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Primo Levi, scrittore e testimone scomodo, ancora da scoprire

Primo Levi non ha ancora il posto che merita nella storia della letteratura.  Il suo essere stato ad un tempo grandisismo scrittore e testimone, il suo strenuo coraggio nel ricostruire la disumana verità dei lager, e la sua ricerca di una forma letteraria per poter dire ciò che tutti dicevano essere indicibile ne fanno ancora oggi uno scrittore scomodo, anche perché ci richiama costantemente alla nostra responsabilità in quanto italiani.

” Il nazismo in Germania è stato la metastasi di un tumore che era in Italia“, diceva, ma noi italiani ci siamo sempre aggrappati all’alibi che i campi di concentramento li avevano fatti i tedeschi. ” Li hanno fatti loro, ma li abbiamo inventati noi”, insisteva Levi ricordando stragi come quella compiuta a Torino da Piero Brandimarte negli anni Trenta.

I due volumi di opere complete di Primo Levi pubblicati da Einaudi con le nuove nore curate da Marco Belpoliti aiutano ad avvicinarci alla sua poliedrica  perosnalità di scienziato, romanziere, scrittore che ha percorso i generi più diversi, compresa la fantascienza. Questa nuova iniziativa editoriale che viene presentata oggi 27 gennaio  alla biblioteca Sormani di via Francesco Sforza a Milano dal curatore Belpoliti offre  un importante contributo nel  afar emergere un Primo Levi coraggioso nel tenere gli occhi aperti, ma anche curioso di tutto, interessato a tutti gli aspetti della vita, pieno di fantasia, anche se una vena di pessimismo affiora quasi sempre. Lo raccontiamo in un ampio pezzo su Left in edicola con interventi dello stesso Belpoliti, già autore del denso saggio  Levi di fronte e di profilo (Guanda), degli italianisti Gianfranco Pedullà e Andrea Cortellessa con la scrittrice anglo-indiana Jumpha Lahiri.
«Il percorso di scrittura di Primo Levi era molto variegato, laborioso e accidentato, ispirato a un’idea alta di letteratura», raccontaCortellessa, autore insieme a Marco Belpoliti e al regista Davide Ferrario de La storia di Levi (libro con dvd) pubblicato un paio di anni fa da Chiarelettere. Nonostante la sua scrittura sia limpidissima non è un autore facile. Lo ha rimarcato Cortellessa intervenendo alla tavola rotonda alla Casa delle letterature a Roma: «Ci sono ancora critici e perfino scrittori affermati in Italia per i quali Levi quasi non esiste». C’è anche e soprattutto una ragione di memoria storica e politica, secondo Belpoliti, alla base del fatto che Primo Levi non abbia ancora conquistato un posto di primo piano nel canone della letteratura italiana del Novecento.
«Primo Levi è un autore che sfugge alle classificazioni, la sua opera è ibrida, la sua identità prismatica. Anche per questo è uno degli autori più importanti della letteratura del Novecento non solo italiana», dice la scrittrice Premio Pulitzer Jhumpa Lahiri, che presentando l’Opera completa di Primo Levi (Einaudi) alla Casa delle letterature a Roma ha raccontato come lo scrittore italiano viene recepito in America e nei suoi corsi di scrittura creativa a Princeton. «Non si può insegnare a scrivere» avverte la scrittrice in Italia anche per presentare il suo nuovo libro Il vestito dei libri (Guanda). «Ma se non si può ma si può insegnare a scrivere un’opera d’arte si può, però, insegnare a leggere, a riconoscere la qualità letteraria di un testo. E i libri di Primo Levi mostrano bene la differenza fra testimonianza e creazione letteraria e come questi due diversi aspetti possano concorrere ad un testo profondo e originale». Poi parlando della “fortuna” di Primo Levi oltreoceano, dove molte delle sue opere sono state tradotte, aggiunge: «Mi colpisce molto che i miei studenti universitari non lo abbiano mai letto prima e che , spesso, non lo abbiano mai neanche sentito nominare. Ma in poco tempo scoprono nei suoi libri un autore rivoluzionario, capace di trasmettere un’esperienza fondamentale per ogni autore: scrivere è mettere in pratica una resistenza. Chi scrive lo fa per sopravvivere a qualcosa».

Se questo è (ancora) un uomo

Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti.  (Primo Levi, da Un passato che credevamo non dovesse tornare piùCorriere della sera, 8 maggio 1974)

In realtà, e nonostante alcune contrarie apparenze, il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano. […] Allo stesso scopo tende l’esaltazione della violenza, essa pure essenziale al fascismo: il manganello, che presto assurge a valore simbolico, è lo strumento con cui si stimolano al lavoro gli animali da soma e da traino. (Primo Levi, da «Arbeit macht frei»Triangolo rosso, ANED, novembre 1959)

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo. (Primo Levi, da Se questo è un uomo)

Io credo, lo credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato la “società dei consumi”. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo. Nel film di Naldini noi abbiamo visto i giovani inquadrati, in divisa… Con una differenza, però. Allora i giovani nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi e i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant’anni addietro, come prima del fascismo. Il fascismo, in realtà, li aveva resi dei pagliacci, dei servi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio. Nel fondo dell’anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di un’irregolamentazione superficiale, scenografica, ma di una irregolamentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa “civiltà dei consumi” è una civiltà dittatoriale. Insomma, se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo. (Pier Paolo Pasolini)

Ti voglio dire questo: la cosa dannosa del fascismo è che induce gli imbecilli a credersi molto furbi. Quanto più uno è idiota, tanto più il fascismo lo fa sentire orgoglioso di sé. Ci sono iniziative da tutte le parti, inaugurazioni, bandiere, preti, fútbol e molto silenzio. Ti tranquillizza non dover pensare, e finisci schiavo di un principe fantoccio. (Osvaldo Soriano)

Buona Giornata della Memoria

Dieci confini naturali (no, non sono muri)

Il Lago Maggiore sulle Alpi

In queste ore non si fa che parlare del muro con il Messico che Donald Trump vuole far costruire. La verità è che di confini sulla Terra ne esistono alcuni e sono quelli segnati dalla natura, non quelli costruiti dagli esseri umani. Le foto di alcuni tra questi sono qui sotto e sì, c’è anche il confine naturale tra Messico-Usa, quello del Rio Grande. Che guarda caso è la linea lungo la quale il muro non esiste già (altrove infatti, la barriera di confine è già stata innalzata e non è servita a nulla).

Cascate dell’Iguazú, generate dal fiume Iguazú al confine tra la provincia argentina di Misiones e lo Stato brasiliano del Paraná

Il Roraima è il più famoso dei numerosi tepuis che costellano la regione della Gran Sabana nello Stato venezuelano di Bolívar. Si estende su tre stati: Venezuela, Brasile e Guyana, i confini dei quali si incontrano proprio sulla sua sommità

Il ponte di Svinesund (in svedese Svinesundsbron, in norvegese Svinesundsbrua) è un ponte sull’Iddefjord presso lo Svinesund, sul confine tra Norvegia e Svezia

Il Rio Grande, Confine tra gli Stati Uniti e il Messico

Vichkut, Gorno-Badakhshan, Tagikistan, Asia centrale.
La Valle del Wakhan con il fiume Panj costituisce il confine naturale tra Tagikistan e Afghanistan

Le Epupa Falls sono una serie di cascate del fiume Kunene al confine tra la Namibia e Angola, nella regione del Kunene in Africa

Le cascate Detian-Ban Gioc, circondate da splendide colline verdi e campi coltivati a terrazze, separano la Cina dal Vietnam

La maestosa cima del Monte Everest, la montagna più alta del mondo, nella catena dell’Himalaya al confine fra Cina e Nepal

Il Lago Maggiore sulle Alpi al confine fra l’Italia e la Svizzera

Salar de Uyuni, il deserto di sale in Bolivia confine con il Cile

Italiani scontenti e divisi. Ma non anti europei. Il rapporto Eurispes 2017

Agli italiani non piace l’Unione europea e neppure la direzione presa dall’Italia. E quasi la metà (il 48,3%, un punto percentuale in più rispetto a un anno fa) non riesce a far quadrare i conti. Del resto c’è un 13,8% di persone, tra quelle che rispondono alle domande di Eurispes, che è tornata a casa a vivere con genitori o suoceri. I capitoli di spesa che rendono difficile arrivare alla fine del mese sono le rate del mutuo o l’affitto. Se intervengono spese mediche, il quadro si complica ancora. Una persona su quattro pensa di essere abbastanza o molto povera e la causa principale dello scivolamento in questa condizione è la perdita del lavoro, seguita dal divorzio e da una malattia all’interno del proprio nucleo familiare. Il dato positivo, in questo quadro non esaltante, è che la maggioranza del campione stratificato Eurispes (1084 persone), non ha perso capacità di spesa da un anno all’altro.

Quanto all’Europa, gli italiani non sono per uscirne. O almeno questo è quanto rileva l’Eurispes nel suo Rapporto 2017.  Quello fotografato è un Paese diviso, il presidente Fara parla di «più Italie distanti l’una dall’altra». L’attitudine degli italiani è andata leggermente cambiando tra l’anno scorso e questo: oggi il 48,8% si dice contrario ad uscire dall’Unione, contro il 21,5% di favorevoli (quasi un terzo, però, non si esprime). Gli italiani non vanno neppure pazzi per l’ipotesi di un referendum: evidentemente l’effetto Brexit ha avuto un effetto diverso rispetto ad altri Paesi sull’opinione pubblica italiana: il 39,1% è contrario, meno del trenta favorevole. L’instabilità probabilmente spaventa se è vero che un anno fa il 40% era per uscire dall’euro e oggi tre quarti delle persone sono per rimanere.

Quel che non piace alla stragrande maggioranza degli italiani sono le politiche europee: il 70% pensa che le politiche economiche imposte da Bruxelles siano sbagliate. Anche sui migranti: ad affrontare la crisi siamo stati lasciati soli, è l’idea, non sbagliata. Eppure, nonostante la retorica salviniana, l’Eurispes segnala che gli italiani non ritengono che sia un corso un’invasione: solo il 14,9% pensa che occorra fare qualcosa per limitare gli ingressi. Un numero che cresce molto negli anni, ma che resta molto basso.

 

 

 

 

Benoît Hamon: «La sinistra riparte solo con chi si dice “di sinistra”»

epa05750295 Candidate in the left-wing primary for the 2017 French presidential election, former French education minister Benoit Hamon (L) and former French prime minister Manuel Valls, shake hands prior to a televised debate ahead of the primary's second-round runoff, in a TV studio in La Plaine-Saint-Denis, north of Paris, France, 25 January 2017. Former education minister Benoit Hamon will take on former prime minister Manuel Valls in a run-off vote on 29 January 2017, after scoring a surprise win in the first round of a primary seen as a battle for the party's soul. EPA/BERTRAND GUAY / POOL MAXPPP OUT

In questa settimana si è intensificato lo scontro tra i due candidati finalisti delle primarie del Partito socialista, Benoît Hamon e Manuel Valls. Ieri sera, in diretta televisiva, si è svolto l’ultimo dibattito pubblico fra i due leader, in attesa del secondo turno di domenica prossima.

Numerosi i temi al centro del confronto: dal lavoro, al welfare, passando per l’ecologia , i diritti civili e la sicurezza. E la distanza fra i due socialisti è apparsa netta, sia sul piano programmatico, che attitudinale. Se Valls ha spesso ricordato che, al di là delle promesse, sarà necessario assumersi una «responsabilità di governo», Hammon ha puntato sui sogni della sinistra e la «voglia di ripartire».

Nello specifico, sul lavoro, Valls ha proposto più investimenti per la formazione professionale e una «defiscalizzazione degli straordinari». Una misura, questa ultima, che Hamon vede con sospetto, soprattutto se l’obiettivo rimane quello di far crescere l’occupazione: «La defiscalizzazione delle ore di lavoro supplementari non incentiva le nuove assunzioni».

Duro lo scontro sulla così detta “loi travail” (la riforma del mercato del lavoro approvata dal governo Hollande, ndr.). Hamon ha accusato l’ex Primo ministro di aver utilizzato la procedura legislativa disciplinata dal noto articolo 49.3 della Costituzione francese, il quale prevede, per casi del tutto eccezionali, l’assenza di dibattito parlamentare. Hamon ha assicurato che avrebbe votato contro la riforma se il Parlamento fosse stato coinvolto. E se è vero che, soprattutto in politica, i “se ed i ma” valgono ben poco, la risposta di Valls è stata spuntata: «Quando si governa, alle volte si deve essere capaci di arrivare fino fondo».

Sul Welfare, Hamon non ha dubbi: «Il reddito universale di cittadinanza può diventare un nuovo pilastro delle politiche sociali». Ma secondo Valls, lo strumento rappresenterebbe un messaggio di «abdicazione» e di «scoraggiamento» rispetto alla capacità delle persone e della politica di migliorare il funzionamento di un’economia sociale di mercato. Inoltre, Valls ha chiaramente ribadito che il programma di Hamon è «insostenibile» da un punto di vista finanziario.

Infine, i due leader socialisti hanno fatto le carezze ai due candidati progressisti indipendenti e concorrenti, Emmanuel Macron e Jean-Luc Mélenchon. Se Valls ha detto di sentirsi più vicino al primo, Hamon ha fatto intendere di non gradire l’ambiguità di Macron e ha invece strizzato l’occhiolino al candidato radicale: «Oggi la sinistra riparte da coloro che si “dicono di sinistra”».

Leggi anche:

Regno UnitoThe Guardian – Il Primo ministro Theresa May ha annunciato la pubblicazione di un “libro bianco” sulla strategia del governo per la Brexit, in funzione del voto sull’articolo 50 da parte del Parlamento

SpagnaEl Pais Lo scontro interno a Podemos durerà fino al prossimo congresso: termina senza accordo la riunione tra Iglesias e Errejón di ieri

GermaniaDie Welt – Secondo un nuovo sondaggio, l’indice di gradimento di Martin Schulz presso i cittadini tedeschi, eguaglia quello di Angela Merkel

Il ritorno della tortura? Trump in Tv sostiene che «Funziona», il Senato Usa stabilì il contrario

epa00186254 A woman identified as PFC Lynndie England of the 372nd Military Police Company holds a leash tied around the neck of a naked man in the Abu Ghraib prison. The photo, made between the summer and winter of 2003, is one of more than 1,000 digital photos obtained by the Washington Post showing naked prisoners in a variety of poses while soldiers stand around them. The photos were included in a report by Army Maj. Gen. Antonio M. Taguba and were seized by investigators probing conditions at the prison. WASHINGTON TIMES OUT, NEW YORK TIMES OUT, USA TODAY OUT, NO RESALES, INTERNET OUT, MANDATORY CREDIT THE WASHINGTON POST. EPA/exclusive to THE WASHINTON POST **MANDATORY CREDIT TO THE WASHINGTON POST*** INTERNET OUT

Si potrebbero riprendere molti clip dalla prima intervista concessa da Donald Trump a un canale televisivo. Si parla di molte cose e spesso il presidente si lascia andare a dichiarazioni improbabili. Poi ce n’è una molto grave. Trump dice più o meno: «La tortura funziona e se c’è gente che uccide gli americani, devo combattere il fuoco con il fuoco. Non vedo perché non usarla». Il presidente aggiunge che si consulterà con i suoi uomini dell’intelligence, il direttore della Cia Pompeo, il Segretario alla Difesa Mattis, ma «mi sono consultato e molte persone delle agenzie mi hanno detto che funziona». Il presidente aggiunge anche che occorre fare quel che è consentito dalla legge, ma «se mi chiedi se funziona, direi proprio di sì (absolutely)».

La domanda dell’intervistatore è il frutto di una bozza di ordine esecutivo presidenziale circolata ieri nella quale si parla di rimettere a pieno regime Guantanamo, riaprire le prigioni segrete Cia ed eventualmente pensare di ricominciare a usare tecniche come il waterboarding. Bozza che il portavoce della Casa Bianca dice non essere ancora un documento pronto da firmare.

Il tema della tortura è controverso per varie ragioni. Tralasciamo le convenzioni internazionali e l’idea che certe cose le fanno i barbari e che la differenza tra i barbari e la civiltà passa anche per come si trattano i prigionieri e come si fa la guerra. Questo per uno come Trump, evidentemente non conta molto. La questione è che le foto di Abu Ghraib e Guantanamo sono stati uno degli strumenti di propaganda cruciali per al Qaeda prima e l’Isis poi per dimostrare come l’Occidente sia il nemico del mondo islamico e per giustificare la propria brutalità. C’è bisogno di ricordare che i decapitati dei filmati dell’Isis sono sempre vestiti con una tuta arancione come i detenuti di Guantanamo?

Altre due cose che Trump dice nell’intervista sono: cominceremo a costruire il muro tra pochi mesi, poi lo faremo pagare, dopo, ai messicani; e che si, la quantità di gente presente alla sua inaugurazione è la più grande folla che abbia mai assistito alla cerimonia di giuramento del presidente. La seconda è una bugia senza appello. Quanto alla prima, il presidente messicano Pena Nieto ha ribadito che non se ne parla. Di ieri, del resto, anche l’annuncio di una commissione per investigare i brogli elettorali che avrebbero impedito al presidente di vincere il voto popolare. Aspettiamoci un tentativo di restringere i diritti di voto delle minoranze in qualche forma.

Ma torniamo alla tortura. Davvero funziona?
La commissione del Senato che ha indagato sugli orrori degli anni in cui questa veniva usata dalla Cia sui prigionieri a Guantanamo e in giro per il mondo, segnala di no. L’operazione più importante di sempre in materia di anti terrorismo è l’uccisione di Osama bin Laden. In quel caso si arrivò al leader di al Qaeda seguendo per mesi le tracce del corriere che lo teneva in contatto con il mondo esterno, Abu Ahmed al Kuwaiti. Per individuarlo, furono utili le indicazioni di un detenuto. Questi collaborava, sostiene il rapporto del Congresso del 2014, e la Cia lo torturò senza motivo e solo dopo aver già avuto una serie di informazioni rilevanti per la individuazione di al Kuwaiti (qui tutto il rapporto, durante la redazione del quale ci furono diversi episodi di intimidazione nei confronti dello staff della senatrice Feinstein, che era a capo della commissione).

Un altro esempio è la scoperta di un attentato previsto nel 2003 al consolato Usa a Karachi. La Cia ha sostenuto di avere avuto le informazioni grazie alle torture su due detenuti passati dai servizi pakistani agli americani. La verità è che quelle informazioni erano già note ai servizi di Islamabad e che questi le passarono alla Cia assieme ai detenuti. Esempi così ce ne sono molti altri.

Il rapporto segnala una serie di elementi cruciali per valutare se e come la tortura sia stata utile:
le tecniche usate erano più brutali di quanto ammesso dalla Cia, il programma non è mai stato adeguatamente monitorato, 26 detenuti sono stati torturati per sbaglio (non c’erano le condizioni, nemmeno volendo prendere per buono il programma), funzionari Cia hanno dato informazioni fuorvianti al COngresso sulla efficacia del programma, chi ha cercato di sostenere una tesi contraria, all’interno dell’agenzia di intelligence, è stato messo da parte.

In cosa consistevano le torture?
Waterboarding, ovvero simulazione di affogamento attraverso il versamento di acqua in gola e nelle narici a una persona sdraiata, legata e con gli occhi bendati. Deprivazione sensoriale, botte, deprivazione del sonno facendo ascoltare musica rock a tutto volume. E poi, ad Abu Ghraib, umiliazioni, vessazioni, maltrattamenti.

Cosa erano le prigioni Cia?
Negli anni della guerra totale al terrorismo gli Usa arrestavano (rapivano) persone sospettate di essere legate ad al Qaeda al di fuori della loro giurisdizione e senza chiedere mandati internazionali – a volte consultando la autorità locali, a volte no. La Cia aveva anche una serie di luoghi segreti nei quali torturava le persone o le deteneva al di fuori della legge statunitense in maniera da violare la legge, ma non sul territorio Usa. Spesso i prigionieri venivano passati ad altri servizi di Paesi dove i diritti umani non contano granché in maniera da consentire interrogatori ancora più brutali senza bisogno di autorizzazioni o di rimanere all’interno delle maglie degli ordini esecutivi firmati da Bush e dalla cornice legale che li autorizzava in materia di tortura.

Il caso Abu Ghraib
Nel marzo 2003 CBS diffuse delle foto che ritraevano i soldati-questurini del carcere di Abu Ghraib, in Iraq, umiliare e torturare i detenuti. Le foto generano una serie di violente reazioni nel mondo arabo e di condanne da parte delle organizzazioni che si occupano di diritti umani. L’amministrazione Bush sostenne che si trattava di casi isolati e di soldati che andavano puniti. Le inchieste successive segnalarono come l’uso di pene corporali e umiliazioni fosse diffuso ad Abu Ghraib come a Guantanamo.

I primi passi del programma di tortura della Cia

Pochi giorni dopo gli attacchi dell’11 settembre, il presidente George W. Bush autorizza la C.I.A. a catturare, detenere e uccidere membri di al Qaeda in tutto il mondo.

Febbraio 2002
Bush firma un ordine esecutivo che segnala che l’articolo 3 delle Convenzioni di Ginevra, che vieta “le mutilazioni, i trattamenti crudeli e la tortura,” non si applica ai prigionieri di al Qaeda o ai talebani.

Marzo 2002
Abu Zubaydah è il primo detenuto Cia e i suoi interrogatori vengono videoregistrati.

Agosto 2002
Una nota emessa da Jay S. Bybee, il capo dell’Ufficio del consulente legale del Dipartimento di Giustizia, dà la C.I.A. l’autorità di usare tecniche di interrogatorio “arricchite”, ovvero la tortura e il waterboarding.
Funzionari Cia usano il waterboarding almeno 83 volte su Abu Zubaydah. Nel rapporto del Senato si legge che ha fornito più informazioni nei primi mesi del suo interrogatorio – prima della tortura – che nei mesi in cui sono state utilizzate tecniche avanzate.

Assenti a noi stessi davanti a un ragazzo che muore in Canal Grande

Venezia, Canal Grande vaporetti vaporetto

Pateh Sabally, 21 anni, esce dalla stazione dei treni di Venezia, scende i gradini e si dirige inesorabilmente verso l’acqua. Quando la notizia di un morto in Canal Grande si sparge in città, i veneziani sono perlopiù increduli. Un uomo del Gambia, domenica pomeriggio, in una delle città più visitate al mondo, ha calpestato una pietra dietro l’altra fino ad inciampare nel vuoto e scomparire di fronte a centinaia di persone. Mentre i suoi vestiti si gonfiano d’acqua, qualcuno da un vaporetto vicino gli lancia un salvagente, ma Pateh non sente più nessuno, non ha nemmeno la forza di alzare le braccia.

A leggere e ascoltare i commenti ai video che hanno filmato la morte in diretta ci si sente andare a picco con lui: “Oh Africa”, “Insemenio va a casa”, “Varemengo ti ta morti eora neghite”, “Ma questo è scemo”.
Mi sembra di sentire il suono delle loro voci, le bocche spalancate, le voragini scomposte di un comportamento impietoso. Sento le braccia tendersi con i telefonini accesi, alcuni agitarsi dalla paura, altri fendere l’aria con una violenza inaudita. Sento lo spasmo di un tempo che ci ha reso incapaci di gestire istinti elementari.

Capita che in una giornata d’inverno un giovane uomo scappato dall’Africa ci muoia di fronte agli occhi e nessuno si muova. Tra noi e lui solo la parabola di una paralisi emotiva che non conosce precedenti. Ha scelto bene Pateh, o forse non ha scelto proprio niente di questa quinta infernale. Così mentre da giorni seguiamo alla televisione commossi un esercito di volontari scalare pareti di neve nella terra che trema, a un passo da noi, proprio davanti ai nostri occhi, in assenza di una qualsiasi calamità naturale, restiamo spettatori inermi dell’unica vera tragedia che avremmo potuto evitare. Assenti a Pateh, assenti a noi stessi. Assenti.

La legge incostituzionale più bella del mondo

(L-R) Maria Elena Boschi, new Italy Prime Minister, Paolo Gentiloni, and former Premier Matteo Renzi during the succession ceremony at Chigi Palace in Rome, 12 December 2016. ANSA/CLAUDIO PERI

Ribadiamo la necessità di approvare rapidamente la legge elettorale, rimane un’urgenza, non perché vogliamo andare a votare, ma perché è un elemento di credibilità per questo Parlamento. Il governo non ha mai espresso dubbi sulla legittimità costituzionale della legge approvata da questa camera, l’Italicum.

Maria Elena Boschi, 24 settembre 2014

Rottameremo le liste bloccate e insieme a loro rottameremo l’inciucismo perché la sera delle elezioni sapremo chi ha vinto. E chi vince avrà la maggioranza per governare senza ricatti dei partitini.

Matteo Renzi, 3 gennaio 2015

Se ci rivediamo tra cinque anni con la legge elettorale provata e sperimentata vedrete che quella legge elettorale sarà copiata da mezza Europa.

Matteo Renzi, 23 marzo 2015

Non voglio polemizzare con Polito. Mi colpisce che abbia iniziato il suo articolo dicendo che c‘è poco da andare fieri di questa legge elettorale. Io dico, invece, che c’è molto da andarne fieri e per motivi di merito. Secondo Polito l’Italicum non ha eguali nel resto d’Europa. Tutte le leggi elettorali dei Paesi europei sono diverse dalle altre. Accade in Francia, in Portogallo, in Grecia… Siamo sufficientemente bravi per fare il nostro modello e non copiare quello di qualcun altro.

Maria Elena Boschi, 9 aprile 2015

Sinceramente non ci sono profili di incostituzionalità, pur rispettando idee diverse.

Maria Elena Boschi, 24 aprile 2015

L’Italicum è uno spartiacque tra una classe politica inconcludente, che prometteva e poi non faceva nulla” e il suo governo, che “ci prova e ce la fa.

Matteo Renzi, 3 maggio 2015

L’approvazione definitiva dell’Italicum un passaggio fondamentale non solo perché finalmente avremo una legge elettorale che funziona e che mette definitivamente in un cassetto il Porcellum, ma perché dimostreremo ai cittadini di essere anche in grado di mantenere gli impegni e forse di ricostruire quel rapporto di fiducia indispensabile tra politici e cittadini.

Maria Elena Boschi, 3 maggio 2015

Impegno mantenuto, promessa rispettata. L’Italia ha bisogno di chi non dice sempre no. Avanti, con umiltà e coraggio. È #lavoltabuona

Matteo Renzi, 4 maggio 2015

E’ la Spagna di oggi, ma sembra l’Italia di ieri. Di ieri perché ora abbiamo cancellato ogni balletto post-elettorale. Sia benedetto l’Italicum, davvero: ci sarà un vincitore chiaro. E una maggioranza in grado di governare. Stabilità, buon senso, certezze. Punto.

Matteo Renzi, 21 dicembre 2015

Portare a casa il risultato della legge elettorale era tutt’altro che semplice. E’ stato un capolavoro parlamentare. E ci consente di non avere in Italia un effetto spagnolo.

Matteo Renzi, 29 dicembre 2015

La legge elettorale più bella del mondo era una patacca. Guarda un po’. E la cosa oramai era così risaputa che anche quelli che l’avevano fatta nelle ultime settimane fingevano averlo saputo: come un ladro che si mette a cercare il ladro insieme alla Polizia fingendo sconcerto e indignazione. Ed è solo l’ennesima puntata di un’epoca di imbonitori che in qualsiasi ambito privato sarebbero stati licenziati e si ritroverebbero una causa per danni. Perché poi qualcuno ci dovrebbe spiegare (ma non ce lo spiegherà, nonostante abbia a disposizione anche un bel blog nuovo di zecca) che ce ne facciamo di tutto il tempo perso e di tutta la retorica che questa brutta legge elettorale ha sparso in giro in mezzo alle macerie.

Bene. Bravi. Avanti così.

Buon giovedì.

(per le citazioni grazie a Possibile, qui)