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“Il Futuro non è scritto”: Il Festival delle Terre che racconta la resistenza nei campi

Quattro giorni di proiezioni, reading di libri, musica e cibo biologico sono previsti dal primo al quattro dicembre alla Cineteca Nazionale e alla Città dell’Altra Economia a Roma.
La kermesse di eventi fa capo al Festival delle Terre, giunto alla tredicesima edizione, organizzato dal Centro Internazionale Crocevia, che da cinquant’anni si occupa della difesa della terra, dei diritti degli agricoltori e dei popoli nativi minacciati da un modello economico che li vorrebbe assimilare.
Ogni giorno dall’1 al 4 dicembre sarà possibile visionare dalle ore 16,30 alle ore 23,00 i 25 film (in lingua originale con sottotitoli) candidati al Festival all’interno del Cinema Trevi, la storica sala-museo romana situata a un passo dalla fontana della Dolce Vita, che ingloba tuttora i resti di una domus romana.
Dei 25 film in programma divisi in tre sezioni – “Terre resistenti”, “Popoli nativi”, “Preservare il pianeta, alternative per nutrire il mondo” -, 17 film sono i film in concorso, divisi tra documentari di ricerca, documentari antropologici come Strana Udehe e Mingong, corti di animazione come Full Petrol Jacket e anteprime nazionali, come Code of Survival, Atlantic, Historia do futuro ed Ethiopia Rising.

Scena del film Code of Survival
Una scena del film “Code of Survival”

Il festival, in linea con le attività del Centro Internazionale Crocevia, ha l’obiettivo di raccogliere, promuovere e diffondere, senza scopo di lucro, «le storie di chi produce cibo e resiste nei campi, nei mari, nelle foreste e nelle metropoli» e di promuovere l’educazione, la comunicazione e l’agricoltura, «promuovendo e realizzando attività in favore di comunità indigene e contadine, oltre ad attività di formazione e creazione di reti internazionali di organizzazioni, come il Comitato Internazionale per la Sovranità Alimentare (IPC on Food Sovereignity) recentemente coinvolto nelle “Linee Guida Volontarie sulla gestione responsabile della terra”, approvate dalle Nazioni Unite in ambito CFS/FAO e numerosi coordinamenti e campagne».

Una scena del film "Dert"
Una scena del film “Dert”

Crocevia, come dice il nome stesso, mira sin dalla sua fondazione a essere un punto di incontro di culture e di realtà sociali differenti, attraverso campagne e progetti di sostegno agli agricoltori in difficoltà di tutto il mondo, alle vittime di ingiustizie politiche, economiche, ambientali e sociali, e si schiera attivamente per la difesa dei diritti collettivi sulla terra (contro il landgrabbing), la crisi alimentare e il diritto al cibo, vantando collaborazioni con attivisti del calibro di Thomas Sankara, Samara Machel, Graca Machel, Yasser Arafat, Lula e Ka Memo.
Crocevia possiede, inoltre, un archivio multimediale in cui conserva testimonianze audiovisive sulle diverse forme del rapporto tra Terra e Uomo alla portata di tutti che ha l’obiettivo di esaltare il valore identitario dell’agricoltura tradizionale e il ritorno alla terra come risposta sostenibile al sistema economico vigente.

Una scena del film "Earth. Due parole sul futuro"
Una scena del film “Earth. Due parole sul futuro”

 

Il 3 dicembre alle ore 18,30, inoltre, si svolgerà un focus sulla legge quadro per l’agricoltura contadina tuttora in discussione alla Camera dei deputati dal titolo “Riforma agraria tra passato e futuro”, in compagnia di Antonio Onorati del Centro internazionale Crocevia, Aboubakar Soumahoro dell’Unione Sindacale di Base e Adriano Zaccagnini portavoce della “Campagna per l’Agricoltura Contadina”. Al termine del dibattito che si svolgerà alla Cineteca Nazionale verranno proiettati due cortometraggi emblematici: il primo è 16 anni dopo melissa, una testimonianza d’autore dell’occupazione delle terre di Melissa (Kr) girato dal documentarista calabrese Mario Carbone nel 1965 e il secondo è Nuovi Braccianti antichi problemi, di autori vari sulla difesa dei diritti della terra e la nascita del Coordinamento Nazionale dei Braccianti.

Una scena dal film "Voices from Gezi"
Una scena dal film “Voices from Gezi”

Le attività del giorno di chiusura del Festival (il 4 dicembre) si svolgeranno alla Città dell’Altra Economia, con un programma fitto di eventi diversi riuniti nella giornata-evento “Il futuro non è scritto”: dalla mattina alle 9,00 sarà possibile visitare la mostra pittorica di Genny Sammartino e di Flavio Copotorti, alle ore 17,00 ci sarà la proiezione del cortometraggio sulla gestione alternativa delle terre nel ferrarese girato da Concetta Fratto e Pino Iannelli Tra terra e acqua. Alle 18,00 è prevista la presentazione del libro di Tullio Bugari L’erba degli zoccoli, all’interno di un reading concerto con le musiche originali di Silvano Staffolani, alle 19,00 ci sarà un aperitivo biologico e alle ore 19,30 avrà luogo la premiazione del Festival delle Terre.

Alle 21,00, per chiudere, nella Sala Oceania ci sarà il concerto di Don Pasta, l’autore di “La parmigiana e la rivoluzione”, celebrato dal New York Times come “attivista del cibo”.

La carica di Goldman Sachs: con Trump Wall Street torna alla Casa Bianca

C’è uno spot della campagna di Donald Trump, uno di quelli fatti meglio, in cui scorrono immagini della famiglia Clinton nei luoghi del potere. Accanto a loro una serie di personaggi, più o meno noti al grande pubblico, per dare l’idea di, come sentiamo dire dal neoeletto presidente degli Stati Uniti sullo sfondo, «un establishment politico globale» che ha rovinato il Paese, fatto scappare le fabbriche ed è colluso con le banche e la finanza. Tra le figure che scorrono sugli schermi c’è anche l’amministratore delegato di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, mentre parla a un convegno della Clinton Global Initiative.

In campagna elettorale Trump ha promesso di «ripulire la palude» dalla melma degli interessi e dei poteri forti come quelli raccolti dalla fondazione di famiglia dei Clinton. La rabbia contro le élite era stata una delle chiavi per guadagnare consensi e distinguersi dal resto dei candidati repubblicani alle primarie. Ora Trump mette fine alle sue promesse elettorali scegliendo come Segretario del Tesoro l’ex banchiere di Goldman Sachs Steven Mnuchin, 53 anni di cui 17 spesi nella banca di investimenti. Si tratta del terzo banchiere Goldman Sachs che ricopre questo incarico, prima vennero Rubin, con Clinton e Paulson, con Bush (assieme cancellarono il Glass-Steagal Act di Roosevelt che distingueva tra banche d’affari e di risparmio, creando le condizioni per le bolle finanziarie e la ciris del 2008).  Il futuro Segretario al Tesoro è la figura che dovrà far quadrare due promesse in totale contraddizione tra loro: tagliare le tasse e spendere miliardi in infrastrutture. Un compito improbabile affidato a un insider del mondo della finanza che dopo essere uscito straricco da Goldman Sachs è passato a investire nell’industria cinematografica – è uno dei finanziatori di successi come X Men, Avatar e American sniper – ma che non ha esperienza di lavoro politico o amministrativo. Mnuchin si è attirato diverse critiche in passato per aver speculato su gente incapace di pagare il mutuo quando ha comprato con altri finanzieri la banca fallita a causa dei subprime IndyMac.

Mnuchin ha promesso tagli alla corporate tax e un bonus fiscale per la middle class. Ovvero molte meno entrate per il bilancio federale. Ora, in questi anni i repubblicani hanno fatto barricate contro le proposte di spesa di Obama, ingaggiando bracci di ferro procedurali in Congresso e arrivando in più di un’occasione a un passo dal default. Sarà interessante vedere cosa faranno i difensori del pareggio di bilancio oggi. Del resto, sarà bene ricordarlo, l’epoca in cui il deficit federale è volato alle stelle, sono quelli di Reagan.

C’è poi l’altro aspetto: i tagli alle tasse, negli anni di Bush e anche prima, non hanno funzionato come strumento per far crescere l’occupazione e ridimensionare le diseguaglianze, che sono cresciute in maniera costante e hanno cominciato a ridursi – con l’aumento dei salari reali – solo a partire dal 2015. Proprio la dinamica dell’economia nazionale, con una crescita che tutto sommato è sostenuta e i salari reali che hanno ripreso a salire dopo molti anni, potrebbero però aiutare Trump a dare l’impressione di fare bene. Se Obama ha pagato il costo della crisi, nonostante fosse un senatore quando questa è esplosa, così il neo presidente potrebbe approfittare del miglioramento dei numeri dell’economia americana.

Altra notizia è che il vice di Blankfein, Gary Cohn, ha visto Trump e potrebbe diventare capo dell’Office of Management and Budget – così riferisce Politico.com. Cohn sarebbe il terzo esponente della grande finanza a entrare nell’amministrazione repubblicana: Wilbur Ross, detto il “re delle bancarotte” per come nella sua carriera ha guadagnato comprando imprese sull’orlo del fallimento, sarà Segretario al Commercio, con il compito di ricontrattare gli accordi commerciali come il Nafta. Tutti assieme lavoreranno anche alla cancellazione della legge Dodd-Frank, che con enormi limiti, aveva introdotto alcune regole per la finanza e le banche (ad esempio dei limiti nell’esposizione).

Nel complesso non si tratta di figure estreme, hanno rapporti anche con le ali moderate e navigate del partito democratico, ma di personaggi che faranno gli interessi delle banche e della finanza e che sono esattamente coloro contro i quali certo elettorato di Trump ha votato (o certo democratico non ha votato Clinton). In una prima fase il presidente eletto ha concesso molto all’ala conservatrice e bigotta del partito con Michael Pence alla vicepresidenza e i segretari alla educazione e alla sanità, Betsy DeVos e Tom Price, una molto favorevole ai voucher per la scuola privata e l’altro feroce nemico della riforma sanitaria di Obama – e forse con la nomina di Ben Carson alla Casa e sviluppo urbano. Poi ci sono le concessioni alla nuova destra (Steve Bannon) e ai falchi (il capo della Cia e il consigliere per la sicurezza nazionale). Oggi siamo alla rassicurazione dei cosiddetti poteri forti e al tradimento delle promesse elettorali. Resta da vedere come e quanto la capacità di organizzare il consenso e raccontare un’altra storia da parte dello stratega Steve Bannon riusciranno a far dimenticare che l’idea venduta da Trump era, appunto, quella di spazzare via i banchieri e i potenti.

 

 

Many keys

Sono d’accordo con Prodi. E per questo voterò no.

Romano Prodi durante il convegno organizzato dal Messaggero "Obbligati a crescere", Roma, 5 ottobre 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Dice Prodi che le riforme contenute nella revisione costituzionale del trio Renzi-Boschi-Napolitano  “non hanno certo la profondità e la chiarezza necessarie” e chiarisce che molto dipenderà anche dalla “riforma della legge elettorale”.

Sono d’accordo con lui. Completamente. La revisione costituzionale pensata dal governo e caldeggiata da Renzi in ogni dove (e già questo mette i brividi, a proposito di ruoli e responsabilità di garanzia) è una superficialissima accozzaglia (cit.) di meccanismi imperfetti che con l’idea di superare l’esistente non fanno altro che moltiplicare i processi legislativi e spezzettare competenze in modo non chiaro (appunto) e inconcludente.

La differenza tra me e Prodi è che questi motivi mi spingono a votare convintamente no mentre il Professore propende per il sì. Quella che Prodi definisce “una modesta riforma costituzionale” (alla faccia del cambiamento epocale evocato dai sostenitori del sì) in effetti ha la forma di un pollo che pretende di volare.

Dice Prodi che “nella vita è meglio succhiare un osso che un bastone” e ha tutto il diritto di crederlo ma nella vita ci sono temi e momenti che richiedono di tenere la barra dritta, di rifiutare mediazioni al ribasso che sono spesso solo l’introduzione di storture ben più grandi e di prendere una posizione, parteggiare, essere partigiani. Se si fossero accontentati dell’osso al posto del bastone questa nostra Costituzione non sarebbe mai stata scritta e anche per questo mi piacerebbe che non venisse sporcata con approssimazione. La differenza tra me e Prodi forse è la stessa tra chi si accontenta per stanchezza e chi invece non svende al ribasso la speranza. Già, speranza, che scritta così sembra una parola altissima in questa tenzone referendaria ma è solo un problema di nanismo dei protagonisti. Ne sono convinto.

Col “meglio che niente” compro gli spazzolini o scelgo una pizzeria quando si fa tardi ma non tocco la Costituzione. No.

Buon giovedì.

Pablo Iglesias: «Femminilizzare la politica? Non basta che ci siano più donne». Si apre il dibattito anche in Podemos

MADRID 27 09 2016 POLITICA Pleno en el Congreso de los Diputados Pablo Iglesias e Inigo Errejon Podemos FOTO JOSE LUIS ROCA

“Un Podemos feminista, feminizado y ganador”. Non le è servita a strappare la guida di Podemos a Madrid, ma con questa campagna Rita Maestre ha aperto il dibattito nel partito spagnolo. La candidata del “contendente” di Pablo Iglesias, Íñigo Errejón, dopo aver perso contro Ramón Espinar (candidato di Iglesias), chiede una maggiore apertura al protagonismo femminile.

Pablo Iglesias dal canto suo non si sottrae: «Non basta dire di essere vincitori e femminilizzati, che va dimostrato con la pratica politica. Vincitore è chi vince», risponde secco il segretario generale a Maestre, da sempre critica rispetto all’assenza di donne negli incarichi di direzione del partito. La replica di Iglesias, infatti, suona come una bacchettata all’oppositore Errejón, che ambisce a ricoprire il suo ruolo, ma è anche un’occasione per aprire nel partito e nel Paese una riflessione sulla “questione femminile”.

«La femminilizzazione non ha niente a che vedere con il fatto che ci siano più donne nelle posizioni di rilievo dei partiti politici e negli incarichi di rappresentanza» ha detto il leader di Podemos a El Pais, «questo è certamente importante ed è una buona cosa. E la femminilizzazione non ha niente a che vedere nemmeno con la presenza di più donne nei consigli d’amministrazione delle grandi imprese».

Insomma, femminilizzare, per Pablo, significa «trasferire nella politica ciò che le nostre madri ci hanno insegnato: avere cura degli altri. Significa costruire comunità». Per chiarire il concetto, aggiunge: «Non serve a niente che le donne rivestano incarichi politici se non sono femminilizzate. È una pratica da decostruire, e non basta sostituire i portavoce maschi con i portavoce maschi che sono donne».

Il video relativo al rapimento di Roberto Zanotti è su un sito russo dal 22 novembre

Sergio Zanotti, ostaggio in Siria, in un frame del video mentre chiede l'intervento del governo italiano per evitare una sua "eventuale esecuzione", 29 novembre 2016. ANSA / FRAME VIDEO NEWSFRONT

Il 22 novembre al desk di Newsfront, ricevono una foto. Si tratta dell’ex imprenditore italiano Sergio Zanotti scomparso sette mesi fa in Turchia, dove era andato a trovare degli amici. La sua ex moglie, dopo non aver più ricevuto sue notizie e aver allertato la Farnesina, lo credeva morto e di Sergio, 56 anni, bresciano, tre figlie, si era persa ogni traccia fino ad allora. Fino a quando sul monitor di Kate, alle ore 21.29 del 22 novembre scorso, appare la foto di un uomo da solo, in piedi, scalzo in mezzo agli ulivi, con un pezzo di carta in mano su cui c’è la data del 15 novembre. “Ciao, cos’è questo?” scrive Kate. “Sei donna o uomo? Sei russo?” le chiedono, e lei risponde che non è importante la sua identità ma no, non è russa. Chi è l’uomo della foto, dov’è? È un prigioniero italiano, ma “fammi altre domande, non come l’ho preso. Per sapere chi è vedi il suo passaporto”.

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Sulla schermata Kate vede apparire il passaporto di Sergio Zanotti, nato in provincia di Brescia il 23 febbraio 1960. Il messaggio successivo dice: “il mio nome è Abu Jihad, i am in chief for european prisones, sono in comando per i prigionieri europei, questa persona è nelle nostre mani”. Nelle nostre mani è un’espressione che usa anche dopo, quando il sedicente jihadista dice che hanno rapito anche altri prigionieri, tutti stranieri: “europei, americani, russi ci combattono, stop bombs in Siria. Ho altre notizie, ma per stasera ne avete abbastanza”.

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La lingua con cui comunica il jihadista che dice di chiamarsi Abu Jihad è arabenglish sgrammaticato. Scrive dal profilo di Almed Medi che ora è stato chiuso e risulta impossibile da ricontattare, ma, come hanno scritto a Kate, chiunque ci sia stato davvero dietro lo schermo, altre notizie, su altri prigionieri europei, arriveranno solo dopo la distribuzione del video di Zanetti. Non vengono chiesti riscatti, anzi, dice Abu, avrei potuto chiederti dei soldi, i media pagano migliaia di euro per questi video, ma io non voglio soldi.

Nel video che Abu invia al desk di Newsfront il prigioniero non è più solo come in foto, dietro la sua barba lunga e bianca come la sua tunica, c’è un uomo vestito di nero, dal volto coperto, con una mitragliatrice. L’italiano dice come si chiama, che è prigioniero da sette mesi, “prego il Governo Italiano di intervenire per evitare la mia esecuzione”. Si tratta di Sergio Zanetti, partito mesi fa per la Turchia, come confermeranno intelligence, Farnesina e Copasir. Intanto Kate prova ad avere altre notizie, più dettagliate ma con scarso risultato. Abu jihad è perentorio: “il tuo lavoro è pubblicare il video, il Governo italiano troverà the road to us, il modo per contattarci”. È quello che si legge negli screeshot delle schermate che manda Kostantin Knyrik, che gestisce il sito russo Newsfront, che diffonde notizie su internet in spagnolo, inglese, russo, tedesco, bulgaro, serbo.

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A telefono Kostantin dice che non capisce perché la notizia sia diventata “una notizia solo adesso, ormai cinque giorni dopo. Noi abbiamo pensato che questa persona era in pericolo, volevamo fare qualcosa, abbiamo anche provato a farci dire dove fosse esattamente in Siria, ma non rispondeva a tutte le domande, la perepiska, la conversazione sul social network è stata breve”. Dopo aver ricevuto il passaporto e il video, Newsfront ha contattato degli specialisti per fargli sentire l’accento dell’uomo e capire se fosse davvero un italiano. Poi “abbiamo tentato di verificare se il passaporto fosse vero e in seguito, abbiamo deciso di pubblicare il video, perché avevano detto che se non lo avessimo diffuso, lo avrebbero ucciso. Forse il video era stato mandato anche ai media italiani, ma nessuno lo ha pubblicato, forse se non si sa che c’è qualcuno da salvare, non c’è problema”.

Referendum, ecco perché la casalinga di Voghera deve conoscere la riforma

Un momento nell'aula della Camera dei deputati durante le votazini sulla legge di Bilancio per l'anno finanziario 2017, Roma, 28 novembre 2016, ANSA/GIUSEPPE LAMI

La riforma costituzionale deve essere conosciuta da tutti, non ci possono essere diseguaglianze, cittadini “esperti” di serie A e cittadini “ignoranti” di serie B. Lo dice il costituzionalista Massimo Villone rispondendo a Michele Serra nell’incontro coordinato dalla direttrice di Left Ilaria Bonaccorsi durante la festa della Costituzione a Roma dal 14 al 16 ottobre. Villone spiega molti altri punti del ddl Boschi-Renzi durante l’incontro di cui pubblichiamo il resoconto.

Michele Serra scrive sulla sua Amaca del 16 ottobre che alla casalinga di Voghera e al barista di Trani non interessa la riforma costituzionale e che chiedere loro «di pronunciarsi sul bicameralismo imperfetto è puro sadismo». Meglio lasciare la cosa agli esperti, dice l’opinionista di Repubblica. La replica è immediata e arriva nello stesso giorno dalla festa della Costituzione a Roma. «In democrazia accade che qualcuno non sia consapevole e forse la signora e il barista non sanno che questa riforma li riguarda direttamente, ma se è così, allora bisogna fare tutto il possibile per spiegarglielo. Altrimenti che facciamo? Torniamo a 150 anni fa, al voto per censo? Oppure tagliamo le teste o il diritto di voto? Se quello che dice Serra dovesse essere adottato come progetto di riforma costituzionale addirittura torneremo a poco prima della Rivoluzione francese. È una bella forma di modernità, dovremo consigliarla a Renzi che così almeno si fa una cultura storica!». Il costituzionalista Massimo Villone sul palco, piegato sulla sedia sorride amaro rivolgendosi al pubblico accorso alla Città dell’Altraeconomia. È l’ultimo giorno della festa della Costituzione promossa dal Comitato romano per il No al referendum, sul palco insieme a Villone c’è anche l’ex sindaco Ignazio Marino per il secondo incontro coordinato da Left. A entrambi, Ilaria Bonaccorsi rivolge domande molto puntuali, ma soprattutto riporta il cuore del problema – davvero la casalinga di Voghera e il barista di Trani non sono interessati o addirittura non sarebbero in grado di comprendere la riforma Renzi Boschi, come scrive Serra? – oppure tutti i cittadini possono comprendere cosa c’è scritto nella nuova Costituzione. Ma non solo. Il direttore di Left aggiunge un terzo personaggio, un altro simbolo di questa Italia, alle prese con una campagna referendaria che divide il Paese tra guelfi e ghibellini senza entrare nel merito della revisione costituzionale. «Un amico ingegnere – racconta – mi chiedeva “ma se il Senato ormai non conta più nulla, non dà più la fiducia, perché indignarsi così tanto se non votiamo più per eleggere i senatori?”».

Così, la casalinga, il barista e anche l’ingegnere, diventano i tre personaggi non tanto in cerca d’autore ma di risposte sul presente. E il professore emerito di Diritto costituzionale spiega con calma, si lascia andare anche all’ironia, come quando immagina scenari post vittoria del Sì: «Se avete corna, cornetti, toccate ferro, toccate legno!». Ma poi spiega rigoroso: «Bisogna dire alla casalinga e al barista che questa riforma mette a rischio la democrazia, perché riduce gli spazi di partecipazione e indebolisce il Parlamento, visto che il diritto di voto è solo per una Camera. E un Parlamento non rappresentativo, e cioè che non ti rappresenta, non può fare le politiche che interessano i nostri due protagonisti: far pagare le tasse a chi ha di più, impiegare più risorse nei servizi pubblici fondamentali come la salute, l’istruzione, i trasporti e magari non in opere mastodontiche e inutili, e non mettere invece il bavaglio alle autonomie locali, come è accaduto per le trivelle». Villone si rivolge anche allo scettico ingegnere dei Parioli e sottolinea come l’elezione diretta dei senatori non sia una «questione di estetica costituzionale», cioè qualcosa di astratto, ma invece è qualcosa di molto concreto. «In quella sede, nel Parlamento, si fanno le regole che entrano nelle vostre vite, nelle vostre tasche, nella vostra salute e nella vostra informazione». E fa un esempio: dal 2006, da quando è entrata in vigore la legge elettorale detta Porcellum – poi spazzata via da una sentenza della Corte costituzionale nel gennaio 2014 – «si è rotto il rapporto tra l’eletto e l’elettore. I parlamentari hanno perso le radici, non rappresentano più nessuno». E così è arrivata l’approvazione di leggi «esecrabili» come il Jobs act o la Buona scuola. «Il Parlamento ha fatto delle leggi contro i mondi che cercavano di fermare quelle leggi. Ebbene, quel Parlamento è chiuso, non disponibile all’ascolto, un luogo dove le donne e gli uomini di questo Paese non hanno ingresso». E così accade che con il dissolversi dei partiti politici e l’indebolirsi dei sindacati il Parlamento non ha più il polso della situazione del Paese «per cui, nonostante il referendum travolgente a favore dell’acqua pubblica, si continua a cercare di privatizzare l’acqua. E ditemi, queste non sono cose che interessano al barista di Trani?», chiede Villone. Il voto per il Senato è importante, è un diritto fondamentale, come un «farmaco salvavita nel sistema sanitario». «Perché lasciarlo nelle mani di pezzi di ceto politico che saranno lì seduti a dire, io faccio il presidente, tu fai l’assessore e tu ancora fai il senatore», aggiunge il costituzionalista riferendosi alle nuove modalità di elezione dei senatori all’interno dei Consigli regionali. Il rischio del voto indiretto è dietro l’angolo, basta guardare cosa è successo alle elezioni dei consigli delle Città metropolitane. «A Napoli si è votato per una città enorme, 3 milioni e 200mila abitanti, l’elezione era tra i consiglieri comunali e i sindaci di 500 comuni della Campania. Ma la gente non sapeva nulla. Queste elezioni sono scomparse nella bassa cucina delle forze politiche. Non c’è stato un programma, un dibattito, non si sa nemmeno chi è stato eletto, solo poche righe sui giornali. Ecco, è esattamente lo stesso meccanismo che si vuole introdurre per l’elezione dei senatori».

Poi Massimo Villone sfida il pubblico a seguirlo in un ragionamento sofisticato, su un paio di passaggi di questa revisione che non sempre si riesce a cogliere. Uno riguarda la norma per cui il governo può chiedere alla Camera il “voto a data certa”. Ma perché lo fa? Non ci sarebbe bisogno, dice, perché quando un presidente del Consiglio che è anche segretario – come nel caso di Renzi – ha la maggioranza, ha tutti gli strumenti per controllare la formazione di una legge. «Ha eletto il presidente dell’Assemblea, ha eletto tutti i presidenti delle Commissioni dove si discute il testo, ha la maggioranza delle Commissioni, controlla la conferenza dei capigruppo che decidono i tempi parlamentari, controlla l’ufficio di presidenza, la Giunta per il regolamento. Insomma ha tutti gli snodi parlamentari in mano, tanto è vero – ricorda – che leggi come il lodo Alfano sono state approvate in tre settimane, nonostante un’opposizione durissima». Ma allora a che serve questa norma che condiziona così tanto il calendario della Camera? «È un meccanismo in realtà per normalizzare la maggioranza di governo e mettere all’angolo le voci dissenzienti,  senza sollevare polemiche e articoli di giornale con il voto di fiducia. Così si gestisce con serenità i lavori parlamentari mettendo il bavaglio alla minoranza interna», dice Villone. Ma con la revisione, «come si normalizza la maggioranza si normalizza anche il dissenso in sede locale», continua il giurista affrontando il secondo passaggio, quello della “clausola di supremazia” del Titolo V per cui lo Stato può prevalere sulla competenza legislativa regionale per questioni di interesse nazionale e per l’unità giuridica ed economica della Repubblica. Ma era garantito anche prima il potere dello Stato, adesso la nuova norma ha più il sapore di “esproprio” per dirimere questioni scottanti. Il caso trivelle docet, come anche i depositi di scorie nucleari, motivi di dissenso a non finire.

Il costituzionalista tocca poi altri punti, il famigerato “combinato disposto” – «una formula che i giuristi amano moltissimo perché dopo può succedere qualsiasi cosa» – tra Italicum e revisione costituzionale e la disuguaglianza nel voto tra il partito che si prende i 340 seggi di premio e gli altri a cui tocca il resto. E poi non dimentichiamoci che i candidati eletti per il 70% sono quelli nominati dai segretari di partito. Lo scenario che dipinge è inquietante: «Io, partito di maggioranza, posso eleggere il presidente della Repubblica, mi bastano pochissimi voti, così come sono vicinissimo all’elezione dei giudici della Corte costituzionale e dei componenti del Csm. Così si sbilancia l’asse e resto l’uomo solo al comando». Eppure, per migliorare il procedimento legislativo sarebbe bastato intervenire sui regolamenti parlamentari. «Non c’era bisogno di scassare la Costituzione, gli strumenti c’erano. Se lo si fa invece, vuole dire che si vuole scassare la Costituzione per motivi futili e abbietti. Gli stessi argomenti che abbiamo letto nel report di JP Morgan, nelle lettere di Marchionne e della Confindustria. Ma ricordatevi che se il Parlamento non vi rappresenta, potrete urlare quanto vi pare,  nessuno vi ascolterà», conclude Villone esortando il pubblico a non farsi vendere «questo paccotto e questo imbroglio sul fatto che i diritti non verranno toccati». E alla fine, sceso dal palco, si avvicina un uomo alto che lo ringrazia per le parole. È l’ingegnere.

(Da Left n.43 del 22 ottobre)

La bellezza ferita dei luoghi colpiti dal terremoto, un mese dopo

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Esterno San Pellegrino, Norcia

Proprio stanotte, la terra ha tremato ancora, a Reggio Emilia. Una magnitudo di 3.7 che ha buttato giù dal letto perfino i cittadini parmensi. Nonostante siano passati 4 anni dal terremoto, in Emilia-Romagna il ricordo è ancora vivissimo. Stessa cosa a l’Aquila, dove la terra ha tremato ieri, potenza di 4.4 avvertita da Terni a Perugia e, nuovamente, ad Amatrice.

Noi, a un mese dal terremoto siamo tornati nelle zone colpite dal sisma con Emilio Caslini, giornalista di Report ed autore del libro Rifondata sulla bellezza (Spino editore) in cui compie un viaggio in Italia, raccontandone il patrimonio diffuso sul territorio, ma anche l’insufficienza tutelare.

Gli abbiamo chiesto di raccontarci la bellezza ferita di centri storici e paesaggi dell’Umbria e delle Marche accompagnato dalle foto di Daniele Molajoli e Flavio Scollo che hanno mappato i danni su incarico del Festival di fotografia di Roma, dove ora il loro lavoro è in mostra. La campagna fotografica è avvenuta tra il sisma del 24 agosto e quello del 30 ottobre ed era finalizzata alla mappatura dei beni culturali danneggiati, simboli di un’identità che con il terremoto rischia di andare perduta. Il loro intento era mostrare la fragilità dei siti colpiti e l’urgenza d’intervenire e a tal fine avevano scomposto molte delle facciate di queste chiese. Dopo il crollo di fine ottobre il senso è cambiato e ora la ricomposizione fotografica assume più il senso di ricostruire un’immagine persa. Lanciando un progetto di raccolta fondi.

Casalini sei stato più volte nei paesi terremotati, com’è la situazione?

Ci son grandi differenze tra paese e paese. Prendiamo ad esempio Castelluccio di Norcia e Castello di Campi.
Castelluccio prima del terremoto era un borgo in cui la mano umana aveva fatto scempio della bellezza, ad esempio ricoprendo le stradine di osceno cemento. Qui l’incuria la faceva da padrone fin dalla valle incantata nel cui mezzo era stato realizzato un campeggio di camper, la torre campanaria ottocentesca era stata usata come sostegno per ripetitori telefonici, tubi per cavi ovunque, impalcature arrugginite degrado ovunque. Quando si parla della bellezza di Castelluccio ci si riempie la bocca di retorica e non si ricorda la realtà.
Poco distante invece c’è Castello di Campi, una meraviglia restaurata perfettamente. Un gioiello figlio della cura dell’uomo e dei pochi abitanti come Antonio che, assieme al padre e alla compagna, ha rimesso una per una le antiche pietre del selciato. Ecco, quello è il modello da seguire per la ricostruzione mentre Castelluccio pre terremoto è il modello di ciò che non si deve fare. Il futuro anche di un’accoglienza turistica di alta qualità passa attraverso queste scelte. Quanto alla  messa in sicurezza degli edifici molto è stato detto. Poco invece riguardo le squadre speciali di volontari perfettamente competenti e attrezzati per rimuovere le opere d’arte dai luoghi a rischio, che per mesi non sono stati autorizzati ad operare come invece avrebbero potuto e hanno fatto a l’Aquila. Parte dei manufatti che sono andati distrutti pesano sulla coscienza di chi non ha dato l’ok al loro intervento. Burocrazia e paludismo. Due grandi mali italiani.

In Italia la politica dei condoni, che fu il cavallo di battaglia dei governi Berlusconi, quanti danni ha fatto in un territorio come quello italiano, di per sé fragile?

Immensi. Ma non mi sembra che sia solo un’esclusiva di Berlusconi e dei suoi governi, anche considerando le iniziative di alcuni governatori regionali del Sud Italia negli ultimi anni. Sembra non passi mai di moda visto che continuiamo a costruire abusivamente quando non ne avremmo certo bisogno. Basti pensare a quanti borghi sono abbandonati o in via di abbandono. Quel “territorio minore” è una risorsa che un intero pianeta di viaggiatori avrebbe desiderio di scoprire, pagando pure bene, se fosse offerto in condizioni adeguate. Un territorio abitato significa tutela del patrimonio fisico e anche di quello immateriale, la nostra più grande riserva aurea. Di cui ce ne freghiamo bellamente.

I governi dovrebbero progettare interventi che durino più di due legislature, tu suggerisci e auspichi, troppo spesso però si è preferito intervenire con logiche d’emergenza, in deroga alle leggi che poi si sono dimostrate insufficienti, se non dannose. il caso dell’Aquila insegna. Cosa ne pensi?

Vorrei sentire un presidente del Consiglio che mi parla della “visione” che ha del nostro futuro e poi del programma per indirizzarci verso quell’obiettivo. Il programma e le leggi, sono il progetto e gli strumenti, ma l’idea, la visione è qualcosa di più. Per me il futuro, soprattutto economico, del nostro Paese passa attraverso la valorizzazione del nostro infinito patrimonio culturale, paesaggistico, architettonico, enogastronomico, agricolo e immateriale. Per poi offrirlo al mondo. Con serietà. Ma serve un percorso identitario. Serve recuperare la nostra identità per acquisire in primis la conoscenza, poi la coscienza e infine la consapevolezza di ciò che siamo e abbiamo.

In un dialogo dei Cento passi , che tu citi, Peppino Impastato parla della bellezza come qualcosa di prezioso da cui poi discende tutto il resto. In Italia la bellezza è arte e insieme paesaggio. Oltre ai disastri naturali, però  è minacciata dagli abusi edilizi, dai tombaroli, da chi davvero si venderebbe la fontana di Trevi. Cosa fare di più per tutelarla?

Affidarla alla popolazione locale, ad esempio. Dove l’intervento “privato” è quello della comunità. Sotto controllo e con una relativa formazione. Quando raggiungeremo un livello di consapevolezza adeguato, diventerà inconcepibile gettare una sigaretta per terra, perché quel metro di marciapiede sarà finalmente “di tutti” e non più “di nessuno”. E non staremo zitti vedendolo fare, colmando un gap di civiltà che ci distanzia da altri popoli.
Una coscienza comune può essere contagiosa, ma bisogna anche applicare le leggi, come ad esempio quella che sanziona chi getta un mozzicone e per questo dovrebbe essere sanzionato. Dovrebbe. Educare alla bellezza significa imparare a fare bene le cose.  Oggi abbiamo l’incredibile fortuna di avere in mano ciò che il mondo cerca: una biodiversità della bellezza unica sulla faccia della terra, tutta da condividere. Parliamo di economia, lavoro, benessere. Un’economia che unisce utile ed etico; ed è alla nostra portata. Siamo un popolo di dementi se ci lasciamo sfuggire quest’occasione unica nella storia perché non siamo in grado di adeguare l’offerta alla domanda. Una domanda di bellezza che non solo abbiamo il diritto, ma anche il dovere di condividere con il resto dell’umanità.

Il progetto  di Daniele Molajoli e Flavio Scollo di cui pubblichiamo alcune immagini è in mostra al Macro di Roma, nell’ambito del festival di fotografia diretto da Marco Delogu. La raccolta fondi è qui

Gallery a cura di Monica Di Brigida

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Esterno San Benedetto, Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Esterno San Benedetto, Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Interni San Benedetto, Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Interni San Benedetto, Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Esterno San Pellegrino, Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Esterno San Pellegrino, Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Interni San Pellegrino, Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Interni San Pellegrino, Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Esterno San Salvatore, Campi, Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Esterno San Salvatore, Campi, Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Interni San Salvatore, Campi, Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Interni San Salvatore, Campi, Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Esterno Sant’Andrea, Campi, Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Esterno Sant’Andrea, Campi, Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Interni Sant’Andrea, Campi, Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Interni Sant’Andrea, Campi, Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Esterni Sant’Eufizio, Preci, Perugia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Esterni Sant’Eufizio, Preci, Perugia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Interni Sant’Eutizio, Preci, Perugia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Interni Sant’Eutizio, Preci, Perugia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Chiesa di Frascaro, Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Chiesa di Frascaro, Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Castelluccio di Norcia
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Castelluccio di Norcia

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Sant’Agata, Amatrice, Rieti
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Sant’Agata, Amatrice, Rieti

 

© Daniele Molajoli, Flavio Scollo - Deposito Cittaducale, Rieti
© Daniele Molajoli, Flavio Scollo – Deposito Cittaducale, Rieti

L’Unhcr bacchetta Raggi: il risultato della chiusura di Baobab è che la gente vive in strada

Gli immigrati ospitati nel centro di accoglienza Baobab a Roma, 7 giugno 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Non che il Comune di Roma sia obbligato a rispondere. E non che la lettera dell’Unhcr verrà presa necessariamente sul serio da Virginia Raggi e la sua giunta. Ma l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite ha scritto al sindaco di Roma per esprimere allarme per le centinaia di migranti che dormono all’addiaccio per le strade della capitale, mentre altre migliaia di persone con lo status di rifugiato sono costrette a vivere in abitazioni di fortuna.

«Abbiamo segnalato il problema per mesi e le nostre preoccupazioni sono solo aumentate», ha detto Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr in Italia.

La protesta viene dopo la chiusura forzata del Baobab, il grande centro di accoglienza informale situato a via Cupa, nei pressi della stazione Tiburtina che ha avuto come conseguenza l’aumento esponenziale del numero dei migranti che dormono in strada o in campi di fortuna che vengono regolarmente smantellata dalle autorità – attività che rende tra l’altro più complicato intervenire e aiutare queste persone e persino (se parliamo di sicurezza) identificarle e tenerle sotto controllo.

Carlotta Sami, portavoce per l’Italia dell’Alto commissariato Onu, ha sostenuto che Roma potrebbe imparare da Milano, dove le autorità cittadine hanno aperto nei mesi passati un centro per migranti con il preciso scopo di tenere la gente lontana dai marciapiedi con l’arrivo dell’inverno. L’allestimento di un centro, va fatto notare, contribuisce anche alla diminuzione dell’allarme sociale.

«Abbiamo mandato 100 tende, e tra due dovremo fornirne altre 100», ha sostenuto Raggi. L’Unhcr dice invece che le autorità della capitale non possono chiudere gli occhi sulle condizioni dei rifugiati e delle persone ammesse legalmente a restare in Italia che vivono in campi informali. Raggi ha dichiarato in passato che la priorità della sua amministrazione in materia migranti è quello di fermare il flusso di migranti in città. Il problema non è quindi intervenire su un problema, ma ridurre il flusso a monte. Come si si trattasse di una materia di competenza comunale. L’unico modo per ottenere un risultato simile, viene da pensare, è quello di ridurre al minimo la capacità di accoglienza. La qual cosa presenta due ordini di problemi: quello morale e amministrativo, ovvero il fatto che un’amministrazione che si rispetti non lascia la gente a morire di freddo in strada per scelta – ma questa non è una peculiarità della giunta Raggi, Roma ha una lunga tradizione di mancata accoglienza; il secondo problema riguarda i flussi: Roma è un luogo di passaggio dal Nord a Sud, c’è la chiesa, con le sue istituzioni caritatevoli, ci sono grandi comunità immigrate e per questo pensare di ridurre i flussi che passano per la Capitale è una pia illusione.

Torniamo alla nota dell’Unhcr, dove leggiamo: «L’Agenzia per i Rifugiati evidenzia, inoltre, come anche molti rifugiati presenti da tempo nella città, compresi nuclei familiari con minori, si trovino a vivere in palazzi abbandonati o in insediamenti informali, in condizioni di grave disagio e marginalità. Questa realtà impone una necessaria riflessione sull’opportunità di sviluppare concrete politiche d’integrazione per i beneficiari di protezione internazionale che vivono nella città di Roma, anche attraverso una gestione trasparente e coordinata dei servizi dell’accoglienza dei richiedenti asilo, in linea con le esigenze del territorio». Appunto: politiche coordinate e accoglienza imprescindibile. Qualcuno lo spieghi a Virginia Raggi.

 

Eternit, il processo torna al via e la prescrizione incombe

Il presidio organizzato dalle associazioni vittime di amianto durante la prima udienza del processo Eternit bis presso il Palazzo di giustizia di Torino, 27 ottobre 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Non più omicidio volontario ma omicidio colposo plurimo per Stephan Schmidheiny, il magnate svizzero della Eternit sotto processo per le morti legate all’esposizione all’amianto. Un capo d’accusa, quello con cui il Gup Federica Bompieri lo ha rinviato a giudizio, che ora rischia di cambiare le sorti del processo torinese. Tanto che l’avvocato della difesa ha parlato di «una grossa vittoria».

Non è tanto una eventuale pena ridotta per l’imputato numero uno a preoccupare i familiari degli operai morti, ma la concreta possibilità di prescrizione che si apre con la nuova ipotesi di reato formulata dai giudici del Tribunale di Torino. Secondo l’avvocato di parte civile Sergio Bonetto, la prescrizione potrebbe scattare in un lasso di tempo che va dai 12 ai 15 anni, rischiando di ripetere lo scandalo del primo processo Eternit, negli anni 80, quando dei 70 casi esaminati soltanto uno arrivò in Cassazione a poche settimane dalla prescrizione.

A questo si aggiunge lo smembramento del processo nei tre tribunali competenti per territorio: oltre a quello che resterà a Torino, c’è Vercelli per le morti di Casale Monferrato, dove aveva sede lo stabilimento Eternit più grande, Reggio Emilia per Rubiera e Napoli per le vittime dell’impianto di Bagnoli. La conseguenza, spiegano dall’Afeva, l’associazione dei familiari delle vittime, è che nei tre processi si dovrà ricominciare nuovamente la trattazione del caso, serviranno tre nuove richieste di rinvio a giudizio con la possibilità che il capo d’accusa venga nuovamente modificato. Il vicepresidente di Afeva, Bruno Pesce, ricorda che a Casale Monferrato si conta una vittima di mesotelioma, la patologia causata dall’esposizione alla fibra d’amianto, ogni settimana. E che «la prescrizione tutela gli imputati ma non che paga le pene di aver convissuto con la fabbrica».

Dopo la pronuncia del Gup di Torino si è espresso sulla vicenda anche Raffaele Guariniello, il magistrato, ora in quiescenza, che ha lavorato perché si aprissero i processi a Eternit. In ogni caso, dice Guariniello, va registrato che l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui Schmidheiny è finito nelle maglie della giustizia. E va ricordato che la Consulta ha riconosciuto la possibilità di metterlo alla sbarra ogni volta che il mesotelioma toglie la vita a una persona che ha avuto a che fare con gli stabilimenti Eternit di Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli. Una magra consolazione se poi arriva la prescrizione e la giustizia non fa il suo corso.

 

Leggi anche: Amianto, in Italia 4.000 morti e 85 anni per liberarsene

Schmidheiny, lo ricordiamo, era già stato condannato in appello a Torino a 18 anni di carcere per disastro ambientale, ma poi è arrivata la prescrizione. Nel processo “Eternit bis” Guariniello cambia il capo d’accusa contestando l’omicidio doloso aggravato a 258 persone (tre prosciolte per prescrizione con la pronuncia di ieri). Davanti al giudice Federica Bompieri, la difesa dell’imprenditore svizzero tenta la carta dell’eccezione di competenza territoriale e poi, un anno e mezzo fa, quella della richiesta di annullamento perché ci sarebbe stato un giudizio precedente sulla stessa materia. Investita della questione, la Corte Costituzionale a maggio scorso ha stabilito che si potesse procedere perché dalla condotta potenzialmente illecita di Eternit sono scaturite conseguenze, vale a dire nuovi decessi, non valutate nel precedente processo.

Il processo prosegue, dunque, fino alla pronuncia di ieri, 29 novembre, con il gup che ha deciso però di derubricare l’accusa, il procedimento che torna alla fase delle indagini preliminari e sarà spezzettato in quattro diversi tribunali. Intanto il tempo passa e la prescrizione incombe.