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Meryl Streep contro Trump ai Golden Globe. La traduzione del discorso

epa05706524 A handout photo made available by the Hollywood Foreign Press Association (HFPA) on 09 January 2017 shows Meryl Streep accepting the Cecil B. DeMille Lifetime Achievement Award during the 74th annual Golden Globe Awards ceremony at the Beverly Hilton Hotel in Beverly Hills, California, USA, 08 January 2017. EPA/HFPA / HANDOUT ATTENTION EDITORS: IMAGE MAY ONLY BE USED UNALTERED +++ MANDATORY CREDIT ++ HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES/NO ARCHIVES

Meryl Streep ha fatto notizia per il discorso di ringraziamento per il Golden Globe vinto per l’interpretazione di Florence Foster Jenkins, la miliardaria stonata che voleva cantare l’Opera. In una cerimonia – che annuncia un po’ chi saranno i vincitori degli Oscar – in cui La-la-la land, il musical del 31enne regista Damien Chazelle (Whiplash) ha fatto la parte del leone con 7 premi. Il discorso di Streep è stato l’unico momento “politico” della cerimonia e persino Jimmy Fallon, che nel suo show parla spesso di politica, ha evitato battute – salvo dire: «Questo uno dei pochi posti in cui ancora si rispetta il voto popolare», parlando dei Globe e scherzando sull’esito delle elezioni presidenziali.

Il discorso di Meryl Streep è piuttosto bello ed elegante, nel senso che non è un attacco diretto, ma il ricordo della pessima retorica anti stranieri e anti media di Trump in campagna elettorale e un attacco ai modi da bullo del presidente che entrerà in carica il 20 gennaio. L’attrice fa riferimento a un momento in cui Trump, durante un comizio, ha imitato un giornalista del New York Times con disabilità. Qui sotto il discorso tradotto, la reazione di Trump è stata, naturalmente, secca: «Si tratta di un ambiente di gente di sinistra che sosteneva Hillary Clinton. E io non ho mai preso in giro il giornalista, non sono nella mia testa e quindi non possono sapere cosa pensassi». I tweet sono più espliciti: «Meryl Streep è una delle attrici più sopravvalutate di Hollywood e una valletta di Hillary, non mi conosce ma mi attacca».

Resta il tema delle reazioni dirette e immediate di Trump via Twitter. In questi giorni il miliardario-presidente ha attaccato le agenzie di sicurezza nazionale, protestato per la diffusione di notizie riservate relative all’hackeraggio russo sulle elezioni (ma non detto praticamente nulla sulla cosa in sé), elogiato Rupert Murdoch, la cui FoxNews sarà una colonna della sua presidenza, attaccato NbcNews per aver tagliato parti dell’intervista alla manager della sua campagna Kellyanne Conway. Così facendo Trump riesce a essere sempre in Tv, come ha fatto in campagna elettorale, e a nutrire il suo pubblico, accentuando le divisioni e i timori nei suoi confronti tra coloro che non lo hanno votato. La stragrande maggioranza degli americani.

In fondo al discorso di Meryl Streep il video di Trump, a voi giudicare se lo stia prendendo in giro per il fatto che Serge F. Kovaleski, il giornalista del New York Times, non ha l’uso delle braccia o se, come ha detto il futuro presidente, la sua mimica esprima il servilismo del reporter stesso.

 


Il discorso di Meryl Streep ai Golden Globes

Grazie, Stampa estera, dovrò leggere perché ho perso la voce urlando questa sera e perso la testa in un momento dell’anno. Giusto per riprendere quel che ha detto Hugh Laurie: Voi (stampa estera) e tutti noi in questa sala apparteniamo ai segmenti più diffamati dalla società americana in questo momento. Pensate: Hollywood, gli stranieri e la stampa.

Ma chi siamo noi e che cosa è Hollywood? Siamo solo persone provenienti da altri luoghi. Sono nata e cresciuta e ho studiato nelle scuole pubbliche del New Jersey. Viola è nata nella cabina di un mezzadro in South Carolina ed è cresciuta a Central Falls, Rhode Island; Sarah Paulson è nata in Florida, allevata da una madre single a Brooklyn. Sarah Jessica Parker è una di sette o otto fratelli dell’Ohio. Amy Adams è nata a Vicenza, in Italia. E Natalie Portman è nata a Gerusalemme. Dove sono i loro certificati di nascita? E la bella Ruth Negga è nata ad Addis Abeba, in Etiopia, cresciuta a Londra – o forse in Irlanda ed è qui nominata per aver interpretato una ragazza proveniente da una piccola città della Virginia.

Ryan Gosling, come tutte le persone migliori, è canadese, e Dev Patel è nato in Kenya, cresciuto a Londra, e qui ha interpretato un indiano cresciuto in Tasmania. Hollywood è dunque infestata da stranieri e da gente che viene da fuori. E se li cacciassimo tutti a calci non ci rimarrebbe nulla da guardare se non il football e le arti marziali. Che non sono arti.

Mi hanno dato tre secondi per dire queste parole: il lavoro di un attore è quello di infilarsi nella vita delle persone diverse da noi, e far sentire come ci si sente. E nell’anno passato ci sono state molte, molte, molte prove di attore potenti in questo senso. Mozzafiato.

Ma ce n’è stata una quest’anno che mi ha stordito. Colpito al cuore. Non perché fosse particolarmente buona; non c’era niente di buono. Ma è stata efficace e ha fatto il suo dovere. Ha fatto ridere l’audience a cui era destinata. È stato il momento in cui la persona che chiedeva di sedersi sulla poltrona più rispettata nel nostro Paese ha imitato un giornalista disabile che superava per privilegi, potere e per capacità di reagire. Vedere quella scena mi ha spezzato il cuore e ancora non riesco a togliermela dalla testa. Perché non era un film. Era vita reale. E questo istinto di umiliare gli altri, quando è usato da qualcuno che ha una grande visibilità, da parte di qualcuno potente, si trasmette nella vita di tutti, perché dà un pò il permesso agli altri di fare la stesse cose. La mancanza di rispetto incoraggia altra mancanza di rispetto, la violenza incita alla violenza. E quando i potenti usano la loro posizione di prevaricare gli altri tutti noi perdiamo. O.K., andare avanti con lui.

E questo mi porta alla stampa. Abbiamo bisogno di una stampa capace di esercitare il controllo sui potenti, e farli rispondere per ogni gesto oltraggioso. È per questo che i nostri fondatori hanno inserito la libertà di stampa ed espressione nella Costituzione. Quindi chiedo alla facoltosa Stampa estera e a tutti i presenti di unirsi a me nel sostenere il Comitato per la protezione dei giornalisti, perché ne avremo bisogno nell’immediato futuro, ne avremo bisogno per salvaguardare la verità.

Ancora una cosa: una volta me ne stavo sul set a lamentarmi per qualcosa – del tipo che stavamo lavorando troppo o all’ora di cena o qualcosa di simile – e Tommy Lee Jones mi disse: «Non è un già un enorme privilegio, Meryl, solo essere un attrice?». In effetti è proprio così, e dobbiamo ricordarci a vicenda il privilegio e la responsabilità di questo mestiere. Dovremmo essere tutti orgogliosi del lavoro di Hollywood che si onora qui stasera.

Come la mia amica, la Principessa Leia, mi ha detto una volta, prendete il vostro cuore spezzato, e fatene arte.

Il video di trump che prende in giro Serge Kowaleski

In prima assoluta l’inedito David Bowie, The Last Five Years

David Bowie The last five years

Andrà in onda il 10 gennaio in prima nazionale David Bowie: The Last Five Years il docufilm prodotto dalla BBC. I fans di Bowie, anche quelli che pensano di sapere proprio tutto di lui e della sua discografia, troveranno pane per i loro denti. Ma anche chi non l’ha mai ascoltato molto potrebbe trovare spunti seducenti. Perché – racconta questo nuovo film di Francis Whately – negli ultimi cinque anni, zitto, zitto, standosene lontano dai riflettori, nonostante problemi di salute,  David Bowie ha realizzato un sogno, creare un’opera totale, non solo rock, non solo teatro, non solo video, non solo musical, ma un progetto che fonde tutti questi elementi in un dittico: l’album Blackstar (potente e drammatico sequel di The next day , 2013) uscito per il suo 69esimo compleanno l’8 gennaio 2016  e il musical Lazarus. 

The Last Five Years ci fa entrare nella fucina creativa di Bowie anche attraverso le  testimonianze di musicisti  (storici collaboratori e nuovi talenti che aveva scoperto più di recente) che hanno partecipato attivamente al lavoro. Ne emerge un ritratto sfaccettato e toccante del polistrumentista, cantante, compositore, attore e pittore David Bowie, come artista a tutto tondo, sfiorando anche  questioni più intime e personali.

A raccontare l’uomo e l’artista David Robert Jones (David Bowie all’anagrafe della musica) qui sono personaggi come Tony Oursler, protagonista della scena dell’arte contemporanea con cui Bowie ha realizzato il video della canzone Where are we now. Mentre Oursler parla scorrono immagini del backstage di quel video realizzato nel 2013 in cui, defilato e silenzioso, si scorge Bowie: indossa una maglietta con la scritta Song for Norway:  tenero messaggio di addio per Hermione, la ragazza dei suoi vent’anni,  per la quale scrisse Letter for Hermione. Contenuto nell’album The next day, anche Where are we now, del resto, è un brano carico di nostalgia. Rievoca  un periodo successivo, gli anni berlinesi (1976-79), quando stanco della vita da rockstar intossicata, Bowie si trasferì in Germania cominciando a comporre musica sperimentale. Seppur con alterne fortune, stava cercando una strada diversa, nuova, rispetto alla narratività dei suoi precedenti dischi che l’avevano portato al successo. Voleva tentare un nuovo modo di comporre rinunciando alle sue molteplici maschere e a personaggi provocatori come gli indimenticabili Ziggy Stardust (1972) e Aladdin Sane (1973) o come Major Tom di Space oddity (1969)  che aveva segnato i suoi esordi (l’album all’inizio fu un flop!) e che ritroviamo ora  a quasi cinquant’anni di distanza fra i protagonisti del musical Lazarus, che ha debuttato il 17 dicembre 2016 poco prima che Bowie morisse il 10 gennaio 2016.

Due mesi prima, il 19 novembre 2016, invece, era uscito il dirompente video del brano Blackstar che mostrava  David Bowie su un letto con la faccia bendata e dei bottoni al posto degli occhi. Un’immagine inquietante intorno alla quale si dipanava però una avvolgente mini sinfonia in dieci minuti. Un video che è diventato immediatamente virale facendo 16 milioni e mezzo di visualiazzazioni. Drammaticamente visionario, come se Bowie avesse intuito che il suo tempo era scaduto. Quando l’ha concepito – rivela il regista del videoclip Johan Renck nel docufilm The last five years – in realtà, non sapeva ancora che la sua malattia gli lasciava pochi mesi di vita.  In questo ultimo lavoro l’austronata Major Tom,  diretto alter ego di Bowie in Space Oddity e poi in Ashes to Ashes, si trova sotto una stella nera, in uno scenario spettrale. Appare tremante, come i ragazzi intorno a lui, ma quel sussulto si trasforma in una danza. Come scrive Francesco Donadio nell’edizione aggiornata del suo  David Bowie, Fantastic voyage (Arcana, volume che raccoglie tutti i testi commentati delle canzoni di Bowie) ciò a cui stiamo assistendo è un rito tribale e fantastico, un cerimoniale funebre di una civiltà pre cristiana. L’irriverente Bowie non ha perso lucidità e ironia e si  fa beffa delle religioni rivelate. Con in mano una sorta di breviario con una stella nera, si traveste da imbroglione messanico per lanciare strali alla religione cristiana. Non sarebbe la prima volta, basta ricordare Loving the alien The next day, suggerisce Donadoni. Qui il predicatore interpretato da Bowie nel video di Lazarus chiede crudelmente ai moribondi di convertirsi e di dargli passaporti, scarpe e antidolorifici.

David Bowie in Berlin 2002

Quella di Renck (regista anche della serie The Last Panthers) è una delle tante voci che innervano il racconto di The Last five years, che sarà trasmesso  da VH1 (noi l’abbiamo visto in anteprima sulla BBC). Accanto alle poche intense parole del produttore Tony Visconti,  della bassista Gail Ann Dorsey  e di altri musicisti  della band che lo ha accompagnato dal vivo negli anni Novanta fino al 2004 ( quando Bowie è stato costretto a interrompere il tour per un infarto), compaiono gli interventi non meno toccanti di chi l’aveva conosciuto direttamente solo in occasione di questi suoi ultimi lavori. Come il regista del musical Lazarus Ivo Van Hoe e lo scrittore irlandese Edna Walsh ,coautore della sceneggiatura. Colpisce in particolare per spontaneità e freschezza il racconto della compositrice jazz Maria Schneider  alla quale Bowie si era rivolto per dare una inaspettata svolta jazz alla sua musica. «Il Jazz era qualcosa che era sempre rimasto sotterraneo nella musica di David, io non ho fatto altro che aiutarlo a far emergere quest’aspetto» , racconta la pianista e compositrice con la quale il musicista inglese aveva cominciato a collaborare nel 2015 per Sue or a season of crime.
I molti volti di David Bowie, anche auto ironico story teller :


Ed è stata ancora lei, Maria Schneider,  a fargli conoscere  il sassofonista Donny McCaslin  che insieme ad altri musicisti newyorkesi ha suonato in Blackstar facendolo diventare  un album rock suonato da musicisti jazz d’avanguardia. In poco tempo fra loro si era creato un rapporto artistico e umano fortissimo durante la registrazione del disco e poi del musical ispirato al libro di fantascienza L’uomo che cadde sulla terra di  Walter Trevis, lo stesso portato sul grande scherno da Nicolas Roeg nel 1976 in cui lui interpretava l’alieno Thomas Jerome Newton. L’album Blackstar che è stato fra i più venduti del 2016 è un concept album pieno di soluzioni innovative.  «Non sono una star del cinema né una star del pop. Sono una stella nera», dicono alcuni versi.  Ed è difficile credere a ciò che Bowie stesso afferma in uno spezzone di intervista di anni addietro recuperato dal regista di The last five years: «Non sono un pensatore originale, piuttosto sono un sintetizzatore, che reagisce a ciò che ha intorno, che riflette la società». E se questo può essere vero per dischi come This is not America  e brani come  I’m afraid of americans o Valentine’s day  dove, raccontava il volto malato dell’America e l’agghiacciante fenomeno dei mass murders, Blackstar sembra piuttosto voler aprire un  nuovo capitolo della propria musica tratteggiando una seducente mitopoiesi.

PICCOLA BIBLIOGRAFIA, le ultime uscite e nuove edizioni di classici su David Bowie:

Non pare del tutto un caso che sull’opera di David Bowie siano stati spesi fiumi d’inchiostro. Con una gran messe di libri pubblicati anche in italiano. A comiciare dal nonumentale Bowie di Nicholas Pegg, ( autore teatrale e giornalista) pubblicato da Arcana nel 2002 ( e in successive edizioni), in cui sono passati in rassegna  album, canzoni, film  video e quant’altro.  Per  chi vuole approfondire gli anni del romantico Ziggy Stardust c’è il libro di Luca Scarlini Zuggy stardust, la vera natura dei sogni  (ADD) . E ancora: ne offre una lettura filosofica Pierpaolo Martino nel saggio La filosofia di David Bowie, (Mimesis). Un ritratto a più mani scritto da personaggi del cinema, della musica della letteratura – da Michael Cunnigham a Franco Battiato – si può leggere nel libro  Rebels, appena pubblicato da La Nave di Teseo. Ma più di tutti consigliamo David Bowie Sono l’uomo delle stelle (Il Saggiatore), uscito in nuova edizione quest’anno, è una raccolta di interviste a David Bowie, realizzate lungo un arco di tempo che va dal 1969 al 2003, anno in cui  il polistrumentista, cantante, attore, disegnatore, collezionista  e cultore d’arte David Bowie ha cominciato a pensare che poteva anche starsene in silenzio e parlare solo attraverso la propria musica. Tradotto da Cristian Caira è il libro che permette un confronto diretto  senza filtri o intenti apologetici o letture con una tesi preconcetta. Si osserva passo passo la maturazione e la sempre maggiore consapevolezza da parte di Bowie riguardo all’importanza  della ricerca, prendendosi anche dei rischi, osando strade nuove, fuori dalle formule rodate, con tutte le incertezze del caso. Ma emerge fortissima anche la sua auto ironia , la voglia di vivere, di condividere, di  osare, sfidando i propri limiti. Qualche esempio?

Per qualche anno sono  stato l’equivalente maschile della bionda svampita e cominciavo a temere che la gente non si sarebbe mai accorta della mia musica” ( 1969 al New Musical Express).

Assimilo le cose molto rapidamente. e sono sempre stato dell’idea che non appena un sistema o un metodo di lavoro si rivela efficace, è superato. e io sento l’esigenza di passare ad altro“.  (1977  Melody Maker)

 ” Non ho mai considerato i miei lavori fantascientifici. E non ho mai pensato il mio lavoro futuristico, anzi ho sempre pensato di essere una figura molto contemporanea, legata al presente. Il rock è sempre indietro di dieci anni rispetto alle altre arti, ne raccoglie le briciole. Voglio dire che non ho fatto altro che servirmi di una tecnica che Burroughs aveva introdotto in letteratura diverso tempo prima” (1978.  Melody Maker)

 “Non mi piaceva per niente il genere di popolarità che avevo ottenuto con la mia roba disco soul, non ero contento del successo di massa che avevo raggiunto. Il genere di successo a cui ambisco, e di cui ho bisogno, è quello artistico e creativo. Non sono interessato ai numeri, non mi servono. Io voglio la qualità, non una carriera nel rock ‘n ‘roll. per sentirmi soddisfatto ho bisogno di offrire qualcosa di valore e quando ho l’impressione di arrancare mi sento a disagio e voglio solo voltare pagina”. (ibidem)

“c’è un elemento irrazionale nell’animo umano? (ride) Sì, penso che in tutti i  miei dischi ci sia qualcosa di irrazionale e in ognuno di essi c’è una certa combinazione elementi sbagliati nel posto sbagliato al momento giusto”.

 “Penso di avere anche io una spinta interiore, ma non riesco a definirla…. viene e va, si perde e riappare, non è come un fiume che incontri quando cammini per un bosco. E quando scompare mi arrabbio ( Qui si fa distante). E dovrei esserne felice, perchè è il corso naturale delle cose, ma quando scompare, quando si asciuga, quello è il momento più frustrante di tutti (1980, New Musical Express)

Cosa ci ha insegnato, alla fine, David Bowie? La BBC ha provato a stilare una sorta di decalogo:

  1. Belive in yourself
  2. Think outside the box
  3. have a sense of adventure
  4. take risks
  5. steal furiously
  6. stay in controll
  7. be suvversive
  8. keep everyone guessing

ma forse non è che l’inizio….

Io me ne frego che la solidarietà sia reato

Dunque è terribilmente fuori moda essere buoni. Insistono. Vorrebbero inculcarci che aiutare qualcuno significhi terribilmente togliere aiuto agli altri, in questa visione del mondo che funziona solo a sottrazione in cui siamo diventati tutti bravissimi nel simulare ciò che ci viene tolto piuttosto che occuparsi di quello che manca al mondo. Noi inclusi.

Sarà un anno, anche questo, in cui sarà terribilmente fuori moda essere buoni perché alla fine vi hanno convinto per davvero che l’essere solidali sia una contravvenzione all’occuparsi della sicurezza della vostra famiglia. Succede così: vi hanno detto che le vostre energie vanno usate tutte per i vostri famigliari più vicini senza sprecarle per gli altri. E voi ci avete creduto. Federalismo delle responsabilità: prima i miei parenti, poi i miei amici, poi gli italiani, poi gli stranieri. Avete in testa una classifica dei bisogni come se fosse una lista della spesa, avete una gerarchia dei disperati dettata dagli altri e comunque credete che sia farina del vostro sacco. E va tutto bene, per carità. Anzi, sembra tutto terribilmente giusto e normale finché non succederà un giorno di non essere più nella fila prioritaria e allora si griderà allo scandalo dell’ingiustizia.

L’uguaglianza è una cosa terribilmente seria, credetemi. C’è uguaglianza lì dove l’assistenza alle nostre fragilità non viene condizionata dalla razza, la geografia, il mestiere, il credo religioso o la parte politica. L’uguaglianza ha bisogno di un popolo incredibilmente vivace e cordialmente (nel senso letterale: di cuore) ricco.

In Francia c’è un contadino sotto processo per avere aiutato i disperati. Un reato nuovo: colpevole di avere seguito i propri istinti umani. Si chiama Cedric Herrou, è un contadino e ha portato 200 persone circa da Ventimiglia al di là del confine. Colpevole di aiuto. Reato di solidarietà. «Agisco illegalmente per salvaguardare i diritti dei minori. È nostro dovere alzarsi in piedi quando le cose vanno male. Per questo io continuerò», ha ribadito l’uomo.

In piedi. Ecco, in piedi. Sguardo dritto. E basta davvero questi patetici cattivi per moda.

Buon lunedì.

Al Reina non si è colpita la “Turchia laica”. Ma l’ambiguità di Erdogan

epa05694417 Workers install Turkish flags in front of the Reina night club following a gun attack at the popular night club in Istanbul close to the Bosphorus river, in Istanbul, Turkey, 01 January 2017. At least 39 people were killed and 65 others were wounded in the attack, local media reported. EPA/DENIZ TOPRAK

La pietà e il dolore per quelle vittime innocenti massacrate nella notte di Capodanno in una discoteca, non possono trasformare un “Gendarme” spietato in un alleato affidabile nella guerra al terrorismo jihadista. Le trentanove vittime del massacro rivendicato dall’Isis alla discoteca Reina di Istanbul non mondano il “Pinochet del Bosforo”, la secolo Recep Tayyp Erdogan. Erdogan ha giocato col fuoco jihadista, aprendo per anni le frontiere della Turchia, destinazione Siria, ai foreign fighters provenienti da mezzo mondo, anche dall’Europa, che hanno ingrossato le fila delle milizie jihadiste al servizio di al-Baghdadi. Dolore e pietà non possono far velo ad una realtà di fatto incontestabile: la Turchia di Erdogan è vittima delle giravolte del “Sultano di Ankara”.

A ragione annota Alberto Negri, firma di punta del Sole24ore: «La destabilizzazione è il risultato delle politiche dissennate di Erdogan: ha sostenuto per cinque anni i jihadisti per abbattere Assad in Siria e ora questi si sentono traditi. Erdogan ha fatto un patto con Russia e Iran che prevede la loro eliminazione in cambio della mano libera sulla sorte dei curdi». D’altro canto a denunciare con più veemenza il “doppio gioco” di Ankara in Siria era stato proprio colui che oggi è diventato il più stretto e dominante alleato della Turchia: Vladimir Putin. Putin – dopo l’abbattimento del jet russo lungo il confine siro-turco il 24 novembre 2015 da parte dell’aviazione di Ankara – ha accusato senza mezzi termini di essere socio d’affari del Daesh.

Si è detto e scritto che in quella affollata discoteca sul Bosforo, si è inteso colpire la Turchia laica. Non è così. Perché la “Turchia laica” oggi marcisce nelle galere del regime islamo-nazionalista di Erdogan. La “Turchia laica” è quella che si riconosce nelle battaglie di centinaia di giornalisti incarcerati. La “Turchia laica” sono le migliaia di docenti e rettori epurati, sono i parlamentari del partico curdo progressista incarcerati perché accusati di connivenza con il “terrorismo” di matrice curda.

II violento assalto del governo turco contro le città e i quartieri curdi, che include il coprifuoco giorno e notte, sta mettendo in pericolo la vita di 200mila persone – dice Amnesty international in un rapporto datato 21 gennaio 2016. Un anno dopo, la situazione è ulteriormente peggiorata. Erdogan non può essere considerato un “argine” al terrorismo jihadista, per una ragione fondamentale: perché quel terrorismo lo ha alimentato non solo in funzione anti-Assad ma anche per giustificare un intervento armato in Siria destinato a colpire le milizie curde che i tagliagole al soldo di al-Baghdadi li hanno combattuti per davvero.

Come a Kobane, la città martire siriana a pochi chilometri dal confine con la Turchia. Allora, è bene ricordarlo, Erdogan aveva schierato alla frontiera decine di carri armati, nessuno dei quali ha sparato un colpo contro i miliziani del Daesh. Il “Sultano di Ankara”, convergono analisti e studiosi dell’Islam radicale armato, ha usato l’Isis per terrorizzare la sua opposizione interna, compreso l’attacco bomba a un raduno curdo il 20 luglio 2015 (33 morti) e quello ad Ankara il 10 ottobre successivo durante una marcia della comunità curda: 100 morti.

La lotta al terrorismo, insomma, non può giustificare la rilegittimazione della sciagurata teoria del “male minore”, valsa per Ben Ali in Tunisia, Gheddafi in Libia, e prim’ancora Mubarak in Egitto (e oggi al-Sisi), Saddam Hussein in Iraq. Erdogan e il suo regime islamo-nazionalista (così come Assad in Siria), non sono la soluzione ma parte del problema. Denunciarne le persistenti ambiguità sul fronte siriano e nell’uso strumentale della “guerra ai jihadisti”, è il modo migliore per onorare le vittime del Reina.

Left è in edicola dal 7 gennaio con questa opinione e molto di più

 

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Così proseguono gli affari sull’acqua

una protesta del 2012 per il referendum tradito
Attivisti del coordinamento romano acqua pubblica protestano contro la proposta del governo Monti sul nuovo metodo tariffario del servizio idrico, Roma, 13 dicembre 2012. ANSA/ GUIDO MONTANI

Multiutilty a Nord, multinazionali a Sud, shopping in borsa e attacco alle fonti: l’assedio all’acqua pubblica si fa sempre più stretto con buona pace del referendum del 2011. «La mappa delle privatizzazioni va letta dentro i processi di finanziarizzazione – ricostruiamo su Left in edicola da sabato 7 gennaio, con Corrado Oddi, del Forum italiano dei movimenti per l’acqua – e negli ultimi cinque anni sono stati distribuiti più dividendi che utili: è l’economia del debito, che finisce in tariffa non tanto in nome degli investimenti ma quanto, soprattutto, della rendita». Su Left cerchiamo di capire come e perché il ricorso alle multiutility favorisca la deterritorializzazione, «con i Comuni», continua Oddi, «e quindi i cittadini, che non contano più nulla». Così la questione dell’acqua è sempre più una questione di democrazia.

La mappa degli affari, che vi restituiamo, copre tutta Italia. I processi in corso vedono la multiutility emiliana Hera espandersi in Triveneto, la milanese A2A arrivare fino a Cremona, i genovesi di Iren che tentano di mettere le mani anche sull’acqua di Torino. Ci sono le grandi manovre, poi, di Acea, tra Toscana, Umbria, Lazio e Campania, mentre a vario titolo i francesi di Suez e Veolia (che già è dentro la calabrese Sorical e per il 59,6% in Idrosicilia) agiscono con la multiutility capitolina nel Mezzogiorno insidiando Aqp, l’acquedotto pugliese, con il progetto di una megamultiutility del Sud.

Attraverso processi di acquisizione, aggregazione e fusione, i quattro colossi quotati in borsa – A2A, Iren, Hera e Acea – puntano a inglobare tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici
. Gestioni distrettuali ultraregionali, le ha chiamate, un anno fa il presidente dell’autorità nazionale Energia Elettrica-Gas-Servizi Idrici. Tutto ciò serve a espandere il margine operativo dilatando la platea dei clienti e controllando le sorgenti più ricche. E secondo l’attivista romana Simona Savini questo, in fondo, non sarebbe altro che «il programma renziano: non si parla più esplicitamente di privatizzazione ma di fusioni e aggregazioni. In questo momento, per esempio, qui a Roma il Campidoglio è immobile e chi fa politica sono i vertici di Acea».

Questo articolo, e tutti gli altri, li trovi su Left in edicola dal 7 gennaio 

 

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Al fianco della scrittrice Asli Erdogan

Asli Erdogan all'uscita della prigione Bakirkoy 29 dicembre 2016 Istanbul. An Istanbul court on December 29 ordered the release of one of Turkey's most celebrated novelists after over four months in jail on charges of terror propaganda, as the authorities detained a leading investigative journalist over his tweets. / AFP / OZAN KOSE (Photo credit should read OZAN KOSE/AFP/Getty Images)

La scrittrice turca Asli Erdoğan, mentre scriviamo, è ancora sotto processo. È stata arrestata il 16 agosto 2016 per aver collaborato con il quotidiano Özgür Gündem accusato dal governo turco di fiancheggiare il Pkk. È stato chiesto l’ergastolo per Asli nonostante la legge sulla stampa dichiari che i consulenti esterni non sono responsabili giuridicamente per la linea e i contenuti del giornale. Con lei sono stati arrestati la linguista Necmiye Alpay e altri sette giornalisti ed editori del quotidiano filocurdo. Dopo essere stati rilasciati per qualche giorno a fine dicembre, rischiano ancora condanne pesanti. Per denunciare le gravi violazioni di diritti che Asli Erdogan ha subito, Tempo di libri ha organizzato una giornata in suo onore che si terrà a Milano il 12 gennaio, al Teatro Dal Verme, a cui parteciperanno, tra gli altri, la sociologa e attivista sociologa turca Pinar Selek, la scrittrice Chiara Valerio, Lirio Abbate, l’editore Roberto Keller e Giulia Ansaldo che di Asli Erdoğan ha tradotto Il Mandarino Meraviglioso (Keller, 2014). Romanzo visionario e potente che racconta una travolgente storia d’amore, ma anche la struggente malinconia di una giovane turca che vive a Basilea. «Anche nel cuore dell’Europa – dice la protagonista del romanzo – posso riconoscere da uno sguardo le donne del Medio Oriente. Mai guadagnata la nostra autostima, il nostro orgoglio è pieno di cicatrici quanto Rasputin»…

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Riace salva la sua utopia della normalità

«Sono Peppino Lavorato e siamo qui per chiedere a Mimmo Lucano di restare, di non dimettersi». Peppino Lavorato è un pezzo di antimafia in carne e ossa. Quando insieme a Peppe Valarioti ha dato inizio alla Rinascita di Rosarno, se lo è visto morire tra le braccia. Un omicidio politico e mafioso rimasto impunito, dal 1980. Oggi Peppino, con i suoi quasi 79 anni, è a Riace per difendere un’altra primavera, quella del sindaco Mimmo Lucano. «Le mafie forse hanno imparato una nuova strategia: non mi chiamano con le persone che contano, con gli amici degli amici, perché io non riconosco queste autorità. Non mi fanno intimidazioni, violenze eclatanti, perché sono consapevoli di rendermi più forte. Rimangono due possibilità: la mia vita o le diffamazioni e le denigrazioni», dice Lucano all’indomani dell’ennesimo tentativo di «gettare ombre su Riace».

Venerdì 30 dicembre, è una delle sere più fredde che si siano viste in Calabria. Fuori dal palazzo comunale, la piazzetta è gremita. Su uno striscione una frase del Che: “La mia casa continuerà a viaggiare su due gambe e i miei sogni non avranno frontiere”. Si sta per strada, perché poco dopo l’annuncio del sindaco la mediateca che avrebbe dovuto ospitare il consiglio comunale aperto è stata devastata: hanno distrutto servizi igienici e suppellettili, tagliato i tubi dell’acqua e allagato la grande sala per poi rovistare tra gli archivi e affondare i documenti sul pavimento. Ma il vento gelido, il mar Jonio in burrasca e le festività non hanno impedito a centinaia di persone di raggiungere Riace, e ai riacesi di raggiungere il palazzo del Comune. Stasera il consiglio comunale deve decidere se accettare o respingere le dimissioni del sindaco. E i consiglieri le respingono, persino quelli di opposizione.

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Gipi racconta “La terra dei figli”

Un segno, una linea continua indecifrabile. Nessuna concessione a chi sfoglia il libro, niente di più di quello che vivono i protagonisti stessi della storia. «Non volevo che il lettore sapesse più dei miei personaggi», ci dice Gipi, al secolo Gian Alfonso Pacinotti spiegandoci la decisione di abbandonare, per la sua ultima opera, voce narrante, acquerello ed elementi autobiografici, per costruire un racconto scarno ma al tempo stesso intenso, profondo, a tratti silenzioso.

La terra dei figli è l’inizio di una nuova fase creativa per il fumettista pisano? Questo gli abbiamo chiesto, per cominciare, sul numero di Left in edicola da sabato 7 gennaio. Gli abbiamo chiesto come è arrivato a questa virata nel suo modo di raccontare. E «sai», ci ha detto, «io ho sempre la sensazione di non decidere nulla quando lavoro. Mi piacerebbe, arrivato a 53 anni, pensare di avere il controllo su quello che faccio, ma mi sembra sempre che tutto succeda al di là della mia volontà. Magari poi la scopro dopo un anno e dico “Ah, ecco perché lavoravo in quel modo lì”. Ma sul momento è una roba che succede e basta».

«È la storia che comanda», ammette Gipi, «io sono sempre a prendere appunti e scrivere storie. Poi arriva il punto in cui una di esse si impone e diventa “la storia”, quella sulla quale lavorerò. E quando si impone arriva già con la sua forma grafica: l’impaginato, le scene, il modo in cui parlano i personaggi, il tipo di scrittura… È come se ad arrivare fosse un pacchetto sigillato: mi piacerebbe dare l’idea di essere quello che pianifica e pensa la struttura, ma non è così».

La terra dei figli
, la storia che si è imposta, è una storia post apocalittica, vi spiegherà poi Gipi sempre in edicola, con un ambientazione che prende ispirazione da una delle proiezioni di Gianroberto Casaleggio, uno dei video sulla democrazia del futuro, tutta internet e uno vale uno, «una roba da Philip Dick: mi lasciò basito pensare che qualcuno potesse seguire un’idea del genere». «Ci scherzo quando lo racconto», continua Gipi, «anche perché per me l’ambientazione è molto diversa dal senso della storia. Quello che vuoi raccontare è il cuore della storia, il senso profondo, poi come la vesti è tutto un altro discorso. E avrei potuto tranquillamente mettere i personaggi nella prateria con la mamma morta, la tomba e il padre coi figli. Oppure nello spazio o nel Medioevo».

L’intervista integrale a Gipi è, con gli altri articoli, sul numero di Left in edicola e online dal 7 gennaio 

 

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I Caschi Bianchi e l’ambiguità dell’informazione sulla Siria

( Ansa Epa / SIRIA PROTEZIONE CIVILE)

Se vi capitasse di cercare Eva Bartlett su YouTube scoprireste che c’è un video nel quale una «giornalista indipendente canadese smonta le verità occidentali sulla Siria». Di quel video in inglese esistono decine di post sul canale video e le visualizzazioni sono milioni. Quel video è stato postato più di una volta sulla pagina facebook di Left per commentare la nostra ultima copertina del 2016 dedicata ai Caschi Bianchi. Che ha generato polemiche, messaggi sdegnati e commenti insultanti. La domanda retorica di molti che commentavano era «Chi vi paga?», la risposta «Soros, la Cia». Dietro a questo sdegno l’idea che in Siria sia in corso una guerra anti-coloniale che vede Bashar al Assad, sostenuto da Vladimir Putin, l’Iran ed Hezbollah contro, nell’ordine: gli Stati Uniti, l’Occidente, al Qaeda, l’Isis.

Perché tante polemiche? Siamo davvero di fronte a uno scontro di civiltà tra i buoni (Assad e la Russia) e i cattivi? L’Occidente ha davvero cercato di scatenare la guerra civile siriana per poi allearsi con al Qaeda, come sembrano suggerire molti articoli che ignorano quanto capita, le denunce delle organizzazioni umanitarie di ogni ordine e grado? E chi combatte in Siria?

Su Left in edicola da sabato 7 gennaio proviamo a rispondere a queste domande. Sapendo che il conflitto siriano è un pantano, che responsabilità ne hanno tutti e che non c’è una verità unica. E che una vita salvata è una vita salvata – e per questo abbiamo dedicato una copertina ai Caschi Bianchi. Cercando un po’ abbiamo anche scoperto, non c’è voluto molto, che la il governo russo sta lavorando da anni per creare media, account social e materiale informativo in grado di influenzare l’opinione pubblica occidentale. Proprio come gli Usa hanno fatto negli anni della Guerra fredda. Ma con tecniche e abilità contemporanee.

Su Left è in edicola dal 7 gennaio l’articolo sulla Siria, i Caschi bianchi e l’informazione di guerra

 

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