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Sì o No. Gli scenari possibili (e quelle che sono solo minacce)

manifesti elettorali per il referendum
Affissioni per il Si e per il NO a Genova, 30 novembre 2016. ANSA/LUCA ZENNARO

Bisognerebbe votare nel merito, vero. Ma con la campagna elettorale più brutta di sempre, concentrarsi è difficile (e sempre più lo sarà, non illudetevi: i brutti toni della campagna, come vi racconteremo con Michele Prospero nel prossimo numero di Left da sabato in edicola, saranno la norma anche dopo il 4 dicembre). Bisognerebbe votare nel merito della riforma costituzionale, ma così come non si può votare senza pensare anche all’Italicum – la legge elettorale che è stata pensata come seconda fondamentale gamba della nuova costituzione, senza il cui superpremio non ci sarebbe nessun «vincitore certo» e la cui modifica è quindi improbabile, e spiace per Cuperlo – non si può prescindere, temiamo, dalle conseguenze politiche del voto.

È sbagliato? Forse. Ma forse no, almeno a giudicare da quando ci puntano entrambi i fronti. Renzi, ad esempio, non dice più di volersi ritirare a vita privata in caso di sconfitta (ma l’ha detto, eccome se l’ha detto), ma dice che con il No arriverà un «governo tecnico». Minaccia, più che dice, visto che tutto dipende da lui: un altro governo, infatti, può arrivare solo se lui si dimette e solo se il suo Pd accorda la fiducia al Padoan o al Franceschini di turno. D’Alema, di contro, ricorda che di premier che si è dimesso dopo un risultato elettorale che non c’entrava nulla con palazzo Chigi «ce n’è soltanto uno» (lui, ovviamente, con le regionali del 2000). E così facendo svela l’ovvio: a molti protagonisti e elettori del fronte del No non dispiacerebbe affatto se Renzi aprisse veramente una crisi di governo. Anzi.

Facciamo dunque un punto su quelli che sono i possibili scenari, le conseguenze politiche, post 4 dicembre.

Cominciamo dalla vittoria del No. Vince il No e Renzi si dimette, è l’ipotesi più scolastica, quasi scontata a sentire ciò che da mesi – con toni a volte più alti, altri più bassi – dice lo stesso presidente del Consiglio. Nei palazzi romani e nelle redazioni dei giornali, però, in tanti ormai scommettono sul fatto che, vincente il No, Renzi resterà comunque a palazzo Chigi. La minoranza dem glielo chiederà (per rosolarlo meglio, dicono i maligni) perché sarebbe la soluzione istituzionalmente più corretta, senza personalizzazioni di un voto costituzionale; e lui potrebbe alla fine valutare di restare, «per responsabilità», dirà, visto che entro il 31 dicembre va approvata la legge di bilancio pena l’esercizio provvisorio. A quel punto anticiperà però il congresso del Partito democratico, per affermarsi almeno lì, rispolverare il profilo del vincente e puntare rapido al 2018.

Se invece si dimette e rifiuta un reincarico, però, bisogna fare un altro governo, perché un governo serve per portare a casa la legge di bilancio, come detto, e per dare il tempo al parlamento di varare una nuova legge elettorale. Sarà un governo tecnico come dice (minaccia) Renzi? Dobbiamo aspettarci un incubo alla Monti e la Troika come vorrebbe farci credere il capo dei dem (spingendoci sul Sì)? Questo non è affatto detto (come non è detto, è una valutazione che ognuno di noi deve fare, che il governo Monti sia peggio di quello Renzi). Quello che arriverà dopo Renzi, è invece sicuro, dipende soprattutto da Renzi e dal suo Pd, fondamentali per comporre una nuova (o la stessa, più probabilmente) maggioranza.

Tutto diverso è ovviamente se vince il Sì. Renzi resta? Diciamo che non ci sarebbero ragioni, soprattutto istituzionali – già carenti anche nel caso di vittoria del No – per lasciare palazzo Chigi una volta vinto il 4 dicembre. E così Renzi dovrebbe fare. Anticipando sempre però – questa volta per non perdere lo slancio – il congresso del Pd. Ecco che a quel punto, se vince il Sì, le elezioni restano comunque l’obiettivo, perché Renzi vorrà al più presto rinnovare il parlamento dove ancora gli tocca fare i conti con gruppi parlamentari eletti ai tempi della segreteria Bersani. A quel punto, però, si vota col famoso combinato disposto (solo Cuperlo crede nella promessa di Renzi di modificare l’Italicum) e questo, sì, espone agli scenari più imprevedibili. Sicuri che, col meccanismo del ballottaggio, non finisca come a Torino?

Su Left in edicola dal 3 dicembre uno speciale referendum

 

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Un aereo si è alzato per uccidere un clown

Un'immagine rilasciata dalla Protezione Civile di Aleppo dopo i bombardamenti di oggi, 30 novembre 2016. E' di 23 civili uccisi il bilancio dei raid aerei governativi su Aleppo est e degli colpi di artiglieria di insorti su Aleppo ovest, secondo quanto riferisce l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus). L'Ondus precisa che 21 civili, tra cui donne e bambini, sono stati uccisi in raid aerei del governo sui quartieri orientali della città contesa, in particolare a Bab Nayrab a Habbet Qubba. Due civili, tra cui un insegnante, sono invece morti in seguito a colpi di mortaio sparati dagli insorti sui quartieri occidentali controllati dal governo. ANSA/PROTEZIONE CIVILE DI ALEPPO ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Ci vuole coraggio per far ridere. Bisogna essere capaci di dare del tu al dolore e  di prendere in giro la morte. Anas Bahsa ha deciso di fare l’artigiano del ridere ad Aleppo, per i bambini. Poco da ridere ad Aleppo, davvero: bombe sui civili, sugli ospedali, sulle pozzanghere che si fanno laghi e poi rimangono l’unica acqua buona da provare a bere.

Fare il clown in guerra è una giocoleria al quadrato: tutti che si chiedono che ci fa un pagliaccio sotto le bombe quando la domanda sarebbe “che ci fanno le bombe” sopra le teste dei bambini. Ogni tanto un naso rosso serve per recidere i fili del benpensare che ci occludono le vene della fantasia. Ci vuole coraggio per far ridere. Già.

Anas è morto. Ieri. Sotto le bombe. Niente bombe d’acqua e nemmeno coriandoli a striscie: Anas è rimasto schiacciato da una bomba a forma di bomba che lì ad Aleppo si sgancia in nome della difesa della democrazia. Un aereo si è alzato, notevolmente addestrato, costosamente militarizzato, per uccidere un clown. Naso rosso, parruccone di capelli di stelle, scarpe lunghe all’insù e il cadavere al fianco. Chissà se non si è sentito scemo l’aviatore a bombardare un pagliaccio. Chissà se i generali e i comandanti non sono andati poi a letto fieri e marziali per avere difeso la Siria dai clown.

Anas Bahsa è morto a 24 anni, consolatore dei bambini in guerra. Noi che scegliamo la bevanda da farci portare in camerino, noi che ci rabbuiamo per un mugolio dalla platea poi abbiamo un collega che ha talmente tanto coraggio da riderci sopra e poi morirci addosso. Chissà che il mondo del teatro non abbia mai un guizzo di fantasia e finisca per premiare lui, Anas, spacciatore di sorrisi terminali. Io stasera sono in scena. E mi sento così piccolo, io.

Buon venerdì.

Referendum, Montanari: «Renzi rottama la democrazia per risparmiare pochi spicci»

Tomaso Montanari

Questa mattina in Campidoglio Tomaso Montanari, storico dell’arte e vice presidente di Libertà e giustizia, con gli assessori Paolo Berdini e Luca Bergamo, per Emergenza Costituzione argomenta le ragioni del no al Referendum costituzionale. Tra gli altri intervengono Salvatore Settis, Roberto Zaccaria, Paolo Maddalena e altri. Qui il programma. A Montanari, che è stato uno dei volti della campagna per il No, abbiamo chiesto di spiegarci le conseguenze di alcuni fra i punti più controversi della riforma.

Professor Montanari, i desiderata della banca d’affari JP Morgan riguardo all’Italia, salutati con favore da Napolitano, trovano accoglienza nella riforma Renzi-Boschi-Verdini? In altre parole, quale “cultura” la sorregge? 
Una sottocultura puramente mercatista. Il lavoro è merce, la cultura è merce. L’ambiente perde la «tutela» e del patrimonio culturale si parla solo per farne «promozione», leggi «mercificazione». È l’abdicazione definitiva. La vera partita che stiamo giocando riguarda l’ultimo tassello di un mosaico che è stato descritto con efficacia da Luciano Gallino: in tutta Europa «la “costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, … è volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra». Ecco, con la riforma Renzi si cerca di costituzionalizzare questo stato delle cose, di scrivere nella Costituzione formale i contenuti di quelle costituzioni non scritte.

Il governo non fa nulla contro l’evasione fiscale e lascia che il Vaticano non paghi le tasse, ma sostiene di tagliare i costi della politica con questa riforma. A quanto ammonta il risparmio?
Stiamo rottamando gli spazi di democrazia per risparmiare la miseria di 50 milioni di euro l’anno, questa l’unica cifra disponibile, stimata dalla Ragioneria Generale dello Stato in una nota del 28 ottobre 2014! Cinquanta milioni equivalgono a quanto spendiamo ogni giorno (non ogni anno!) in spesa militare, ad un terzo del costo dell’aereo voluto dal presidente del Consiglio, a meno di una sesto della somma che ogni anno devolviamo ai vitalizi degli ex consiglieri regionali! Bisognerebbe chiedere al governo perché non li chiede a Marchionne questi soldi. Ma Marchionne vota Sì.

La Costituzione è una tessitura, anche se viene cambiata solo la seconda parte, gli equilibri cambiano  e con essi il senso. Come cambia a lettura dell’articolo 11, «l’italia ripudia la guerra»?L’articolo 72 della Costituzione regola l’eventualità più drammatica che possa riguardare uno Stato: la deliberazione dello stato di guerra. Il testo attuale (quello del 1948) prevede che «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari», mentre la riscrittura su cui siamo chiamati a votare è la seguente: «La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari». Apparentemente c’è una rafforzamento della garanzia democratica, ed è infatti così che questa modifica viene raccontata dalla propaganda del governo. Ma riflettiamo un momento: tradotta in numeri la soglia passa, è vero, da 158 a 316 voti, ma da una parte il Senato non ha più voce in capitolo (e la caratterizzazione regionale non lo impedirebbe di certo: la Costituzione tedesca, per esempio, prevede che per fare la guerra sia necessario l’assenso del Bundesrat, cioè appunto la Camera delle regioni), e dall’altra i 316 voti ora necessari sono addirittura meno della maggioranza dei seggi che l’Italicum (ricordo ancora una volta: legge dello Stato vigente oggi) assegna al singolo partito che prende più voti alla Camera. Il che significa che la guerra la potrà, in teoria, dichiarare, da solo, il Partito Democratico, o la Lega o il Movimento 5 Stelle. Volendo, dunque, mettere le mani sull’articolo 72, non sarebbe forse stato più giusto, e prudente, prevedere una maggioranza qualificata dei due terzi, o dei tre quinti, dei componenti? Dunque, l’articolo 11 è in pericolo…

Quali riverberi ci saranno sull’articolo 9, visto che la riforma affida la promozione del patrimonio culturale alle Regioni, dopo che la riforma del Titolo V nel 2001 aveva già creato un contrasto fra tutela compito dello Stato e valorizzazione compito delle Regioni?
Non è vero che la riforma non tocchi la prima parte della Carta. L’articolo 5 dice che «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». E invece qua le Regioni vengono di fatto annullate. E l’articolo 9 con loro: se vincesse il Sì nel Titolo V non si parlerebbe più di “tutela dell’ambiente”, ma di “ambiente”: addio dunque alla tutela, pilastro dell’articolo 9. E non si parla più di tutela del paesaggio – cioè di un contesto largo – ma di una puntiforme, antiquata «tutela dei beni paesaggistici», dal sapore commerciale e residuale. Torniamo a prima del 1939!

Lo Sblocca Italia e la legge Madia (in parte bocciata dalla Consulta) sono potenziate dalla riforma. Aumentano i rischi di colate di cemento per l’Italia che invece avrebbe bisogno di interventi di messa in sicurezza del territorio?
Il nuovo articolo 117 riserverebbe senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». La ratio di questa norma era stata anticipata dallo Sblocca Italia del governo Renzi, che la Corte ha giudicato incostituzionale proprio dove ha estromesso la voce delle Regioni da materie sensibili per la salute dei cittadini come gli inceneritori, o le trivellazioni: uno degli obiettivi della nuova Costituzione è evidentemente proprio quello di impedire, in futuro, referendum come quello sulle trivelle. E non è dunque un caso che la campagna del Sì si apra riesumando la più insostenibile delle Grandi Opere: il Ponte sullo Stretto di berlusconiana memoria. Ora, questa sottrazione di potere alle regioni in materia di governo del territorio appare particolarmente grave: perché va esattamente nella direzione della riforma del Senato, che è quella di allontanare i cittadini dalle decisioni, facendoli votare di meno e restringendo gli ambiti istituzionali in cui possono farsi sentire.

In che modo la riforma Franceschini interviene in questo quadro? Il ministo ha annunciato finanziamenti alla cultura, sono stati davvero stanziati e in che modo saranno impiegati?
Dario Franceschini ha smantellato la tutela pubblica del patrimonio: attuando così il programma di un governo che, simultaneamente, smantella la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori, la Costituzione stessa. È stata una scelta precisa, perseguita con tenacia. Come ha detto qualche giorno fa Maria Elena Boschi – trovandosi in perfetto accordo con Matteo Salvini, sulle poltrone di Porta a Porta –: «Abbiamo fatto una riforma della pubblica amministrazione per ridurre le complicazioni sul territorio. (…). Va benissimo darsi altre sfide, io sono d’accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo, lavoriamoci dal giorno dopo: disponibilissimi a discutere di tutto». Una volta tanto la Boschi ha detto la verità: la riforma Franceschini (una riforma concepita in odio alle soprintendenze, su mandato di un presidente del Consiglio che ha scritto che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia») ha dato il colpo di grazia alla tutela. Le soprintendenze cosiddette ‘olistiche’, la disarticolazione degli archivi delle vecchie soprintendenze, il rimescolamento deliberato di un personale che oggi si trova a tutelare un territorio che gli è ignoto, il dirottamento di tutti i fondi sui «grandi attrattori turistici», lo sbilanciamento estremo verso la valorizzazione, la sottoposizione ai prefetti, il mancato turn over (i 500 che prenderanno servizio nel 2017 non basteranno neanche a rimpiazzare l’ultima ondata di pensionamenti). Un disastro che i finanziamenti spot, una tantum, non riescono a cancellare.

Ne parliamo anche su Left in edicola dal 3 dicembre

 

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Si scoprirà che il popolo desidera prima di tutto l’attuazione della Costituzione

manifesti per il referendum
Cartelloni per le votazioni del Referendum Costituzionale sui mezzi pubblici e le vie del centro città, Torino, 1 dicembre 2016 ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Una riforma costituzionale dovrebbe essere un’occasione per rafforzare l’unità del Paese. E invece mai si è vista una discordia nazionale così lacerante. Non ne avevamo proprio bisogno in un momento tanto difficile per l’Italia e per l’Europa. È stato un grave errore di Renzi scommettere le sorti del governo sul cambiamento costituzionale, addirittura tentando un referendum sulla propria persona. Mi piace pensare che si sia accorto dell’errore.

Con qualsiasi risultato questa revisione costituzionale è senza futuro. Anche se vincesse il SI, sarebbe un legge di parte e non di tutti. Se in futuro verrà un altro governo, pretenderà di riscrivere la Carta a suo piacimento. Da venti anni la Costituzione è in balia della maggioranza di turno, prima a sinistra con il Titolo V e poi a destra con la revisione di Berlusconi. Se vince il NO, si mette fine a questa misera pretesa di modificare la Carta secondo interessi politici contingenti. L’impegno a superare lo spirito di parte era già scritto nel manifesto fondativo del PD del 2007, la carta costituente del partito, ma è stata dimenticata, come la Carta della Repubblica.

Nelle ultime ore scatta l’allarmismo. Si teme la crisi di governo nel caso di vittoria del NO, invece è molto probabile che Renzi rimarrà a Palazzo Chigi, pur avendo già annunciato le dimissioni. Non sarebbe la prima volta che cambia idea. Aveva detto “stai sereno, Enrico” e poi lo ha sostituito; aveva promesso “mai al governo senza investitura popolare” e invece è ricorso a una manovra di Palazzo. Anche stavolta avrà la flessibilità per uscire dalla contraddizione. Saprà correggere l’errore con il quale ha messo in pericolo il governo sul referendum.

L’establishment si è mobilitato per approvare la revisione costituzionale, anche se alcuni ammettono che è scritta male. Lor signori sentono per istinto che il cambiamento consente di fare meglio le cose di prima. Con la stessa naturalezza i ceti popolari avvertono che la Costituzione è dalla loro parte. È un sentimento profondamente radicato nella società italiana, ma via via ignorato dal ceto politico che si trastulla con le riforme istituzionali. Nella storia repubblicana i referendum sono stati i momenti della meraviglia, quando cioè nello stupore generale la saggezza popolare si è rivelata più avanti rispetto alle angustie e alla miopia delle classi dirigenti.

Andò così con il primo: si diceva che le donne avrebbero fatto vincere il Re, e invece il voto delle donne fu decisivo per fondare la Repubblica. E poi nel ’74: con il divorzio la maturazione civile travolse le titubanze della classe politica di sinistra. Nel 2006 la mobilitazione spontanea degli elettori sommerse con una valanga di No la legge Berlusconi. E infine nel referendum sull’acqua, dopo trent’anni di liberismo, si espresse, nell’inconsapevolezza della politica di sinistra, la saggezza popolare che sentiva i beni comuni come l’unica risorsa per uscire dalla crisi.

Anche il referendum di dicembre sarà il momento della meraviglia. Si scoprirà che il popolo desidera prima di tutto l’attuazione della Costituzione.

Così chiude il suo ultimo post prima del voto di domenica, il senatore Walter Tocci. Un post il cui si esercita nel ribaltare gli argomenti del Sì, che gli ricordano «le figure gestaltiche». Un post che di cui vi proponiamo, oltre alla conclusione, alcuni passaggi fondamentali, argomenti molto utili – a nostro avviso – per convincere gli ultimi indecisi.
Eccoli.

Nella psicologia sperimentale – scrive Tocci – le figure gestaltiche dimostrano che la percezione di un oggetto dipende da ciò che il soggetto ha in mente. Nel disegno qui sotto, chi cerca proprio una lepre riesce a vederla, ma se cambia lo sguardo si accorge che è una papera. Tutti gli argomenti portati dal SI nel referendum – come i disegni gestaltici – possono essere visti in modo diverso e perfino opposto.

Lepre o Papere

Si è promessa una semplificazione – continua Tocci, ad esempio – ma si è realizzato un bicameralismo farraginoso e conflittuale. È il paradosso della revisione costituzionale. Se fosse un vero Senato delle autonomie, i senatori dovrebbero attenersi all’indirizzo della propria Regione. Invece non hanno alcun vincolo di mandato, proprio come i deputati, e di conseguenza si iscrivono ai gruppi di partito anche a Palazzo Madama. Il Senato è prevalentemente un’assemblea politica, e può capitare che abbia una maggioranza ostile a quella della Camera. Infatti, non essendo mai sciolto potrebbe conservare un orientamento politico che invece alle elezioni viene ribaltato nell’altro ramo.
In tal caso si instaura un bicameralismo conflittuale tra destra e sinistra, molto più incerto dell’attuale. Tutte le leggi approvate dalla Camera vengono richiamate dal Senato per poi tornare alla Camera. È davvero una semplificazione del percorso legislativo? Seppure con tempi definiti, comporta comunque tre passaggi politici, mentre oggi con il vituperato bicameralismo quasi tutte le leggi (80%) sono approvate in soli due passaggi. La presunta navetta è una menzogna raccontata dai politici che volevano giustificare la propria incapacità di governo: il famoso ping-pong riguarda solo il 3% dei provvedimenti.
Inoltre, sulle leggi che rimangono bicamerali se un Senato ostile rifiuta l’approvazione, il governo non è in grado di superare il blocco, avendo perduto lo strumento del voto di fiducia. Non solo, l’attribuzione delle leggi alla categoria di “richiamate” o bicamerali è affidata all’interpretazione dell’articolo 70 che per riconoscimento degli stessi autori è scritto molto male. Si possono generare molti contenziosi in corso d’opera e se i presidenti di Camera e Senato non trovano l’accordo si ferma il procedimento. Anche dopo l’approvazione una legge può essere annullata per difetto di attribuzione dalla Corte Costituzionale, che sarà costretta a entrare dentro le procedure parlamentari, aprendo un nuovo campo di contenzioso finora sconosciuto.

(…)

Il Sì parla del nuovo, ma mette il sigillo sul passato. Annuncia un futuro radioso, ma lo abbiamo già visto e non è stato bello. Negli ultimi trent’anni il potere legislativo è stato trasferito al potere esecutivo. Non siamo più in una vera democrazia parlamentare, da tanto tempo siamo entrati in un premierato di fatto. Ormai è evidente che il governo legifera e il Parlamento ratifica. Tutto ciò è avvenuto mediante gravi violazioni della Costituzione: deleghe legislative al governo senza specifici indirizzi parlamentari; voti di fiducia ormai settimanali; trucchi procedurali come il maxiemendamento e il voto su articolo unico, senza paragoni nei parlamenti europei; abuso del decreto legge ben oltre la decenza istituzionale. Di quest’ultimo si annuncia il miglioramento ma non viene impedito il vero abuso che consiste nel decretare senza i requisiti di “necessità e urgenza”. Si promette di ridurne l’uso sostituendolo con la legge approvata a data certa. Neppure questo è uno strumento nuovo, esiste già nel regolamento della Camera e di solito viene utilizzato obiettivi sciagurati; ad esempio servì a Berlusconi per imporre il Porcellum. (…) Nei fatti la legge a data certa non sostituirà, ma si sommerà al decreto legge, e insieme renderanno il governo padrone dell’agenda parlamentare.

(…)

Diciamoci la verità. Da trent’anni il Paese vive senza la Costituzione, né la prima né la seconda parte. E infatti è stato un trentennio triste. Venendo meno il baluardo della Carta la vita degli italiani è peggiorata: sono aumentate le diseguaglianze, è esplosa la discordia nazionale nella società e nella politica, il potere si è concentrato nelle mai di chi già lo possiede.

Con il SI prosegue il trentennio triste, si annuncia una fantasia del passato. Con il NO si esprime la voce della saggezza popolare che dice non ne possiamo più dello stravolgimento della Costituzione, quella voce rimasta inascoltata dopo il referendum del 2006. Con il No finisce il trentennio triste e si apre una pagina nuova, certo difficile e non priva di rischi, ma finalmente aperta al futuro. Come nel libro di Isaia il viandante chiede: “Sentinella, quanto dura la notte?” Il 5 dicembre la sentinella inaspettatamente risponderà che la notte è finita, e comincia un nuovo giorno.

L’articolo continua Left in edicola dal 3 dicembre

 

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Fondi raddoppiati e altri regali. Il governo a caccia di consensi tra le scuole paritarie

Un crocefisso e il quadro di una Madonna affisso nell'aula di una scuola elementare parificata, l'Istituto San Giuseppe del Cabulotto, a Roma ANSA / MARIO DERENZIS

Negli stessi giorni in cui in Sicilia una operazione della Guardia di Finanza smaschera su una vasta rete di diplomifici nelle scuole paritarie che ha portato a 80 indagati tra professori e insegnanti, il governo aumenta i finanziamenti alle scuole gestite da privati. Due volti della stessa medaglia: il pianeta dell’istruzione privata che la legge 62/2000 di Luigi Berlinguer ha parificato a quella statale. L’aumento di fondi lo ha annunciato il 3 novembre a Il Sussidiario.net il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, fiorentino, già deputato e coordinatore per il Pdl e adesso con Ncd-Ap di Alfano. «Per il riconoscimento della parità è stato fatto di più da questo governo in due anni che negli ultimi settant’anni. Nessuno aveva mai fatto così, nemmeno quando c’era la Dc», ha detto con orgoglio.

In sintesi, annuncia lo stesso Toccafondi, si è passati dai 272 milioni della legge di Stabilità del 2014 ai 500 milioni attuali. Non solo: ecco qua snocciolati i finanziamenti «voluti e ottenuti da Ap», come tiene a precisare Toccafondi. Si tratta di 24 milioni per i disabili, 50 per le materne e in più quei soldi che derivano dall’aumento delle detrazioni: dai 400 euro di retta per ragazzo si passa al doppio: 800 euro. Nell’intervista il sottosegretario svela altri aspetti di quella che lo stesso sottosegretario chiama “rivoluzione culturale”.

Grazie agli emendamenti inseriti nella legge di stabilità, rivela Toccafondi sempre al Sussidiario.net il 26 novembre, chi verserà lo School Bonus, la donazione consentita ai privati (con credito d’imposta del 65%), vedrà i propri soldi andare direttamente all’istituto in questione e non al Ministero. Sul punto, al momento dell’approvazione della legge sulla Buona scuola, la polemica era stata fortissima: non si voleva che potendo scegliere la scuola destinataria dei “regali”, si favorissero le scuole con una platea più benestante aumentando le differenze tra zone ricche e zone povere delle città e del Paese. Alla fine era stato deciso che lo School Bonus indirizzato al Miur andava per il 90% alla scuola e il 10% a un fondo per tutte le scuole. Adesso, a quanto pare, la Legge di Stabilità, ha tolto anche questa piccola fetta di soldi dei privati per le aree più disagiate.

Altri fondi poi sono programmati anche per l’alternanza scuola lavoro e, novità assoluta, le scuole paritarie possono accedere ai fondi Pon europei con propri progetti autonomi senza far parte di reti di scuole.
«Si tratta di un autentico colpo di mano», dice in una nota la Flc Cgil, mettendo in evidenza che la decisione sui Pon, tra l’altro, «contrasta con quanto espressamente affermato dal Miur durante la fase di elaborazione del Pon in tutti i tavoli di discussione con il partenariato istituzionale, economico e sociale». Nella programmazione precedente comunitaria in cui comunque vigeva la legge 62/2000, fa notare la Cgil, soltanto le scuole statali sono rientrate nei fondi Pon.

Quanto ai diplomifici che sorgono nelle scuole paritarie, il sottosegretario Davide Faraone ha dichiarato oggi al Corriere della Sera che in sei mesi di ispezioni in 288 scuole, a 27 è stata revocata la parità, mentre in 145 istituti sono state trovate problematiche da sanare. Insomma, non sono proprio dei casi isolati. Il caso scoperto durante l’operazione “Diplomat”, in provincia di Ragusa, è emblematico: gli studenti pagavano 3.500 euro per un diploma di maturità, compiti in classe con soluzioni già indicate, nessuna interrogazione, lezioni non frequentate, insomma una scuola davvero sui generis che pure risultava uguale a una statale.

Nonostante i lati oscuri di queste scuole, in cui avviene anche lo sfruttamento degli insegnanti, come ha messo in evidenza Paolo Latella con il suo Il libro nero della scuola italiana, lo Stato aumenta i finanziamenti chiesti a piena voce dal mondo cattolico che gestisce, ricordiamo, la maggior parte degli istituti paritari. Tutto questo mentre la scuola pubblica, a un anno e mezzo dalla Buona Scuola, non riesce a decollare, anzi, affonda ancora di più tra caos nell’assegnazione delle cattedre, nell’alternanza scuola lavoro, che toglie ore di insegnamento per un “avviamento” alle professioni decisamente superficiale, e cambiamenti più o meno latenti nella didattica, senza una visione globale. Anche gli interventi sull’edilizia scolastica vanno a rilento nonostante l’annuncio di nuovi fondi. Sono ancora pochi, ma si preferisce “spartirli” con le scuole paritarie.

“Emergenza Costituzione”. Il 2 dicembre a Roma il No del mondo della cultura

Emergenza cultura

La Riforma costituzionale inasprisce il conflitto Stato Regioni rafforzando lo Sblocca Italia e svuota di fatto l’articolo 9 della Carta che tutela patrimonio culturale e paesaggio. Venerdì 2 dicembre in Campidoglio giuristi, storici dell’arte, archeologi, urbanisti danno vita a una mattinata dal titolo Emergenza Costituzione, per dare voce e argomentazioni alle ragioni no alla riforma costituzionale, che rafforza gli effetti negativi della legge sui parchi, dello Sblocca Italia, della legge Madia,  delle controriforme dei beni culturali varati dal Mibact guidato da Franceschini.

A partire dalle 10 nella sala della Protomoteca, su questi temi, si confrontano lo storico dell’arte e vice presidente di Libertà e giustizia Tomaso Montanari, l’urbanista Paolo Berdini e Luca Bergamo,  rispettivamente assessore all’Urbanistica e allo Sviluppo culturale del Comune di Roma. Qui la diretta streaming.  Insieme a loro i giuristi Roberto Zaccaria e Paolo Maddalena, lo storico del diritto Mario Ascheri, lo storico dell’arte e archeologo Salvatore Settis , la storica dell’arte Lucilla Speciale il giornalista Vittorio Emiliani, fondatore del comitato per la Bellezza, che a Left spiega perché al referendum del 4 dicembre vota no:

Vittorio Emiliani: «Voto No per tante ragioni, ma ne espongo una: la confusione, la quasi incomprensibilità dei testi “costituzionali” Boschi-Renzi, per esempio lo strategico articolo 70. Ho detto ad amici incerti sul voto, “provate a leggerlo e ditemi se ci capite qualcosa”, l’hanno letto e sono rimasti sbalorditi decidendo per il NO. Badate – ho spiegato loro – che questa confusione deriva certamente anche dalla incultura dei proponenti, e però ha un risvolto furbesco, manipolatore. Nel senso che più un testo costituzionale è oscuro e più un governo spregiudicato ci può giocare dentro volgendolo a favore di misure anche autoritarie. Tanto più se una legge elettorale come l’Italicum gli consente di determinare l’elezione dei componenti della stessa Corte Costituzionale, cioè del massimo organismo di controllo.
Per esempio, il nuovo Titolo V, quello “federale” voluto dal centrosinistra nel 2001 era pessimo, a volte grottesco. Questo prefigura il ritorno al centro di talune competenze, di tipo ambientale fra le altre, e ci si potrebbe anche stare se il governo Renzi non avesse già dimostrato di volere mano libera in materia, che so, di trivellazioni, di gasdotti in zona sismica e altro. Poi, nella pratica, con la legge “sfascia parchi” a firma Caleo (Pd) appena approvata al Senato, il governo consegna la dirigenza e il governo degli stessi Parchi Nazionali alle clientele e alle corporazioni locali. Ma lo decide sempre il governo con una strategia parallela in materia di beni culturali e di beni ambientali: mettere a reddito, fare soldi, ricavare profitti da questi beni pubblici primari, in pieno, frontale contrasto con l’articolo 9 della Costituzione che prevede “la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione” non la sua commercializzazione».

Ad Aleppo continua la strage di civili e i ribelli trattano segretamente con la Russia

La battaglia di Aleppo continua e con essa le stragi di civili. Da ieri circolano in rete le immagini dei cadaveri di persone, sarebbero 45, colpite mentre cercavano di lasciare la città. A ucciderli, anche stavolta, le bombe di Assad e dei partner russi, che da tre settimane hanno premuto sull’acceleratore per cercare di terminare l’assedio della città più importante del Paese. Otto persone sono invece morte in quartieri sotto il controllo dell’esercito siriano e l’Onu, chiedendo ad Assad di smetterla con i bombardamenti ha segnalato come alcuni dei gruppi di ribelli stiano impedendo ai civili di lasciare la città.

Di fronte a questo scempio umanitario, 224 organizzazioni non governative lanciano un appello: la convocazione di una sessione speciale di emergenza dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che chieda la fine degli attacchi illegali contro Aleppo così come contro altre zone della Siria e l’accesso umanitario immediato: «Gli Stati membri, devono usare tutti gli strumenti diplomatici a loro disposizione per fermare le atrocità e proteggere milioni di civili siriani».

L’inviato delle Nazioni Unite Stephen O’Brien, parlando davanti al consiglio di sicurezza Onu ha messo in guardia sul fatto che se le bombe non cesseranno di cadere, Aleppo diventerà «un cimitero gigante». È stato proprio O’Brien a parlare dei civili come scudi umani e per questo ha chiesto ad Assad e a «tutte le parti che hanno una qualche influenza» (leggi la Russia e l’Iran)  di proteggere i civili «per il bene dell’umanità». L’Onu stima che negli ultimi giorni 25mila persone abbiano lasciato la città e che chi rimane intrappolato sta morendo di fame.

È in questo contesto che si apprende che i gruppi ribelli stanno trattando con la Russia una via di uscita e la fine dei combattimenti in città. Un segnale pessimo per l’Onu e soprattutto per gli Stati Uniti, attori che sembrano essere diventati ininfluenti nel complicato scacchiere mediorientale.

Secondo il Financial Times, che ha discusso con diversi membri dell’opposizione siriana, i colloqui vanno avanti da tempo con la mediazione della Turchia. Uno leader delle milizie di Aleppo ha spiegato: «Non trattiamo con Assad perché non è altro che il leader di una provincia agli ordini di Putin». Da Mosca commentano che non c’è niente di cui essere sorpresi: abbiamo contatti con l’opposizione da molto tempo. Vero, ma pare di capire, non a un livello così alto e non parlando di dettagli.

I russi vorrebbero trovare un accordo per varie ragioni: evitare di prendere Aleppo e di dover concentrare tutte le forze dell’esercito di Assad in quella città, lasciando scoperti altri fronti, aumentare la propria influenza sull’area diventando un interlocutore anche di quelle forze – o almeno alcune di esse – che combattono il regime di Damasco. Che nel frattempo, in città, hanno deciso di darsi un comando unitario, avendo preso atto del fatto di essere in ritirata e che le tensioni non hanno aiutato a frenare l’avanzata del regime.

In questo contesto gli sforzi di Kerry per rilanciare la tregua non fanno passi avanti. «Gli americani non sanno nemmeno cosa stia succedendo ad Ankara» dice una persone coinvolta nei colloqui al Financial Times. Ovvero, gli americani, che hanno evitato per anni di intervenire, poi hanno tracciato una linea rossa, un punto di non ritorno per Assad, al quale non hanno dato seguito, sono diventati ininfluenti. E adesso, con l’avvento dell’amministrazione Trump, che punta ad un accordo con Mosca per combattere l’Isis nella regione, lo diventeranno ancora di più – si stempereranno le tensioni, ma a guidare le danze sarà Putin.

Non sappiamo cosa succederà ad Aleppo nelle prossime ore, ma abbiamo una certezza: l’Onu, gli Stati Uniti (non parliamo nemmeno dell’Europa) hanno assistito alla carneficina siriana e all’uso indiscriminato di armi chimiche, bombe a grappolo e uso massiccio dei bombardamenti aerei contro i civili senza battere ciglio. Per anni. Spaventati dalle conseguenze, presi dalla propria crisi economica e politica, gli occidentali hanno smesso di pesare lasciando spazio a Russia, Iran, Arabia Saudita, Qatar. E dimostrando in qualche modo che le chiacchiere sui diritti umani non contano più, che le dittature sono più efficienti e rapide delle democrazie e che le stragi capitate in Ruanda, ex Jugoslavia o Cecenia (per parlare di Russia), sono passate invano.

 

PS. Quello qui sotto è Anas al Basha, che faceva un lavoro con i bambini della città, cercando di animare un po’ le loro vite in questi mesi terribili. È morto sotto le bombe due giorni fa. Aveva 24 anni

This undated photo courtesy of Ahmad al-Khatib, a media activist in Aleppo, shows Syrian social worker Anas al-Basha, 24, dressed as a clown, while posing for a photograph in Aleppo, Syria. Al-Basha, was a center director at Space for Hope, one of the many important but unheralded local initiatives that has operated against the odds to provide the services of civil society in Syria's war-torn opposition areas. He was killed on Tuesday, Nov. 29, 2016 in a presumed government or Russian ballistic missile strike on the Mashhad neighborhood in the besieged, eastern side of Aleppo city. (Courtesy of Ahmad al-Khatib, via AP)
(Courtesy of Ahmad al-Khatib, via AP)

 

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione. Ne parla l’Europa

In un’intervista per Euractiv, il Segretario di Stato delle finanze slovacco, Ivan Lesay, ha parlato dell’opportunità di introdurre a livello europeo, uno schema di garanzia contro la disoccupazione.

Lesay, che attualmente è Presidente in carica del Consiglio nel quadro del semestre a guida slovacca, ha specificato che «è necessario muoversi nella direzione di un tale meccanismo affinché l’Unione monetaria rimanga intatta e sostenibile nel lungo periodo».

Il Segretario di Stato ha anche ammesso che si tratta di un «obiettivo difficile» da realizzare e che ci sono «molti ostacoli». Allo stesso tempo ha parlato di una varietà «di soluzioni possibili».

Interrogato sull’opposizione della Germania a un tale meccanismo, Lesay ha glissato: «Dopo la Brexit, a livello europeo, c’è molto più appetito per la costituzione di strumenti fiscali comuni».

Già, perché prima di poter metter in piedi un qualsiasi schema di sicurezza contro la disoccupazione, l’Europa avrebbe bisogno di sviluppare una vera e proprio “capacità fiscale”, un’evoluzione del processo di integrazione che tocca la sovranità nazionale in materia.

Lesay ha ribadito che, a livello europeo, esiste un gap tra il livello aggregato di capacità fiscale e quello ottimale che servirebbe all’Unione monetaria. Ciò è dovuto anche al fatto che, quando si parla di capacità fiscali si guarda semplicemente alla sommatoria delle singole capacità nazionali.

«Lo scenario preferito sarebbe quello di avere una sorta di dispositivo fiscale centralizzato», ha ammesso Lesay. Anche perché la Commissione europea, legalmente, ha “il potere” di far spendere di meno agli singoli Stati, non certo quello di incrementare la spesa pubblica.

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La “costituzione imposta” che divide i cittadini

L'aula della Camera durante il voto di sfiducia al ministro delle Riforme e Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, Roma, 18 dicembre 2015. ANSA/ANGELO CARCONI

Il testo riformato della Costituzione della Repubblica italiana è stato approvato in seconda lettura da una Camera semivuota e con i soli voti della maggioranza. Le opposizioni hanno lasciato l’aula. Il testo è nato e si è imposto come espressione di parte e che soddisfa prima di tutto e solo una parte. È un esempio di come la politica ordinaria voglia costituzionalizzarsi; di come il potere di una parte voglia e riesca ad imporre le sue regole a tutti e su tutti. Dichiarando che chi si oppone non capisce o, se capisce, è conservatore. A questa visione manichea del prendere o lasciare – per cui hanno ragione solo coloro che vincono – si adatta bene lo stile maggioritarista di questo testo rivisto della Costituzione, un testo scritto con lo scopo dichiarato di dare alla maggioranza un potere straordinario – a questo serve la propaganda del “fare” e del “decidere”-, senza troppo preoccuparsi di equilibrarlo con poteri di garanzia e di controllo adatti a questo sbilanciamento esecutivista dell’ordinamento istituzionale. La legge di revisione della Carta è come uno schiaffo al costituzionalismo liberaldemocratico che con fatica e alterne vicende si è fatto strada in questi due secoli e mezzo.

Dopo le Costituzioni “concesse” dell’Ottocento; dopo quelle conquistate e condivise del Novecento; una nuova categoria dovrà essere coniata per denotare questa revisione: quella di Costituzione imposta. La Costituzione della maggioranza è una Costituzione imposta – dividerà i cittadini come ha diviso il Parlamento e sarà a tutti gli effetti amata solo da chi ne gode i frutti, ovvero da chi governa (non importa chi). Questa revisione svela l’ipocrisia del governo rappresentativo, mostrando che, come scrivevano i critici della democrazia, esso non è che uno stratagemma astuto grazie al quale una minoranza comanda con il favore della maggioranza.

Ma chi difende la democrazia non può accettare questa concezione, non può concludere che, alla fin dei conti, tutti sono eguali e la differenza tra un governo democratico e un governo autoritario è solo una distinzione sofistica. Questa revisione e il modo con il quale è stata voluta e gestita fa un pessimo servizio alla democrazia – che in effetti disprezza grandemente facendone l’equivalente di un orpello retorico che serve solo a far perdere tempo a chi sta al governo. Il dirigismo (il mito scientista e buro-tecnocratico della “governamentality” di cui parlava Michel Foucault) è il mito che muove l’ideologia del “fare”. Visto che democrazia è una parola vuota, perché non mettere nero su bianco che chi governa deve avere una corsia preferenziale? L’ideologia sponsorizzata da questa revisione è un capitolo nel libro scritto dei critici della democrazia.

Per capirlo torniamo all’approvazione della riforma. Quell’importantissimo momento è passato senza quasi essere notato. Non ha avuto titoli cubitali e a tutta pagina. L’approvazione ha come chiuso un processo il cui esito era scritto – questo lo spirito che una stampa nazionale quasi tutta allineata con la maggioranza ha patrocinato, preparato e gestito. Tanta stanchezza dell’opinione si adatta poco al pomposo proclama con il quale Matteo Renzi presentò la proposta in Senato a ottobre 2015 – «aspettiamo questa riforma da settant’anni». Tanta stanchezza si spiega con il clima consensuale che circonda questa maggioranza risicata – segno della discrepanza tra opinione e numeri: questo spiega il senso della revisione imposta. Ha numeri risicati in Parlamento ma un’opinione quasi unanime orchestrata dai media nazionali. Chi governa? Governa l’opinione o governano i numeri?

Il governo dell’opinione è ovviamente extra-procedurale; e questa revisione è nata fuori dell’alveo del proceduralismo democratico. Ricapitoliamo in breve le tappe della sua storia. L’ha voluta una minoranza che per mezzo di un’elezione tutta privata (le primarie del Pd aperte, inoltre, anche ai non iscritti) ha conquistato un partito; e infine ha conquistato il governo, per mezzo di un largo uso che il Presidente della Repubblica ha fatto delle sue prerogative di risolvere le crisi di governo senza andare alle elezioni. Arrivata a Palazzo Chigi nel febbraio 2014, la minoranza guidata da Matteo Renzi e i suoi fedelissimi è riuscita in poco tempo a domare la maggioranza del suo partito e a cementificare la coalizione (tanto che pochi ricordano oggi che questo è un governo di coalizione, tanto esso sembra un monocolore Pd) – in questa condizione ha immediatamente avviato la macchina della revisione costituzionale.

Agli elettori che avevano generato il Parlamento, nessun partito aveva proposto in campagna elettorale di voler fare una tanta riforma. Il Pd che Renzi ha preso sotto di sé sembra un altro partito rispetto a quello che aveva vinto (benché di pochissimo) le elezioni nel febbraio 2013. E poi, il partito a guida Renzi non si premunì di avviare alcun dibattito tra i suoi iscritti e sostenitori per spiegare la necessità della revisione costituzionale e i caratteri che doveva avere. Un leader extra parlamentare ha con la forza della sua maggioranza e del governo creato al Quirinale imposto un testo e dato ordini di accettarlo senza troppo scalpitare.

Stranissima minoranza-maggioranza che diventa come un treno ad alta velocità grazie a tanti amici extra istituzionali, con il contributo determinante dell’opinione accreditata – sia delle testate giornalistiche private sia di quelle televisive pubbliche. Una maggioranza risicata nei numeri che gode del potere della voce che conta. L’allineamento dei mezzi di informazione e comunicazione tradizionali fa di questo governo debole nei numeri una potenza – con il ben noto argomento dell’eccezionalità: «Non si dà alternativa a Matteo Renzi». Il quale Renzi mette a frutto questo assurdo argomento dello spauracchio emergenziale con l’arma propagandistica del referendum che egli stesso trasforma in plebiscito: non la Costituzione è il tema del referendum, ma lui, Renzi.

Non era mai successo nella nostra Storia repubblicana questo gioco di prestigio, nemmeno nel lungo mezzo secolo di governi a guida democristiana, quando vi erano comunque una società e un’opinione politica non omologate e non domate. Vi è da pensare che sia proprio per chiudere quella pratica di opposizione, di pluralismo vociante, che questa riforma sia stata così fortemente voluta. Come se chi fa politica per professione e opera nelle istituzioni dicesse a voce alta ai cittadini: ciascuno faccia il proprio lavoro, noi “facciamo” e governiamo e voi “fate” i vostri interessi e lavorate; è sufficiente che voi designiate con il voto ogni cinque anni una classe di politici, ed è desiderabile che rompiate poco le scatole tra un’elezione e l’altra e per questo, che il vostro vociare venga ben filtrato e tenuto in sordina. Noi penseremo al vostro bene, noi sbloccheremo il Paese – voi fidatevi e lasciateci governare.

Sembra essere stata portata a compimento l’idea della Trilaterale che nel 1975 lanciò il progetto di domare i movimenti di critica e di contestazione, accusati di destabilizzare i governi con le loro richieste di giustizia sociale e le lotte per i diritti civili. Come scriveva Samuel Huntington nel documento della Trilaterale che si intitolava “La crisi della democrazia” (“crisi” perché vi era troppo attivismo dei cittadini e troppe richieste della società), i cittadini vogliono sapere troppo, anche ciò che è prudente che solo i governi sappiano. La troppa democrazia è stato il costante problema dei conservatori a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale – e la lotta per cambiare le democrazie parlamentari è parte di questo progetto. Questo è il senso della revisione della Costituzione approvata dal Parlamento italiano e che sarà oggetto di referendum.

 

Testo tratto dal numero 17 di Left del 23 aprile 2016