De Mauro, cosa ci siamo persi
“Serve un governo che metta al primo posto la scuola. Non solo in termini di danaro – il danaro alla fine conta poco – ma in termini di cura, di attenzione. E poi serve un gran lavoro degli insegnanti, che senza essere santi ed eroi come Mario Lodi o Don Milani, devono fare in modo che gli alunni più bravi servano da sostegno e indirizzo ai meno fortunati” (da un’intervista a Linkiesta, 2016)
«Non si è mai riuscita a riformare la scuola perché la classe politica, imprenditoriale ha sempre nutrito una diffidenza verso l’istruzione. Queste classi non amano la crescita del livello d’istruzione. Norvegia e Finlandia erano paesi poveri ma hanno puntato sull’istruzione a partire dalla bellezza degli edifici. Qui gli unici edifici di valore sono quelli di Reggio Emilia e Ferrara». (da un’intervista a Panorama, 2016)
“Purtroppo l’analfabetismo è oggettivamente un instrumentum regni, un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni”. “l problema dunque, pur a diversi livelli di gravità, non è solo italiano. Anche dopo avere acquisito buoni, talora eccellenti livelli di literacy e numeracy in età scolastica, in età adulta le intere popolazioni sono esposte al rischio della regressione verso livelli assai bassi di alfabetizzazione a causa di stili di vita che allontanano dalla pratica e dall’interesse per la lettura o la comprensione di cifre, tabelle, percentuali. Ci si chiude nel proprio particolare, si sopravvive più che vivere e le eventuali buone capacità giovanili progressivamente si atrofizzano e, se siamo in queste condizioni, rischiamo di diventare, come diceva Leonardo da Vinci, transiti di cibo più che di conoscenze, idee, sentimenti di partecipazione solidale”. (da un’intervista a La Voce di New York,
“Chiesi di lasciare dopo due anni l’assessorato perché mi ero reso conto che non era compatibile col continuare a studiare, prima e dopo del resto sono stato un cane sciolto, fuori dei partiti, anche se come altri ho sperato molto tra gli anni Settanta e Ottanta nel Partito Comunista Italiano. Al ministero dell’istruzione sono stato chiamato come persona che da molti anni si occupava di educazione linguistica e scuola e che si supponeva non fosse sgradito agli insegnanti che si erano vivacemente opposti al precedente ministro. Il mio ruolo? Bene che vada quello del grillo parlante.” (da un’intervista a L’Orientale, 2015)
“È del tutto ragionevole non avere più dubbi sul fatto che ci sia una correlazione stretta tra sviluppo dei livelli di istruzione e formazione e crescita del reddito. Anche se forse non abbiamo ancora abbastanza dati analitici come invece abbiamo per il quadro d’insieme. Basti pensare ai risultati dello studio sistematico (ora interamente in rete) condotto su 140 Paesi del mondo da Robert J. Barro e Jong-Wha Lee che, di cinque anni in cinque anni, tra il 1950 e il 2010, hanno analizzato l’andamento delle curve di crescita dell’istruzione, che è salita ovunque, raffrontandole alle curve di crescita dei redditi pro-capite e del Pil. I loro dati non lasciano dubbi: lo sviluppo economico dei Paesi è legato alla crescita dell’istruzione. La correlazione è così stretta da togliere ogni dubbio.” (da un’intervista a Il Mulino, 2012)
Che il 2017 sia l’anno della democrazia diretta
L’anno è cominciato e noi ci rimettiamo al lavoro. Noi tutti intendo. Abbiamo chiuso il 2016 con un No importante, a una riforma della Costituzione che avrebbe consegnato definitivamente all’oligarchia (così l’ha definita Eugenio Scalfari nell’ergersi a suo difensore) il governo del Paese. Adesso dobbiamo mettere in campo tutti i Sì che, come abbiamo annunciato, erano dietro quel No. I primi, se la Consulta ce lo consentirà l’11 gennaio, saranno quelli ai referendum abrogativi su voucher, articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e sul ripristino della responsabilità dell’azienda appaltante, oltre a quella che prende l’appalto, in caso di violazione dei diritti dei lavoratori.
Dobbiamo poi difendere i Sì che abbiamo pronunciato con la mobilitazione del referendum sull’acqua pubblica del 2011. Siamo all’assurdo: la volontà espressa dal popolo scade come una bottiglia di latte. Il tempo è passato e qualche governante (si badi, non il Parlamento) può mettere in campo, assieme a un manipolo di Ceo, il progetto di tre, quattro macro-regioni in cui suddividere la torta della gestione privata puntando a controllare direttamente le sorgenti, come raccontiamo nel Primo piano. Questo si chiama gioco sporco, tradimento della volontà popolare. E purtroppo non lo abbiamo visto in pratica soltanto con l’acqua. Anche se poi, quando arriva il populista di turno a buttare a mare la democrazia rappresentativa con tutta l’acqua sporca, gridiamo allo scandalo.
C’è modo di incunearsi nel dualismo casta-populisti? Il modo è innestare elementi di democrazia diretta, sempre di più e sempre più efficaci, per ridare protagonismo ai cittadini e – perché no – ridimensionare la sfrontatezza di chi aggira i controlli democratici, decide nell’ombra, silenzia e reprime il conflitto. Eppure, se esercitato nelle forme democratiche, il conflitto è esso stesso democrazia, è il sale di una convivenza civile “funzionante”. Dai referendum svizzeri, al bilancio partecipato nato a Porto Alegre, fino alle assemblee divise per tavoli e coordinate da facilitatori che a Bruxelles hanno fatto raccomandazioni sulle grandi questioni. Gli esempi sono tanti, e concreti.
Resta da affrontare una questione ineludibile: nell’era della post-verità e delle disuguaglianze, della precarietà e della solitudine è sempre più difficile essere cittadini formati e informati, in grado di animare e alimentare i processi partecipativi. Per questo il nostro 2017 dovrà essere l’anno della democrazia diretta e allo stesso tempo, ancora una volta, quello della giustizia sociale. Non resta che rimboccarci le maniche e augurarci buon lavoro.

Left è in edicola dal 7 gennaio con questo e molto altro
La democrazia diretta ci salverà

Gli strumenti di democrazia diretta sono l’artiglieria del populismo? O c’è modo di utilizzarli per disinnescarlo e al tempo stesso restituire valore al termine democrazia e riavvicinare il popolo sovrano all’esercizio del potere?
Siamo partiti da queste domande per costruire la copertina del primo numero di Left del 2017. Convinti che, in un sistema senza più i partiti di massa in permanente connessione con la società, lo strumento della delega non sia sufficiente. E che occuparsi della cosa pubblica non sia in ogni caso una faccenda per pochi “tecnici”, ma una prerogativa di tutti i cittadini nel contesto di una società che redistribuisce reddito, saperi, e potere.
Dall’ormai celebre realtà più che ventennale del bilancio partecipativo di Porto Alegre alla pratica del sorteggio come strumento politico, dall’uso massiccio e popolare del referendum ai movimenti per il free web e per un’informazione libera. Abbiamo raccolto in giro per il mondo le esperienze più innovative e quelle storiche. E ne abbiamo discusso con uno dei più grandi esperti di democrazia diretta, il sociologo e politologo francese Yves Santomer, e con lo storico e animatore della stagione dei girotondi Paul Ginsborg.
La democrazia diretta ci salverà di Emanuele Profumi
Non è l’attacco sferrato da populismi totalitari ad allontanare i cittadini. È lo scontro tra democrazia e capitalismo. Se lo Stato diventa un’azienda privata e i politici freddi tecnocrati, il sistema implode. La soluzione? Rafforzare la democrazia diretta o partecipata.
Che fine ha fatto Porto Alegre? di Donatella Coccoli
Quella di Grillo non è democrazia partecipativa e neanche diretta. È democrazia carismatica, semmai. Ma gli altri partiti fanno ancora meno. Tenendo lontana la società civile. Intervista allo storico (ed ex girotondino) Paul Ginsborg
Rinnovare la democrazia da sinistra. Ecco come
È una vera rivoluzione. Come quella che ha portato allo Stato sociale o al suffragio universale. A livello locale con l’autogoverno, a livello nazionale con elementi di democrazia partecipativa. Parla Yves Sintomer, studioso di democrazia diretta e partecipata
I tentativi dei 5 stelle (falliti, per ora) di Luca Sappino
Esperimenti di democrazia diretta in Canada, Stati Uniti e Belgio di Martino Mazzonis
Una piccola rassegna di esempi di cose che già si fanno e che hanno funzionato e dei sondaggi che mostrano come i cittadini di diversi Paesi chiedano più partecipazione.

Gli articoli sulla democrazia diretta li trovi su Left in edicola dal 7 gennaio con questo e altri articoli
Il diritto di cronaca è sacro, quello di replica anche. Il caso di Nicotera
«Ci stanno linciando Tizia’». Dall’altra parte del cavo, Arturo Lavorato del Movimento 14 luglio di Nicotera (Vv). Da giorni i media locali e nazionali accusano il Movimento popolare della cittadina calabrese di voler “intimidire” una giornalista del Quotidiano del Sud, Enza Dell’Acqua. La notizia – i cui protagonisti sono tre: il Movimento 14 luglio, la giornalista Enza Dell’Acqua, la ‘ndrangheta del Vibonese – rimbalza dal Tg1 al Tg2, dal TgR al Corriere della Sera, dalle radio (qui sotto RadioRai) alle testate locali. Con i “linciati” accusati di essere “linciatori”.
Il Movimento 14 luglio non è ambiguo, né colluso
Quello di Nicotera è un Movimento popolare e informale: «Dei cittadini e delle cittadine nicoteresi in mobilitazione. Nata per difendere i beni comuni e i diritti di tutti». Si presentano così sulla loro pagina facebook, si occupano di beni comuni e principalmente di difendere il territorio e la qualità dell’acqua e del mare. «Fra i 40 promotori, sarebbe riconducibile il nome di Emanuele Mancuso, figlio del boss “Luni” Mancuso», scrivono i colleghi di Articolo 21 solidarizzando con Dell’Acqua.
Emanuele Mancuso, dal canto suo, martedì scorso ha querelato la giornalista del Quotidiano del Sud per diffamazione, come ha lui stesso reso noto su facebook. Ma il fatto è che, come lo stesso Mancuso precisa annunciando la denuncia in un messaggio al Movimento, tra lui e il Movimento 14 luglio non c’è alcun legame. Del Movimento fanno parte un centinaio di nicoteresi. Tra di loro, invece, c’è Antonio D’Agostino, che 5 anni fa per le sue denunce in seno a un comitato contro la malagestione dei lavori pubblici a Vibo Valentia ricevette a casa una testa di capretto con in bocca un proiettile per ognuno dei componenti della famiglia. E tra loro c’è pure il regista Arturo Lavorato, che conosciamo per il suo cinema d’inchiesta insieme a Felice D’Agostino. Li abbiamo anche osannati per “In attesa dell’avvento”, il corto che ha sbancato a Venezia nel 2011. Possibile che Lavorato, lo stesso Arturo di Sos Rosarno stia nello stesso Movimento insieme al figlio del boss? Glielo abbiamo chiesto. «Perché non volete parlare con noi?», esordisce Lavorato rivolgendosi a Fnsi e alla stampa che ha ormai messo in moto la macchina del copia incolla. Nessuno, fino a questo momento, li ha chiamati.
Nessuna raccolta firme. È la richiesta di una replica
È la stessa Dell’Acqua, il 31 dicembre, ad annunciare: «Avrei voluto scrivere un sereno messaggio di auguri per il nuovo anno. Invece devo rendervi edotti di una situazione assurda. Il Movimento 14 luglio ha organizzato una petizione contro di me».
Il regista calabrese tiene a chiarire che quella che è stata definita “petizione” contro la giornalista, è in realtà «una richiesta di replica e nemmeno di rettifica» al giornale sottoscritta da tutti i membri del Movimento, che essendo una organizzazione informale e orizzontale non ha un suo rappresentante legale. «Una replica non è una petizione. Il testo da noi scritto non è stato mai menzionato nel suo contenuto reale dalle prestigiose testate giornalistiche che hanno preso a linciarci mediaticamente da qualche giorno. In questi giorni veniamo linciati giornalisticamente in base alla pura e semplice menzogna che ci attribuisce una petizione per “imbavagliare una giornalista anticosche”. Imbavagliati siamo noi che, per aver osato scrivere civilmente una replica che non contiene offesa alcuna, veniamo tacciati sui media nazionali di sodalizio paramafioso». Il documento (qui sotto il testo integrale) non conteneva attacchi alla cronista ma invitava il giornale a fare «corretta informazione» rispetto al tema, molto sentito a Nicotera, dell’inquinamento dell’acqua.
Il diritto di cronaca va rispettato, quello di replica anche. In attesa che lo facciano anche gli altri, abbiamo cominciato noi.
Lavorare meno, lavorare tutti? È l’esperimento che hanno fatto in Svezia
Lavorare 6 invece che 8 otto ore al giorno riducendo considerevolmente il monte ore settimanale degli impiegati. Si tratta del nocciolo concettuale di un esperimento di welfare che è stato condotto per due anni – dal febbraio del 2015 a oggi -a Goteborg, in Svezia.
Secondo quanto riportato dal The Guardian, i risultati qualitativi legati alla salute degli impiegati e dei pazienti coinvolti indicano un importante effetto positivo. La diminuzione delle ore di lavoro ha comportato una riduzione del 10 per cento nelle assenze per malattie. Inoltre, comparando l’indice di salute percepito degli impiegati coinvolti con un gruppo di controllo (che durante lo stesso periodo, ha lavorato 8 ore al giorno), si nota un incremento del 50 per cento nel livello di benessere tra i primi.
Gli infermieri coinvolti nell’esperimento hanno inoltre volontariamente dedicato più tempo a esperienze “di natura sociale” con i propri pazienti (passeggiate e giochi all’aria aperta), rafforzando conseguentemente le attività volte a curare malattie come la demenza senile.
Allo stesso tempo, i risultati positivi arrivano a un costo contabile significativo. Durante i due anni di esperimento la struttura sanitaria ha dovuto assumere altre 15 persone per un costo annuale pari a 600mila euro circa, che equivale a un incremento del 22 per cento.
Secondo Daniel Bernmar, leader del gruppo della sinistra all’interno del Consiglio comunale della città di Goteborg, «una precisa valutazione del rapporto fra costi e benefici deve ancora essere realizzata». Intanto, Bernmar ha specificato che i costi sostenuti ammontano a circa «la metà di quelli che erano stati previsti nel 2015». Intanto, il Comune di Gothenburg ha deciso di accantonare altre risorse per esperimenti simili, ma su scala ridotta.
L’agenzia Bloomberg ha trattato la stessa notizia in maniera diversa, sottolineando i costi troppo alti dell’esperimento. Curiosamente, allo scopo è stato citato lo stesso Daniel Bernmar. Parlando con i giornalisti del The Guardian, quest’ultimo ha però negato le informazioni veicolate da Bloomberg.
Leggi anche:
Germania – Die Welt – Secondo Sahra Wagenknecht (Die Linke), le misure di risparmio applicate alla Polizia durante gli scorsi anni sono da annoverare tra le cause degli attentati di Berlino
Francia – Euractiv – Marine Le Pen (Front National): «Torniamo al Serpente monetario (sistema ECU) in vigore prima dell’euro: non creerebbe problemi alla vita dei francesi»
Addio a Tullio De Mauro, appassionato linguista e difensore della scuola pubblica
Il suo amore per la lingua italiana non si è tradotto “solo” in un’opera monumentale come il vocabolario che porta il suo nome, ma ha portato Tullio De Mauro anche a rimboccarsi le maniche impegnandosi, in prima persona, a difendere la scuola pubblica, la ricerca, la cultura umanistica (senza svalutare quella scientifica). Lo ha fatto da accademico, in cinquant’anni di insegnamento universitario, come polemista, denunciando l’analfabetismo di ritorno dovuto all’affossamento dell’università e della scuola pubblica, che il professore ha cercato di difendere in ogni modo, anche come ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001. L’eredità che Tullio De Mauro, scomparso oggi all’età di 84 anni, è enorme. La sua tenacia e la sua autorevolezza nel portare avanti battaglie per lo svecchiamento dei programmi scolastici e dell’educazione linguistica, purtroppo, non hanno avuto ascolto da parte della classe di governo italiana, da anni impegnata nel sottrarre risorse alla scuola e all’università. Lui però non si stancava di ripetere che«spendere in scuola e in educazione è un investimento per la democrazia», come ha scritto in Parole di giorni un po’ meno lontani (il Mulino, 2012).
Intellettuale finissimo, Tullio De Mauro pensava che la cultura non dovesse essere elitaria, ma alta, diffusa e condivisa. Alla critica di un’«accezione restrittiva» del termine cultura aggiungeva la denuncia di una cultura italiana ancora ideologica, troppo dominata da quello che fu definito da Prezzolini come partito degli intellettuali. Negli ultimi anni, in particolare, De Mauro era molto preoccupato per l’analfabetismo di ritorno: più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi 15 milioni sono semianalfabeti, altri 15 milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione, denunciava. Ed era sempre più preoccupato per lo scadimento progressivo dei programmi scolastici non in grado di stimolare lo sviluppo della coscienza storica e del pensiero critico necessari alla formazione intellettuale e civile delle giovani d’oggi, in un’orizzonte sempre più internazionale e globalizzato. Anche per questo sosteneva, con Martha Nussbaum, l’importanza formativa della cultura umanistica, senza svalutare – come accennavamo – il, sapere tecnico e scientifico. «Occorre fare attenzione – avvertiva il professore – non si tratta di negare il nesso fra scuola e sviluppo economico, come fa chi pensa e dice che «con la cultura non si mangia». Si tratta di leggerlo nella complessità delle vicende educative e storiche». E non smetteva di ribadire l’importanza della secolarizzazione come volano d sviluppo: «Nel 1950 la popolazione mondiale aveva un’istruzione media di 3,2 anni (quasi esattamente il dato italiano del tempo) – ha scritto De Mauro – nel 1980 di 5,3 anni, nel 2010 di 7,8 anni. Un progresso enorme».
Nato nel 1931 a Torre Annunziata, Tullio De Mauro, si laureò in Lettere classiche a Roma nel 1956. Ha insegnato all’Orientale di Napoli e per lunghi anni è stato docente di Glottologia a l’Università La Sapienza di Roma. Moltissime le sue opere, a cominciare dalla Storia linguistica dell’Italia unita, pubblicata da Laterza nel 1963. Ma soprattutto si deve a lui l’ideazione e la direzione del Grande Dizionario Italiano dell’Uso, in sei volumi pubblicato da Utet nel 1999, che già nel 2000 fu integrato da un volume di addenda comprendente 3.700 parole nuove. Tutto il suo lavoro lessicografico si situa nell’orizzonte mobile della lingua viva, cercando i lemmi più innovativi. Ma importante è stato anche il suo lavoro di ricerca sul passato. Nel 2006, per esempio, pubblicò per i tipi de Il Mulino Parole di giorni lontani dedicato alla lingua della sua infanzia. Un libro in cui riemergevano memorie di quando era bambino. In quel volume, De Mauro ricorda divertito che da piccolo pensava che «perbenito mussolini, eja eja alalà» fosse il participio passato di io perbenisco, tu perbenisci e che «il frutto del seno tuo Gesù» potesse avere a che fare con il seno e coseno che riempivano i pomeriggi di studio del fratello più grande. Capire le parole per lui era una passione , poi diventò una professione. «Linguisti non si nasce, si diventa».
Francia, il contadino a processo per aver aiutato i migranti: «Pronto a farlo ancora»
Ha aiutato centinaia di persone, dato loro da mangiare e facilitato il loro passaggio di frontiera dall’Italia alla Francia. Un contadino francese rischia fino a cinque anni di carcere per aver aiutato i migranti africani a passare il confine e trovare un riparo.
Cedric Herrou, 37, è diventato una specie di eroe popolare e ieri è cominciato il processo che lo vede imputato di essere un trafficante di esseri umani. È una delle tre persone comparse in questi giorni al tribunale di Nizza con una storia simile.
«Lo faccio perché ne hanno bisogno, ci sono famiglie che soffrono» ha detto sulle scale del tribunale, aggiungendo «Finalmente avrò modo di raccontare le cose come sono».
A ottobre, Herrou con un gruppo di attivisti ha occupato un villaggio vacanze in disuso di proprietà della SNCF (le ferrovie francesi) e aperto un campo per migranti. Prima che le frontiere venissero chiuse, Herrou spesso raccoglieva persone a piedi e le accompagnava alla stazione più vicina. Dopo la chiusura ha anche aiutato le persone a passare e per questo era già stato arrestato.
Il procuratore Jean-Michel Pretre ha chiesto Herrou anche la sospensione della patente e la confisca del mezzo con cui il contadino trasporta le sue olive e le sue uova e, nei mesi passati, anche i migranti. Il giudice acura anche Herrou di fare campagna politica e di usare il processo per fare propaganda: «Non è compito del sistema giudiziario di cambiare le legge o dare lezioni di diplomazia a un altro Paese».
La fattoria di Herrou si trova in una valle vicino alla frontiera con l’Italia, nei pressi di una pista che i migranti che tentano di aggirare i controlli al valico di Ventimiglia.
Parlando ai sostenitori accorsi a fare pressione sul tribunale, Herrou ha detto: «Se dobbiamo infrangere la legge per aiutare le persone, aiutiamole!»
A ottobre, una ricercatrice presso l’Università di Nizza, Sophia Antipolis, è stata processata per aver dato un passaggio a tre donne eritree. La sentenza in questo caso è prevista domani. I pubblici ministeri hanno chiesto una sospensione condizionale della pena di sei mesi. A dicembre, un accademico di 73 anni è stato multato1.500 euro.
Il giudizio per Herrou è previsto per il 10 febbraio.
Ah, l’amore… Con Fabio Magnasciutti è ironia che spiazza
C’è la margherita ossessionata dai suoi petali “Ti amo, non ti amo”, c’è il cuore rosso e la freccia che lo manca, c’è una superficie tutta nera che in realtà è una seppia che si giustifica dicendo: “Oggi mi sento emotiva”. Se volete entrare nel mondo poetico di Fabio Magnasciutti dovete recarvi al villino Corsini del Teatro di Villa Pamphilj a Roma, nel parco della splendida villa sulle colline vicino al Gianicolo (Porta San Pancrazio). Qui, fino al 15 gennaio è allestita la mostra Love is in the Eh? (martedì-domenica 10-17, ingresso libero).
Sono esposte le tavole originali di uno dei più importanti illustratori italiani, collaboratore di molte testate, tra cui Left, vincitore nel 2015 del premio “Miglior vignettista italiano” del Museo della satira di Forte dei Marmi, nonché docente di illustrazione editoriale allo Ied di Roma e fondatore della scuola di illustrazione Officina B5.
Domenica 8 gennaio alle ore 11,30 Fabio Magnasciutti presenterà il suo ultimo libro Nomi cosi animali (Barta), insieme a Silver, il padre di Lupo Alberto che ha scritto la prefazione del libro.

Silver, ovvero Guido Silvestri, ha tratteggiato il segno di Magnasciutti con queste parole ricche di senso:
«…intelligenza elegante delle sue riflessioni, sguardo lunare sulle cose, distaccato e apparentemente disinteressato alle miserie dell’attualità, che invece, al contrario, aggredisce alle spalle arrivandoci per vie traverse».
Intelligenza “calda”, verrebbe da dire, quella propria dell’artista che prende spunto da parole, luoghi comuni, stereotipi, banalizzazioni e fardelli quotidiani che smonta e rilegge talvolta con leggerezza, talvolta con una satira più graffiante. Anche perché il tema trattato è l’amore e allora cosa si può dire di un tema impossibile da definire? Giustamente Fabio scrive della mostra:
«Un labirinto nel quale addentrarsi ed eventualmente smarrirsi, fino a non voler cercarne più l’uscita. Come le domande rispetto alle risposte, nelle faccende amorose preferisco l’attesa, l’essere sospesi al compimento, il sogno in sé al suo realizzarsi».
Ma qualche volta, l’ironia esplode, come nella tavola in cui si vede un Immanuel Kant che parla a una donna, ossia si lancia in improbabili discorsi sulle varie critiche delle varie ragioni, estetiche ecc. ecc., e la donna in questione, che si chiama, guarda un po’, Eva, risponde al prolisso filosofo (riferimenti ai nostrani intellettuali?) con un laconico: «Immanuel, io trombo con Diabolik».
Poi ci sono i luoghi comuni, appunto, si parla di farfalle nello stomaco ma sono due iguana i protagonisti e sicuramente sono farfalle… vere. E quest’ultime, le farfalle, si vendicano di tutti quei tentativi di approcci di fantomatici seduttori che le utilizzano – «vuoi venire a vedere la mia collezione di farfalle?» – con un altro invito: «Vuoi venire a vedere la mia collezione di entomologi?». Poi c’è la rondine che dorme a testa in giù perché sta insieme al pipistrello, «La prossima volta andiamo a casa mia», dice stizzita. E poi la serie degli umani, uomo e donna, esili figure come incise sulla tavola, che parlano, si confrontano, si studiano. E le storie d’amore tra oggetti, matite soprattutto…
Non esiste una conclusione, quello che conta è la sospensione, l’attesa, il silenzio che arriva dopo lo schioccare della battuta. Del resto, quella che Fabio Magnasciutti racconta a modo suo, è materia scottante di per sé, da prendere con le molle, non esistono verità assolute. Forse l’unica verità è che non si rinunci alle emozioni, che il cuore trovi ancora un posticino nei meandri del cervello (un’altra bella tavola).
«Mi manchi», dice il cuore alla freccia che sbaglia traiettoria. Il segno poetico, scritto e disegnato, di Magnasciutti non sbaglia affatto traiettoria. Colpisce al centro.
«Servire il popolo». Le Pen presenta la sua ricetta, nazionalismo, Stato, xenofobia

«In nome del popolo». Lo slogan di Marine Le Pen non lascia spazio a equivoci, così come la promessa di fare una campagna elettorale per le elezioni di aprile che sia un incontro diretto con i francesi. La candidata del Front National si è presentata alla stampa per il lancio ufficiale della campagna e comincia proprio con un elogio della libertà di stampa e con una critica alla Turchia che imprigiona i giornalisti.
Un modo abile per parlare del modo in cui la sua campagna verrà seguita e descritta, un modo di aprire una nuova stagione e di fornire una immagine lontana da quella del padre Jean Marie, questo è il momento di fare il salto definitivo, se davvero vuole provare ad arrivare al secondo turno e essere competitiva. «Le nostre relazioni sono a volte complicate – dice Le Pen ai giornalisti – spesso non mi riconosco nelle vostre descrizioni, non me stessa, non le mie idee, non il mio partito. Ma è la libertà e io la difendo. So che non vi siete messi a fare questo mestiere per commentare l’ultima battuta». Le Pen chiede «neutralità dell’analisi, perché i francesi hanno bisogno di una esposizione rigorosa della campagna elettorale».
Le Pen chiede quindi oggettività ma sa anche bene che la sua cattiva immagine con i media può essere una forza: come segnala bene il post di Beppe Grillo sui tribunali del popolo, sparare sulla stampa e essere nemici dei media può essere un plus con l’opinione pubblica scontenta, disillusa e sospettosa nei confronti di ogni potere e istituzione – che si tratti della Tv di Stato, dei grandi giornali o degli eletti. Al contempo, si tratta di riuscire nell’operazione di dédiabolisiation (la de-demonizzazione) del partito nato dalla nostalgia della Francia di Vichy.
E infatti Le Pen ammonisce: «La stampa sorpresa dalla Brexit e da elezioni di Donald Trump. Forse perché vuole quel che vuole vedere e non ciò che c’è. Spero che la campagna elettorale sia coperta in maniera oggettiva dai media, e per questo sono attenta alla libertà di stampa». Un colpo al cerchio e uno alla botte: la leader della destra francese è allo stesso tempo rassicurante, vuole essere una candidata normale, ma anche la outsider. Ed è su quel filo che deve camminare. Marine sa che arrivare al secondo turno è nelle sue corde, ma sa anche che questa è l’occasione di una vita, sua dell’estrema destra francese, per riuscire ad arrivare all’Eliseo: i 4 candidati alle primarie della sinistra sono tutte facce stranote e interne all’establishment, il candidato del centrodestra è una vecchia conoscenza dei francesi e, al momento, solo Emmanuel Macron, con la sua candidatura «né di destra, né di sinistra» è in grado di presentarsi come una figura nuova, di rottura.
E così le parole sono estreme, ma non troppo e l’insistenza è quella su un partito di facce pulite e nuove (che è un po’ una bugia). «Il nostro non è carrierismo politico ma passione e amore, non ci rassegniamo alle sofferenze del nostro popolo. E non faremo marketing politico all’inseguimento dei sondaggi…Io parlo a tutti i francesi, in un momento cruciale in cui si deve scegliere un nuovo presidente e, auspicabilmente una nuova voce per la Francia». Popolo, popolo e ancora popolo: nella conferenza stampa, negli slogan, la leader della destra europea, che vuole organizzare un vertice e coordinarsi con tutti i partiti del continente che portano avanti idee simili alle sue (sovranità, stop immigrazione, basta Europa), fa continuamente riferimento ai francesi in quanto popolo sovrano e unito. Le Pen parla di una campagna che sarà innovativa, minuziosamente preparata e con strumenti tecnologiche nuovi, e più comizi che mai. «Voglio incontrarmi con il popolo francese, per il quale mi batto». Il popolo.
Tra i temi che Le Pen tocca ci sono le riforme istituzionali e l’abolizione delle regioni “artificiali” e ritorno alle regioni tradizionali. Suona un po’ Le Pen il vecchio? Già, basta con i confini imposti da Parigi, via con i bretoni, gli alsaziani, i baschi e così via. Cucina, vestiti tradizionali e vecchie care tradizioni locali, per Diana! E poi l’idea di un aumento della democrazia diretta: più referendum, ma più vicini al popolo e riduzione del numero dei parlamentari – questa è presa a prestito in Italia.
Infine un cavallo di battaglia: sovranità economica perché, «Come ha dimostrato Trump ottenendo la rinuncia di Ford a una fabbrica in Messico, la volontà paga, il protezionismo funziona». Se c’è la volontà le cose si fanno e «i francesi hanno un potere politico che non usano perché si sentono impotenti». Quella di Trump è una forzatura: la Ford non ha rinunciato a spostare uno stabilimento in Messico per paura delle minacce di Trump, ma perché sta rivedendo le strategie, punta all’auto elettrica e a quella senza autista e i centri di ricerca sono in Michigan, nei pressi dello stabilimento che avrebbe dovuto chiudere e che rimarrà aperto.
L’idea più forte di Le Pen, coniugata con una forte difesa dello Stato, è quella del “patriottismo economico”, «impossibile sotto l’Unione sovietica europea», come spiega un video su YouTube che risponde alle domande dell’elettore medio (“Perché sostieni Marine?”) e che sembra fatto per alfabetizzare, dare talking points ai militanti che si devono preparare ad affrontare una campagna nuova.
Se questa è la bandiera da sventolare ai comizi, c’è anche il passo indietro sull’euro. Parlando a una radio, infatti, Marine ha fatto marcia indietro rispetto all’addio alla moneta unica. Spiegando di come, nel caso di elezioni, il popolo francese voterà per un referendum sulla “Frexit”, Le Pen ha aggiunto che nel caso di addio all’Europa la Francia dovrà mantenere il franco agganciato alla moneta unica – come era con l’Ecu. I risparmiatori, impauriti dalle fluttuazioni, vanno rassicurati. Il dato interessante è che anche altri partiti No Euro, cresciuti talmente tanto da poter aspirare a candidarsi al governo del Paese, abbiano scelto di attenuare le proprie posizioni. Un conto è dire qualsiasi cosa quando si deve crescere alimentando la rabbia contro la crisi, altro è avere a che fare con la fluttuazione delle monete una volta al governo: l’interdipendenza economica europea è un fatto difficilmente aggirabile, specie da parte delle tre-quattro economie più forti.
Le Pen promette anche di mantenere le 35 ore volute dai socialisti e di cancellare lo ius soli, reintroducendo: il popolo francese deve restare tale, basta figli di immigrati che diventano cittadini. E questa è una proposta, detta in toni non salviniani, che è musica per le orecchie della parte razzista del popolo francese. E su questo non c’è bisogno di rassicurare nessuno.
E come finanzierà la campagna Marine? Perché concorrere alla presidenza, su due turni e per davvero costa soldi. Tanti. Il Front National si è visto rifiutare prestiti da banche europee e americane e così ne ha chiesti a un fondo in mano a Jean-Marie, il papà, fondatore espulso dal Fronte dopo aver pronunciato frasi che fanno a pugni con la de-demonizzazione («l’Olocausto è un dettaglio della storia»). Fin qui tutto bene.
Meno bene la richiesta di prestito a un fondo russo, che è fallito, passando a una gestione pubblica, che sembra aver chiesto i soldi indietro. La questione è controversa: i soldi dovrebbero essere restituiti tra qualche anno e il Front paga regolarmente gli interessi. Certo è che dalle corrispondenze del Cremlino hackerata da Anonymous si evince un certo favore della Russia putiniana verso Le Pen, che quando Mosca decise di annettersi la Crimea, riconobbe la legittimità di quel gesto unilaterale. Le Pen «va ringraziata» si legge in un dispaccio. Pochi mesi dopo è arrivato il prestito. In generale, la stampa francese ha rintracciato diversi legami tra il governo russo e il partito di estrema destra francese. Un segnale di come Putin stia cercando di costruire una rete di legami internazionali con i partiti populisti e di destra in giro per l’Europa.
Tra quattro settimane le primarie della sinistra indicheranno il candidato, l’ex premier socialista Valls sembra essere in netto vantaggio, ma alle primarie del centrodestra era in vantaggio Juppé e poi ha stravinto Fillon. Potremmo aspettarci sorprese. Quanto ai sondaggi nazionali, al momento il duello più probabile al secondo turno sembra quello Fillon-Le Pen. Macron è terzo, il candidato di sinistra Méleénchon quarto e qualsiasi candidato socialista quarto. Ma la campagna sta entrando nel vivo solo adesso e i candidati di sinistra hanno presentato le loro proposte negli ultimi due-tre giorni. Nei duelli (Valls-Le Pen, Fillon-Le Pen, Macron-Le Pen), la candidata di centrodestra perde sempre. Si vota ad aprile, la campagna è cominciata.













