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Una sola cosa è chiara: Renzi non vuole finire come Letta

Renzi in macchina saluta
Former Italian Premier Matteo Renzi is seen driving his car in Pontassieve, near Florence, the day after his resignation, 08 December 2016. Matteo Renzi on Wednesday handed in his resignation to President Sergio Mattarella after a resounding defeat in Sunday's Constitutional reform referendum which saw his shrinkage of Italy's political system rejected. Mattarella invited the government to stay in charge of day-to-day business and said he would start his crisis consultations at 18:00 local time Thursday, beginning with Lower House and Senate Speakers, Laura Boldrini and Pietro Grasso, and former President Giorgio Napolitano. ANSA/MAURIZIO DEGL INNOCENTI

Grasso, poi Boldrini, infine Napolitano, il presidente emerito. La prima giornata di consultazioni al Quirinale è tutta formalità, una liturgia da giorno festivo, su cui si potrebbe quasi sorvolare, non fosse che il primo ad entrare nello studio della vetrata, da Sergio Mattarella, Pietro Grasso, è anche uno dei papabili per la successione a Matteo Renzi. Un nome buono per lo scenario del «governo di responsabilità», come l’ha chiamato lo stesso Renzi. Un governo senza alcuna pretesa politica (e che per questo dovrebbe essere, secondo i paletti posti da Renzi nella direzione Pd, sostenuto da «tutti», cioè almeno dall’attuale maggioranza più Berlusconi) che accompagni il Paese a rapide elezioni.

È un nome che resta in ballo, quello di Grasso, che fa aumentare le sue quotazioni non rilasciando dichiarazioni, alla fine del colloquio (cosa che però fa anche Boldrini). Ma non è quello lo scenario che va per la maggiore. È vissuta, l’ipotesi Grasso, come quella dell’ultimo minuto, da scegliere quando tutte le altre saranno state scartate, per veti ogni volta diversi.

Perché, ad esempio, nel Pd sono in molti a volere un governo più politico. Ci sono renziani (anche vicinissimi al premier) che chiedono ancora di riflettere sull’ipotesi di un Renzi bis, ovviamente, ma ci sono soprattutto quelli che vedono nella necessità di dover fare un governo (e nelle prime dichiarazioni con cui Renzi si è chiamato fuori) la possibilità di una vita.

Tipo Dario Franceschini, dicono i maligni, che se arrivasse a palazzo Chigi potrebbe prenderci gusto, restare fino al 2018 e poi chissà, a quel punto tentare di proseguire, stravolgendo gli equilibri interni nel Pd. Equilibri che stanno già cambiando e che certo cambierebbero (fosse anche solo per gli incarichi da distribuire) in un anno e più di governo.

Per Renzi questo scenario (o uno simile, tipo Calenda, tipo Delrio) è il peggiore. Sono premier troppo ingombranti, soprattutto ora che lui non può certo ripetere lo schema Letta, silurando quotidianamente il governo, che in questo caso avrebbe lui, come segretario, contribuito a far nascere (non fu così per Letta: all’epoca c’era Bersani). Non puoi girar l’Italia e magari fare le primarie del tuo partito parlando male del governo che da segretario hai fatto nascere. Se quello è il punto di caduta, insomma, e non un Padoan o appunto un Grasso, molto meglio restare lui, e smentirsi un’ennesima volta, adducendo l’onere del «disbrigo degli affari correnti». Molto meglio il Renzi bis, che dovrebbe piacere a Mattarella, che se la caverebbe chiedendo al dimissionario di ripresentarsi alle camere e verificare i numeri, ridimensionando di molto la crisi. I numeri sappiamo già che ci sono (ci sono stati sulla legge di bilancio, sarebbe clamoroso non ci fossero più) e Renzi avrebbe la certezza di gestire (per quanto possibile) la tempistica del voto, sganciandosi nuovamente quando si sentirà pronto.

Cartello Euribor: tre colossi bancari multati per mezzo miliardo di euro

La Commissione europea ha multato JP Morgan Chase, Crédit Agricole e HSBC per un totale di quasi mezzo miliardo di euro per aver manipolato l’Euribor, il tasso di offerta interbancario di offerta in euro.

L’Euribor viene calcolato quotidianamente e rappresenta il tasso di interesse medio delle transazioni finanziarie in Euro che le banche applicano per le transazioni tra di loro (depositi interbancari).

In “soldoni”, l’Euribor rappresenta il prezzo per gli scambi di denaro tra banche stesse. Ma non solo: l’Euribor è una componente importante che influisce direttamente sul tasso di interesse relativo a diversi strumenti finanziari, tra cui i derivati, e sul tasso di interesse (quando variabile) che viene applicato, in ultima istanza, ai muti ipotecari, se non ai depositi di risparmio.

In pratica, le tre banche citate sopra, hanno deliberatamente manipolato il tasso di interesse, creando una sorta di cartello finanziario a proprio vantaggio. Ogni mattina infatti, oltre 50 istituti finanziari privati comunicano il tasso applicato sulle transazioni quotidiane. Sulla base di queste singole “quotazioni”, viene poi calcolato l’Euribor.

Come si legge nel comunicato stampa rilasciato mercoledì 7 dicembre dal Commissario europeo per la concorrenza, Margarethe Vestager, «gli istituti finanziari si accordavano per spostare il tasso di interesse in funzione delle proprie necessità […] quotidiane».

Per giungere alla multa finale, la Commissione europea ha analizzato diverse chat di dipendenti dei vari istituti di credito coinvolti durante gli ultimi anni. Le manipolazioni risalgono per lo più agli anni dell’inizio della crisi economica e finanziaria.

Nel 2013, altre 7 banche che facevano parte del cartello – Barclays, Deutsche Bank, Royal Bank of Scotland e Société General  – avevano patteggiato con la Commissione europe una multa complessiva, pari a 820 milioni di euro.

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«Basta scuola gratuita per gli immigrati». Così Le Pen modernizza il suo partito

Marine e Marion Le Pen
epa05586319 Leader of French Front National (FN) party Marine Le Pen (L) and French far-right political party National Front (FN) deputy Marion Marechal-Le Pen attend the national ceremony to pay tribute to the victims of the 14 July terror attack in Nice, France, 15 October 2016. A total of 86 people were killed and many more wounded after a truck drove into the crowd on the famous Promenade des Anglais during celebrations of Bastille Day in Nice, on 14 July 2016. EPA/SEBASTIEN NOGIER

Una legge francese del 1881 prevede che l’istruzione primaria gratuita è un diritto fondamentale per tutti i bambini. Il diritto allo studio è anche un principio fondamentale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Ma Marine Le Pen sembra infischiarsene del diritto e dei diritti: il tema è sempre noi contro loro, un nemico da indicare. Che per il Front National modernizzato sono gli stranieri. Per questo, durante un comizio a Parigi, la Le Pen ha detto: «Non ho nulla contro gli stranieri, ma dico loro: se venite nel nostro Paese non vi aspettate di essere curati, non vi aspettate che ci si occupi di voi, non vi aspettate che i vostri figli vengano educati a titolo gratuito». «La ricreazione è finita», ha concluso. Non male per una leader che ha annunciato di voler togliere l’aura fascisteggiante al proprio partito. Non è chiaro poi perché uno straniero che lavori in Francia non debba avere il diritto al welfare come i cittadini francesi.

Del resto, la stessa Le Pen, che al momento è quasi certa di essere una delle due figure che andranno al ballottaggio alle elezioni presidenziali del prossimo maggio, promette di ridurre l’immigrazione in Francia a 10mila persone l’anno, di eliminare il diritto al ricongiungimento familiare e, nel 2014, aveva proposto di eliminare l’alternativa al maiale nelle scuole per i bambini musulmani ed ebrei.

Marine è comunque meno estrema della nipote Marion, l’ala dura di un partito familiare, che pensa che occorra eliminare il rimborso per gli aborti (in Francia il sistema sanitario è pubblico ma rimborsa). Se sia un gioco delle parti, con una che corteggia i vecchi conservatori cattolici e i fascisti e l’altra più populista, non lo sappiamo. Certo, l’idea di una presidenza Le Pen in Francia non è una bella idea.

I generali, il lobbista del petrolio all’ambiente, l’evangelico: le facce nuove dell’amministrazione Trump

Donald Trump alla Carrier
FILE - In this Thursday, Dec. 1, 2016 file photo, President-elect Donald Trump and Vice President-elect Mike Pence wave as they visit to Carrier factory, in Indianapolis, Ind. Trump is slamming a union leader who criticized his deal to discourage air conditioner manufacturer Carrier Corp. from closing an Indiana factory and moving its jobs to Mexico. Trump tweeted Wednesday evening, Dec. 7, 2016: "Chuck Jones, who is President of United Steelworkers 1999, has done a terrible job representing workers." (AP Photo/Evan Vucci, File)

Tre generali, un evangelista senza nessuna esperienza e, all’agenzia che si prende cura dell’ambiente, un uomo della lobby petrolifera – e poi un banchiere al Tesoro. Se ci fosse stato bisogno di scrivere una sceneggiatura su una amministrazione Usa composta di “super-cattivi”, le scelte fatte a oggi dal presidente eletto Trump potrebbe essere un buon esempio al quale ispirarsi.

Gli ultimi due a unirsi alla squadra del miliardario che, sembra di capire, non ha nessuna intenzione di disfarsi della propria impresa, alimentando così i dubbi e le domande sugli innumerevoli conflitti di interesse, sono Scott Pruit, procuratore generale dell’Oklahoma, per la agenzia di protezione dell’ambiente e il generale in pensione John Kelly per la Homeland Security, il ministero dell’Interno – immigrazione, sicurezza, confini, anti terrorismo.

Il primo è una figura ambigua che ha avviato battaglie legali contro le regole imposte dall’EPA, l’agenzia che andrà a dirigere, in concorso con le grandi imprese petrolifere del suo Stato. Lui e altri procuratori generali di Stati a guida repubblicana hanno formato un’alleanza anti regole e limiti all’inquinamento e, in cambio, hanno ottenuto 16 milioni di dollari di finanziamenti alle proprie campagne politiche – il procuratore generale statale è una nomina elettiva. Pritt non crede nel riscaldamento climatico, detesta gli accordi di Parigi che Trump ha promesso di abbandonare – dando così un enorme vantaggio alla Cina, destinata a diventare, nel caso, la grande potenza delle rinnovabili. Insomma, Trump nomina un cerino acceso a gestire una pompa di benzina.

Il generale Kelly è una figura diversa. Non ambigua, non un politicante al soldo di qualcuno, ma un militare di esperienza come gli altri due nominati fino a oggi – James “mad dog” Mattis e Michael T. Flynn – ma con una visione delle cose che è un po’ quella di John Wayne in Berretti Verdi (un film sul Vietnam nel quale l’eroico militare di turno se la prendeva con “i colletti bianchi di Washington che ci fanno predere la guerra”). Tutti i generali pensano che in Iraq e Afghanistan, con più decisione, si sarebbe potuto vincere. Cosa e per fare cosa dopo non è chiaro e non è un loro problema. Kelly ha perso un figlio in Afghanistan ed è stato critico con diverse scelte fatte da Obama: dalle donne in combattimento al tentativo di chiudere Guantanamo. Da comandante delle forze che guardano all’America Latina ha gestito in parte la situazione al confine messicano, e questo dev’essere il motivo per cui è stato scelto.

L’altro, si dice, è che come i suoi colleghi, ha impressionato Trump con le sue certezze. Il presidente eletto vuole una squadra di gente che decida, manager e generali, che mettano in atto le sue scelte politiche e non stiano tanto a discutere. Se la scelta del Segretario di Stato cadesse sul generale Petraeus, un altro molto capace, saremmo a quattro generali in pensione. Quattro figure chiave per la politica estera che non hanno alcuna esperienza diplomatica. E che hanno condotto le guerre americane degli ultimi anni. Non esattamente una amministrazione non interventista, come quella promessa da Trump in campagna elettorale. Piuttosto un Bush 2.0 con 10 anni di ritardo.

Infine, a metà della settimana scorsa, abbiamo saputo che dell’ediliza popolare e urbana si occuperà Ben Carson, chirurgo di successo, evangelico fino al midollo e afroamericano. Questa terza caratteristica, oltra al suo conservatorismo religioso, sembra essere la ragione per la quale Trump lo ha scelto. Carson, che spiega il suo successo nella vita (è nato in un ghetto) con il costante intervento divino in suo favore, non ha alcuna esperienza di governo, men che meno di urbanistica o di gestione. Ma un nero, da qualche parte bisognava pur metterlo. A prescindere e nonostante Trump lo avesse insultato durante le primarie alle quali era candidato.

Quanto a insulti, Trump non smette di usare il suo account twitter per distribuirne: l’ultimo è il segretario dei metalmeccanici Chuck Jones, che aveva criticato l’accordo con la Carrier dell’Indiana, che Trump ha convinto a non chiudere una fabbrica in cambio di commesse pubbliche – si è detto che si salvavano più di mille posti, in realtà se ne salvano pochi più di 700 su più di duemila. La colpa delle fabbriche che chiudono, per Trump, è del sindacato.

8 dicembre 1980, Central Park, Chapman spara a John Lennon

John Lennon in una foto senza data. Ansa/Henry Grossman ++ No sales, editorial use only ++

Pomeriggio del 9 ottobre 1940, al Maternity Hospital di Liverpool, sulla Oxford Street, Julia Stanley dà alla luce John Winston Lennon. Winston, come l’allora primo ministro Churchill.

Julia e Alfred si sono sposati due anni prima, e due anni dopo si separeranno. Alfred è da tempo imbarcato come cameriere su una nave di lusso verso le Indie Occidentali, e John lo incontra durante i brevi ritorni a casa in licenza. Finché un giorno papà Lennon torna per riportare con sé il piccolo John, in Nuova Zelanda. Ha poco più di 5 anni, ma sono abbastanza per prendere la sua prima decisione, restare a Liverpool, con sua madre. Julia, poco dopo, dà alla luce una seconda figlia, Victoria Elizabeth, nel giugno del 1945, ed è costretta a darla in adozione con il nome di Ingrid. John, invece, viene affidato alla severa zia Mimì, che insieme al marito George, con affetto austero prova a domare il ribelle nipote nella casa al 251 di Menlove Avenue di Woolton. Ha sei anni, John, quando viene allontanato dalla “ingenua e imprudente” madre che va a vivere a Penny Lane con John ‘Bobby’ Dykins e dà alla luce le due sue sorellastre: Julia Dykins e Jacqueline, detta Jakie, la famiglia trasloca a Springwood, senza John.

«Il rock’n’roll era reale. Tutto il resto era irreale. Quando avevo quindici anni era l’unica cosa, tra tutte, che potesse arrivare a me». La ricorda così John la sua adolescenza. Va al cinema, ogni estate va al “Galden Party” nella sede dell’Esercito della Salvezza “Strawberry Fields”. E, intanto, a scuola, prende parte alla sua prima banda: «Con loro mi divertivo a rubacchiare qualche mela, poi ci arrampicavamo sui sostegni esterni dei tram che passavano per Penny Lane e ci facevamo dei lunghi viaggi per le vie di Liverpool».

«Con quella non ti guadagnerai mai da vivere», dice zia Mimì a John mentre strimpella la chitarra che Julia gli ha messo in mano, insegnandogli i primi accordi su un banjo. Eppure quando i “Quarry Men” salgono su un palco la prima volta, la strada che si spiana sembra smentire zia Mimì. È il 9 giugno 1957 ed è la prima apparizione in pubblico della band che un mese dopo, a Woolton, impressiona uno spettatore tra il pubblico, Paul McCartney aspetta la fine del concerto per chiedere a Lennon di ascoltarlo mentre esegue “Be Bop A Lula” e “Twenty Flight Rock”. Quel Paul usa accordi che John che nemmeno sa che esistono, ma conosce bene le parole di quelle canzoni. Così nasce il duo Lennon-McCartney – se vi piace l’idea, immaginate in sottofondo Eddie Cochran che picchietta sulle corde cantando di Twenty Flight Rock”. E così, ha inizio quell’avventura musicale chiamata Beatles.

Mancano tre mesi ai 18 anni di John, quando, il 15 luglio 1958, un’incidente d’auto gli porta via la madre Julia, sotto i suoi occhi. Pochi mesi dopo, in dicembre, incontra Cynthia Powell al Liverpool Art College, la sua nuova scuola. È mora, ha i capelli mossi, porta gli occhiali, ha un anno più di lui. E, soprattutto, lo ignora. Finché un giorno il teddy boy impugna la chitarra e le canta in classe “Ain’t she sweet”, poco dopo Cynthia si tinge i capelli di biondo e leva gli occhiali, come la femme fatale di John, Brigitte Bardot.

Intanto nei Quarry man, arriva George Harrison e con lui si decide di incidere su nastro “That’ll be the day” e “Inspite of all the danger”. Poco dopo la band cambia nome in Silver Beatles. Ormai sono l’attrazione fissa del Casbah Club di Liverpool, sono pronti per il debutto al Reeperbahn di Amburgo, dove suonano ininterrottamente per otto ore al giorno. E poi al Cavern Club di Liverpool. Le anfetamine sono le compagne di John nelle interminabili ore di live. Nella nuova vita da rockstar di John c’è anche posto per il matrimonio con Cyn, il 23 agosto al Mt. Pleasant Register Office di Liverpool, pochi mesi prima della nascita di John Charles Julian Lennon, l’8 aprile del 1963 al Sefton General Hospital di Liverpool. «Mio padre cantava d’amore, parlava d’amore, ma non ne ha mai dato, almeno a me che ero suo figlio», dice Julian di suo padre molti anni dopo. John, ormai, ha deciso di intraprendere un’altra vita.

Autunno 1966, in un ipotetico panorama immortalato nella copertina di “Plastic Ono Band” avviene il primo incontro tra John e Yoko Ono. Lui ha già iniziato a fare uso di droghe pesanti, lei vive negli States, la sua famiglia ha lasciato il Giappone dopo la guerra. Ironica e avanguardista, Yoko è a Londra per un’esibizione all’Indica Gallery di Londra. Dopo un arresto per possesso e uso di cannabis e una scarcerazione, John e Yoko si sposano a Gibilterra il 23 marzo 1969, una volta ottenuto il divorzio da Cynthia. La cerimonia è il loro bed-in all’Hilton di Amsterdam, inviano un pacchettino con “semi di pace” ai leader politici mondiali e la stampa di mezzo mondo. Non è il primo atto politico di Lennon, che nell’ottobre 1965 restituisce la medaglia dell’Ordine dell’Impero Britannico alla Regina Elisabetta: «Maestà, vi rimando indietro questo titolo per protestare contro il coinvolgimento della Gran Bretagna nella guerra nel Biafra in Nigeria e contro il sostegno agli Stati Uniti per il Vietnam. Con amore, John Lennon».

«Io non credo nei Beatles, io credo solo in me, in Yoko e in me, io ero il tricheco, ma ora sono John, e così cari amici dovete solo andare avanti, il sogno è finito». I Beatles, è evidente, ormai sono acqua passata nella nuova vita di Lennon. Si sciolgono ufficialmente nell’aprile del 1970. John non ne sembra turbato, anzi, da quel momento hanno inizio le polemiche con Paul. Dopo la “sparata” inPlastic Ono Band, arriva quella con Imagine: «Il suono che produci è musicaccia per le mie orecchie, eppure dovresti aver imparato qualcosa in tutti questi anni», dice a Paul McCartney con “How do you sleep?”. Tre anni dopo, aprile 1973, John e Yoko si trasferiscono al Dakota nella 72esima strada di New York di fronte a Central Park. John ha grossi problemi col governo federale per il riconoscimento della cittadinanza americana, e il suo impegno politico non aiuta, gli agenti della Cia lo controllano continuamente.

Dopo un anno di separazione da Yoko, che John trascorre a Los Angeles con May Pang, la segretaria di Yoko, il 9 ottobre 1975 nasce Sean Taro Ono Lennon, nel giorno del 35esimo compleanno di John che, da adesso, dedica la vita alla sua nuova famiglia. Fino alla sera dell’8 dicembre 1980, quando rientrando nella sua casa vicino Central Park, viene raggiunto dai colpi di pistola della calibro 38 di Mark David Chapman. Solo tre settimane prima era uscito “Double Fantasy”. «Tutti ti amano quando sei due metri sotto terra».

Direzione senza dibattito. Il discorso (mai pronunciato) di Tocci

Tocci al Nazareno
Walter Tocci lascia il Nazareno dopo la riunione della direzione del PD, Roma, 7 dicembre 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

La direzione del Pd è convocata in maniera permanente, per seguire gli sviluppi della crisi di governo, e la fase delle consultazioni. Ma prima che Renzi salisse al Colle, dimettendosi, i membri della direzione del Pd non hanno potuto discutere, solo ascoltare una breve relazione di Renzi, che non conteneva molte tracce di autocritica (qui si può leggere integralmente), ma un certo numero di battute e una frecciata agli esponenti della minoranza colpevoli di aver festeggiato per la vittoria del No. «A chi qui dentro ha festeggiato in maniera scomposta la caduta del governo», ha detto Renzi, «dico solo che lo stile è come il coraggio di Don Abbondio: se uno non ce l’ha, non se lo può dare».

Non che in molti abbiano protestato, per carità. Ma tra quelli che hanno definito «davvero incredibile» la situazione, evidenziando come ci sarebbe stato tutto il tempo di discutere, se solo la direzione fosse cominciata puntuale, alle 15 come previsto e non alle 17,30 (più la consueta ora di ritardo: quindi alle 18,30), c’è Walter Tocci.

Quello che segue è il discorso che aveva preparato e che, dice il senatore dem, «non mi è stato possibile pronunciare perché dopo un discorsetto di Renzi è stato chiuso il dibattito, accampando inesistenti ragioni di orario. La triste verità è che si è voluta evitare una discussione politica sulla disfatta nel referendum».

Non è più tempo di scagliare le pietre; è tempo di raccogliere le pietre per consolidare ciò che è duraturo. Nell’Italia spaesata e divisa si erge la Costituzione come unica certezza. Dovremmo curarne la condivisione nel cuore e nelle menti degli italiani.

Anche compiendo gesti semplici, prendendo l’abitudine magari di aprire qualsiasi nostra assemblea leggendo un articolo della Carta. Nei dibattiti leggevo l’articolo 36, secondo il quale la retribuzione del lavoratore dovrebbe essere “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Cento milioni di voucher sono in contrasto con la Costituzione! I suoi principi non sono reliquie da conservare in una teca, ma un’eredità vivente e una promessa per l’avvenire. Così l’avvertono i ceti popolari: istintivamente sentono che la Carta è dalla loro parte, è un sentimento radicato nella storia repubblicana, ma le attuali classi dirigenti non riescono più a comprenderlo, perché hanno smarrito la “competenza della vita”, come la chiamava Martinazzoli.

Anche i giovani hanno votato per conservare la Carta, al di là del merito della revisione. Nelle burrasche del mare globalizzato cercano un’àncora nel capolavoro italiano del Novecento. Seguono l’esempio dei nonni per sopperire alla penuria educativa dei padri, come i millennials di Sanders.

Ci sono queste correnti profonde nel risultato referendario. Sbaglieremmo a vedere solo le correnti superficiali degli schieramenti partitici. C’è un’astuzia della Costituzione – come l’astuzia della Ragione hegeliana – che per resistere ai ripetuti assalti, di volta in volta si serve delle diverse forze che trova sul campo, della sinistra nel 2006 e della destra e ancora una parte della sinistra dieci anni dopo.

Per noi del PD sarebbe meglio valorizzare le correnti profonde piuttosto che quelle superficiali. Le seconde ci hanno diviso, mentre le prime uniscono il Si e il No nel comune impegno: attuare la Costituzione, la prima e la seconda parte. Potrei dimostrare che si possono realizzare molti obiettivi del SI con il testo vigente.

Si possono dimezzare da subito il numero e la lunghezza delle leggi, delegando e controllando la pubblica amministrazione negli adempimenti, e ottenendo un bicameralismo più rapido, efficace e trasparente. Le limitazioni ai decreti legge e le leggi a data certa sono in parte già in vigore e debbono essere solo rispettate. I poteri governativi di surroga contro la malasanità sono già previsti nel vecchio Titolo V e non sono mai stati applicati dal ministero. La riduzione delle poltrone è stato un argomento miserabile che non poteva fondare un patto costituente, ma la riduzione dei costi della politica è da fare subito con legge ordinaria; si convochi un’assemblea straordinaria dei gruppi parlamentari e regionali del Pd per assumere precisi impegni nelle rispettive assemblee.

A mio avviso, questa legislatura doveva terminare nel 2014, approvando una buona legge elettorale, e senza avventurarsi nella revisione costituzionale. Si proseguì promettendo faville. Oggi non si può sentire “dopo di me non c’è nessuno”. I conservatori inglesi, dopo la Brexit, hanno sostituito Cameron con la signora May e hanno ripreso a governare.
Anche noi possiamo esprimere un premier autorevole tra gli attuali ministri. Non abbiamo bisogno di governi tecnici, che già hanno combinato guai in passato. Ci vuole un esecutivo a guida Pd per risolvere i problemi urgenti dell’economia, per proseguire le cose buone e la politica europea sui migranti, ma anche per correggere gli errori compiuti – ad esempio su lavoro e scuola – con uno stile di governo non rissoso, e che anzi riporti serenità in un Paese già troppo lacerato. Nel frattempo, il Parlamento può approvare la legge elettorale senza intromissioni del governo.

Andare subito alle elezioni significa dichiarare che il leader sconfitto è insostituibile. È lo stesso autolesionismo che ha portato a un plebiscito personale sul cambiamento costituzionale. Senza quel cupio dissolvi oggi ci sarebbe ancora il governo Renzi, e forse avremmo visto approvata anche la legge Boschi. Il demone della disfatta referendaria è ancora al lavoro per la sconfitta alle elezioni anticipate. Chi può fermarlo si faccia sentire in questa sala, prima che sia troppo tardi.

Invece delle elezioni bisogna anticipare il congresso in primavera. Mentre governa, il PD deve curare sé stesso. Per dieci anni abbiamo pensato solo al leader e non ci siamo mai occupati del resto: un’idea del Paese, una cultura politica per il nuovo secolo, un’organizzazione innovativa, una selezione dei dirigenti. Il PD che non abbiamo ancora conosciuto è il compito del congresso.
Il primo passo è riconciliare il PD con l’Ulivo, inteso come vasto campo di cultura, etica, cittadinanza attiva e forze sociali. Per non ripetere i riti del passato la minoranza deve uscire dal guscio e la maggioranza deve riconoscere onestamente i suoi insuccessi.

Per creare un clima più sereno si dovrebbe affidare la guida del partito fino alla primavera a una personalità autorevole e stimata. Sarebbe utile per tutti un passo indietro del segretario, e aiuterebbe anche lui a prepararsi meglio al congresso.

L’ordine del giorno dell’assise è l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. L’Italia ha bisogno di moderni partiti popolari che governino con ampio consenso, non solo con il premio di maggioranza. Riformare il PD è la principale riforma istituzionale che possiamo realizzare. Non dipende dalle leggi e dai referendum, ma vive nella passione e nell’intelligenza di milioni di militanti e di elettori. Se guadagneremo la loro stima, molti torneranno a dare una mano per la vittoria.

Errare humanum est, perseverare Pisapia

L'ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia fotografato in occasione dell'inaugurazione della mostra personale di Carlo Rognoni "Pesci di libertà", Milano, 24 ottobre 2016. ANSA/ FLAVIO LO SCALZO

«L’obiettivo comune alle forze del centrosinistra non può che avere la prospettiva del superamento delle attuali divisioni e, per quanto più direttamente ci riguarda, il rafforzamento delle componenti della sinistra, sapendo e riuscendo a conquistare nuovi consensi. Abbiamo in mente il bene del Paese e il suo sviluppo nel solco dei valori della Costituzione, della democrazia, dell’europeismo, della solidarietà, dell’integrazione e dell’innovazione. Non pratichiamo, e non abbiamo mai praticato, lo sport del favorire la squadra avversaria. Non abbiamo condiviso alcune scelte del governo che, però, non vede al momento altre alternative per avere una maggioranza parlamentare necessaria per governare, che comprendere forze che nulla hanno a che vedere col centrosinistra.

Superare questa fase vuol dire diventare più forti. Non più divisi e dunque più deboli. Vuol dire lavorare, con la massima unità possibile, per un confronto costruttivo tra Pd, forze di sinistra interne ed esterne al Pd, quel civismo che ha fatto la differenza, e che però intendano assumersi la responsabilità di governare. Invece di relegarsi nel più facile ruolo dell’eterna opposizione.»

Quella qui sopra è una lettera scritta da Pisapia (con Zedda e Doria) il 9 dicembre 2015. Intanto è successo di tutto: l’applicazione della Buona Scuola, il fallimento del Jobs Act, Verdini, la militarizzazione del PD, la quasi chiusura di SEL, questa ultima campagna referendaria, Trump. Di tutto.

Ma lui, Pisapia, ieri è riuscito a riproporre lo stesso tema con le stesse parole. Ancora. Più congelato del governo, praticamente ibernato. Deve essere appena tornato da una vacanza lunghissima, evidentemente. Beato lui.

Buon giovedì.

Cosa ha detto Renzi lasciando palazzo Chigi

Il messaggio di Renzi lasciando palazzo Chigi
Il saluto di matteo Renzi postato sul suo profilo Twitter , Roma 7 dicembre 2016 +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO? ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Approvata la legge di stabilità (in fretta e furia, e pazienza per le migliorie affidate agli emendamenti d’aula), Matteo Renzi ha annunciato che alle 19 sarebbe salito al Colle per rassegnare ufficialmente le sue dimissioni. E così ha fatto (anche se c’è chi si chiede, giustamente, perché si dimetta se ha ancora la maggioranza. Risposta: è la personalizzazione, bellezza). Confermata la sua intenzione, nel pomeriggio, in una sua consueta e-news, ha raccontato che a palazzo Chigi sono tutti intenti a fare gli scatoloni e che stanno predisponendo «un dettagliato report» da consegnare al suo successore, a cui l’uscente è «pronto a cedere il campanello, con un abbraccio e l’augurio di buon lavoro».

Renzi ha così chiuso la strada a uno scenario, un Renzi-bis, che aveva preso nuovamente corpo nella mattinata di oggi. «Un abbraccio a chi scriveva che stavo prendendo tempo perché non volevo dimettermi», ha infatti aggiunto intervenendo alla direzione del Pd, tappa obbligata nel tragitto tra palazzo Chigi e il Quirinale. Così, per ribadire.

Renzi non ha detto quale per lui sia quindi la strada da percorrere (non ha, per capirci, fatto come la Lega, che chiede di andare al voto, né come i 5 stelle che chiedono di andare al voto modificando prima la legge elettorale, applicando – è la novità di oggi – i resti dell’Italicum anche al Senato), tenendosi però aperta la porta (o la minaccia) del voto. Ai colleghi del Pd Renzi ha detto che il loro, «come partito di maggioranza, ha la responsabilità di risolvere la crisi». Ma che «il Pd non può essere il solo», non può essere l’unico «ad assumersi la sua responsabilità». «Anche gli altri partiti, almeno in parte», dice Renzi, «devono assumersi la loro responsabilità. Perché non può essere che mentre noi ci assumiamo la responsabilità di formare un governo di “responsabilità” ci si accusa nei talk di fare il quarto governo non eletto, il quarto governo figlio del trasformismo, il quarto governo con Alfano e Verdini».


Quello di Renzi è un messaggio alla minoranza dem, che vorrebbe rosolarlo un po’, ma è soprattutto un messaggio diretto al Colle
, con cui c’è una trattativa, evidentemente, ancora in corso. Sergio Mattarella, infatti, vorrebbe ammorbidire la crisi, e si sarebbe persino spinto a chiedergli di restare fino all’approvazione di una nuova legge elettorale. Renzi invece pare volersi togliere dall’impiccio il prima possibile, passando la palla ai gruppi parlamentari che, nel caso del Pd, sono eletti ai tempi del precedente segretario, Bersani. Qualunque cosa succeda, è evidentemente l’idea, non sarà Renzi a pagarne il conto. Lui farà solo gli affari correnti, e non parteciperà (per questo, ma non solo) neanche alle consultazioni (affidate, per il Pd, ai vertici del partito, Guerini e Orfini e ai capigruppo).

Con Mattarella dunque saranno ore di trattative (che saranno seguite dalla direzione dem convocata a oltranza), mentre con la minoranza saranno ore e settimane di scontro frontale. Perché nella prima comunicazione alla direzione Pd, ad esempio, non c’è stata traccia di mea culpa, anzi. Ripercorsi i successi del governo, Renzi si è esibito in numerosi «abbracci», «sorrisi», «auguri» ai vari avversari, dimostrando di abbracciare così lo spirito di chi in queste ore si sta facendo bello del 40 per cento (come il sottosegretario Luca Lotti). E alla minoranza dem, a chi si è speso per il No e domenica ha giustamente festeggiato, ha detto: «So che qualcuno di voi ha festeggiato. Lo stile certe volte è come il coraggio di Don Abbondio». E così si apre il tema, che noi di Left seguiremo attentamento, di quanto potrà durare la convivenza. In quello che (nelle intenzioni di Renzi) sempre più sarà, nonostante la sconfitta, il Partito di Renzi.

Legge di bilancio: referendaria fino all’ultimo respiro

Il risultato del voto finale sulla manovra economica nell'Aula di Palazzo Madama, Roma, 07 Dicembre 2016. ANSA/ RICCARDO ANTIMIANI

Pubblichiamo il commento diffuso dalla campagna Sbilanciamoci sull’approvazione della legge di bilancio. Ogni anno la campagna pubblica le sue proposte alternative per l’allocazione delle risorse, senza costi aggiuntivi per lo Stato. La proposta per il 2017 è qui (in fondo all’articolo una visualizzazione grafica della controfinanziaria). 

Il Senato ha votato in fretta e furia il voto di fiducia sulla Legge di Bilancio 2017.
Il 15 novembre, nel presentare la sua contromanovra, Sbilanciamoci! aveva evidenziato la natura strumentale di molte misure contenute in una delle leggi più importanti previste dal nostro ordinamento.

La Legge di Bilancio dovrebbe programmare l’allocazione delle risorse pubbliche su base triennale al fine di garantire il buon andamento dei conti pubblici, il sostegno allo sviluppo economico e al rilancio dell’occupazione, il funzionamento dei servizi sociali fondamentali (sanità, scuola, università, protezione sociale), l’equità del sistema fiscale, la tutela dell’ambiente e del territorio, la riduzione della spesa pubblica inutile e dannosa a vantaggio del miglioramento del benessere dei cittadini.

Non è stato il caso della Legge di Bilancio 2017, piegata all’intento del Governo di conquistare il consenso dell’opinione pubblica al sì referendario. Fortunatamente gli elettori del 4 dicembre non si sono fatti ingannare e hanno rispedito al mittente la riforma costituzionale.

Resta un fatto un gravissimo: la crisi istituzionale che deriva dai risultati del referendum sfocia nella richiesta di un (ennesimo) voto di fiducia che priva materialmente il Senato della sua prerogativa: effettuare un controllo democratico effettivo delle misure contenute nella Legge di Bilancio 2017, controllo che già nell’accidentato e frettoloso iter seguito alla Camera era stato fortemente compromesso.
E’ il modo peggiore per chiudere la parabola del Governo Renzi.

Difficile prevedere cosa ci riserverà il futuro. Ciò che è certo è che le 47 organizzazioni della campagna Sbilanciamoci! continueranno a lavorare per chiedere un cambiamento netto delle politiche pubbliche adottate sino ad oggi nella direzione di una redistribuzione più equa della ricchezza, del rilancio di un’economia sostenibile, della garanzia dei diritti dei lavoratori, del rafforzamento del sistema di protezione sociale, della rinuncia alla corsa agli armamenti. Senza questo cambiamento, la distanza tra istituzioni e società continuerà ad allargarsi pericolosamente con esiti incerti e dannosi per i cittadini che saranno imputabili solo a chi ha governato il nostro paese negli ultimi anni.

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