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Thegiornalisti, dall’indie al pop. Sola andata

C’era una volta una piccola band indie romana che oggi è diventata mainstream e scala le classifiche. Se questa sia una storia a lieto fine o meno dipende molto da quello che siete soliti ascoltare, ma sicuramente quella dei Thegiornalisti, al secolo Tommaso Paradiso, Marco Antonio Musella e Marco Primavera, è una storia da raccontare. “Completamente”, il singolo che ha anticipato l’uscita dell’ultimo album, è uno dei tormentoni indiscussi di fine 2016 e scordatevi di trovare biglietti per i loro concerti fatti di canzoni romantiche e coriandoli sparati in aria, se non li avete comprati almeno qualche settimana prima. A parlarci di questa avventura è Tommaso Paradiso, cantante della band, felice, senza finti pudori da intellettuale, di non essere più “così indie” (per dirla con una canzone degli Stato Sociale), ma decisamente pop.
Completamente Sold Out, il titolo del vostro album, sembra quasi una profezia. Da band indie di nicchia che suonava nei circoli Arci a fenomeno pop del momento che scala le classifiche e fa il tutto esaurito. Come è successo?
In realtà la cosa è stata graduale. Negli ultimi concerti del tour di Fuoricampo, il disco precedente, incominciava già ad esserci molta più gente rispetto a quella a cui eravamo abituati. Alla prima data fatta a Milano proprio in un circolo Arci, c’erano 350 persone, mentre all’ultima erano già quasi un migliaio. Ora la cosa è esplosa, ed è molto più bello così. Preferisco i concerti grossi, suonare di fronte a molte persone piuttosto che poche. Paradossalmente mi fa stare più tranquillo.
Hai detto: «Scrivo i testi delle mie canzoni come se fossero messaggi su WhatsApp».
L’idea è di scrivere testi più schietti e diretti possibile. Lo spirito della band, che non a caso si chiama Thegiornalisti, è proprio questo: totale franchezza e onestà, una prosa chiara, netta, sincera e pulita. Ed è vero, alcuni testi sono proprio dei messaggi che magari ogni tanto mando, o cose che ricevo, conversazioni che mi stimolano e mi spingono a scriverci sopra una canzone.
Hai definito Completamente: «Il mio grido di ribellione contro il risparmio dei sentimenti. Contro la vittoria del freno a mano».
La cosa parte da una questione molto semplice. Le persone amano i film, amano andare al cinema, vedere Leonardo Di Caprio e Kate Winslet in Titanic, sognare storie d’amore alla Notting Hill, cose incredibili sulle quali lasciarci anche la lacrimuccia. Poi però, se nella vita reale gli capitano cose simili, pensano che non abbiano senso, si spaventano, si convincono che sia tutto assurdo. In sostanza amano cose che poi però non amano vivere o hanno paura di vivere. Tutto questo mi dà molto fastidio e allora: lo dico, lo scrivo e lo canto.
E lo metti in pratica?
Lo metto anche in pratica. Ci sono situazioni in cui vale decisamente la pena lasciarsi andare a un po’ di poesia e di magia nei rapporti. Non sono uno che riesce a trattenersi, almeno all’inizio. Quando c’è una carica esplosiva forte, perché non viverla forte?
Fra il pubblico degli inizi,c’è chi vi rimprovera di essere ormai troppo pop.
In realtà ci sono dei pezzi del primo disco Vol. 1 che sono più pop di pezzi che stanno in Completamente Sold Out, semplicemente all’epoca non avevamo i mezzi tecnici per realizzare un disco che suonasse bene, radiofonicamente giusto, pulito. Sorrentino non usa la telecamera della Chicco per fare i suoi film e non farebbe mai di proposito un film Lo-Fi in Vhs. Lo stesso vale per noi, un pezzo come “Io non esisto” per esempio poteva rientrare benissimo in questo ultimo album. La scrittura è uguale, testo romantico e canzone in La maggiore semplicissima. All’epoca però non avevamo i mezzi di cui disponiamo oggi, avevamo le chitarre, i nostri soldi, che non erano quelli di una discografica importante (Caterina Caselli ndr), e registravamo così, quindi il risultato era un po’ più stropicciato. Non c’è alcuna deviazione di percorso, siamo sempre gli stessi, solo adesso abbiamo molte più possibilità di fare la musica che vogliamo.

L’articolo continua su Left in edicola dal 10 dicembre

 

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Populismo Democratico e Nuovo Senso Comune

epa05656550 Leader of left-wing Podemos Party (We Can), Pablo Iglesias (C), attends a protest organized by workers of the Coca-Cola plant in Fuenlabrada, in Madrid, Spain, 02 December 2016. Coca-Cola bottling factory workers gathered in front of ruling party PP's headquarters to protest against their situation at the factory and to ask for a boycott against Coca-Cola, who allegedly intimidates them. The Coca-cola staff members claim the company is breaching the terms ruled by the Spanish High Court in June 2014, who annulled what was called a 'collective layoff' of workers and ordered the company to reinstate them. EPA/CHEMA MOYA

Il 2016 è l’anno del Brexit, dell’elezione di Trump, e ora del tracollo referendario di Renzi. Si tratta di tre dimostrazioni lampanti di quanto forte sia diventata la spinta anti-establishment. Le élite (ex) social-democratiche e la destra classica continuano a proporre politiche che non servono a migliorare la condizione dei più colpiti dalla crisi, e la maggioranza invisibile non avendo un progetto politico e sociale cui votarsi, reagisce con l’unico strumento a sua disposizione: il voto contrario.
I media mainstream di molti Paesi occidentali continuano a discutere di populismo come fosse solo un fenomeno reazionario e di destra. La sua accezione negativa (prevalente), affibbiata dai sostenitori dello status quo neoliberale, tende a svuotare di significato la parola stessa – orientandola verso l’estrema destra – nel tentativo di rendere poco credibile la proposta di una politica fatta partendo dal senso comune del popolo.

Tuttavia, l’ascesa del Movimento 5 Stelle e quella di Podemos in Spagna, hanno mostrato che il populismo – come suggerito dal filosofo politico Argentino Ernesto Laclau – può essere declinato anche in senso progressista. Queste forze politiche vengono definite “populiste” in virtù del contenuto della loro narrazione: il riavvicinarsi alle esigenze del popolo come soluzione alla crisi di rappresentanza che imperversa nella politica di tutto il mondo occidentale. Il populismo democratico cerca d’intercettare un largo consenso elettorale ispirandosi al senso di comunità, come contrapposizione all’individualismo cui la società è oggi soggiogata, individuando i nemici del popolo nel vertice della piramide economica e incolpandoli per l’attuale stato di cose (l’1% contro il 99% porta to alla ribalta da Occupy). In ogni caso, il filo comune è quello di un fermento ideologico che viene dal basso e che cerca di rompere il dualismo destra/sinistra proponendo un discorso nuovo, legato inestricabilmente all’incapacità della vecchia politica di rappresentare le istanze degli “ultimi”. Anche i populismi progressisti stanno raccogliendo moltissimi consensi, nonostante spesso si siano dovuti arrendere alle regole di quelle élite che volevano combattere (vedi il caso greco). Anche in Italia inizia a nascere una corrente di pensiero ispirata dall’idea del populismo democratico. Un esempio è Senso-Comune, un manifesto nato in risposta alla crisi di rappresentanza politica (http://www.senso-comune.it/manifesto/).

Il manifesto mira a riallineare l’operato delle Istituzioni alle esigenze del popolo per garantirgli centralità nel processo decisionale, come cura al crescente astensionismo e all’indifferenza degli elettori verso le questioni politiche. Di matrice riformista, il manifesto promuove un modello di populismo democratico volto a unire sotto un unico tetto la maggioranza invisibile per non lasciarla nelle mani delle forze conservatrici e reazionarie. Compito in origine affidato al Movimento 5 Stelle, che continua a raccogliere il voto di poveri, precari e disoccupati, ma non sembra in grado di proporre una proposta politica adeguata. Senso-Comune propone di superare l’impasse attraverso la costruzione di un welfare più universale, politiche economiche anti-cicliche e una seria lotta alla corruzione, affrontando il problema della sovranità limitata spostando il fulcro del processo decisionale verso la base della piramide sociale. La maggioranza invisibile ne uscirebbe così rafforzata. Il populismo democratico viene interpretato come presa di coscienza del popolo contro l’oligarchia, come la comunità contro l’autoreferenzialità dei moderni partiti, incapaci intercettare il cambiamento e di dargli giusta rappresentanza. In sintesi, il populismo democratico vorrebbe affidare “le chiavi della città” agli ultimi e al loro senso comune. Resta da vedere se e in che misura il populismo democratico saprà rivelarsi uno strumento decisivo per riassorbire la frattura sociale che domina la nostra epoca e a contrapporsi a quello reazionario che si espande a macchia d’olio.

L’articolo è tratto da Left in edicola dal 10 dicembre

 

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Gentiloni incaricato dal Colle. Un Renzi bis senza Renzi

Gentiloni entra al Colle
Paolo Gentiloni arriva in auto al Quirinale convocato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Roma, 11 dicembre 2016. ANSA/ ANGELO CARCONI

Tocca a Gentiloni, dunque, arrivato al Quirinale alle 12.30 come ministro degli Esteri e uscito come presidente del Consiglio incaricato. Lui è l’uomo giusto, come abbiamo visto, che mette d’accordo i più – almeno nel confine dell’attuale maggioranza di governo e del Pd – e fa stare moderatamente tranquillo Matteo Renzi. Quello di Gentiloni, infatti, il governo che vedremo nascere nelle prossime 48 ore, o comunque entro giovedì, nei piani del presidente dimissionario dovrebbe esser di fatto un Renzi bis senza Renzi.

Sarà un Renzi bis, quello di Gentiloni, tant’è che il più dei ministri non dovrebbe cambiare. Giannini e Poletti sono dati in uscita, forse sostituiti da Puglisi e Terranova. Boschi potrebbe lasciare di sua sponte, tornando al partito. Per il resto però sarà un governo in continuità. «Non per scelta ma per senso di responsabilità ci muoveremo nel perimetro del governo e della maggioranza uscente», dice Gentiloni uscendo dal Colle, riassumendo così l’esito delle consultazioni, con le opposizioni più orientate per il voto subito, chi con una nuova legge elettorale, da fare in poche settimane, Renzi reggente (Sinistra italiana e 5 stelle), chi anche così (Lega). Anche l’appoggio di Denis Verdini, quindi, sarà in continuità, con il gruppo di Ala che, uscito dalla sua consultazione, ha detto di esser disponibile per qualsivoglia governo. Sarà un Renzi bis, che però permette a Renzi di non smentirsi ancora una volta: aveva detto che avrebbe lasciato la politica e poi che avrebbe lasciato solo palazzo Chigi, restare pure al governo sarebbe stato troppo. Pure per lui.

Però con Gentiloni – è convinto Renzi – lui non lascia spazio a un possibile competitor: Gentiloni non è Franceschini, insomma. È un presidente del Consiglio silenzioso, senza velleità e fedele (leggerete decine di ritratti ma basta una parola: Rutelli), che gli consentirà di concentrarsi sulla ricostruzione della sua leadership, con un congresso e le primarie da fare il prima possibile, e le elezioni da anticipare a giugno 2017. «Il congresso lo faremo presto e Renzi correrà ancora da premier», dice infatti il renzianissimo capogruppo Rosato. E qui però ci sarà da litigare con la minoranza dem, che certo non vuole farsi dettare i tempi da un segretario che non ha mai amato e che oggi considera più debole. Anche la minoranza dem ha però bisogno di tempo (ecco perché Gentiloni fa, alla fine, contenti tutti) non avendo una leadership – una competitiva – pronta.

La contesa interna comincerà (o meglio preseguirà) lunedì, con la direzione del Pd convocata per mezzogiorno che dovrà di fatto ratificare ciò che è già accaduto. Però si potrà discutere, almeno, questa volta, ma senza Renzi pare, al momento. Il segretario non ci sarà. Poi si continuerà con l’assemblea del Pd, quella con mille membri, convocata per domenica prossima. Il congresso inizia così.

Le foto della settimana. Dalla Siria all’oleodotto dei Sioux in North Dakota

Quartieri orientali di Aleppo, Siria. (AP Photo / Hassan Ammar)

5 Dicembre 2016. Un esplosione in seguito ad uno dei continui attacchi aerei nei quartieri orientali di Aleppo, Siria. (AP Photo / Hassan Ammar)
Un esplosione in seguito ad uno dei continui attacchi aerei nei quartieri orientali di Aleppo, Siria. (AP Photo / Hassan Ammar)

Una donna iraniana durante la visita al lago salato di Khour nel nord est dell’Iran, a circa 500 chilometri a sud est della capitale Teheran. L'aumento di turisti nel deserto ha stimolato la crescita economica nella zona. (AP Photo/ Ebrahim Noroozi).
Una donna iraniana durante la visita al lago salato di Khour nel nord est dell’Iran, a circa 500 chilometri a sud est della capitale Teheran. L’aumento di turisti nel deserto ha stimolato la crescita economica nella zona. (AP Photo/ Ebrahim Noroozi).

5 dicembre 2016. La marcia lungo il ponte fuori del campo Oceti Sakowin dove in tantissimi si sono riuniti per protestare contro l'oleodotto Dakota (AP Photo / David Goldman)
5 dicembre 2016. La marcia lungo il ponte fuori del campo Oceti Sakowin dove in tantissimi si sono riuniti per protestare contro l’oleodotto Dakota (AP Photo / David Goldman)

6 dicembre, 2016. Rio de Janeiro, Brasile. Un manifestante arrestato dalla polizia durante una protesta contro le misure di austerità in discussione alla camera. A causa della profonda crisi finanziaria dello Stato, a migliaia di dipendenti statali e pensionati non sono stati pagati gli stipendi o sono stati pagati con mesi di ritardo. (AP Photo/ Leo Correa)
6 dicembre, 2016. Rio de Janeiro, Brasile. Un manifestante arrestato dalla polizia durante una protesta contro le misure di austerità in discussione alla camera. A causa della profonda crisi finanziaria dello Stato, a migliaia di dipendenti statali e pensionati non sono stati pagati gli stipendi o sono stati pagati con mesi di ritardo. (AP Photo/ Leo Correa)

7 dicembre, 2016. San Pietroburgo, Russia. L’Hermitage State Museum illuminato. Le temperature in Russia, in questi giorni, hanno raggiunto i 13 gradi sottozero. (AP Photo / Dmitri Lovetsky)
7 dicembre, 2016. San Pietroburgo, Russia. L’Hermitage State Museum illuminato. Le temperature in Russia, in questi giorni, hanno raggiunto i 13 gradi sottozero. (AP Photo / Dmitri Lovetsky)

7 dicembre, 2016. Kyebi, Ghana. Aspettano il risultato di voto alle elezioni. L’opposzione guidata da Adama Barrow ha vinto contro il presidente Yahya Jammeh, che governa in maniera autoritaria dal colpo di Stato del 1994. (AP Photo/ Domenica Alamba)
Kyebi, Ghana. Aspettano il risultato di voto alle elezioni. L’opposzione guidata da Adama Barrow ha vinto contro il presidente Yahya Jammeh, che governa in maniera autoritaria dal colpo di Stato del 1994. (AP Photo/ Domenica Alamba)

8 dicembre 2016. Istanbul, Turchia. Alcune donne turche durante una manifestazione di protesta contro la guerra ad Aleppo. (AP Photo/ Emrah Gurel)
8 dicembre 2016. Istanbul, Turchia. Alcune donne turche durante una manifestazione di protesta contro la guerra ad Aleppo. (AP Photo/ Emrah Gurel)

8 dicembre 2016. il villaggio di Haji Ali visto dall’interno di un edificio distrutto, a circa 70 km da Mosul, Iraq. (AP Photo / Manu Brabo)
Il villaggio di Haji Ali visto dall’interno di un edificio distrutto, a circa 70 km da Mosul, Iraq. (AP Photo / Manu Brabo)

9 dicembre 2016. Londra, Inghilterra. In un albergo del centro due giornalisti leggono la relazione sul doping nello sport russo del professor Richard McLaren, membro della commissione indipendente del World Anti-Doping Agency (WADA), secondo cui, a partire dal 2011, sono più di 1.000 gli atleti russi coinvolti in casi di doping sponsorizzata dallo stato (ANSA EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA)
9 dicembre 2016. Londra, Inghilterra. In un albergo del centro due giornalisti leggono la relazione sul doping nello sport russo del professor Richard McLaren, membro della commissione indipendente del World Anti-Doping Agency (WADA), secondo cui, a partire dal 2011, sono più di 1.000 gli atleti russi coinvolti in casi di doping sponsorizzata dallo stato (ANSA EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA)

9 novembre 2016. Sucre, Venezuela. Alcuni bambini giocano ai "pirati" su una barca da pesca a Cumana. La grave crisi economica che il paese sta attraversando ha portato alcuni pescatori ad usare le loro imbarcazioni per attività illegali. "Si parla di pirateria e si pensa a ragazzi che rapinano navi-container. Ma qui si tratta solo di poveri pescatori che derubano altri pescatori poveri", ha detto l'avvocato Sucre Luis Morales. (AP Photo / Rodrigo Abd)
Sucre, Venezuela. Alcuni bambini giocano ai “pirati” su una barca da pesca a Cumana. La grave crisi economica che il paese sta attraversando ha portato alcuni pescatori ad usare le loro imbarcazioni per attività illegali. “Si parla di pirateria e si pensa a ragazzi che rapinano navi-container. Ma qui si tratta solo di poveri pescatori che derubano altri pescatori poveri”, ha detto l’avvocato Sucre Luis Morales. (AP Photo / Rodrigo Abd)

9 dicembre, 2016. Bucarest, Romania. Una donna anziana pulisce una finestra accanto a un manifesto pubblicitario. l’11 dicembre i romeni saranno chiamati a votare per le elezioni parlamentari, un anno dopo la massiccia campagna anticorruzione che ha costretto il primo ministro Victor Ponta a dimettersi. (AP Photo/ Vadim Ghirda)
Bucarest, Romania. Una donna anziana pulisce una finestra accanto a un manifesto pubblicitario. l’11 dicembre i romeni saranno chiamati a votare per le elezioni parlamentari, un anno dopo la massiccia campagna anticorruzione che ha costretto il primo ministro Victor Ponta a dimettersi. (AP Photo/ Vadim Ghirda)

Gallery a cura di Monica Di Brigida

Il declino della democrazia americana

Francis Fukuyama, director of Center on Democracy, Development and the Rule of Law at Stanford University, during the International workshop " Post-election America: Political and economic challenges", at Center for American studies in Rome, Italy, 2 December 2016. ANSA/ MAURIZIO BRAMBATTI

Era un mondo dubbioso ma ancora tranquillo quello del 4 dicembre. In Italia non si era abbattuta ancora sul governo una valanga di no, in America Trump non aveva ancora scatenato un caso internazionale chiamando Taiwan invece che Pechino, dove stava per arrivare Kissinger. C’era il sole a Roma e c’era Francis Fukuyama a piazza Minerva.
Avevo delle domande sui fogli: questo è il tempo della grande guerra? Cosa ne sarà del mondo tra Putin e Trump? L’Europa sta finendo o sta continuando a finire? E la Storia? La democrazia failed to perform, come si intitolava uno dei suoi interventi? C’erano anche altre domande che stavano su un foglio ma arrivavano da più lontano, da certi banchi universitari, certe tavole d’infanzia piene di evacuati oltre cortina. Fukuyama si siede e sorride.
«Sono stato invitato in Italia a parlare dei problemi strutturali delle istituzioni della democrazia americana, credo che sia ovviamente legato al referendum del 4 dicembre, perché i nostri governi hanno problemi simili nel prendere decisioni».

L’intervista continua su Left in edicola dal 10 dicembre

 

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L’onda populista si ferma a Vienna

Presidential candidate Alexander Van der Bellen, a former leading member of the Greens Party, celebrates on the podium at a party of hius supporters in Austria's capital Vienna Sunday, Dec. 4, 2016, after the first official results from the Austrian presidential election showed left-leaning candidate Alexander Van der Bellen with what appears to be an unbeatable lead over right-winger Norbert Hofer. (AP Photo/Matthias Schrader)

«Libertà, uguaglianza e solidarietà», sono queste tre parole che scandisce il neo-presidente austriaco dei Verdi Alexander Van Der Bellen nel suo primo discorso: «Cercherò di essere un presidente dalla mentalità aperta, liberale e pro-europeo». La sera del 4 dicembre, mentre l’Italia è col fiato sospeso in attesa dei risultati del referendum, la sede del partito austriaco dei Verdi scoppia in un boato: Van Der Bellen ha sconfitto definitivamente Norbert Hofer del partito nazional-populista delle Libertà (FPÖ). Lo scarto è del 53,3% contro un 46,7%, un distacco decisamente maggiore di quello del secondo turno dello scorso maggio, quando Van Der Bellen aveva vinto contro Hofer per soli 31mila voti: un risultato a cui l’FPÖ si era aggrappato sollevando dubbi legati all’irregolarità nella chiusura delle buste elettorali e che aveva portato la Corte elettorale ad annullare i risultati e far ripetere il secondo turno. «Si tratta un’importante vittoria contro il populismo di destra» dice Anton Pelinka, scienziato politico esperto di nazionalismi e professore all’Università Centrale Europea, soprattutto perché questo dimostra che in Austria esiste una maggioranza che si mobilita contro l’estrema destra dell’FPÖ.

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Come Renzi ha mandato a sbattere i sindaci del Sud

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Bari con il sindaco Antonio Decaro a un'iniziativa per sostenere il "sÏ" al referendum, 18 novembre 2016. ANSA / US PALAZZO CHIGI - TIBERIO BARCHIELLI +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

«Chiedere alla casalinga di Voghera e al barista di Trani di pronunciarsi sul bicameralismo imperfetto è puro sadismo», scriveva qualche settimana fa Michele Serra, in una sua contestatissima “l’Amaca”. Sbagliava. O meglio, è probabile che qualche casalinga o qualche barista (ma anche qualche costituzionalista e qualche giornalista) non abbia votato nel merito della riforma costituzionale («Solo una piccola minoranza di italiani avrà la competenza e la voglia di farlo», continuava Serra, «e sarebbe sbagliato biasimare chi non lo farà»). Ma di votare, soprattutto il barista di Trani aveva molta voglia. Lo dicono i numeri, sorprendenti, che riconoscono al Sud il merito non tanto di aver fatto vincere il No – in vantaggio pressoché ovunque – ma di aver dato alla sua vittoria le dimensioni che conosciamo (59,1 il No, 40,9 il Sì), che hanno innescato reazioni politiche di portata inaspettata.

È interessante leggere i dati aggregati per macro regioni. Nel Nord-est, ad esempio, il No ha vinto con il 55,6 per cento, lasciando al Sì il 44,4; nel Nord-ovest il No ha raccolto un punto in più, il 56,5 per cento; nel Centro, il 56,1 per cento, con il sì al 43,9. È dal Sud e dalle isole che arriva la marea: il Sì è staccato di oltre 36 punti, con il No al 68,1 per cento. Ogni regione, e non solo la Puglia di Michele Emiliano (che ride leggendo i dati di Bari, città del sindaco Decaro, renziano e per il Sì, fermo 31 per cento), è diventata una roccaforte dei “professoroni”. La Puglia, è persino sotto la media, con il 67,2 per cento di No e un’affluenza del 61,7. È sopra la media, invece, la Campania, dove Matteo Renzi contava invece su Vincenzo De Luca e il suo lavorio. Lì il No è arrivato al 68,5 per cento, con la provincia di Salerno (città di cui è stato sindaco De Luca) al 64,7, e quella di Caserta, quella di molti sindaci convocati da De Luca per l’ultimo sprint a suon di «clientela», al 71,7.

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Non sparate su Dostoevskij

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San Pietroburgo, 1849 Dostoevskij si trova davanti al plotone di esecuzione, aspetta il colpo di fucile. Insieme ad altri prigionieri politici è condannato a morte per cospirazione. avendo frequentato gruppi decabristi clandestini. D’un tratto arriva inaspettata la notizia di grazia. Ma quei cinque minuti gli cambiarono la vita e il modo di fare letteratura. Da quell’episodio prende le mosse Il giardino dei Cosacchi (Iperborea) di Jan Brokken, appassionato omaggio all’autore de I demoni. Una biografia in forma di romanzo costruita a partire da lettere e documenti. Racconta aspetti poco noti della vita del grande scrittore russo e ne illumina il lavoro letterario, mostrando come siano nati straordinari personaggi come l’Idiota, ma anche come Dostoevskij sia riuscito a tratteggiare una approfondita psicopatologia del terrorismo. Su Left in edicola questa settimana, l’intervista a Jan Brokken, che il 10 dicembre interviene a Più libri più liberi.

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«Sono un uomo libero, io». Parla Emiliano, l’anti Renzi

MICHELE EMILIANO

Non chiede le dimissioni del segretario Renzi, Michele Emiliano, quando lo raggiungiamo al telefono a Roma, dov’è arrivato per partecipare alla direzione di martedì 6 dicembre poi slittata. In attesa di intervenire nel parlamentino del partito, però, il presidente della Regione Puglia dice che il premier «avrebbe dovuto lasciare l’incarico di segretario, piuttosto che quello di capo del governo». E si fa avanti per sostituirlo annunciando che valuterà «se ci saranno candidati convincenti» alla segreteria del Pd.

Presidente Emiliano, partiamo dal suo appello al voto rivolto al Sud. In Puglia ha prevalso anche sul Sì del sindaco Decaro. È soddisfatto del risultato?

Certo che sono soddisfatto! Il Sud è una realtà piena di grandissime opportunità e meraviglioso dal punto di vista della passione e delle emozioni, ma è anche un posto pericolosissimo, dove se si crea un vuoto politico può essere occupato anche da clientele, da pressioni mafiose. Questa volta ha scelto di esserci ed è stato decisivo.

Lei ha sostenuto che la riforma Renzi-Boschi avrebbe danneggiato il Meridione. Perché?
Perché l’unica forza del Sud in questo momento sono le autonomie. Al Sud non pensa nessuno in questo Paese.

L’intervista continua su Left in edicola dal 10 dicembre

 

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Sono più quelli che non vogliono andare al voto

consultazioni al Quirinale
Un momento nella Loggia d'Onore del Quirinale durante le consultazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Roma, 9 dicembre 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Entro lunedì, questo dicono tutti, si dovrebbe risolvere la crisi. Così vorrebbe almeno Sergio Mattarella (ma così vogliono in tanti). Come, però, ancora non si sa.

Anche se ci sono un po’ di indizi, che arrivano tutti, per il momento, da fuori il Quirinale: le consultazioni infatti sono state ieri istituzionali (Grasso, Boldrini e Napolitano) e oggi minori, con il peso maggiore, entrato nell’ufficio delle vetrate, rappresentato da Giorgia Meloni e dalla Lega, non certo determinanti (né disponibili) alla nascita di un qualsivoglia governo.

Domani sarà invece la giornata di 5 stelle, Forza Italia e Pd e allora sì che avrà senso seguire le dirette tv, la maratona di Mentana o quella che preferite. Per ora dunque, meglio guardarsi intorno, leggere bene i giornali e guardare, più che al Colle, alle dichiarazioni delle varie anime dem, e a palazzo Chigi, dove, ad esempio, si sono riuniti nella tarda mattinata Matteo Renzi, Giancarlo Padoan e Paolo Gentiloni, per un vertice. L’uscente – cioè – e due dei papapili più gettonati: con il secondo, il ministro degli Esteri, Gentiloni, schizzato improvvisamente al primo posto, perché – si può dire guardandolo da ottica renziana – antidoto “politico” al rischio Franceschini.

Se infatti, come abbiamo già scritto, per Renzi lo scenario peggiore sarebbe quello di un governo fortemente politico, con un primo ministro che possa prenderci gusto e magari pensare di far dimenticare Renzi come Renzi ha fatto dimenticare Letta (e Franceschini risponde al profilo, anche se per ora si mostra disinteressato e ricorda di aver sempre detto che Renzi non si sarebbe dovuto dimettere), Gentiloni rappresenta la giusta via di mezzo tra quello e un governo di pura “responsabilità”, alla Grasso, improbabile se legato all’idea di una maggioranza “costituzionale”, che unisca il fronte del Sì e quello del No. Non è un caso che Renzi non si stia affatto preoccupando di far montare il nome di Gentiloni. Alla fine, non gli dispiacerebbe.

È Gentiloni (o un Gentiloni), infatti, l’alternativa che consentirebbe a Renzi di evitare l’altra via d’uscita, il Renzi bis, altra strada possibile per far calare il rischio di finir rottamati – strada che piacerebbe molto ad alcuni renziani di ferro, ma che costringerebbe Renzi a un’ennesima clamorosa smentita. Il sindaco d’Italia che aveva giurato sarebbe arrivato a palazzo Chigi solo passando per il voto popolare e non «attraverso giochi di palazzo», a quel punto, non solo ci sarebbe arrivato «attraverso giochi di palazzo» ma, «attraverso giochi di palazzo», ci resterebbe pure, avendo peraltro detto più volte di esser pronto a cambiare mestiere. A livello di comunicazione: un disastro.

È Gentiloni che potrebbe così accontentare tutti (tranne i giovani Turchi, forse, che temono di restare fregati con un ridimensionamento, pur temporaneo, di Renzi). Potrebbe far stare un pelo più tranquillo Renzi (convinto così di potersi sganciare dal governo e rigenerarsi) e darebbe ragione a tutti quelli che al voto non vogliono andare, che sono i più. E non solo per il vitalizio, come già si maligna sui social. Il punto è che nel Pd è già cominciato il fuggi fuggi generale (così come è cominciato tra gli editorialisti dei giornaloni). E che con Franceschi, ovviamente, ma anche con Gentiloni (sostenuto dalla stessa maggioranza di Renzi, a prescindere dall’allargamento a Berlusconi), si può guadagnare un po’ di tempo.

Quanto? Qui le speranza divergono nuovamente. Alcuni, quelli che non vogliono fare un congresso lampo, sperano fino al 2018, altri – i renziani – vorrebbero a quel punto, rifatte pure le primarie, metà 2017: giugno 2017. Nella speranza (ancora una volta) che il vento “populista” passi; nella certezza che, almeno, cambieranno i rapporti di forza nel Pd. Ma in favore di chi?