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A Vienna nasce il “Patto europeo per il progresso sociale”

epa05651732 German Vice Chancellor Sigmar Gabriel (L) speaks to Austrian Chancellor Christian Kern (2-L) and Sweden's Prime Minister Stefan Loefven (R) during the press conference 'An European pact for a social progress' in Vienna, Austria, 29 November 2016. Austrian Chancellor Christian Kern invited German Vice Chancellor Sigmar Gabriel, Sweden's Prime Minister Stefan Loefven, Chairman of the Confederation of German Trade Unions (DGB) Reiner Hoffmann, President of Austrian Trade Union Erich Foglar and President of Swedish Trade Union Karl-Petter Thorwaldsson to discuss 'An European pact for a social progress' on a two days meeting in Vienna. EPA/CHRISTIAN BRUNA

Martedì 29 novembre, i rappresentanti dei partiti socialdemocratici e dei sindacati di Germania, Austria e Svezia si sono incontrati a Vienna, per sottoscrivere una carta comune per un’Europa del progresso sociale. Il “Patto europeo per il progresso sociale” contiene dieci punti strategici e ribadisce a chiare lettere che c’è bisogno di «un’Europa sociale […] un’Europa delle persone, oltre che dei mercati».

Il Segretario generale del Partito socialdemocratico tedesco (Spd), Sigmar Gabriel, ha affermato che «l’Europa del Mercato unico è arrivata al suo limite naturale». L’obiettivo dichiarato del leader della Spd è quello di dare «una direzione a questa Unione».

Il Cancelliere austriaco – nonché leader del Partito socialdemocratico austriaco (Spö) -, Christian Kern, ha anche commentato l’avanzata delle forze populiste nel Continente: «Siamo difronte a un abisso». Inoltre, Kern ha messo in guardia rispetto a una «competizione fiscale al ribasso» tra Paesi dell’Ue: una critica che arriva diretta a Budapest e Londra, dove i rispettivi governi stanno agendo proprio in questa direzione da qualche settimana.

Il Segretario della Federazione sindacale tedesca (Dgb), Reiner Hoffmann, ha avvisato che «se l’Europa continuerà ad agire come ha fatto finora, non possiamo escludere il suo fallimento». «Ci siamo scordati di mettere al centro del progetto di integrazione le persone».

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Rendere potabile il veleno e chiamarlo modernizzazione

Al di là degli articoli, al di là dei percorsi parlamentari e anche al di là degli scivoloni propagandistici Matteo Renzi (e più di lui il renzismo con i suoi camerieri) è responsabile del delitto di inversione di marcia camuffata. Il capitale politico e sociale di speranza che ha accompagnato (e garantito) l’ascesa al potere del giovane democristiano di Rignano è qualcosa che difficilmente sarà possibile coagulare un’altra volta in tempi brevi.

Ubriacati dall’ansia di cambiamento in molti hanno visto nel renzismo la possibilità di reale partecipazione, di disarticolazione dei vecchi apparati, di fermezza nelle posizioni, di umanizzazione della politica e di riforme senza scuse. Forse sarebbe il caso di dichiarare l’aministia per chi ci ha creduto, forse sarebbe il caso di provare a ripartire da qui. Sebbene sembri passato un secolo lo sbocciare del renzismo è stato accompagnato dalla sensazione popolare di una cambio di passo che ha vivificato pezzi del Paese che stavano nauseati ai margini della politica: troppo poco ingenui per credere al fanculismo grillino e troppo logorati dal sinistrismo inconcludente molti elettori hanno appoggiato Renzi nella sua cavalcata destruens confidando in una pars construens che non avrebbe potuto essere peggio di quel che s’era visto.

Lui invece ha tradito nel più diabolico dei modi: ha servito gli stessi insopportabili poteri con luccicante simpatia, ha riabilitato scarti nobilitandoli con il proprio alone e continua a essere circondato dagli stessi pretoriani di quegli altri. C’è di fondo un peccato originale in questa revisione costituzionale che ci vorrebbero fare digerire: il mettere in belle parole ammantate di Costituzione una centralizzazione dei poteri sul governo che almeno prima si esercitava di nascosto. Costituzionalizzare il berlusconismo dandogli una cantilena toscanaccia è il capolavoro. Rendere potabile il veleno e chiamarlo modernizzazione: non ci avrebbe creduto nessuno che sarebbe stato possibile.

Buon mercoledì.

Austria, l’appello della sopravvissuta ad Auschwitz contro la destra diventa virale

Il candidato della destra nazionale austriaca Hofer
epa05533157 Right-wing Austrian Freedom Party (FPOe) presidential candidate Norbert Hofer (R), leader of the FPOe Heinz-Christian Strache (C) and deputy governor of Upper Austria Manfred Haimbuchner (L) wave flags on stage at the kick-off rally to the repeat of the Austrian Presidential election runoff in Wels, some 200 kilometers western of Vienna, Austria, 10 September 2016. The Austrian Constitutional Court had overturned an earlier result of the Austrian Presidential election which was won by Austrian presidential candidate and former head of the Austrian Green Party Alexander Van der Bellen, after the FPOe complained of alleged irregularities in the postal ballot. The repeat of the Austrian Presidential election runoff will take place on 02 October 2016. EPA/ALEXANDER SCHWARZL

Il 4 dicembre non si vota solo per il referendum costituzionale: gli austriaci dovranno decidere se eleggere un estremista di destra, Norbert Hofer, candidato del FpO (partito austriaco della libertà) alla guida dello Stato. Sarebbe la prima volta dal Dopoguerra in Europa. E non sarebbe un bel vedere.

Come si ricorderà, l’Austria torna alle urne dopo che l’ambientalista Alexander Val Der Bellen aveva vinto di un soffio (30mila voti) e la destra aveva fatto appello per irregolarità formali nel voto postale. Che erano state accettate dalla commissione elettorale. Dopo sei mesi si torna alle urne e i sondaggi parlano di un nuovo testa a testa con i due rivali che duellano su islamofobia, immigrazione ed Europa. Con Hofer che cerca di ammorbidire la sua immagine e promette che non ci sarà nessuna uscita dall’Unione europea, se questa farà le concessioni necessarie.

A fare notizia, in questo contesto, è un video postato sulla pagina Facebook da Van Der Bellen e visto da più di tre milioni di persone in pochi giorni. I numeri sono alti perché il video è in tedesco, senza sottotitoli – le versioni postate su YouTube hanno i sottotitoli, ma il dato riguarda solo l’originale. Si tratta della video-testimonianza di una donna di cui sappiamo solo il nome, Gertrude, 89enne deportata ad Auschwitz assieme a tutta la famiglia (nella foto) quando aveva 16 anni. È lei, al centro, l’unica sopravvissuta.
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Seduta a un tavolo, come vedete qui sotto, Gertrude dice cose semplici quanto vere: «Gli insulti nei confronti degli altri, la denigrazione, è ciò che più mi disturba…la mancanza di rispetto e la volontà di tirare fuori dalla gente, da un popolo, gli aspetti peggiori. Quando fecero pulire le strade agli ebrei, la gente di Vienna, uomini e donne, stava li a guardare, indicava e rideva. Oggi cercano di farlo di nuovo (quelli del FpO, ndr) e la cosa è dolorosa e mi spaventa».

Poi Gertrude fa riferimento a un discorso del leader del partito di Hofer, Heinz-Christian Strache, che a fine ottobre ha parlato della «politica criminale di Merkel sull’immigrazione che porterà nel medio termine alla guerra civile». «Quando ha detto quelle parole mi è corso un brivido lungo la schiena, quelle parole non dovrebbero nemmeno essere usate, pensate. Ho sperimentato una guerra civile quando avevo sette anni, è la prima volta che ho visto cadaveri, purtroppo non l’ultima. E non li ho mai dimenticati».

Il partito di Hofer è passato attraverso molte mutazioni, ma è stato fondato nel 1955 da Adolf Reinthaller, ex ministro dell’Agricoltura nazista ed è parte di una tradizione pan Germanica che con l’avvento del nazismo viene di fatto assorbita dal campo nazionalsocialista austriaco – e nel dopoguerra viene messo sotto accusa per collaborazionismo. Negli anni 90, sotto la guida di Jorg Haider, raggiunge percentuali sopra il 20%, per poi crollare attorno al 10% negli anni 2000 – negli 80 era al 5%. Con l’ondata populista di questi anni, l’FpO ha ripreso a crescere tornando attorno al 20% e arrivando al ballottaggio dello scorso maggio con il candidato più votato. Oltre al tema del nazionalismo, del ritorno alla sovranità nazionale e alla fine della cessione dei poteri, la destra nazionale utilizza spesso anche un altro degli argomenti tipici del populismo di questi anni: il rancore contro i burocrati di Bruxelles servi delle banche e delle multinazionali.

«Credo che quando si va a votare non serve solo pensare: “Questo ha detto una frase che mi piace» ma riflettere su cosa farà con il potere e come i cambiamenti che porterà avranno effetto sul futuro. Questa è la mia ultima elezione, non c’è gran futuro per me, ma i giovani dovrebbero riflettere su cosa votare». C’è da sperare che i giovani austriaci vedano tutti questo video. Quanto a Gertrude, saputo del successo ottenuto online si è detta «piacevolmente sorpresa che le parole di una vecchia signora siano state prese sul serio».

Il video sottotitolato in inglese

Quattromila morti l’anno per amianto. E 85 anni per ripulire l’Italia

Worn danger sign with metal door.Need more textures

«Una vera e propria emergenza nazionale», l’ha definita il presidente del Senato Pietro Grasso aprendo, a 24 anni dalla legge 257 che vietava l’utilizzo del pericoloso materiale, la seconda Assemblea nazionale sull’amianto, nel corso della quale è stato presentato il disegno di legge con Testo unico ad hoc elaborato dalla Commissione infortuni sul lavoro in collaborazione con l’Università degli studi di Milano. «Il quadro normativo si è dimostrato inadeguato per contraddittorietà, sovrapposizioni, discontinuità – ha ammesso il ministro della giustizia Andrea Orlando -. Da qui l’esigenza non più derogabile di un Testo Unico sulla materia».

Sono 128 articoli suddivisi in 8 titoli, dall’ambiente alla sicurezza sul lavoro, dallo sviluppo alla giustizia, i cui punti chiave sono: obbligo di denunciare gli edifici con presenza di amianto e obbligo di bonifica; fondo per le vittime e i familiari e più tempo per concludere i processi con termini di prescrizione raddoppiati; l’istituzione dell’Agenzia nazionale amianto.

L’obiettivo, ha spiegato la senatrice Camilla Fabbri, prima firmataria del testo e presidente della Commissione di inchiesta sugli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali «è mappare tutto l’amianto e censire le patologie, senza più discrepanze regionali. Le misure per la riconversione delle aree industriali dismesse, sono finalizzate a ché l’amianto sia anche una occasione di sviluppo. Sul piano processuale, abbiamo previsto il raddoppio dei termini delle indagini preliminari e della prescrizione e il patrocinio a spese dello Stato per le vittime dell’amianto e i familiari, perché sia garantita giustizia».

Ma quali sono i numeri dell’Italia avvelenata dalla fibra killer?

Una mappatura approssimativa, stilata da wired.it, sebbene comprenda solo 14 regioni su 20, indican la presenza di poco meno di 11mila siti contaminati dalla fibra, e dà già un’idea della situazione. Si stimano siano 32 milioni le tonnellate ancora presenti sul territorio. Mentre 75mila sono gli ettari in cui è accertata la presenza di materiale in cemento amianto, secondo i dati del Programma nazionale di bonifica del ministero dell’Ambiente.

La parzialità dei dati è dovuta al fatto che sebbene le regioni avrebbero dovuto dotarsi, entro 180 giorni dalla pubblicazione della legge 257 (del 1992!) di Piani regionali amianto, ad oggi Abruzzo, Calabria, Lazio, Molise, Puglia e Sardegna ne sono ancora sprovvisti. Una mappatura inefficace, incompleta e di conseguenza irresponsabile. Immaginate come risulterebbe la cartina, se la mappatura fosse completa.

Oltre all’evidente urgenza di un censimento minuzioso al quale far seguire effettiva bonifica, il dato più preoccupante è rappresentato delle morti legate all’asbesto. Ogni anno, stando ai dati raccolti da Legambiente, sono 4mila le persone decedute a seguito dell’esposizione all’amianto. Con oltre 15mila casi di mesotelioma maligno diagnosticato dal 1993 al 2008, stando ai dati del Registro nazionale mesotelioma di Inail. Quindi decisamente al ribasso rispetto alla realtà. Anche perché l’amianto è un materiale che non si esaurisce, la sua tossicità dunque continua a mietere vittime nel tempo. Le morti sono destinati ad aumentare e stando agli studi in materia il picco si dovrebbe raggiungere nel 2020.

Altro dato che rischia di far saltare i buoni propositi, è il numero degli impianti di bonifica. Attualmente le regioni dotate di almeno un impianto specifico sono 11, per un totale di 24 impianti (5 in Sardegna, 4 in Piemonte e Toscana, 2 in Emilia, Lombardia e Basilicata, 1 in Abruzzo, Friuli, Liguria, Puglia e la provincia autonoma di Bolzano), con volumetrie residue insufficienti a garantire un corretto smaltimento dei materiali che ancora oggi finiscono al 75% in discariche fuori dai nostri confini.

Sempre secondo Legambiente, infatti, troppo pochi sono gli interventi realizzati ad oggi: 27.020 edifici tra pubblici e privati;  26.868 quelli in corso da anni; molti, inquantificabili, quelli ancora da iniziare. Tanto che di questo passo si stimano non meno di 85 anni per completare le bonifiche.

Il talento di Artemisia Gentileschi che reiventò le luci di Caravaggio

Artemisia Gentileschi è la prima grande pittrice che troviamo nella storia dell’arte italiana, ed è riuscita a riscattarsi dall’onta dello stupro e a liberarsi della violenza subita. Arrivando a dialogare da pari a pari con i maggiori artisti della sua epoca e rileggendo in modo originale la lezione di Caravaggio, come racconta la mostra che dal 30 novembre le dedica il Museo di Roma in Palazzo Braschi. Addirittura arrivando a «stravolgerla completamente» racconta Nicola Spinosa, che di questa nuova esposizione è l’ideatore, oltreché il curatore della sezione sull’ultimo e fertile periodo napoletano della pittrice ( l’intervista allo storico dell’arte è sul numero di Left in edicola  da sabato 26 novembre)

La mostra: Novanta opere provenienti da tutto il mondo, dal 30 novembre al Museo di Roma in Palazzo Braschi, punteggiano il percorso della mostra Artemisia Gentileschi e il Seicento in Italia.  La mostra irpercorre l’arco temporale che va dal 1610 al 1652 raccontando «la pittora» attraverso 40 opere autografe e ricostruendo, nel catalogo Skira, le vari fasi della sua carriera. Dopo la formazione romana Artemisia si affermò a Firenze (dal 1613 al 1620), tornò a Roma dal 1620 al 1626 e poi fu a Venezia dal 1626 al 1630. Infine, a Napoli dove visse fino alla morte. Mentre traduceva la pittura del Caravaggio in una sua cifra nuova, narrativa e teatrale, seducente, la pittrice viveva una passione che era nata a Roma, nella primavera del 1620, dopo una rocambolesca fuga da Firenze, che nella separazione dall’amante, il nobiluomo fiorentino Francesco Maria Maringhi era diventata ancora più forte.

Referendum, tutti i luoghi comuni della “grande riforma” Renzi-Boschi

Il Ministro delle Riforme Maria Elena Boschi e il Presidente del Consiglio Matteo Renzi alla Camera durante le comunicazioni in vista del Consiglio europeo, Roma, 17 Febbraio 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Andrea Pertici è professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Pisa e consulente giuridico. Ha scritto per Lindau La Costituzione spezzata. Partendo dal suo libro lo abbiamo intervistato a proposito della revisione costituzionale su cui andremo a votare nel referendum del 4 dicembre.

Cominciamo dal titolo, La Costituzione spezzata. Cosa significa?

Vuole richiamare l’attenzione sul fatto che la Costituzione è un documento unitario, come sottolineato già ne La Costituzione ferita di Alessandro Pizzorusso, che è stato un mio maestro. È sbagliato dividere la Costituzione in una prima parte da “imbalsamare” e una seconda da fare oggetto di scambio politico. Al contrario – come sottolineava anche Calamandrei – la Costituzione deve essere fatta vivere, deve essere attuata e può essere modificata, ma deve rimanere al di sopra delle scelte politiche del governo e della dialettica maggioranza-opposizione.

Quanto all’iter della riforma, lei nel suo libro fa riferimento ad anomalie e irritualità. Quali?

Si è sempre detto che le riforme costituzionali devono essere condivise tra maggioranza e opposizione, proprio perché la Costituzione deve unire e non dividere. In questo caso, la proposta viene dal governo. Ora, è vero che dal punto di vista giuridico è legittimato a farlo, però così si crea subito una contrapposizione maggioranza-opposizione. Ci si sarebbe potuti aspettare che la riforma potesse nascere in Parlamento. Invece si è voluto a ogni costo che il testo base fosse del governo (perfino nella prima fase, quando con il “patto del Nazareno” risultava coinvolto anche un partito estraneo all’esecutivo).

Quali altre anomalie ha osservato?

La discussione è stata sempre “costretta” entro i paletti fissati dal governo, impedendone invece una davvero ampia su tutte le questioni. Così come è stata impedita all’opposizione la possibilità di incidere. Le uniche modifiche sono state proposte dalla stessa maggioranza e al limite sono il frutto di una contrattazione con la minoranza interna al principale partito di governo, con il risultato che il testo finale, per alcuni versi, è addirittura peggiorato rispetto alla proposta iniziale. Come a proposito dell’elezione dei senatori: alla fine si è arrivati a un testo oscuro che avrà difficoltà applicative notevoli.

Si riferisce all’emendamento sull’elezione dei consiglieri regionali?

Una parte dei senatori del Pd era per il mantenimento dell’elezione dei senatori da parte dei cittadini. Ma questo era il punto su cui il governo era sempre stato più intransigente. Quindi, è stata introdotta, in un comma che non ha nulla a che fare con questo, la previsione per cui l’elezione dei senatori da parte dei Consigli regionali avviene (almeno limitatamente ai consiglieri regionali) «in conformità alle scelte espresse dagli elettori». Questo ha convinto i senatori democratici recalcitranti, in modo piuttosto sorprendente, perché è chiarissimo che l’elezione rimane indiretta e compete, appunto ai Consigli regionali.

Qual è la motivazione politica dietro questa revisione costituzionale?

Fin dal discorso di insediamento del governo Letta, ma ancor prima da quello del secondo giuramento del presidente Napolitano, si è avuto l’impressione che le riforme servissero per scongiurare una durata troppo breve della legislatura che, ricordiamo, si presentava molto debole. Le riforme costituzionali, per il procedimento previsto, richiedono tempo e quindi se si intende portarle avanti la legislatura deve durare.

Cosa c’è che non va bene nella “grande” riforma della Costituzione?

Come dice Pizzorusso sempre ne La costituzione ferita, nemica delle riforme che servono è proprio la “grande riforma” perché questo determina che si mettano dentro un sacco di cose, alcune delle quali possono essere utili altre no, altre addirittura dannose. Ricordiamoci quella del centrodestra del 2006, davvero c’era dentro di tutto. La propaganda la presentava come una riforma che riduceva il numero dei parlamentari, ma questo era un aspetto del tutto marginale. Nel testo si prevedeva dal cambiamento della forma di governo alla modifica del bicameralismo. E lo stesso vale per la riforma di oggi.

Quali sono i principali luoghi comuni da sfatare sulla riforma Boschi-Renzi?

Intanto la riduzione dei costi della politica. Si sono sparate cifre enormi, si è detto che si sarebbero risparmiati un miliardo, poi 500 milioni di euro. Per fortuna una nota della Ragioneria dello Stato, che è un organo interno al governo, quantifica il risparmio in 58-60 milioni al massimo.
Poi viene rilanciata in continuazione la questione della semplificazione, ma qui c’è un equivoco di fondo. L’Italia ha bisogno sì di semplificazioni ma nel funzionamento delle pubbliche amministrazioni, così come ha bisogno di un’amministrazione della giustizia più efficiente. I problemi nel rapporto tra potere pubblico e cittadino non vengono certo dal fatto che le leggi debbono passare dalla Camera e dal Senato. Peraltro, il Servizio studi servizio della Camera dei deputati ha evidenziato come al 30 giugno 2016, di 224 leggi approvate, 180 lo siano state con un solo passaggio alla Camera e uno al Senato.

Perché la riforma non semplifica a proposito di formazione delle leggi?

Mantiene molte leggi bicamerali esattamente come oggi e tra le altre, che seguono diversi procedimenti, quelle che verranno richiamate dal Senato dovranno poi tornare necessariamente alla Camera, quindi i passaggi da due diventeranno tre, senza tempi certi (tranne per il passaggio in Senato). Per di più una parte degli studiosi ritiene che la Camera possa comunque modificare di nuovo il testo, per cui il ping pong rimarrebbe in pieno. L’unica disposizione che introduce un termine è quella del voto a “data certa” per le proposte del governo. Ma allora diciamo la verità: qui non si tratta di semplificazione, è solo lo spostare il potere legislativo verso il governo. Che tra l’altro, mantiene sia i decreti legislativi che i decreti legge, non presenti in altri ordinamenti.

Ma è vero che la riforma costituzionale “ce la chiede l’Europa”?

Questo è un altro luogo comune. Se prendiamo documenti internazionali come uno studio Ocse del 2014 – tra l’altro citato dal governo durante un dibattito parlamentare – o il recente bollettino Bce n. 5/ 2016, vediamo che le riforme chieste all’Italia riguardano soluzioni per garantire la concorrenza, oppure la lotta alla corruzione: questi sono i parametri per cui un sistema può migliorare la propria efficienza.

E le autonomie come sono trattate? L’ex presidente della Corte costituzionale De Siervo ha parlato di “fine del regionalismo”.

Con la nuova composizione del Senato sembra che si dia spazio alle autonomie. Invece è il contrario. Dalla “clausola di supremazia” – per cui lo Stato può intervenire anche nella legislazione di competenza delle Regioni – fino all’accentramento di molte competenze, le autonomie locali sono depresse. Inoltre, c’è un’ulteriore divaricazione tra autonomie ordinarie e autonomie speciali che, nonostante le critiche, vengono mantenute come oggi. E poi di che cosa devono occuparsi i senatori? Lo spiega molto bene De Siervo: questo Senato si occupa di politica estera, di politiche europee, ma non di ciò di cui dovrebbero occuparsi le Regioni. C’è quindi uno strabismo tra la nuova – pur pasticciata – composizione del Senato che si vorrebbe rappresentativo delle istituzioni territoriali e la riduzione delle autonomie.

La riforma viene fatta passare come fine del bicameralismo perfetto ma il Senato rimane…

Mi pare incredibile che qualcuno accosti questa riforma al monocameralismo. Sbaglia chi fa i nomi di Berlinguer, Ingrao, Togliatti e altri esponenti della sinistra che erano sostenitori del monocameralismo. Qui rimane il bicameralismo, con due Camere eterogenee, molto più lontano dal monocameralismo di quanto non sia il bicameralismo perfetto che, infatti, fu scelto alla Costituente come soluzione di compromesso. Due Camere diverse avranno più difficoltà a lavorare insieme. Infatti, quando sento dire che “intanto si fa questo e poi siamo in tempo a correggere”, rimango molto perplesso perché è un’impostazione priva di qualunque rigore e serietà.

Del cambiamento rispetto al 2001 sul Titolo V cosa ne pensa?

Come dice anche Zagrebelsky, la riforma del Titolo V doveva insegnare che una cattiva riforma può avere davvero delle conseguenze negative. Dopo di che seguire le mode a proposito della Costituzione mi sembra agghiacciante. Prima, si insegue il federalismo e quindi si apre un credito sostanzialmente illimitato nei confronti delle Regioni e poi, senza una vera e propria riflessione al riguardo, improvvisamente, dopo una quindicina di anni, si torna indietro.

Nel libro lei, ispirandosi a Calvino, suggerisce una riforma “leggera” della Costituzione. Quali sono i punti chiave?

Bisogna partire solo da modifiche specifiche e utili, mature e condivise. Per esempio la riduzione del numero dei parlamentari: arrivare a 470 deputati – invece degli attuali 630 – e 230 senatori porta a 700 parlamentari complessivi (meno della riforma del governo) e a due Camere più funzionali. Questo insieme con una riduzione dell’indennità parlamentare, ancorata allo stipendio dei professori universitari. Parimenti condivisa e agevole è l’eliminazione del Cnel, mentre il ping pong tra Camera e Senato può essere superato con una commissione paritetica tra deputati e senatori, che agevoli un testo condiviso.

E sulla democrazia diretta come intervenire?

Per il referendum abrogativo basterebbe abbassare il quorum alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni per la Camera, cosa che la riforma tenta di fare, ma solo a condizione che le firme siano ben ottocentomila, favorendo così i quesiti dei gruppi maggiormente organizzati. Per l’iniziativa legislativa popolare si potrebbe riprendere la proposta di Mortati alla Costituente, per cui se il Parlamento non approva in un certo periodo la legge popolare possono farlo i cittadini con un referendum che in questo caso sarebbe deliberativo. Si tratta di proposte molto concrete, portate avanti, con qualche differenza, anche durante il dibattito parlamentare, alla Camera da Civati e al Senato da Chiti e Tocci. In questi giorni (settembre Ndr) le abbiamo rilanciate attraverso un documento che ho preparato e sottoscritto assieme a Gianfranco Pasquino, Maurizio Viroli e Roberto Zaccaria e mi pare che, da ultimo, anche alcune proposte avanzate dal presidente D’Alema presentino punti di coincidenza.

Un’ultima domanda. Chi sono gli autori del testo della revisione costituzionale?

Non conosco il dietro le quinte. Sto a chi l’ha sottoscritta. Questa è una proposta del governo che riscrive una grande parte della Costituzione. Viene quindi in mente la differenza con la Costituente, quando la redazione fu affidata a una Commissione (dei Settantacinque) con la presenza delle forze politiche rappresentative dei cittadini, mentre il governo rimaneva silenzioso. De Gasperi – presidente del Consiglio per tutto il periodo della Costituente – fece un solo intervento dal suo banco di deputato Dc. C’è una bella differenza.

(da Left n.37 del 10 settembre 2016)

Mentre si discute di rinegoziazione del debito greco, dall’Fmi nuove pressioni

ATHENS, Nov. 28, 2016 (Xinhua) -- Greek Prime Minister Alexis Tsipras (L) and European commissioner for economic and financial affairs Pierre Moscovici talk during their meeting at Maximos Mansion in Athens, Greece, Nov. 28, 2016. (Xinhua/Marios Lolos)(yk) (Credit Image: © Marios Lolos/Xinhua via ZUMA Wire)

Nove deputati europei dell’area Gue/Ngl, del gruppo Socialdemocratico e dei Verdi hanno scritto una lettera aperta al Presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem. Gli eurodeputati invitano le istituzioni e i creditori internazionali a facilitare le negoziazioni per un alleggerimento del debito greco. I firmatari del documento – tra i quali Sergio Cofferati (S&D) e Curzio Maltese (Gue/Ngl) – ricordano a Dijsselbloem che la rinegoziazione del debito permetterebbe all’economia greca di consolidare il percorso di crescita intrapreso da qualche mese.

Nel frattempo, lunedì, il Commissario europeo, Pierre Moscovici, ha visitato Atene nel quadro della seconda revisione dell’attuale programma di bailout. Secondo Euractiv, Moscovici ha affermato che le istituzioni e il governo di Tsipras «sono molto vicine ad un accordo» e che entro questa fine settimana si dovrebbe raggiungere un’«intesa di massima a livello di staff tecnico», prima dell’Eurogruppo di settimana prossima.

In effetti, da calendario, l’Eurogruppo del 5 dicembre era stato previsto come momento di chiusura della seconda revisione. Contestualmente dovrebbero iniziare i negoziati per un accordo sul debito del Paese ellenico. Proprio per questo motivo, nella lettera, gli europarlamentari, hanno voluto sottolineare che «nessun partner istituzionale ha un interesse nel ritardare la conclusione della seconda revisione del programma di bailout».

È proprio così? Ekathimerini suggerisce che, alle spalle degli incontri fra Atene e Bruxelles, la vera partita si starebbe giocando fra Germania e Fondo monetario internazionale. Secondo il Ministro dell’economia greco, Tsakalotos, l’Fmi starebbe facendo di nuovo pressione sulla Germania per chiedere ulteriori riforme del mercato del lavoro.

Intanto, anche Benoit Coeure, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea (Bce) ha ricordato a tutte le parti coinvolte nelle negoziazioni che ci «sono seri dubbi riguardo alla sostenibilità del debito greco».

Regno UnitoThe Independent Nasce l’asse Londra- Varsavia. Al di là della Brexit, Theresa May assicura che i cittadini polacchi emigrati Oltremanica godranno di protezione speciale

FranciaLe Monde Video-appello di una sopravvissuta alla Shoah contro l’estrema destra in Europa

EuropaEuractiv Javier Solana: «La Brexit potrebbe favorire l’integrazione europea in materia di sicurezza e difesa comune»

Firme false, il Movimento perde pezzi: altri tre deputati al Gruppo misto

Il deputato nazionale Riccardo Nuti accompagnato dal suo legale in procura a Palermo, 28, Novembre 2016. ANSA/MIKE PALAZZOTTO

«Il COLLEGIO DEI PROBIVIRI dispone la sospensione cautelare dal Movimento 5 Stelle dei signori MANNINO Claudia, DI VITA Giulia, NUTI Riccardo e BUSALACCHI Samantha». Così sentenzia e silenzia (o almeno ci prova), il blog, la vicenda delle firme false a Palermo, che per la prima volta ha visto nel ruolo di indagati (dei 13 coinvolti) tre parlamentari del Movimento 5 stelle. Gli eletti siciliani, nonostante fosse stato richiesto loro da Beppe Grillo stesso un passo indietro, non si erano autosospesi. Né avevano collaborato con la magistratura. «In particolare è stato segnalato come comportamento lesivo – scrive infatti il blog in tarda serata di ieri –  il non aver raccolto l’appello del garante del MoVimento 5 Stelle che aveva chiesto un’autosospensione a tutela dell’immagine del MoVimento non appena si fosse venuti a conoscenza di un’indagine a carico. Sono stati segnalati inoltre come comportamenti non conformi ai principi del MoVimento l’avvalersi della facoltà di non rispondere di fronte ai PM e il rifiuto di procurare un saggio grafico». Atteggiamenti, ne abbiamo scritto, quantomeno anomali e scostanti rispetto alla tradizionale principio di trasparenza dei Cinquestelle.

E allora procede il collegio. Sospensione “cautelare”, a tutela dell’immagine del Movimento. Sia mai si pensasse che anche i loro hanno atteggiamenti scorretti. Ma, sta volta, si tengono – e concedono – il beneficio del dubbio: «Ogni valutazione definitiva sull’eventuale addebito disciplinare sarà effettuata nella piena cognizione di tutti i fatti rilevanti di cui al presente procedimento, anche all’esito delle valutazioni svolte dall’autorità giudiziaria e nel contraddittorio con gli interessati».
Un ammorbidimento dovuto, quello del Movimento, perché in passato la mannaia dell’espulsione, calata dall’alto, direttamente dal defunto guru Gianroberto Casaleggio, li avrebbe colpiti senza appello. E soprattutto, senza il beneficio del citato contraddittorio. Ma reduce da scissioni, denunce di attivisti, e contraddizioni sul territorio, le clamorose disparità dovute all’arbitrarietà del provvedimento, il Movimento è dovuto correre ai ripari e istituire, nel nuovo regolamento votato due mesi fa dagli attivisti del blog, questa nuova figura, il collegio dei probiviri. Una sorta di tribunale interno, composto da tre deputati scelti dall’assemblea mediante votazione in rete che resta in carica tre anni. Paola Carinelli, Nunzia Catalfo, Riccardo Fraccaro sono freschi di nomina (venerdì scorso) e questo è il loro primo provvedimento.

Ora, probabilmente i deputati indagati dovranno passare al gruppo misto alla Camera, mentre è probabile, come scrive il fattoquotidiano.it, che finisca qui la corsa alle comunarie di Palermo della Buslacchi. La collaboratrice del gruppo M5s dell’Assemblea regionale siciliana, è stata allontanata non appena ricevuto l’avviso di comparizione.

Nel frattempo, sulla questione, mentre esplode la rabbia degli attivisti sul web, il capo politico Grillo, si chiude nel silenzio. Ieri a Firenze per il Restitution day, assieme a Davide Casaleggio, non ha voluto commentare la vicenda. Ma chi gli è vicino sa che non l’ha presa bene.