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Civati: «Dopo 4 anni di Renzi, siamo allo stesso punto. Ora tocca alla società»

Pippo Civati nell'Aula della Camera durante le votazioni sugli emendamenti al dl Ilva, Roma, 13 gennaio 2016. ANSA/ANGELO CARCONI

Giuseppe Civati, è leader di Possibile. Ma soprattutto, il parlamentare, fa parte di quella sinistra critica uscita dal Partito democratico proprio a causa dei metodi renziani. Un modo personalistico di gestire politica, partito e Paese che al referendum, non ha pagato. Oggi, era il turno di Possibile nelle consultazioni al Colle.

Civati, cosa vi siete detti con il presidente della Repubblica?
Ride. Ovviamente non ti posso dire niente. In sintesi, il tema, mi sembra continuità e discontinuità col governo precedente. Mi aspetto che sia un confronto istituzionale, non un congresso tra correnti del Pd.
In ogni caso, per noi si può andare alle elezioni anche domani, ma ci vuole una legge elettorale dignitosa per farlo. Che è esattamente quello che pensavo nel 2013. Anche perché siamo nella stessa situazione del 2013. Dopo 4 anni ci ritroviamo allo stesso punto. E cioè, andare a votare, con un nuova legge elettorale.
Il presidente, insieme al Pd, deve trovare una strada dignitosa per farlo. ripartendo proprio dagli errori fatti. Un’operazione non banale. Ci viene detto, “il fronte del no faccia proposte”, ma cosa vuoi che proponga? Il fatto è che non si può fare un governo senza il Pd.

C’è margine per lavorare con un nuovo Pd?

Mah, guarda, più che il partito o le persone, ci vuole qualcuno che sappia essere terzo rispetto alla legge elettorale. Oltre a non essere disponibili con un Pd che si allea con Berlusconi, temiamo anche che ci sia una situazione conflittuale. Come per altro si è visto. Tutti per esempio parlano di Gentiloni, ma è in totale continuità.

Un nome che faresti?

Preferisco non farne. Anche perché, davvero, dipende dall’ingegneria del governo più che dai nomi. In sostanza, se è fatto da Mattarella per rimediare ai guai di Renzi, noi avremo un atteggiamento ben diverso rispetto a quello nei confronti di un Pd che va verso destra.

Qual è la soluzione migliore, in termini di legge elettorale, secondo te?

Questa te la posso raccontare (scherza): a Mattarella ho detto che, senza piageria, la legge elettorale che preferisco è la sua. In ogni caso, qualsiasi legge elettorale è meglio dell’Italicum. Ce ne sono molte, in giro per l’Europa da cui prendere esempio, sperimentate e verificate. Siamo pronti a confrontarci con tutti, sul punto.

In ogni caso, preferirei che alla fretta precedesse la concretezza. Magari ci vorrà qualche settimana in più, ma almeno si restituirebbe ai cittadini il pieno della loro sovranità.

E il Paese, di cosa ha bisogno il Paese? Cosa dice questo no?

Il Paese ha bisogno di istituzioni credibili, elette (!) in modo democratico e trasparente, a disposizione degli elettori e di  chi vuole rappresentarli. non un pacchetto oligarchico di pochi, che rappresentano il potere e i poteri e parlano solo tra loro. E di scelte conseguenti, su economia e società, che sappiano rimuovere gli ostacoli che provocano disuguaglianza e insieme disaffezione. Le due cose sono intimamente collegate.

La copertina di Left in edicola da domani, è dedicata proprio al passaggio successivo al No, nella speranza di trovare una nuova rappresentanza che sia anche partecipazione. “Da No a Noi”. Come dice anna Falcone: “Chi saprà interpretare il senso di questo voto dimostrerà di essere moderno”…

Dal No al Noi era il nostro slogan (sorride). Penso che questo soggetto, dovrà presentare un progetto di governo. Non soluzioni identitarie. Non cercare di attribuirsi un pezzo di risultato, che ha molti padri e madri, ma di guardare al dato complessivo di un sentimento popolare che si è manifestato. Ora tocca alla società. Questo è il senso nel quale ci muoveremo noi con Possibile.

Chi ci sarà il 18 a Bologna, per “Costruire l’alternativa”?

Ancora dobbiamo capire bene, ma credo proprio che Possibile ci sarà.

Perché non andare anche domani a Ricominciamo da no(i), l’iniziativa di Sinistra italiana a Roma?

Non siamo stati invitati.

Ma non è un’assemblea aperta?

Non so guarda, non sono molto bravo in convegni della sinistra in cui si parla della sinistra. In generale l’unica cosa che conta è un progetto di governo e di Paese che bisogna definire. Non un convegno da promuovere…

 

Ricominciamo da No(i): la sinistra “diffusa” ora pensa al futuro

Un momento della protesta di un gruppo di studenti davanti a Palazzo Chigi in vista del Consiglio dei Ministri. Una ventina di giovani che erano in piazza alla manifestazione del 27 novembre a Roma per il No è arrivata davanti alla sede del governo, urlando cori contro il premier Matteo Renzi ed esponendo lo striscione 'C'è chi dice No'. Ci sono stati momenti di tensione con la polizia, che ha fermato tre giovani. Roma, 5 dicembre 2016. ANSA/ CLAUDIO PERI

L’avevano programmata “a scatola chiusa”, ben prima di conoscere l’esito del referendum. E adesso chiaramente assume un altro significato. E’ l’assemblea Ricominciamo da No(i) domenica dalle 10 alle 18 a Roma (Roma meeting center, Largo Scoutismo 1). L’appello vede tra i primi firmatari Giorgio Airaudo, Fabio Alberti, Maria Luisa Boccia, Stefano Fassina,Adriano Labbucci, Giulio Marcon, Sandro Medici, ma ha raggiunto centinaia di adesioni tra costituzionalisti, sindacati, rappresentanti di liste civiche e amministrazioni, studenti del No. E’ la sinistra diffusa che non si riconosce nel centrosinistra accarezzato da Giuliano Pisapia e che vede nella politica del Pd di Renzi il maggior ostacolo per il futuro del Paese. Tra le adesioni vediamo i giovani degli Studenti del No e della Rete della Conoscenza Martina Carpani e Alessio Torti, ma anche chi di politica di sinistra ne ha vista tanta scorrere sotto i ponti come Lidia Menapace, Marco Revelli, Paolo Ferrero, Nicola Fratoianni, Alfonso Gianni, Monica Frassoni, oppure fini esperti di diritto come Luigi Ferrajoli, costituzionalisti come Gaetano Azzariti, personaggi simbolo della campagna per il No come Anna Falcone. E ancora: amministratori giovani che hanno saputo creare liste civiche di sinistra tra i giovani, come Michele Conia sindaco di Cinquefrondi (Reggio Calabria). Insomma decine e decine di esperienze di lavoro e di impegno nella politica “dall’alto e dal basso”. Ne parliamo con Giulio Marcon, deputato di Sinistra italiana ed esperto di politiche sociali e per anni portavoce della campagna Sbilanciamoci.

Giulio Marcon, Ricominciamo dal No(i) per una politica in comune cosa significa?
E’ la terza tappa cominciata a luglio che ha visto associazioni e liste civiche cimentarsi nelle scorse elezioni amministrative. L’obiettivo è costruire uno spazio comune di dibattito e di riflessione nella speranza di creare un percorso concreto di iniziative unitarie per far fare un passo avanti a questa sinistra per troppo tempo frammentata. Comunque, per noi è importante la dimensione sociale con al centro le associazioni, i movimenti, espressioni dal territorio come le liste locali.
L’obiettivo è arrivare a un nuovo soggetto politico?
No, non vogliamo fare l’ennesimo tentativo di costruire un soggetto politico a sinistra (ride), perché non è nelle nostre corde e sarebbe un po’ ridicolo…Noi vogliamo offrire uno spazio a tutti che pur nelle loro diversità partecipano a un confronto. Ma, ci tengo a ribadirlo, fuori da ogni logica politicistica e di posizionamento di diverse entità. L’idea è quella di partire dal lavoro che ognuno fa nelle associazioni e nei movimenti e anche nelle istituzioni attraverso le liste locali. Si tratta di questo, poi se verrà fuori qualcosa, non è certo quello che ci proponiamo nell’obiettivo di questa iniziativa. Oltre a questo appuntamento c’è anche quello delle liste civiche di Bologna del 18 promosso da Federico Martelloni. Ecco, dobbiamo convergere per proseguire insieme.

Tra notizie di elezioni anticipate e anche di altri incontri strategici, come quello del 18 dicembre a Roma promosso da Giuliano Pisapia, a questo popolo che ha votato No che cosa gli si può proporre a sinistra?
Ognuno deve partecipare con la propria identità. A febbraio, intanto, Sinistra italiana dopo il superamento politico di Sel si costituisce come partito politico, poi esiste il Prc, c’è Civati con Possibile, De Magistris che porta avanti le sue iniziative e poi c’è tutto questo mondo fatto di associazioni, movimenti, liste civiche. Tutti fanno politica.. Bisogna capire come si può ricondurre il tutto a uno spazio comune, perché se si dovesse andare a elezioni politiche – e per quanto mi riguarda non vi può essere alcuna alleanza con il Pd di Renzi – è inevitabile per non rischiare di disperderci in mille rivoli e non avere alcun rappresentante, che nella costruzione di una lista elettorale ci debba essere un processo unitario. Ripeto, è inevitabile che questo accada, ma non deve essere un’operazione politicistica, né tantomeno tipo lista Arcobaleno i cui fallimenti ancora ricordiamo, ma deve essere un processo reale, che parte dal basso, senza scorciatoie politicistiche decise a tavolino con i vari giochi di posizionamento per cui poi quello che conta è fare le liste con le candidature. Quindi se vogliamo arrivare a quel momento che può essere ravvicinato, tra quattro, otto mesi o fra un anno al massimo bisogna partire subito, coinvolgendo tutte le identità e le sensibilità che compongono questo mondo. E’ una sinistra diffusa e articolata che in parte è rappresentata da soggetti politici storici ma che in gran parte non è rappresentata. Bisogna arrivare alle elezioni con una lista unitaria per una politica di sinistra in comune.
Bisognerà cambiare la legge elettorale, qual è la soluzione migliore?
Il problema drammatico è che una gran parte di questa società non si sente rappresentata per via della dimensione maggioritaria del sistema, è proprio un annullamento della rappresentanza. Per questo motivo, la dimensione proporzionale di un sistema elettorale è centrale. Può essere un proporzionale puro, oppure un proporzionale con alcuni correttivi e anche i premi devono essere molto limitati rispetto ai risultati e potrebbero riguardare anche la coalizione. Io non sono un tecnico ma so che la dimensione di base deve essere l’aspetto proporzionale. Bisogna tornare alla rappresentanza seguendo questo principio, altrimenti una parte dei cittadini che già non si sente rappresentata si allontanerà ancora di più dalla politica e dalle istituzioni.

Quindi non bisogna attendere il 24 gennaio quando si terrà l’udienza della Consulta sull’Italicum?
Il parlamento dovrebbe lavorarci già da prima. Io penso che dobbiamo andare ad elezioni perché non si può tenere il Paese in questa condizione per troppo tempo. E occorre andarci con una legge , bisogna sbrigarsi. A me farebbe molto piacere che si votasse anche sui referendum di primavera della Cgil.

Infine, ti sembra che l’aria sia cambiata?
Beh la Costituzione l’abbiamo salvata. Ma sia in Italia che in Europa ci sono le spinte di una destra aggressiva e reazionaria, da noi lo vediamo con la Lega. La sinistra deve riprendersi la sua anima, perché il Pd di questi anni non lo posso definire una forza di sinistracvisto che ha fatto politiche di destra. C’è il problema di ricostruire un campo di forze che veda la Cgil, le associazioni, le forze di sinistra tutte insieme. O facciamo questo o la destra si farà avanti. La storia europea ci insegna che di fronte alle crisi sociali, le alternative sono due: o la sinistra riesce a interpretare questa crisi e ne è un punto di riferimento, oppure la destra gioca un ruolo provocando derive gravi. Noi dobbiamo essere in grado di prendere la spinta di democrazia che viene dal Paese a partire dal No al referendum che ha le radici nella sofferenza e nel dolore che la gente vive in prima persona per ricostruire una sinistra che sia in grado di rispondere a questa domanda di cambiamento.

Per quella democrazia partecipativa che è venuta fuori comunque dal voto…
Sì, questo è un dato molto bello. Dimostra che non c’è un destino ineluttabile della crisi delle democrazie in Occidente. Quando ci sono cose importanti in ballo la gente partecipa.

Migranti, da marzo 2017 torna il trattato di Dublino

Da metà marzo 2017 torneranno a funzionare, almeno parzialmente, i meccanismi di trasferimento di migranti, previsti dal trattato di Dublino. Lo ha annunciato giovedì 8 dicembre, durante una conferenza stampa, il Commissario europeo alle migrazioni, Dimitris Avramopoulos.

La notizia ha un significato particolare per la Grecia. La decisione della Commissione implica infatti che Atene dovrà di nuovo prendersi carico delle persone entrate in Europa attraverso il loro territorio, ma che hanno poi si sono spostate “illegalemente” in altre parti del Continente. In altri termini, gli Stati membri dell’Ue potranno cominciare di nuovo a “trasferire” i migranti “illegali” fermati sul proprio territorio verso i Paesi di ingresso.

Va specificato che l’azione esclude casi di migranti minori e in cattive condizioni di salute. Inoltre, la misura non ha un valore retroattivo e i singoli trasferimenti verso i Paesi di ingresso dovranno essere valutati caso per caso, sulla base dell’effettiva capacità di garantire alle persone una sistemazione a norma.

Ma la notizia ha comunque scatenato polemiche. Molti si chiedono infatti se la Grecia sia in grado di gestire un flusso “di ritorno” dagli altri Stati membri dell’Ue, nel momento in cui è ancora occupata a gestire gli arrivi via Mediterraneo. Inoltre, solo poco più di un anno fa, il Consiglio Ue aveva approvato un piano strategico per alleggerire la pressione della crisi migratoria in Italia e Grecia, con l’obiettivo di trasferire, nell’arco di due anni, 160mila persone verso gli altri Paesi membri dell’Ue.

Durante il suo discorso, Avramopoulos ha giustificato la decisione della Commissione sulla base di diversi fattori. In primo luogo, ha sottolineato i progressi fatti finora nel quadro del piano di trasferimento dei migranti approvato l’anno scorso. In secondo luogo, ha ricordato che, in questo momento, la Grecia deve fare fronte a meno di 100 arrivi al giorno. In ultimo, ha elogiato Atene perché sarebbe riuscita a modernizzare le proprie strutture accoglienza e permanenza sul proprio territorio nazionale. Per inciso, gli stessi complimenti sono stati indirizzati anche all’Italia.

Eppure, a livello numerico il quadro appare meno chiaro. Secondo il sesto rapporto della Commissione europea sul trasferimento dei migranti tra Paesi Ue, a fine settembre 2016, la Grecia contava un totale di circa 60mila migranti sul proprio territorio. Di questi, 13mila collocati nei territori insulari e 46mila sulla terraferma. A confronto, i circa 10mila migranti che sono stati trasferiti in altri Paesi membri dell’Ue tra il 2015 e il 2016 – gli stessi di cui si vanta di cui va fiero Avramopoulos – non fanno certo una grande figura. Ben inteso, non è certo colpa della Commissione se gli altri Paesi dell’Ue non accettano trasferimenti, o se i Paesi di ingresso non riescono a velocizzare i processi di identificazione. Ma in ogni caso, l’argomento non regge la prova dei fatti.

Certo, qualcuno potrebbe dire che i problemi vanno visti in prospettiva. E in fatti, Avramopoulos – il quale ovviamente sa che siamo lontani dai 160mila trasferimenti nell’arco di due anni – ha invitato gli Stati membri dell’Ue ad accelerare. Per quanto riguarda la Grecia, vorrebbe dire passare dall’attuale “ritmo” di mille trasferimenti al mese a circa 3mila, entro l’aprile del 2017. «Non dobbiamo guardarci allo specchio, ma intensificare lo sforzo», ha ammonito il Commissario europeo.

Ma nonostante gli auguri della Commissione, è legittimo chiedersi perché Orban – il quale ha addirittura organizzato (e perso) un referendum sul tema –  e gli altri capi di governo dell’Est, dovrebbero cambiare idea aprendo le loro porte ai migranti. Inoltre, il 2017 è anno di elezioni politiche proprio nei Paesi Ue dove i partiti di estrema destra hanno fatto della crisi migratoria un cavallo di battaglia. Infine, è lo stesso Avramopoulos ad aver ammesso, durante il suo discorso, che «non è la Commissione a prendere la decisione finale riguardo ai trasferimenti, ma che la concretizzazione dipende sempre e comunque dalle singole corti nazionali di riferimento».

Insomma, se i numeri attuali non reggono, tanto meno le aspettative per il 2017 in un certo senso. Ivan McGowan, Direttore dell’ufficio europeo di Amnesty International, ha affermato che «i migranti sulle isole greche affrontano situazioni di sovraffollamento, mancanza d’acqua, scarso riscaldamento e attacchi violenti di natura discriminatoria», concludendo, quasi ovviamente, che «la pressione sulla Grecia dovrebbe essere alleggerita, non aumentata».

Intanto, anche gli intellettuali in Europa si sono mossi sul tema. A Lisbona, a novembre si è tenuto l’incontro “Vision Europe”, durante il quale i più prestigiosi think tank europei hanno discusso e firmato una dichiarazione comune contenente proposte di policy per risolvere la crisi migratoria. Quattro i punti principali del piano d’azione proposto.

Innanzitutto, vanno create le condizioni politiche per sviluppare una strategia europea prospettica e razionale. Ciò vuol dire creare un dibattito trans-europeo attraverso lo sviluppo di strutture “di riflessione” comuni. Questo dibattito dovrebbe favorire un dialogo che si regge sull’evidenza dei fatti e che riesce a promuovere la fiducia reciproca tra Stati, nonché la volontà politica per risolvere il problema.

In secondo luogo, è necessario sviluppare un meccanismo equo e sostenibile per gestire i flussi all’interno dell’Ue. Ciò vuol dire sviluppare politiche di investimento sociale focalizzate sulla prevenzione. Vanno quindi coinvolti tutti i centri istituzionali e politici della “catena migratoria”: dalle comunità di partenza, a quelle di arrivo, passando per quelle di transito. Inoltre, sebbene la distinzione tra migranti economici e rifugiati possa avere un qualche senso, la dicotomia risulta obsoleta rispetto alla varietà delle cause per cui le persone si spostano e migrano (per esempio, le crisi ambientali ed ecologiche).

In terzo luogo, bisogna promuovere il lavoro e l’educazione come strumenti per l’integrazione dei migranti nelle comunità di arrivo. A tale proposito, va tenuto conto del “ritorno” sociale ed economico di lungo periodo, determinato dal sentimento di appartenenza delle seconde e terze generazioni che crescono nei territori di accoglienza.

Infine, è necessario creare le condizioni per una mobilitazione sociale allargata. L’integrazione non passa infatti soltanto per misure burocratiche, ma anche per la capacità delle comunità di arrivo di gestire la diversità culturale. Va ricordato che, alla base della costituzione della società europea, risiede la differenza delle sue culture e non una sorta di nazionalistica e mitologica unità.

 

 

Brasile, richiesta di impeachment per Temer

epa05640293 Demonstrators demand detention of the former President Luiz Inacio Lula da Silva and senator Renan Calheiros for the corruption case in Petrobras, at the Paulista avenue in Sao Paulo, Brazil, 20 November 2016. Judge of the Petrobras case will hold a hearing on 21 November 2016. EPA/Fernando Bizerra Jr.

Proteste di piazza e scandali, pessimo gradimento e dimissioni dei suoi ministri, e adesso anche una richiesta di impeachment per il presidente brasiliano Michel Temer. Il suo governo, nato all’indomani della cacciata di Dilma Rousseff è ritenuto golpista da molti brasiliani.

Lo scandalo in questione riguarda le pressioni che l’ex ministro Geddel Vieira Lima, incaricato delle relazioni con il Congresso, faceva sul ministro della Cultura per approvare la costruzione di un edificio con appartamenti di lusso in una zona protetta di Salvador de Bahia. Due settimane fa, sul tavolo di Michel Temer, sono arrivate le dimissioni del ministro della Cultura, Marcelo Calero, mentre al posto del centrista Vieira Lima è stato nominato il socialdemocratico Antonio Imbassahy. «Un golpe dentro il golpe» denunciano le opposizioni.

E così, l’8 dicembre i Movimenti sociali brasiliani hanno protocollato alla Camera dei deputati la richiesta di impeachment contro il presidente Michel Temer: ha commesso un crimine di responsabilità, scrivono i firmatari, per non aver preso provvedimenti contro il ministro Geddel Vieira Lima. «Abbiamo avuto un impeachment senza crimine, non possiamo permettere che un crimine rimanga senza impeachment». Il riferimento è al colpo di mano nei confronti di Dilma Rousseff, destituito dalla carica di Presidente della Repubblica brasiliana.

Il pacchetto di riforme neoliberiste del governo Temer: tagli indiscriminati all’educazione e alla sanità pubblica, riforma del lavoro, esternalizzazione dei servizi, riforma dell’istruzione secondaria e della sicurezza sociale, la proposta di emendamento costituzionale 241/2016, che stabilisce un tetto sulle risorse pubbliche da destinare alle politiche sociali per i prossimi vent’anni. Poi, l’imminente avvio di un ampio piano di privatizzazioni, in linea con le imposizioni di Washington: in altre parole, è prevista la svendita di quel patrimonio pubblico che fu il volano del boom economico brasiliano durante gli anni della presidenza Lula. E i provvedimenti in agenda hanno un’ampia maggioranza tra gli scranni del Parlamento, la prima approvazione in Senato è già avvenuta il 30 novembre: 61 favorevoli e 14 contrari. Ma non è così nel Paese.

Da mesi le strade di San Paolo, di Rio e delle altre città carioca sono attraversate da imponenti manifestazioni contro il governo. L’ultima, oceanica, il 27 novembre, quando alla chiamata del Movimento dei Lavoratori, del Partito dei Lavoratori e dei Contadini senza terra, hanno risposto milioni di brasiliani. Cittadini, artisti e movimenti sociali latinoamericani continuano a protestare contro il processo golpista dei settori reazionari del Paese contro Dilma Roussef. Quel giorno, a San Paolo, al fianco dell’ex presidente brasiliano Lula da Silva, c’è anche l’ex presidente uruguayano José “Pepe” Mujica. È un chiaro monito ai leader progressisti latinoamericani, ritrovare l’unità d’azione per fronteggiare l’avanzata feroce del neoliberismo nella Regione.

Infine, a ribadire che con le nuove misure del governo Temer si rischia un forte arretramento dei diritti in Brasile ci sono anche i vescovi brasiliani della Commissione episcopale per il Servizio alla carità, giustizia e pace, organismo che opera nell’ambito della Conferenza episcopale brasiliana. Le misure del governo, scrivono i vescovi: «mettono a repentaglio i diritti sociali del popolo brasiliano, specialmente dei più poveri».

Cosa vogliono i giovani che hanno votato NO?

Mentre proseguono le consultazioni del Presidente della Repubblica per la crisi di Governo che si è aperta a seguito delle dimissioni post-referendum di Matteo Renzi, i giovani del gruppo “Studenti per il No” diffondono un appello per far sapere cosa vogliono adesso. Perché fin ora «nessuno ha ancora chiesto a noi, l’81% dei giovani che hanno votato NO, cosa vogliamo» scrivono sulla loro pagina facebook. «Democrazia, lavoro, diritti – continuano – siamo stanchi dei giochi di potere, delle guerre di posizione giocate sulla nostra pelle. Qualsiasi governo si insedi dovrà abrogare Buona Scuola e Jobs Act». Qui il video appello:

La carica di 4500 case editrici piccole e medie in Italia

Più libri più liberi

Una flotta ingenosa e creativa, con tante piccole navi, snelle e veloci nel fiutare i nuovi telenti, più di quanto non lo siano i colossi editoriali, che comprano i diritti nelle aste internazionali puntando solo sui best seller, sui grandi numeri. In Italia sono 4516 le case editrici piccole e medie, secondo l’indagine dell’Associazione italiana editori (Aie) presentata alla fiera Più libri più liberi in corso fino a domenica 11 nel Palazzo dei Congressi dell’Eur. Si tratta, tecnicamente, di marchi editoriali indipendenti  “con un venduto a prezzo di copertina sotto i 16milioni di euro annui”.

I piccoli editori nel 2016, secondo i dati annuali della indagine Nilsen segnano “un più 7,6% a valore e un più 5,9% a copie (la media è +1,9% a fatturato e -0,8% a copie)”. A benediciarne sono  diversi settori settori: la fiction italiana (+16,4% a copie e +18,3% a fatturato) e straniera (+13,2% a copie e +19,3% a fatturato). L’unico segmento che diminuisce, a sorpresa, è quello dei bambini e ragazzi (-1,2% a copie e -1,6% a fatturato).

Il merito delle case editrici piccole e medie, e la loro marcia in più, è fare scouting, anche se poi – ed è un fenomeno che non riguarda solo l’Italia ( qui il pezzo del Guardian) – aiutano ad emergere talenti che poi diventano firme delle majors. Ma tant’è. Dalla propria parte hanno la fiducia dei lettori forti che leggono più di 12 libri l’anno. Il dato nuovo e incoraggiante è che progressivamente stanno coinvolgendo lettori che leggono poco meno di dieci libri all’anno e chi legge gli ebook, un pubblico del quale si immagina una prossima crescita grazie al recenteabbassamento dell’IVA. Parliamo di un pubblico curioso e fedele, così lo descrive la ricerca Nilsen in fiera, il 41% degli intervistati dice di amare la fiera per seguire gli incontri con gli autori. Ma anche per fare regali. Per il resto acquista libri online ( il 30,8% degli intervistati) e preferisce le catene alle librerie indipendenti, per la maggiore offerta. Secondo la ricerca diffusa dall’Aie questo stesso pubblico di lettori forti che ama la carta e non disdegna il digitale, si informa attraverso siti e social (il 29,3% degli intervistati) e molto meno da media più tradizionali come pubblicità alla radio (2,8%) e dai giornali (5,8%).

Infine un dato incoraggiante per i piccoli editori: quella fetta di pubblico  che acquista dai 12 ai 30 libri l’anno passa dal 51,1% degli intervistati al 64,4%. Ma c’è anche un 6,2% che è fatto da deboli e occasionali acquirenti.
Lo studio Nilsen ha preso in esame 199 bilanci di piccoli editori riguardanti il 2015 e leggendoli in parallelo con i dati del 2013. Quasi la metà (il 48,9%) ha resistito alle trasformazioni e sta ulteriormente migliorando, mentre nel 2013 ce la faceva il 43%. Va meglio della media il 18,2% (era il 15% nel 2013) perché ha ha saputo raggiungere lettori medio-forti lettori cavalcando le trasformazioni che sono avvenute nel pubblico della piccola editoria. Tuttavia  il 26,6% del campione (era il 28% nel 2013) risulta ancora in difficoltà, seppur mostrando timidi segni di ripresa miglioramento.

Mentre ad essere davvero in crisi, secondo i dati Nilsen, è  la grande distribuzione, nei  primi 10 mesi dell’anno a fronte di  un  più 0,2% a valore  si è registrato un  meno 3,2% a volume.

Noi siamo Left. Sinistra senza inganni

Della sinistra tutti parlano… ma nessuno, in realtà, sa cosa sia. Una “cosa” che
è stata data per morta ed estinta mille volte ma poi inaspettatamente, come il 4 dicembre, si risveglia. “Ehi! guardate che sono qui, sotto i vostri occhi!”. Poi riscompare… tutti la cercano e nessuno la trova. Come fosse una donna misteriosa che non si fa sentire e vedere. “La sinistra è finita!”, “La sinistra non esiste”, “La sinistra è il vecchio e non il nuovo”, “La sinistra senza il centro non vince”, “La Sinistra si fa con idee di destra…”. Una cosa è certa: la sinistra è, evidentemente, un pensiero che è nella mente di milioni di persone. È un’aspirazione al meglio, al più bello, allo stare bene insieme, allo stare bene in tanti. È il rifiuto della stupidità e dell’arrogan- za. È la certezza che un altro mondo è possibile e anche necessario.
Una donna di 200 e più anni, violentata da un pensiero religioso senza senso, piegata a un pensare razionale che lei non capisce… ma che accetta per la sopravvivenza…
Ma la sinistra è anche una giovane ragazza bella, libera, felice, studiosa, colta, intelligente, che ha la certezza di sé e della bellezza del rapporto con gli altri. Ed è una realtà di pensiero nascosta nel cuore dei tanti che ne tengono un frammento ognuno. La sua forza è nella forza di quei milioni di cuori che batto- no insieme.
Noi abbiamo deciso di cambiare di nuovo per la terza volta in due anni. Ed è bello che accada in un giorno in cui festeggiamo il grande NO del 4 dicembre.
Le lettere che fanno il nostro nome sono diventate linee disegnate da una mano… e sono incerte, non nette come un carattere tipografico. Abbiamo deciso di lasciare quell’incertezza per dire dell’incertezza che noi abbiamo sempre quando facciamo un nuovo numero, quell’incertezza che abbiamo nel cercare, con il nostro lavoro quotidiano, la sinistra.
Ognuna di quelle lettere che fanno il nostro nome e di quelle parole che ognuna di esse rappresenta ha un significato grande. Ognuna di esse serve a far sì che la sinistra si tolga dall’oblio e dalla condanna in cui è stata confinata.
Come abbiamo fatto fino ad oggi, cercheremo sempre più di dare parola a tutti quelli che conservano
un frammento di sinistra nel loro cuore. Per far sì che la forza dei loro cuori, tutti insieme, possa diventare trasformazione della realtà.
Libertà, Eguaglianza, Fraternità, Trasformazione.
Noi siamo Left. Sinistra senza inganni.

See you letters

Settentrionalizzare la legalità, ad esempio

Complici Salvini e compagnia cantante (ma anche parecchi democratici e presunti uomini di sinistra) la questione meridionale tornerà ad essere un tema caldo della prossima campagna elettorale. Se è vero che Chicco Testa per commentare i risultati del referendum ha pensato bene di comporre un tweet in cui rivendicava i risultati del nord nei confronti del meridione sulle posizioni del sì al referendum, giocando ancora una volta sulla presunta superiorità morale e politica dei settentrionali rispetto ai meridionali, anche in occasione delle sfortunate uscite di Vincenzo De Luca (sul clientelismo come inevitabile modalità politica) qualche dirigente politico ha pensato bene di sminuire il tutto spiegandoci che lì da loro, da quelle parti, si fa così. Il meridione come grumo di illegalità diffusa, insomma, è uno dei pregiudizi più comodi da servire quando serve.

Due giorni fa l’ASTAT (che è l’acronimo dell’Istituto di Statistica della Provincia Autonoma di Bolzano) in occasione della giornata mondiale contro la corruzione (che è oggi) ha pubblicato un report sull’opinione degli altoatesini “sulla corruzione e su comportamenti che attengono al senso civico e che, più o meno direttamente, fungono da indicatori di legalità di un territorio.” Dice il rapporto che “il 60% degli altoatesini considera molto o abbastanza pericoloso denunciare fatti di corruzione”; che “un terzo degli altoatesini sarebbe disposto a pagare in nero parte o tutta la parcella di un professionista se quest’ultimo glielo chiedesse”; che “l’abbandono di rifiuti ingombranti è considerato tra i comportamenti più gravi (prima di concussione e corruzione); che il 30% degli altoatesini giustifica l’evasione fiscale; e che “oltre la metà degli altoatesini pensa che sia giusto farsi raccomandare per ottenere un posto di lavoro”.

Se leggete queste statistiche ai vostri amici o colleghi chiarendo che si parli di Valle D’Aosta vi capiterà di scorgere, in molti di loro, la stessa sorpresa sincopata che fu di molti lombardi nel momento in cui si accorsero delle mafie sotto casa o lo stesso imbambolamento che fu dell’Emilia Romagna che si scoprì in parte ‘ndranghetista: la presunzione d’immunità, nonostante la vorticosa circolazione di bufale e informazioni, è uno stupido pregiudizio ancora duro da scalfire. Settentrionalizzare la legalità, ad esempio, sarebbe un buon punto di programma per la prossima campagna elettorale: porta pochi clic e non so esattamente quanti voti. Ma farebbe bene alla cultura della legalità di questo Paese molto di più di testimonial, miti o figurine. Eccome.

Buon venerdì.

Dal No al Noi, è questa la strada

Anna Falcone, vice presidente del Comitato per il 'No' al referendum di Ottobre durante un' iniziativa organizzata a Napoli, 15 Giugno 2016. ANSA/CIRO FUSCO

Ha sfidato Renzi per mesi, c’ha messo la faccia e la pancia – è proprio il caso di sottolinearlo – Anna Falcone, vicepresidente del Comitato per il No. Sta per partorire Maria Vittoria ma non si è mai sottratta. Avvocatessa, esperta di diritto costituzionale, è stata una delle protagoniste più significative della campagna referendaria che ha portato alla vittoria del No alla revisione costituzionale Renzi-Boschi. «Mi capita di pensare che sto vivendo un momento davvero bello della mia vita», dice sorridendo. In questi mesi non ha mancato un confronto televisivo o un dibattito. Instancabile, sempre lì, a difendere le idee della Costituzione con un mix di parole alte e di passione che contagia. Tutto nel nome di una democrazia partecipativa, il futuro secondo lei. Reso possibile dall’esisto del voto di domenica.

Anna Falcone, si aspettava un margine così ampio di vittoria tra il No e il Sì?

No, ci speravo, ma non me l’aspettavo. E devo dire che sono stata molto contenta di rimanere stupita dalla partecipazione popolare. Ricordo che non era mai stata così alta per un referendum costituzionale.

A chi oggi parla di populismo cosa risponde?

Il populismo è stato tutto dall’altra parte. Un’espressione irrispettosa nei confronti di un pronunciamento così ampio e partecipato. Quando va a votare il 70 per cento degli italiani e il 60 per cento dice No, si chiama democrazia, non populismo.

L’intervista continua su Left in edicola dal 10 dicembre

 

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