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Ecco il governo Renz… ops, Gentiloni!

Gentiloni durante le consultazioni
Italian Prime Minister in charge, Paolo Gentiloni, talks to journalists after the end of his talks with parties, Rome, 12 December 2016. Italian Premier-designate will present his new cabinet later in the day. President Sergio Mattarella yesterday gave the former foreign minister a mandate to form a new government in the wake of Matteo Renzi's resignation as premier last week, following a crushing defeat in a December 4 constitutional referendum. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Ecco il governo Gentiloni, che nascendo chiude rapidamente la crisi aperta con le dimissioni di Matteo Renzi, sconfitto in un referendum che doveva esser costituzionale e che lui stesso ha però voluto impostare come un giudizio su di sé, una prova da superare per restare a palazzo Chigi. Una prova persa.

La crisi di governo si risolve così rapidamente, per «responsabilità», dicono dal Pd, che in una direzione, nel pomeriggio, ha accordato all’unanimità la fiducia al presidente incaricato. Ma anche perché, nei fatti, alla fine, la maggioranza è sempre la stessa (salta solo Zanetti, ormai in quota Verdini, che doveva esser ministro, ed è il tributo alla «discontinuità» chiesta dalla minoranza dem) e anche il più dei ministri, anche quelli sono sempre gli stessi.

E centrale è il ruolo dei nomi più pesanti del renzismo, Boschi e Lotti
. Verrebbe da dire che anche il governo è lo stesso, un Renzi bis senza Renzi. Non fosse che, se questa è sicuramente l’idea di Renzi (che così, senza lasciar spazio a un competitor, può dedicarsi a rigenerare la sua leadership), non è detto che poi sia così veramente.

Renzi – sempre durante la direzione dem – ha messo una sorta di data di scadenza sulla fronte di Gentiloni. «C’è un appuntamento imminente con le elezioni, che noi non temiamo», ha detto Renzi, subito coperto da Matteo Orfini secondo cui siccome la legislatura non è più costituente non avrebbe senso farla arrivare a scadenza naturale. Ma non è detto che la scadenza immaginata da Renzi si avveri. Lui pensa a giugno 2017; non in pochi vorrebbero però arrivare al 2018. E dettare i tempi da fuori il parlamento, anche se sei il segretario del primo partito della coalizione di governo, è complicato. Ecco perché Renzi vuole un rapido congresso e rapide primarie. Per fare avere qualche argomento in più.

Ma ecco la lista.

Angelino Alfano va agli Esteri e il sottosegretario ai servizi Marco Minniti sarà invece ministro dell’Interno. Orlando resta alla Giustizia, Pinotti alla Difesa, Padoan ovviamente all’Economia, Calenda allo Sviluppo economico, Madia alla Pubblica amministrazione. Resta anche Franceschini alla Cultura, Galletti all’ambiente, Poletti al Lavoro, Delrio alle Infrastrutture. Resta Lorenzin alla Salute e Martina all’Agricoltura, mentre cambia l’Istruzione, dove arriva Valeria Fedeli.

Maria Elena Boschi cambia solo ruolo, ma resta centrale e resta a palazzo Chigi: aveva detto anche lei, come Renzi, che avrebbe lasciato la politica, non solo la poltrona al governo, e invece sarà sottosegretario alla presidenza. I Rapporti col parlamento vanno a Anna Finocchiaro, senatrice e – volendo – “nonna” della riforma bocciata, se Boschi ne era la madre. Proseguendo le conferme c’è Enrico Costa agli Affari regionali, promosso invece De Vincenti per cui torna la Coesione territoriale. Luca Lotti, infine, già sottosegretario sarà ministro dello Sport (ma anche al Cipe e all’Editoria).

Alle 16.37 di 47 anni fa la strage di piazza Fontana. È l’inizio degli anni di piombo

1969 - la strage di Piazza Fontana a Milano

Ore 16.37. Un’esplosione fa detonare Milano. È il 12 dicembre 1969, e a saltare in aria è la Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, per lo scoppio di 7 kg di tritolo. Moriranno 17 persone, ne resteranno ferite 88. Impunite.

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È l’inizio degli anni di piombo e della “strategia della tensione”: 15 anni di uno dei periodi più bui della storia d’Italia. Troppe morti, molti insabbiamenti, poca verità.

Per la strage di Piazza Fontana, il processo (iniziato nel 1972) è stato lungo, intricato e più volte deviato. Alla fine, dopo rinvii, coinvolgimenti e piste sbagliate (come l’iniziale pista anarchica), e soprattutto dopo una serie di assoluzioni “per insufficienza di prove”, non si hanno condannati. L’ultima sentenza della Cassazione, nel 2005, ha assolto i tre imputati (Delfo Zorzi come esecutore della strage, Carlo Maria Maggi come organizzatore e Giancarlo Rognoni come basista), pur imputando la responsabilità della strage alla cellula eversiva neofascista Ordine nuovo. Franco Freda e Giovanni Ventura, ai tempi a capo della cellula, non sono tuttavia più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987.

Al termine del processo, nel maggio del 2005, ai parenti delle vittime vennero addebitate le spese processuali.

Fra le vittime della strage, va inserito anche l’anarchico Giuseppe Pinelli. Il giovane ferroviere, arrestato nei giorni immediatamente successivi alla strage e misteriosamente “caduto” dalle finestre della questura durante il suo interrogatorio. Della misteriosa morte venne additato dalla sinistra estrema come responsabile il commissario Luigi Calabresi, allora presente in quell’ufficio del quarto piano milanese. Calabresi, fu ucciso in un attentato il 17 maggio 1972. Vennero riconosciuti responsabili della morte di Calabresi alcuni esponenti di Lotta continua: Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. L’innocenza di Pinelli, venne riconosciuta diversi anni dopo la morte.

Un momento della manifestazione per ricordare il 41/o anniversario della bomba esplosa alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, questo pomeriggio 11 dicembre 2010 a Milano. ANSA/MATTEO BAZZI
Un momento della manifestazione per ricordare il 41/o anniversario della bomba esplosa alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, 11 dicembre 2010 a Milano.
ANSA/MATTEO BAZZI

 

 

 

Da Catania a Parigi passando per Roma. Le foto di Mimmi Moretti

A curare il profilo di Left su Instagram questa settimana sarà Mimmi Moretti.

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Moretti nasce a Catania nell’agosto del 1966 e pochi mesi dopo, con la sua famiglia, va a vivere a Parigi. È nella Capitale francese che si forma culturalmente ed inizia a familiarizzare con la macchina fotografica. Nel 1976 si trasferisce a Roma dove, terminati gli studi, lavora come freelance per alcune riviste prima di approdare in una multinazionale tedesca che lascerà molti anni dopo per iniziare un’avventura imprenditoriale nel mondo dell’e-business. Verso la fine degli anni novanta si riavvicina alla fotografia ed inizia a sperimentare le nuove soluzioni offerte dal digitale, al quale passerà definitivamente qualche anno dopo. Vincitore di diversi premi internazionali, nel 2014 espone per la prima volta in una mostra collettiva a Londra.

Ecco qualcuno dei suoi scatti:

Trovate le sue foto per tutta questa settimana qui

Progetto a cura di Francesca Fago

I dem ratificano Gentiloni, ma Renzi gli dà pochi mesi. Tutti pensano già al congresso

Roberto Speranza parla al telefono
Roberto Speranza al suo arrivo nella sede del Partito Democratico per la direzione PD a Roma, 12 dicembre 2016. ANSA/CLAUDIO PERI

È il giorno delle consultazioni per Paolo Gentiloni, e della direzione per il Partito democratico. Ma il governo è cosa fatta, e si attende solo la lista dei ministri. La direzione del Pd, infatti, perde qualsiasi interesse già dopo due minuti, quando Matteo Orfini comunica che in poco più di un’ora bisogna arrivare al voto su un documento, prima firma Guerini, e che la direzione dovrà quindi decidere se darà o meno piena fiducia a Gentiloni, che ha ricevuto l’incarico dal Colle. La direzione comincia alle 13 meno un quarto, più o meno, e alle 14, infatti, i capogruppo del Pd sono attesi dal presidente incaricato.

La fiducia è così, ovviamente, accordata. Rapidamente. Nessuno, a cose fatte, può infatti mettere in discussione la proposta del Colle, e nessuno lo fa. Giusto qualche osservatore e qualcuno della minoranza, prevalentemente sui social, suggerisce che sarebbe stato più giusto discutere mercoledì, prima che Renzi salisse al Colle per dimettersi, o discutere giovedì, prima che la delegazione dem salisse al Colle per decidere come affrontare la crisi di governo. Così, giusto per dare un senso agli organismi dirigenti. Ma nessuno insiste più di tanto. Anche perché, possiamo scommettere, non sarebbe cambiato molto.

La minoranza dem aveva infatti già detto – e oggi l’ha ribadito – che avrebbe assecondato, fidandosi, Mattarella, e che (parole di Speranza, ad esempio) sarebbe comunque spettato al Pd «l’onere della responsabilità», quella cioè di dar vita a un governo.

Il Pd così, compatto sul passaggio parlamentare, può rapidamente concentrarsi sulla partita che pare interessare di più, il congresso. L’intervento che apre le danze è quello di Roberto Speranza, il quale chiede che da palazzo Chigi, ma anche e soprattutto dal Nazareno, si dia la risposta giusta alla vittoria del No, «una forte discontinuità» cioè, che per ora però non vede «nell’arroganza» di chi banalizza l’esito del voto: «Non ci porta lontano l’illusione di chi pensa di avere in tasca il 40 per cento», dice Speranza. Che chiede a Renzi di non nascondersi «dietro gli insulti organizzati su internet o le manifestazioni qui sotto» e di dire chiaramente se vuole «buttare fuori chi ha votato No».

Le risposte che arrivano non dovrebbero lasciare molti dubbi (da Migliore a Fiano, i toni verso chi nel Pd ha votato No sono durissimi), ma per ora la minoranza dem non vuole evidentemente rompere. Non sa ancora come riprendersi il partito, ma non sa nemmeno come fare una scissione, ammesso che ne abbia voglia. E così chiede a Renzi, se vuole, di indicargli chiaramente la porta: almeno, insomma, si prendesse la responsabilità della rottura. Lui però non lo fa, ovviamente. Anzi. Renzi ha pur sempre bisogno di qualcuno da battere alle prossime primarie. E infatti lui invoca il congresso. Chiudendo la direzione, Renzi mette dunque una data di scadenza al governo Gentiloni (come già fatto da Orfini: «È inconcepibile che la legislatura arrivi al termine, non essendo più una legislatura costituente»), e a chiede che già domenica, l’assemblea del Partito, già convocata, avvii ufficialmente la stagione congressuale. 

La caduta di Aleppo è vicina. Assad sta sconfiggendo i ribelli. Ma è emergenza umanitaria

This frame grab from video provided by the Aleppo News Network shows smoke rising following an air strike that hit insurgents positions in eastern neighborhoods of Aleppo, Syria, Friday, Dec. 9, 2016. Hundreds of Syrian civilians streamed out on foot from the eastern part of the city of Aleppo on Friday in the wake of the relentless campaign by government troops and their allies to drive rebels from their rapidly crumbling enclave. (Aleppo News Network via AP)

Aleppo, città chiave per la risoluzione della guerra civile siriana, è stata quasi ormai completamente conquistata dall’esercito del presidente Bashar al-Assad. A quanto riportano infatti i media controllati dal governo di Damasco e gli attivisti, i ribelli controllerebbero ancora solo una piccola porzione della città. L’agenzia di stampa siriana Sana, citando fonti governative, riporta infatti che i quartieri di Sheikh Saad, Shahadin, Karam al-Afandi, Karam al-Daadaa e Saliheen sono stati riconquistati dall’esercito regolare e che i ribelli che occupavano l’area orientale di Aleppo hanno perso il 90% dei territori sotto il loro controllo. Ora, stando alle stesse fonti, l’esercito sta cercando di concludere l’offensiva e sconfiggere definitivamente i ribelli nelle aree di Sukkari, Mashhad, Amariya e Ansari. La notizia della caduta di Sheikh Saad e Saliheen è confermata anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani. Secondo Rami Abdel Rahman, direttore dell’Osservatorio, infatti: «la battaglia per Aleppo è giunta nella sua fase finale, sono pochissimi i territori ancora in mano ai ribelli e potrebbero essere costretti alla resa da un momento all’altro».

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Il successo delle truppe di Assad arriva dopo mesi di lotte condotte strada per strada e con raid aerei condotti con il supporto della Russia, alleata del governo, che hanno ridotto la popolazione allo stremo privandola dei beni di prima necessità. Decine di migliaia di persone, a quanto riporta la Bbc, vivrebbero ancora in stato di assedio, senza avere accesso a cibo, acqua e cure sanitarie visto che gli ospedali sono andati distrutti nei raid aerei delle ultime settimane.
Fonti russe affermano che a causa dei combattimenti sono stati sfollati già più di 100mila civili, dei quali 13mila solo nelle ultime 24 ore. Ad arrendersi e deporre le armi, sempre secondo fonti russe e quindi vicine ad Assad, sarebbero stati circa 2.200 combattenti ribelli.
Prima della guerra Aleppo era una delle principali città della Siria e un polo industriale e commerciale importante, dopo quattro anni di lotte quello che rimane sono per lo più cumuli di macerie e una situazione umanitaria drammatica.
«Nella parte orientale si sta scatenando la fine del mondo. Ovunque edifici colpiti dalle bombe, persone ferite, persone che scappano, persone intrappolate sotto le macerie e nessuno che possa riuscire davvero ad aiutarli» racconta Abdul Kafi Alhamado, un insegnante di inglese intervistato da Bbc News.
Mentre la crisi umanitaria si aggrava, la Russia si sta consultando con gli Stati Uniti, sostenitori delle forze ribelli, per definire le modalità di ritiro delle milizie insorte contro Assad e i termini di un cessate il fuoco che garantirebbe alla popolazione civile una via di fuga. Al momento nessun accordo è stato raggiunto, intanto, dal 15 novembre ad oggi, i morti nella zona est della città sono stati almeno 415 fra i civili e 365 fra i combattenti ribelli, nella zona ovest invece si contano circa 130 civili uccidi per lo più a causa di colpi di mortaio o razzi lanciati dagli oppositori del governo centrale.

Twitter sospende l’account del leader razzista di destra. Ma poi ci ripensa

Twitter ha ripristinato l’account di Richard Spencer, il leader di Alt-right, galassia di estrema destra suprematista bianca, facendo un passo indietro rispetto all’annuncio di una stretta sugli account estremisti, razzisti e che incitano all’odio.

Il 15 novembre, quando l’account era stato sospeso,  Twitter aveva annunciato di aver introdotto nuovi strumenti di sicurezza, tra cui la possibilità di segnalare più facilmente condotte del genere di quelle portate avanti da Spencer.

La sospensione di Spencer e di molti altri account legati al Policy Institute Nazionale, specie di think-tank suprematista di cui il piccolo leader è direttore, era stata largamente pubblicizzata. Né allora, né oggi il social network dei 140 caratteri ha spiegato il perché della sospensione e della riattivazione.

Poi, l’11 dicembre, il suo account Twitter è stato riattivato – e, a differenza di prima, ha anche il bollino blu di “verificato”, una modalità concessa agli account di persone con un profilo pubblico per segnalare che non si tratta di un fake.

È in questo contesto che il movimento di estrema destra cerca di riposizionare se stesso, o meglio, presentare una faccia accettabile e prendere le distanze dalla vecchia destra suprematista, tradizionalmente ai margini della vita politica (come racconta il New York Times in un viaggio tra questi gruppi). Con la vittoria di Trump e la nomina di Steve Bannon a portavoce, quelli di alt-right sentono di essere al centro della scena politica statunitense e vogliono cercare di rimanerci. Essere accostati al Ku Klux Klan e a quel tipo di vecchie organizzazioni razziste – con le quali pure hanno rapporti – li danneggerebbe e, per questo, l’idea è quella di eliminare i vecchi simboli e proporre una faccia nuova. Quella che in questi anni ha avuto appeal tra i giovani bianchi attivi in rete, spesso frustrati o arrabbiati con il mondo, ma non pregni di una cultura  di destra tradizionale. Un movimento che si era manifestato la prima volta in maniera cospicua con il cosiddetto GamerGate, onda di violenza e minacce online contro una e molte donne che osavano criticare, parlare, discutere del maschilismo dei videogame (l’associazione tra i due fenomeni viene fatta da The Guardian).

Gamergate, è una specie di movimento d’opinione partito come campagna di diffamazione contro la sviluppatrice di giochi Zoe Quinn. L’accusa, avanzata dall’ex compagno della donna e rivelatasi poi priva di fondamento,  era quella di aver scambiato prestazioni sessuali in cambio di recensioni positive per il suo videogioco, Depression Quest.

Gli attacchi concentrati contro la donna e poi contro altre che l’hanno difesa online o di che hanno sollevato il tema del maschilismo dei giochi, sono stati un primo segnale di come e quanto il potenziale d’odio in rete potesse concentrarsi, tramutarsi in violenza (anche solo a parole) verso persone in carne e ossa. Oggi, invece di una banda di nerd all’attacco delle donne che osano parlare e occuparsi di videogame, gli Usa hanno un futuro presidente che si diverte a twittare contro individui. Non li minaccia, ma li espone, li rende visibili online. E così, dietro a Trump, ci sono quelli di Alt-right o altri ancora, che partendo dalle sue accuse – contro una studentessa che lo ha criticato durante un incontro o un sindacalista che ne ha criticato l’operato – decidono che i nemici del presidente vanno puniti. Per ora il fenomeno resta online. Basta aspettare.

La geopolitica del negoziatore arrogante: Trump avvelena il clima con Pechino (e corteggia Putin)

President-elect Donald Trump walks up to greet Army Cadets and Navy Midshipmen before the Army-Navy NCAA college football game in Baltimore, Saturday, Dec. 10, 2016. (AP Photo/Patrick Semansky)

La campagna elettorale di Donald Trump ha avuto come centro il furore contro le élite, le banche, i poteri forti che stringono legami con i politici di Washington. E poi toni estremi in materia di immigrazione e guerra al terrorismo, mano tesa alla Russia e promessa di cambiare le regole del commercio. E di portare uno stile nuovo a Washington.

Si può dire che, fatta eccezione per la prima, le scelte e le parole di queste settimane, siano conseguenti alle promesse: il presidente eletto si comporta come un bullo qualsiasi insultando via twitter chi lo critica, che si tratti delle Boeing, di una studentessa o di un sindacalista di base, rompe ogni regola diplomatica e sceglie gente inesperta – ma molto caratterizzata – per formare la propria amministrazione. E poi parla di questioni internazionali senza pensare alle conseguenze.

L’ultima uscita è quella sulla Cina. Dopo aver parlato al telefono con la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen, ieri il presidente eletto ha accennato, parlando con Fox News, all’idea di porre fine alla politica denominata “One China”, una sola Cina, e di riconoscere ufficialmente la repubblica insulare. L’idea è quella di usare l’argomento con Pechino per ottenere concessioni sul commercio. Ovvero di rompere con una tradizione diplomatica di quaranta anni, non a causa di una crisi ma come strumento di negoziazione. Non proprio una mossa da diplomatico.

La risposta di Pechino non si è fatta attendere: «L’adesione alla politica di una sola Cina è la base politica per lo sviluppo delle relazioni bilaterali – ha detto Geng Shuang, un portavoce del ministero degli Esteri – Se cambia quella, non ci sarà nulla da discutere sulla cooperazione relativa ai principali settori». Più duro il commento del Global Times, quotidiano dai toni nazionalisti: La Cina dovrà lottare con il nuovo presidente, si legge più o meno nell’editoriale, «Solo dopo che avrà incontrato alcuni ostacoli e capirà che la Cina e il resto del mondo non si affrontano facendo i bulli, capirà come ci si comporta…Nel campo della diplomazia, è ignorante come un bambino».

L’editoriale, pure nei suoi toni accesi, coglie il punto: in diplomazia, specie con le altre grandi potenze con le quali i rapporti sono determinanti per gli equilibri planetari, non ci si comporta come a scuola. O come grandi imprenditori che usano la propria forza per imporre accordi nei propri termini – un classico della storia del Trump imprenditore.

Per la Cina il tema “Una Cina” è cruciale. L’unitarietà della Repubblica popolare, la rivendicazione che tutto ciò che è Cina è all’interno dei propri confini, è un aspetto centrale della propria percezione di sè. Il Tibet, le regioni di confine dove vivono le minoranze musulmane e le altre, Hong Kong un tempo, non esistono: le prime sono parte di un singolo, unico Stato centrale, le seconde non possono essere definite Cina. E dopo la distensione voluta da Nixon e Mao, la scelta di Washington è stata quella di riconoscere ufficialmente solo Pechino, garantendo Taipei che l’avrebbe protetta. Tra le due Cine l’intesa è quella per cui il tema non si solleva troppo. Si chiama diplomazia, è ricca di piccole e grandi ipocrisie, ma quella cinese è una cultura molto attenta alla forme e al rispetto reciproco e le uscite di Trump sono esattamente il contrario.

L’idea del presidente Usa, evidentemente, è quella di utilizzare il proprio stile negoziale anche alla Casa Bianca. Senza un disegno apparente e un’idea del ruolo degli Stati Uniti (o della Cina, o dell’Europa) nel mondo. Per questo sembra essere prossimo alla nomina di Rex Tillerson come Segretario di Stato: nessuna esperienza di politica estera, amministratore delegato (e una carriera tutta interna) alla Exxon, in affari con Putin. L’idea sembra quella di voler stringere un’alleanza strategica con la Russia per rimettere ordine in Medio Oriente. Senza rendersi conto che gli alleati americani nella regione sono nemici degli amici della Russia e che uno dei principali avversari di Washington, l’Iran, è un amico di Mosca – eppure Trump promette di rivedere l’accordo sul nucleare. Sulla nomina di Tillerson, le perplessità sono anche repubblicane: il senatore della Florida Marco Rubio ha twittato: “Essere un amico di Putin non mi pare il curriculum migliore per fare il Segretario di Stato”

Nel weekend il presidente eletto ha anche detto che «nessuno sa se il cambiamento climatico è davvero qualcosa di reale» e definito «ridicolo» il dossier CIA sulla possibilità che Mosca abbia influenzato le elezioni. Aprendo così un terreno di scontro con pochi precedenti tra l’agenzia per l’intelligence e la presidenza. E tra la prima e l’Fbi, che aveva a sua volta messo Hillary Clinton nei guai con la lettera sulla necessità di indagare sul computer di Anthony Weiner e cercare email provenienti dall’account di posta della candidata democratica. Sulla CIA almeno quattro senatori repubblicani moderati (e non amici di Trump), tra cui John McCain, hanno sostenuto che occorra avviare un’inchiesta. Non c’è fronte sul quale il futuro presidente americano non abbia problemi. La maggior parte se li crea da solo. Quelli che riguardano il suo Paese, invece, sembrano non riguardarlo.

 

 

Il Ministro dell’economia spagnolo: «Serve una politica fiscale comune per l’Eurozona»

Nel corso di una lunga intervista rilasciata a El Pais, il Ministro dell’economia e delle finanze spagnolo, Luis de Guindos, ha parlato apertamente della necessità di un «cambio di passo» nel percorso di integrazione europea.

In particolare, legando il tema della crisi europea alla crescita dei populismi, De Guindos –  del Partito popolare spagnolo (Pp) e governa al fianco di Rajoy da 5 anni – ha detto «che è necessario un cambio di politica economica a livello comunitario».

«La crescita economica è debole; la disuguaglianza è elevata; i cittadini hanno la sensazione che i governi salvino soltanto le banche e che non si interessino dei problemi delle persone […] se vogliamo far fronte al populismo, dobbiamo rilanciare la crescita economica. E per proprio questo motivo, c’è bisogno di cambiare politiche economiche», ha specificato il Ministro spagnolo.

De Guindos ha anche ammesso che la politica monetaria [della Banca centrale europea] è arrivata al massimo delle sue  possibilità, mentre la politica fiscale può e deve giocare un ruolo chiave nel corso dei prossimi anni: «Appoggiamo lo stimolo fiscale di mezzo punto del prodotto interno lordo proposto dalla Commissione europea»,  ma Palazzo Berlaymont deve ancora trovare lo strumento adatto per mettere in pratica la misura.

Secondo De Guindos, nell’Eurozona serve una politica fiscale comune che «non sia semplicemente la sommatoria di 19 declinazioni nazionali» ed è necessario che i Paesi che hanno maggiore margine di spesa «facciano di più». Ma come realizzare questa politica fiscale comune?

Il Patto di stabilità e crescita «deve evolvere». «La politica economica deve «essere ancorata di più alle istituzioni» comunitarie, «che non a delle regole», proprio come avviene grazie alla Bce, sul versante monetario. Interrogato sulla reticenza tedesca sul tema, il Ministro spagnolo ha ammesso che ci sono Paesi membri che «non si fidano della Commissione europea», ma ha anche difeso Wolfgang Schäuble, Ministro tedesco dell’economia e delle finanze: «Ha dato prova di essere un europeista».

Sulla Brexit, De Guindos ha chiuso la porta a una negoziazione ad-hoc  sulle quattro libertà fondamentali dei trattati europei, negando quindi al Regno Unito la possibilità di rimanere nel Mercato unico europeo, senza rispettare la libera circolazione della forza lavoro.

Riguardo alla Grecia ha detto che «il debito di Atene è insostenibile» e che gli avanzi di bilancio che vengono richiesti al governi di Alexis Tsipras nel corso dei prossimi anni sono «irraggiungibili». Nonostante ciò, De Guindos ha escluso un taglio nominale del debito, definendo la misura una «cura di breve periodo». In altri termini, in cambio di un rinegoziazione ragionevole degli avanzi di bilancio, lo Stato ellenico deve promuovere la «competitività» a suon di riforme.

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Regno UnitoThe Independent – Diane Abbott, Ministro degli interni del governo ombra di Jeremy Corbyn: «Tra un anno avremo colmato il distacco con i Tories. Abbiamo le giuste ricette politico-economiche e il giusto leader per riuscirci»

Grecia – Ekathimerini – Approvata la finanziaria per il 2017: 1 miliardo di tasse in più sul consumo di alcool, tabacco e telefonia; altrettanto importante il taglio alla spesa. Ma l’economia dovrebbe cresce del 2,7 per cento e l’avanzo di bilancio primario del 2016 è il doppio di quello promesso nel contesto del piano di bailout siglato nel 2015

OlandaDie WeltSecondo gli ultimi sondaggi, il Partito per la Libertà (Pvv) di Geert Wilders (destra islamofoba) si afferma nelle preferenze dei cittadini olandesi. Alle elezioni del prossimo marzo, potrebbe affermarsi come primo partito del Paese

ItaliaHandelsblatt ­Isabel Schnabel, membro del Comitato tedesco dei saggi dell’economia boccia la gestione politica del caso Mps: «Si è perso troppo tempo per assecondare le logiche elettorali legate al referendum costituzionale»

 

Le parole sono importanti

Ha scritto l’Ansa ieri, parlando del doppio attentato in Nigeria presso il mercato di Naiduguri: “due baby kamikaze esplodono al mercato”. I “kamikaze”, dicono le agenzie di stampa, avevano sette e otto anni. Un bambino e una bambina di sette e otto anni: difficile credere che abbiano voluto o scelto di farsi esplodere, probabile forse che non sapessero nemmeno cosa stavano facendo. Due bambini imbottiti di esplosivo, insomma. Forse è qualcosa di diverso di baby kamikaze, forse.

Titola Repubblica Roma: “cinese morta a Roma, ricordo a Tor Sapienza”. Zhang Yao era una ragazza ventenne, studentessa dell’Accademia delle Belle Arti, di ottima famiglia, appena uscita dall’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma con il rinnovo del suo permesso di soggiorno per motivi di studio, scippata in un quartiere dimenticato dalla politica e con la voglia di non accettare il sopruso. È vero che i titoli hanno d’essere brevi ma “cinese” come parola contenitore di tutto questo, beh, no. Davvero. Bastava aggiungerci “studentessa”, ad esempio, come hanno fatto tutti gli altri. Sarebbe bastato poco.

Titola Libero di ieri su un articolo di Paolo Becchi (beh, direte voi, Libero più Becchi è miscela esplosiva, del resto): “la Raggi difende il marocchino ma scorda il disabile italiano”. Il marocchino in realtà non esiste: si tratta della famiglia che ha diritto a un alloggio (famiglia con figli piccoli) di cui non ha potuto usufruire perché illegalmente occupato da altri. Legalità contro illegalità, se volessimo banalizzare. E il disabile è solo uno specchietto per le allodole: nel pezzo si parla genericamente di cittadini “mandati via” tra cui, si dice, “un disabile con un figlio”. Razza contro razza, insomma. Anche qui. Come se “il marocchino” avesse cacciato “il disabile”: non hanno avuto il coraggio ma avrebbero voluto scriverlo così, c’è da giurarci.

Ci sono due macrocategorie di titoli brutti: quelli figli di un retro pensiero e quelli figli di incuria. Entrambi ottengono il risultato di nutrire gli istinti bassi; e questo non è un pezzo moralizzatore ma un invito a provare a prestare più attenzione, a prendersi cura delle parole per non diventare buoni alleati di quelli che combattiamo. Io per primo.

Buon lunedì.