI
Lunedì 30 gennaio, Andrea Enria, il Presidente dell’Autorità bancaria europea (Eba), si è espresso in merito alla situazione critica del sistema bancario europeo e ha appoggiato la creazione di una “bad bank” per gestire i crediti tossici in pancia agli istituti finanziari europei.
Come riporta Reuters, secondo Enria, un intervento riguardo ai così detti “non-performing loans” (Npl, “crediti non performanti”, ndr.) è diventato «urgente». Il Presidente dell’Eba ha parlato a Strasburgo nel corso di una conferenza, alla presenza di Klaus Regling, Direttore del Meccanismo europeo di stabilità (Mes).
Nello specifico, Enria ha proposto la costruzione di una “asset management company” (Amc) paneuropea, un veicolo finanziario-istituzionale che possa gestire i titoli tossici, depurando temporaneamente i bilanci delle banche.
L’Amc avrebbe come il compito di valutare il valore economico “reale” dei titoli e creare quindi un mercato per la rivendita. In questo momento infatti le banche non si liberano dei titoli tossici perché “disincentivate” da un livello dei prezzi troppo basso.
Enria ha specificato che «l’Amc avrebbe un tempo limitato – tre anni – per riuscire a piazzare i titoli». Nel caso di un mancata vendita, scatterebbero comunque le regole europee del “bail-in” che chiamano in causa, in primo luogo, gli investitori privati che hanno finanziato l’attività creditizia. Conseguentemente, nell’ottica della creazione dell’Amc non sarebbe comunque previsto alcun tipo di condivisione del rischio fra Stati membri dell’Unione.
Eppure Enria ha specificato, che almeno inizialmente, «dovrebbe essere previsto una sorta di intervento pubblico per la creazione dell’Amc». L’Amc dovrebbe infatti essere in grado di acquisire circa 250 miliardi di titoli Npl dal sistema bancario europeo.
Klaus Regling ha appoggiato la proposta di Enria che, in fin dei conti, cerca di tenere insieme i vari pezzi e attori del quadro istituzionale europeo: dai Paesi più esposti ai titoli tossici, fino alla Germania, passando per la Commissione europea. Questa ultima, negli scorsi mesi, ha sottolineato la necessità di rispettare i criteri delle regole sul “bail in”, soprattutto in relazione alla crisi bancaria italiana.
Il sistema bancario europeo detiene titoli tossici per più di mille miliardi di euro. Il maggior “contribuente” al dissesto finanziario è proprio il sistema bancario italiano, il quale ha in pancia circa un quarto dell’intero ammontare.
In ogni caso, altri dieci Paesi dell’Unione europea sono caratterizzati da un rapporto tra titoli tossici e non, che va oltre il 10 per cento. Nel suo complesso, in Europa il rapporto arriva superare il 5 per cento, un valore tre volte superiore a quello che caratterizza l’economica americana o giapponese.
epa05763826 US President Donald J. Trump announces his nominee, Neil Gorsuch, federal judge serving on the 10th U.S. Circuit Court of Appeals, for the Supreme Court in the East Room of the White House in Washington, DC, USA, 31 January 2017. Trump announced as his nominee to fill the vacancy in the Supreme Court left by the death of late Justice Antonin Scalia. In picture at right is seen Gorsuch's wife Marie Louise. EPA/JIM LO SCALZO
La cosa che salta agli occhi, potete vederlo nel video qui sotto, è il fare da reality show. Donald Trump ha nominato il giudice conservatore Neil Gorsuch. Si tratta di una delle scelte cruciali della presidenza, una di quelle destinata a durare nel tempo. Ma prima di valutarne le implicazioni torniamo al reality: nel suo breve discorso il presidente dice: «Io sono un uomo di parola e faccio quel che dico, una cosa che gli americani si aspettano da Washington e che hanno dovuto aspettare per lungo tempo». Applauso della claque, ormai una costante delle uscite di Trump. Poi nomina il giudice e dice «È o no una sorpresa?», invita Gorusch a uscire dando in qualche modo una spiegazione del perché il giudice è stato scelto: «Crede in una lettura letterale della costituzione ed ha ricevuto una conferma unanime dal Senato quando è stato nominato giudice federale…incredibile no? Con i tempi che corrono» – un riferimento all’opposizione dei democratici in Senato, che ieri hanno abbandonato le commissioni in segno di protesta, rallentando il processo di conferma dei segretari al Tesoro e alla Sanità.
Il nomination show di Trump
Le implicazioni della scelta di Trump sono semplici a dirsi: con la nomina di Gorsuch la corte torna alla composizione pre morte del giudice Scalia, altrettanto conservatore, ma più propenso al compromesso del togato morto un anno fa, ne sostituisce un altro. Il giudice Kennedy, il moderato della Corte Suprema, quello che spesso determina le maggioranze, torna a essere l’ago della bilancia. La nomina è a vita e con due giudici molto anziani, a Trump potrebbe capitare di poter determinare una nuova maggioranza conservatrice. Alla faccia dell’America che, nonostante tutto cambia. Certo è che l’83enne giudice Ginsburg, ala sinistra della Corte, non mollerà fino a quando potrà. Kennedy, magari rassicurato da Trump sul suo sostituto, potrebbe lasciare. La brutta notizia è che Gorusch ha 49 anni ed è quindi destinato a occupare il suo posto a lungo.
La scelta è molto importante per ragioni per il ruolo della Corte e per la battaglia politica che lascia presagire: c’è il piano politico e quello relativo al lavoro dei giudici. Questi sono chiamati a decidere di grandi questioni quali il diritto all’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, le armi, le dispute tra Stati e Washington o la riforma sanitaria. In questi anni, grazie a Kennedy nel caso del matrimonio e grazie a Roberts, che pure è un conservatore puro in materia etica, sulla Sanità, la Corte ha preso decisioni in sintonia con la società Usa. Le nomine di Obama, due donne appartenenti a minoranze, avevano anche trasformato l’immagine della Corte stessa. La possibilità che Trump, se qualcuno dovesse lasciare, cambi la maggioranza, fa tremare i polsi a molti negli Usa.
Specie dopo che i repubblicani hanno bloccato e impedito per un anno la nomina della persona scelta da parte di Obama, il giudice Merrick Garland, un moderato che avrebbe cambiato la maggioranza, ma che non la avrebbe spostata drasticamente a sinistra – Garland sarebbe stato con Kennedy il centro della Corte. E qui veniamo alla questione politica. In questi dieci giorni Trump ha mostrato di non voler fare compromessi né prigionieri. La nomina di un conservatore come Gorsuch è l’ennesima riprova. Cosa faranno i democratici? I repubblicani, appunto, hanno impedito la nomina per un anno e loro potrebbero fare lo stesso. A quel punto, si aprirebbe una partita procedurale: per la nomina servono 60 voti.
[divider]Il processo di nomina[/divider] Audizione presso al Commissione giustizia (11 repubblicani, 9 democratici), voto delal Commissione, dibattito in Senato e voto. In aula c’è la possibilità del filibuster, l’ostruzionismo, per aggirare il quale servono due terzi dei voti (60 su 100). I repubblicani ne hano 52. In caso di opposizione estrema dei democratici, il Grand Old Party potrebbe decidere di cambiare le regole del Senato abolendo o modificando le regole del filibuster. Una cosa che ha senso, ma che fatta senza un consenso bipartisan e dopo che i repubblicani lo hanno usato molte volte sotto Obama per impedire alle leggi di procedere, sarebbe una rottura clamorosa con la tradizione. Il senatore repubblicano McCain ha fatto sapere di non essere esattamente d’accordo.
Cosa faranno i democratici? La scelta di abbandonare le commissioni per la nomina dei Segretari al Tesoro e alla Sanità è un segnale. Alcuni senatori temono che in caso di ostruzionismo, il loro seggio potrebbe essere a rischio. Il leader democratico in Senato, Schumer, ha però dichiarato: «L’onere è sul giudice Gorsuch che deve dimostrare di essere parte di un filone culturale mainstream (non un partigiano conservatore, ndr), in questa era serve un giudice disposto a difendere con vigore la Costituzione dagli abusi del potere esecutivo e proteggere i diritti costituzionalmente sanciti di tutti gli americani. Dato il suo curriculum, ho seri dubbi sulla capacità del giudice Gorsuch di soddisfare questi requisiti». Altri gli hanno fatto eco spiegando che le scelte di Trump sull’immigrazione e quella di licenziare il Procuratore generale ad interim Yates per essersi rifiutata di difendere quell’ordine, saranno determinanti per la loro scelta. «Se su questi temi il giudice non darà risposte chiare, userò tutti gli strumenti legali per impedirne la nomina» ha detto Blumenthal, un altro senatore democratico.
La nomina del giudice, insomma, ha tutta l’aria di diventare una lunga battaglia procedurale e politica e durare mesi. Non c’è giorno che la presidenza Trump non regali colpi di scena. Non si può dire che ci si annoia, ma si può senza dubbio affermare che ci si preoccupa.