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Apocalypse Trump. Il cambiamento climatico dopo la presidenza di Donald

Quali potrebbero essere le conseguenze sul pianeta dopo anni di Trump alla presidenza? Nei prossimi quattro anni infatti il 45° presidente degli Stati Uniti sembra voler fare marcia indietro su molte delle politiche attuate dall’amministrazione Obama in tema ambientale. A Trump del riscaldamento globale non interessa granché e ha tutta l’intenzione di recedere dall’accordo sul clima di Parigi firmato appena un anno fa (e con grande entusiasmo) dal suo predecessore. Anzi le sue idee in merito hanno tutta l’aria di essere a dir poco fantasiose e singolari.

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L’emergenza climatica richiede al contrario misure immediate per evitare il verificarsi di catastrofi ambientali sempre più significative entro i prossimi 100 anni.
Il New York Times, alla luce delle posizioni anti ambientaliste del presidente miliardario, ha provato ad immaginare con alcune mappe che abbiamo rielaborato qui sotto come cambierebbe la geografia di alcune città e stati americani. A seconda della gravità dei provvedimenti varati da Trump e dei danni ambientali che questi potrebbero causare ha quindi stilato tre diversi tipi di scenario.

Queste mappe mostrano come con il surriscaldamento terrestre potrebbe evolversi la conformazione di alcune aree e città nel 2100 a seconda delle politiche più o meno aggressive nei confronti dell’ambiente intraprese da Donald Trump.

Scenario 1 – Innalzamento delle acque di 60cm rispetto al 2016

Questo scenario presuppone che, al di là degli impegni assunti a Parigi con l’accordo sul clima, si realizzino dei tagli aggressivi contro le emissioni di gas serra. Anche in questo caso nelle città indicate, l’aumento del livello del mare potrebbe variare, a seconda dei fattori locali, da 50 cm a 70 cm.

Scenario 2 – Innalzamento delle acque di 1 metro rispetto al 2016

Questo accadrebbe nel caso in cui le emissioni di gas serra continuassero ad aumentare e la fusione dei ghiacci dell’antartico si verificasse ad un ritmo lento. Nelle città indicate, l’aumento del livello del mare potrebbe variare, a seconda dei fattori locali, da 85 cm a un metro

Scenario 3 – Innalzamento delle acque da 1,5 metri a oltre 2 metri rispetto al 2016

In questo caso le emissioni di gas serra continuano ad aumentare ma la fusione dei ghiacci dell’antartico si verifica rapidamente. Nelle città indicate, l’aumento del livello del mare potrebbe variare, a seconda dei fattori locali, da 1,5 metri a oltre 2 metri.

Negli Stati Uniti la grande minaccia verte per lo più sulla Florida, questo forse potrebbe sensibilizzare Trump visto che proprio lui possiede un club esclusivo in una località della Florida chiamata Mar-a-Lago. Per segnare la differenza fra un cambiamento climatico problematico, ma gestibile e una vera e propria catastrofe che farà scomparire i terreni sui quali vivono migliaia e migliaia di persone, sono necessari dei tagli netti e decisi alle emissioni di gas serra. In assenza di questi tagli nel 2100 potremmo trovarci di fronte a uno scenario apocalittico.

Questo sarebbe il possibile destino di Norfolk in Virginia:

Ecco come invece si trasformerebbe Charleston nel South Carolina:

 

Il bullo inciampa a Taranto. Sulla pelle dei bambini

Una spiegazione semplice semplice, proprio banale: Matteo Renzi (Presidente del Consiglio) promette a Michele Emiliano (Presidente della Puglia) 50 milioni di euro per permettere alle strutture sanitarie di Taranto di attrezzarsi per l’emergenza Ilva che continua imperterrita a uccidere bambini (dati epidemiologici alla mano).

Emiliano esulta, Taranto esulta, i tarantini esultano. Che bello un premier che si occupa dei problemi irrisolti. Alla fine anche Michele Emiliano (che certo non ama Renzi) si lascia andare a un cenno di gratitudine.

E invece? Invece no. L’emendamento che dovrebbe garantire in Commissione sulla legge di bilancio i soldi per i tarantini sparisce. E così spariscono anche i 50 milioni. Emiliano (e i tarantini) si incazza. Ovvio. Qualcuno comincia a dubitare che dalle parti del governo siano troppo impegnati per il referendum e si dimentichino di governare.

E cosa succede? Succede che il Presidente del Consiglio cerchi di convincerci che il disastro sia colpa del presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia, suo compagno di partito. «É stato il presidente della Commissione che ha dichiarato inammissibile l’emendamento che stanziava a questo fine 50 milioni», dice Renzi.

E Boccia, per fortuna, sboccia: «Taranto era tra le 10 priorità della commissione Bilancio – dichiara -, c’era emendamento e c’era l’ok di tutti. Quell’emendamento non ha avuto il benestare della Presidenza del Consiglio e di chi su quel tavolo rappresentava la presidenza del Consiglio. Il tema politico è un altro. Era una priorità? Per me si, lo era anche per l’opposizione, lo era per il relatore, lo era per il Mef, è mancato l’ok di Palazzo Chigi e sarebbe sgradevole usare i cellulari per mostrare gli sms girati quella notte».

Vuole cambiare la Costituzione, questo qui.

Buon martedì.

L’Italia cerca il suo posto al sole in Etiopia e della democrazia “se ne frega”

In Etiopia i “Paesi amici” – primo fra tutti l’Italia – stanziano fondi per gli aiuti internazionali e investono nell’industria agroalimentare, ignorando le pratiche antidemocratiche del governo di Hailè Mariam Resaleng e distruggendo le comunità locali e l’ambiente.  

È quanto riporta il rapporto  Che cosa nasconde la Valle dell’Omo?  redatto dall’associazione italiana Re:Common in seguito a una missione sul campo che gli autori hanno definito «forzatamente “monca”», per il rifiuto dell’accesso da parte del governo ad alcune zone, come la valle attraversata dal fiume Omo, una delle più frequentate dalle aziende straniere.

In mancanza di contatto diretto con alcuni luoghi importanti per la ricerca, i ricercatori Giulia Franchi e Luca Manes hanno fatto ricorso a testimonianze locali anonime che hanno tracciato un quadro umanitario sconfortante, sia per la violazione dei diritti delle comunità locali costrette a migrare da un giorno all’altro, sia per la repressione del dissenso, sia per il controverso ruolo di enti stranieri pubblici e privati sul territorio, come la Banca Mondiale, la Commissione Europea, i Ministeri e le aziende private.

Per quanto riguarda il nostro Paese, gli autori parlano del “Sistema Italia” in termini di grave responsabilità della cooperazione e dell’industria italiana, che è la prima in Etiopia per numero di accordi e fondi stanziati (dopo l’Afghanistan).
Secondo gli autori del rapporto, l’Italia continua a cercare il suo “posto al sole” all’estero, senza curarsi delle condizioni di democrazia dei paesi in cui investe e si arricchisce, «a suon di contratti per grandi infrastrutture (preferibilmente senza gare d’appalto), di interventi militari a difesa degli interessi di pochi e mascherati da missioni di pace, pompando petrolio e gas, e vendendo armi a regimi repressivi. Il tutto tappandosi poi gli occhi su dove e come quelle stesse armi verranno usate. Tanto poi ci pensa la nostra gloriosa ed empatica cooperazione allo sviluppo alla ricostruzione».

 

La Valle dell’Omo è una zona di 25 mila chilometri quadrati che prende il nome dal fiume che la attraversa, dove vivono 700 mila persone appartenenti a 16 gruppi etnici distinti. Il fiume Omo è al centro della sopravvivenza delle comunità locali, per l’approvvigionamento dell’acqua e per l’effetto fertilizzante del limo sul terreno dopo le esondazioni annuali.
Secondo alcune fonti protette da anonimato, nella zona dell’Omo è in atto lo stesso esodo di popolazione che ha visto la zona ovest della Gambella spopolarsi nel 2012, quando 70 mila persone sono state cacciate dalle loro terre per lasciare spazio alle industrie agroalimentari.
«Nella Valle – dichiarano gli autori del report – è in corso uno degli accaparramenti di terra più feroci dell’Africa che produce un processo di “villaggizzazione” forzato», pagato anche dalla cooperazione internazionale, che impone alle comunità locali il ricollocamento forzato in altre zone e punisce chi non accetta di abbandonare le terre con arresti e uccisioni arbitrarie.

 

Il governo di Hailè Mariam Resaleng è considerato uno stimato alleato dell’Occidente e un importante avamposto politico contro l’integralismo islamico, ma il suo rapporto con l’opposizione e il dissenso è discutibile: basti pensare che nel 2010 ha ottenuto il 99,6 per cento dei voti a favore e nel 2015 il 100 per cento.
Secondo Human Rights Watch a novembre 2015 il governo avrebbe ucciso 140 persone e ne avrebbe arrestate altre migliaia per sedare le proteste contro l’espansione dell’amministrazione di Addis Abeba nella regione limitrofa di Oromia. Il ministro delle Comunicazioni Getachew Reda – riporta Re:Common – ha commentato questo rapporto minimizzando i danni della protesta e accusando Human Rights Watch di «compilare report dall’altra parte del pianeta, senza conoscere i fatti realmente».
Secondo i dati del rapporto, nel mese di ottobre di quest’anno si sono verificati 1600 arresti a seguito delle proteste della tribù degli Oromo, nel 2014 45 oppositori del progetto Omo-Kuraz sono stati uccisi e nel 2015 hanno fatto la stessa fine 39 persone della tribù degli Odi.
Sia sul fronte interno che esterno, la retorica governativa tende a stigmatizzare chi punta ancora il dito contro l’Etiopia considerandola un Paese arretrato e autoritario, accusando i detrattori di eccedere di ideologia se non addirittura di perseguire “deplorevoli secondi fini“.
Il sistema di aiuti allo sviluppo, da cui l’Etiopia dipende al 60 per cento, dal 2010 tra trovato spazio nell’economia del Paese grazie al Piano di Crescita e Trasformazione varato dal governo, che prevede la costruzione di grandi impianti infrastrutturali (dighe) e di sviluppo agroindustriale, al fine di entrare in tempi brevi tra i paesi a medio reddito.
Il Piano prevede lo sfruttamento intensivo delle terre a fini industriali, la sedentarizzazione forzata delle comunità locali di agricoltori e allevatori e l’azzeramento delle terre da pascolo come condizioni ideali per favorire la modernizzazione dell’agricoltura.
Sul territorio etiope sono presenti numerose aziende agroalimentari locali e soprattutto straniere: oltre alla piantagione governativa di canna da zucchero Omo-Kuraz Sugar, opera l’italiana Fri-El Green che produce olio di palma e jatropha (un olio vegetale), la turca Omo Valley Farms Cooperation Plc. (coltivazioni), l’indiana Whitefield Cotton Farm Plc, l’italo-etiope OMo Ethio Renewable Energy Pls e l’etiope Sisay Tesfaye Agro Processing.
Per quanto riguarda l’italiana Fri-El Green, che è la più grande della zona (gestisce 30 mila ettari di terreno), fonti locali riportano che l’azienda – da contratto – avrebbe dovuto assicurare alle popolazioni locali pozzi, assistenza sanitaria e scuole, ma nessuno di questi servizi è stato realizzato, tanto che per ricevere cure mediche gli abitanti devono percorrere anche 60 chilometri. In teoria, inoltre, sarebbe anche previsto un risarcimento governativo in caso di uso di terreni sottratti alle comunità locali e le aziende dovrebbero assumere nel personale una buona percentuale di abitanti delle comunità locali.  Stando alle testimonianze, nessuna di queste buone pratiche è stata messa in atto finora.
L’esiguità sempre maggiore di terreni a disposizione può, inoltre, creare situazioni di tensione interetnica e transfrontaliera, come è accaduto al confine con il Kenya dove 540 persone hanno perso al vita e altre 65 mila sono sfollate per il conflitto tra i Turkana del Kenya, i Dassaneeh e i Nyangatom dell’Etiopia.

 

Per diventare il primo produttore di energia idroelettrica dell’Africa, il governo etiope ha appaltato alla società italiana Salini Impregilo la costruzione di un sistema di dighe, le Gibel Gibe, lungo il fiume Omo.
Nel 2004 l’Italia ha stanziato un finanziamento senza precedenti (200 milioni di euro) per la costruzione di Gibel Gibe II, che ha beneficiato di aiuti pubblici da parte del Ministero degli Esteri tramite il Fondo Rotativo per lo Sviluppo. Le dighe, che diventeranno cinque a breve (ora sono tre),  – riporta Re:Common – sono state periodicamente citate dai politici italiani come esempi di eccellenza italiana all’estero: nel 2010 il ministro degli Esteri Franco Frattini ha inaugurato la Gibel Gibe II e nel 2015 il premier Matteo Renzi ha presenziato alla presentazione della Gibel Gibe III definendolo “orgoglio italiano”, e, proprio mentre la Survival International (che si occupa di diritti dei popoli nativi) presentava istanza all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) contro la Salini Impregilo per la costruzione della terza diga, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si augurava “tante Salini”.

Secondo le associazioni che si battono per la difesa del territorio, la costruzione delle dighe sul fiume Omo, oltre a sottrarre a intere comunità le loro terre ancestrali, creerà un’inondazione che sommergerà i territori delle tribù della Valle e ridurrà il livello del lago Turkana in Kenya (il più grande lago desertico del mondo), creando una catastrofe ambientale che coinvolgerà 500 mila persone tra etiopi e kenioti.

Gli autori del rapporto concludono che il sostegno acritico dei donatori e di investitori internazionali al Piano di Crescita e Trasformazione e l’adesione al sistema di aiuti allo sviluppo contribuiscono al rafforzamento di pratiche antidemocratiche e repressive del governo attuale. Inoltre, la partecipazione dell’Italia a progetti di sviluppo e di industrializzazione in paesi come l’Etiopia e l’Egitto «è il segno dell’adesione a una logica puramente economica, che mette in secondo piano i diritti principali, come dimostra il caso emblematico di Giulio Regeni».
A proposito di interessi economici in Egitto, il dossier rammenta la visita del generale Fattah al Sisi nel nostro Paese subito dopo il colpo di Stato militare a conferma di un'”amicizia” già sancita con la firma da parte dell’Eni di un contratto record da 850 milioni di euro per l’estrazione del gas nel giacimento egiziano di Zhor.
«Con esecutivi amici come l’Etiopia, l’Egitto e l’Arabia Saudita – conclude il rapporto – è sempre più evidente che il nostro governo mira all’efficacia della sua politica estera in base all’andamento dei bilanci delle grandi multinazionali italiane del petrolio, delle infrastrutture e delle armi. Il rispetto dei diritti umani è ormai un elemento secondario purtroppo».

Il potere delle immagini. Le 100 foto più influenti di tutti i tempi selezionate da Time

La rivista americana Time ha selezionato le 100 foto più influenti e ha dato vita al progetto 100photos, una collezione di cento scatti attraverso i quali rivivere i cambiamenti storici, le conquiste, le tragedie e le sconfitte vissute da quando nel 1826 il mondo scoprì il potere straordinario dell’immagine fotografica. L’impresa ovviamente ha dello straordinario se si considera che, arrivati al 2016, dopo ben 190 anni di storia, le immagini di cui siamo in possesso sono milioni e una selezione fra tutte è decisamente qualcosa di epico. Ma come si determina quanto uno scatto è influente? I redattori e i photoeditor di Time hanno scelto di confrontarsi con migliaia di fotografi, esperti, amici, famigliari anche per raccogliere quante più idee e testimonianze possibili in modo da essere sicuri di redigere un elenco di 100 foto che fosse rappresentativo. Il risultato di tutto questo è raccolto su 100photos.time.com con gallery, testimonianze, video e interviste e pubblicato in un volume speciale e in parte sul numero cartaceo della rivista di questa settimana.
«Non esiste una formula che definisca con certezza una foto influente» hanno spiegato Ben Goldberger, Paul Moakley e Kira Pollack curatori del progetto «alcune immagini sono state inserite nella nostra lista perché erano le prime del loro genere, altre perché hanno ridefinito il nostro modo di pensare e vedere la realtà. Altre ancora perché hanno determinato un taglio netto con quello che c’era prima e cambiato il nostro modo di vivere. La cosa che sicuramente condivido queste fotografie è l’essere 100 parti e punti di svolta nella nostra esperienza umana».
Assemblando la collezione Goldberger, Moakley e Pollack hanno inoltre notato un altro aspetto in comune fra questi scatti: il fotografo doveva esserci, essere lì sul posto, testimone di un fatto che avveniva in un luogo specifico, ma che poi grazie all’immagine veniva diffuso in tutto il mondo. Questo era vero per Alexander Gardner quando partito con la sua camera oscura trainata da cavalli per fotografare la battaglia di Antietam nel 1862, ma anche per David Guttenfelder, il primo fotografo professionista al mondo a postare uno scatto su Instagram mentre si trovava in Corea del Nord nel 2013. Vengono allora in mente le parole di James Nachtwey, fotoreporter che ha dedicato la sua vita all’ “essereci”, quando, qualche anno fa parlando del suo lavoro, ha detto: «si continua ad andare avanti, a inviare immagini, perché le immagini hanno il potere di dare vita ad un’atmosfera in cui il cambiamento è possibile. Mi sono sempre aggrappato a questo».

1945, la fine del Terzo Reich

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«Alla fine trovai il punto perfetto e dissi al soldato che era con me: Alyosha, arrampicati là!» racconta così Yevgeny Khaldei di come ha scattato una delle foto che più sono rimaste impresse nel nostro immaginario. Yevgeny aveva atteso 1400 giorni al seguito dell’esercito russo per poter imprimere sulla pellicola un’immagine come quella che scattò il 2 maggio 1945 fra le rovine di una Berlino ormai conquistata.

1955, il cadavere di Emmett Till che mise l’America faccia a faccia con il razzismo

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Emmett Till era un ragazzino nero di Chicago, nell’estate del 1955 si recò in Mississippi per far visita a dei parenti. Un giorno si fermò in una macelleria, Bryant’s, qui incontrò Carolyn, la moglie del proprietario. Una donna bianca. Non si è mai appurato se in quell’occasione effettivamente Emmett flirtò con lei o si espresse in qualche apprezzamento. Quello che è certo è che due giorni dopo il marito della donna, prelevò il ragazzino di colore appena 14enne dalla casa dello zio in cui alloggiava e, assieme ad un amico e complice, picchiò ripetutamente Till, gli sparò, gli cavò un occhio, gli attaccò attorno al collo con del filo spinato la pala di un macchinario usato per lavorare il cotone del peso di oltre 30kg e gettò il corpo senza vita nel fiume Tallahatchie. Till venne ritrovato tre giorni dopo da due pescatori. Una giuria composta interamente da bianchi assolse Bryant e l’amico anche se nessuno dei due aveva un alibi. Quando la madre di Till si presentò per riconoscere il corpo martoriato del figlio ordinò al responsabile delle pompe funebri: «Lasciate che tutti vedano quello che ho visto io». Così lo riportò a Chicago e insistette perché il funerale si svolgesse come una cerimonia pubblica. Decine di migliaia di persone sfilarono a fianco dei resti di Emmett Till, ma fu con la pubblicazione sulla rivista Jet di alcune foto dei funerali che ritraevano la madre accanto al corpo del figlio che l’America si trovò faccia a faccia con l’orrore del razzismo che ancora imperversava e mieteva vittime nelle comunità nere e soprattutto con l’impunità dei bianchi.

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1965, Lennart Nilsson fotografa un feto di 18 mesi

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Quando Life dedicò nell’aprile del 1965 la copertina al “Drama of Life Before Birth” (Il dramma della vita prima della nascita), la rivista americana vendette in pochissimi giorni una quantità enorme di copie, andando addirittura esaurita. L’immagine di Nilsson era dirompente, faceva breccia nella testa delle persone e soprattutto mostrava per la prima volta come appariva un feto durante lo sviluppo, aprendo una serie di questioni e interrogativi che avrebbero fatto storia.

1989, l’uomo con la busta della spesa che fermò i carri armati

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Lo scatto storico dopo il massacro di Piazza Tienanmen fu realizzato da Jeff Widener dal balcone del sesto piano del Beijing Hotel. L’uomo diventato un simbolo di resistenza contro i regimi e un eroe non è mai stato identificato.

2001, l’uomo che cade dalle Torri Gemelle

Un uomo si getta dalle torri gemelle colpite da due aerei di Al-Qaeda. La foto scatta da Richard Drew è l’unica in circolazione che invece di concentrare l’attenzione sugli aerei, la pone sulle persone. Su quel salto disperato incontro alla morte nel tentativo di fuggirla.

2011, la Situation Room durante la cattura ed uccisione di Bin Laden

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Lo scatto realizzato da Pete Souza ha fatto storia.

2015, Alan Kurdi

La foto della morte in un naufragio del piccolo Alan Kurdi, bambino siriano di 3 anni, è diventata il simbolo della tragedia dei migranti e ha portato all’attenzione del mondo la guerra civile che si sta combattendo in Siria. La foto scattata da Nilüfer Demir nel giro di poche ore fece il giro dei social media diventando estremamente virale in tutto il mondo. Media e giornali travolti dalla forza di quest’immagine hanno aperto anche un dibattito sul fatto che fosse giornalisticamente o meno opportuno pubblicare la foto.

Qui tutte le foto selezionate da Time, i video e le storie che si nascondo dietro gli scatti.

La lettera falsa di Mujica a Fidel (e l’intervista Tv vera)

epa05130591 From left to right, wife of Former Uruguayan President, Jose Pepe Mujica, and Senator, Lucia Topolanski, former Uruguayan President, Jose Pepe Mujica, President of Cuba, Raul Castro, Presdient of University Students Federation, Jennifer Bello and Commander of Cuban Revolution, Ramiro Valdes, seen at the traditional Torch March marking the birth of Cuban national hero, Jose Marti, in La Havana, Cuba, 27 January 2016. EPA/Alejandro Ernesto

La lettera d’addio di Pepe Mujica a Fidel Castro è diventata “un caso”. La carta de despedida, che ha fatto il giro del mondo in un battibaleno, è stata pubblicata da molti e autorevoli organi di stampa latinoamericani. E per questo, a Left, l’avevamo ripresa e pubblicata. Ci eravamo sbagliati.

Poche ore dopo, infatti, la smentita. Left, in collaborazione con il quotidiano brasiliano Opera Mundi, ha contattato la segreteria del senatore, ricevendo in risposta la nota diramata dall’uruguaiano Movimiento de Participación Popular: «Vogliamo denunciare la nostra preoccupazione per l’uso indebito, sotto l’anonimato dei social network, del nome dell’ex presidente della Repubblica José Mujica. In innumervoli occasioni si utilizza il suo nome per realizzare una serie di valutazioni che sono estranee al suo pensiero e che come organizzazione non condividiamo. Il senatore José Mujica smentisce di essere l’autore della lettera che nelle ultime ore è circolata in rete, che fa riferimento a un messaggio pubblico diretto alla recente scomparsa del leader della Rivoluzione cubana Fidel Castro. Ricordiamo inoltre che l’ex presidente Mujica non possiede canali social e che la sua comunicazione ufficiali vengono pubblicate sulla pagina web pepemujica.uy».

Ci scusiamo, noi, con i lettori per l’errore: spesso critichiamo i siti che pubblicano notizie false. In questo caso, avendo trovato la lettera anche su siti importanti (ad esempio Pagina12 argentina, che ora ha, come noi, ha eliminato l’articolo che parlava della lettera), ci eravamo fidati.

Il giudizio di Mujica è affidato a questa breve intervista Tv (la trovare cliccando sul post), che in effetti è meno iperbolico della lettera che avevamo pubblicato e, come spesso accade all’ex presidente uruguayano, riflessivo, anche quando commemora una figura che ha certamente ammirato e a cui si sentiva vicino.

In sintesi Mujica dice:
Come qualsiasi personaggio grande che ha occupato un periodo di storia lungo avrà detrattori e innamorati di lui. Mi pare di poter dire che ha vissuto come pensava e per ciò che pensava. E ha messo tutta la sua forza
Ma come qualsiasi grande uomo è figlio delle contraddizioni del suo tempo. Quel che occorre fare, quando si giudica una figura così è non guardare alla foto, ma al film della storia. Ricordare la situazione degli anni 60, le contraddizioni e le difficoltà di allora. Voglio dire una cosa, c’è in Fidel, e con lui in una parte del popolo cubano, una statura da Don Quijote perché gli è toccato vivere un lungo periodo della sua storia sfidando la prima potenza mondiale. Non è cosa semplice avere il coraggio, la decisione e la capacità di resistenza in questa epoca.

Aleppo est è quasi caduta. Assad approfitta del vuoto di potere Usa e Putin aspetta Trump

This Sunday, Nov. 27, 2016 photo provided by the Rumaf, a Syrian Kurdish activist group, which has been authenticated based on its contents and other AP reporting, shows people fleeing rebel-held eastern neighborhoods of Aleppo into the Sheikh Maqsoud area that is controlled by Kurdish fighters, Syria. Syrian state media is reporting that government forces have captured the eastern Aleppo neighborhood of Sakhour, putting much of the northern part of Aleppo's besieged rebel-held areas under state control. (The Rumaf via AP)

Ci siamo. Dopo più di quattro anni di guerra per il controllo di Aleppo, sembra essere giunti al termine. Dopo due settimane di bombardamenti furibondi e senza tregua le truppe di Bashar al Assad, sostenute da aerei russi e con l’appoggio di forze iraniane sul campo, hanno sfondato le linee dei ribelli rimasti ad Aleppo est e preso i quartieri di Sakhur, Haydariya e Sheikh Khodr. «Si tratta della peggiore sconfitta dal 2012, da quando avevano preso il controllo di questa parte della città» ha detto il portavoce dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, che ha sede a Londra. Nelle prossime ore il fronte dei ribelli potrebbe essere tagliato in due, o almeno questo è il tentativo che le truppe governative tenteranno.


 

La situazione ad Aleppo nella mappa del Carter Center (che è interattiva e per tutto il Paese): in rosso le forze di Assad, in verde i ribelli, in giallo i curdi dell’Ypg.Mappa della situazione ad Aleppo


 

Tra sabato e domenica tra le 6 e le 10mila persone hanno lasciato le loro case per raggiungere il distretto di Sheikh Massoud, sotto il controllo curdo, mentre duemila sarebbero giunte nei quartieri in mano ad Assad. I ribelli intanto si stanno raggruppando nella parte nord della città. I morti civili solo nelle ultime ore sarebbero più di 200, ma sotto le macerie ce ne potrebbero essere molti di più. In queste ultime settimane tutti gli ospedali della città sono stati presi di mira e resi inservibili e le bombe a grappolo usate erano probabilmente arricchite con agenti chimici vietati dalle convenzioni internazionali. I due incaricati Onu, quello diplomatico De Mistura e quello per gli aiuti Egeland hanno ricordato come non ci siano margini per nessun cessate-il-fuoco e come i viveri in città siano finiti. Egeland ha fatto sapere di avere conscluso un accordo con i ribelli su come fare arrivare viveri, ma che governo siriano e russi si sono rifiutati di accettare quei termini, scegliendo di lasciare la gente a morire di fame. E costrigendola a fuggire dopo anni in cui è rimasta nelle proprie case nonostante tutto.

Il piano è piuttosto chiaro da diverse settimane: approfittare del voto americano e della fase di transizione per accelerare l’offensiva e occupare più territorio possibile prima dell’inaugurazione di Donald Trump il 20 gennaio. Tra l’altro le posizioni in politica estera del futuro presidente repubblicano e le nomine fatte in materia militare e di politica estera sono tutte favorevoli alla collaborazione con Assad e Putin in funzione anti-Isis. Tutto insomma gira come dovrebbe per Damasco e Mosca e l’amministrazione Obama non sembra avere grandi mezzi da usare nelle poche settimane che gli rimangono per convincere chi sente di avere il vento in poppa- che è tale, comunque la si pensi sulle responsabilità della guerra. Un emissario di Trump ha incontrato nelle scorse settimane una esponente di una opposizione siriana riconosciuta da Mosca con la quale ci sarebbe accordo sulla transizione. Inutile dire che si tratta id un personaggio discutibile e senza seguito e che un accordo con questa opposizione significherebbe la continuazione del conflitto e, ma questo starà già succedendo in queste ore, l’ulteriore radicalizzazione dei ribelli.

L’unico che sembra darsi da fare è John Kerry, che vorrebbe cercare di dare una forma alle trattative diplomatiche e restringerle, per ora, al solo destino di Aleppo. Il Dipartimento di Stato non diffonde molto la cosa, ma il Segretario di Stato sta cercando di trovare una formula per fermare le bombe. Il Washington Post pubblica un dietro le quinte nel quale si spiega che l’intenzione di Kerry è quella di convincere i governi siriano e russo di fermarsi. «La strategia è quella di restringere il focus dei negoziati per coprire solo Aleppo, e di includere nei colloqui anche Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Iran. Favorevoli alla formula sono i membri dell’opposizione siriana che lascerebbero Aleppo orientale in cambio di un lasciapassare. Il regime di Assad e la Russia dovrebbero allora porre fine all’assedio e permettere agli aiuti di passare. Kerry e Lavrov si sono sentiti e continueranno a farlo, ma non si capisce perché Mosca, dopo mesi di lavoro, dovrebbe cedere proprio adesso che la battaglia è quasi vinta. Colpisce, in questa situazione, dopo che Erdogan ha minacciato di far passare i profughi in Europa, il silenzio di tomba dell’Europa e dei suoi governi, che hanno assistito tutti, senza eccezioni, a anni di violazioni dei diritti umani e delle convenzioni internazionali senza muovere un dito.

«Non abbiamo più casa e sono quasi morta». Il tweet di Bana Alabed, bambina di sette anni che twitta da Aleppo e che alcuni sostengono essere un account falso. La polvere sembra vera

Firme false, l’inchiesta si allarga. Altri deputati M5s coinvolti

Beppe Grillo in piazza della Signoria a Firenze in occasione del Restituition Day, 28 novembre 2016. ANSA/MAURIZIO DEGL'INNOCENTI

E mentre a Firenze Grillo sfila per il Restitution Day, le inchieste sulle firme false si estendono.

Salgono a 13 gli indagati a Palermo del Movimento 5 Stelle. Tra questi, la parlamentare Giulia Di Vita. L’indagine sulle firme raccolte in occasione delle elezioni comunali che ha travolto il capoluogo siciliano, non sembra destinata a sgonfiarsi, tutt’altro. Oggi, la deputata Claudia Mannino, indagata assieme al marito, l’attivista Pietro Salvino, ha rifiutato di rispondere ai pm, sia di rilasciare un saggio grafico, ovvero di sottoporsi alla prova grafica finalizzata a confrontare la calligrafia. Stessa cosa ha fatto Salvino e soprattutto l’ex capogruppo alla Camera, Riccardo Nuti. Atteggiamento insolito per il Movimento, notoriamente a favore della trasparenza e della collaborazione con la magistratura, e solitamente così loquace.

Tutt’altro l’atteggiamento di Giorgio Ciaccio, deputato all’Ars, che avrebbe, a quanto si apprende, reso ampia testimonianza sulla fatidica notte del 12 aprile. Notte in cui sarebbero state ricopiate centinaia di firme (tra le 150 e le 400). A differenza di quanto stanno facendo i deputati nazionali, Ciaccio, appena saputo di essere sotto inchiesta, si è auto-sospeso dal Movimento, come la collega Claudia La Rocca, che per prima aveva raccontato “lo stupido errore”. E a differenza di quanto aveva richiesto Beppe grillo a mezzo blog. Non solo, Ciaccio, come la collega La Rocca, avendo acconsentito a collaborare con la magistratura, ha ammesso la partecipazione all’organizzazione della falsificazione delle firme, dei deputati Mannino e Nuti. Anche quest’ultimo, chiamato in Procura, si è avvalso della facoltà di non rispondere, così come di fare il confronto calligrafico. Scena muta davanti ai pm per Mannino, Salvino e Nuti (i primi deputati della storia del Movimento a essere indagati), ma anche davanti ai giornalisti, ai quali la deputata avrebbe perfino voluto far cancellare, dai carabinieri, le foto scattate. Gli interrogatori proseguiranno per tutta la giornata.

Intanto a Bologna, nell’indagine sulle firme false per le regionali del 2014, per ora gli indagati risultano essere solo 4, ma non è escluso che aumenteranno le persone coinvolte. Tra le centinaia di testimonianze raccolte, iniziano a spuntarne diverse che non riconoscerebbero la propria firma. Non solo irregolarità, dunque, ma anche qui falsificazioni. E nel capoluogo emiliano-romagnolo, il clima si sta facendo sempre più pesante. Dopo una serie di telefonate anonime, minacce e insulti rivolti agli autori dell’esposto, gli ex grillini Paolo Pasquino e Stefano Adani, quest’ultimo è stato messo sotto protezione dai carabinieri. Nel frattempo l’indagato Marco Piazza, consigliere comunale e vicepresidente del Consiglio, ha dichiarato che non ha nessuna intenzione di sospendersi fino a quando non gli verrà recapitato l’avviso di garanzia. Piccolo dettaglio: la Procura non ha l’obbligo di notificare l’iscrizione nel registro degli indagati. La mancata notifica non significa l’esclusione dall’inchiesta. Piazza dunque, potrebbe restare nel Movimento da indagato, fino all’avviso di fine indagine.

Romano Prodi: «L’Unione europea non è più quella di una volta»

Prodi e Juncker
epa05528518 Former Italian prime minister Romano Prodi (L) is welcomed by the President of the European Commission, Jean-Claude Juncker (R) ahead of an informal dinner at the European Commission, in Brussels, Belgium, 07 September 2016. EPA/STEPHANIE LECOCQ

È un Romano Prodi nostalgico quello intervistato a Bologna da Politico.eu, il sito che segue le vicende europee in maniera costante con lo stile del fratello americano (di cui è una derivazione).

Durante il colloquio svoltosi presso gli uffici della Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli, Prodi ha parlato del ruolo della Commissione europea nell’assetto istituzionale comunitario, ma non solo.

Interrogato sul funzionamento dell’Europa di oggi, ha ammesso che l’Ue è passata dall’essere «un’unione di minoranze a una coalizione di Stati». Prodi ha poi denunciato l’importanza crescente che ha assunto il Consiglio rispetto alla Commissione. Secondo l’ex Primo ministro, la conseguenza è che alcuni Paesi hanno assunto un ruolo prominente rispetto ad altri: la Francia e l’Italia hanno perso di rilevanza in confronto al Regno Unito e alla Germania. Fino al giorno in cui la Gran Bretagna non si è auto-esclusa dal governo dell’Unione.

La conseguenza? Oggi, secondo Prodi, è la Germania a dettare legge in Europa. Tanto che: «La soluzione alla crisi greca non è stata delineata lungo l’asse Bruxelles-Atene, bensì lungo quello Berlino-Atene».

Prodi, ha anche parlato anche di Cina. Le riposte ai tentativi di investimento del gigante asiatico nel nostro Continente sono sempre rilegati all’improvvisazione. Al contrario, il Paese orientale ha sviluppato una chiara strategia che definisce quali attori possono investire in quali settori dell’economia.

Infine, una stoccata sul referendum. Sebbene l’ex Primo ministro non si sbilanci sul voto, ai microfoni di Politico, ammette che «i referendum sono soltanto di rado incentrati sul contenuto del quesito che viene posto ai cittadini».

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«Querido Fidel…», la lettera d’addio di Pepe Mujica a Castro

epa05130591 From left to right, wife of Former Uruguayan President, Jose Pepe Mujica, and Senator, Lucia Topolanski, former Uruguayan President, Jose Pepe Mujica, President of Cuba, Raul Castro, Presdient of University Students Federation, Jennifer Bello and Commander of Cuban Revolution, Ramiro Valdes, seen at the traditional Torch March marking the birth of Cuban national hero, Jose Marti, in La Havana, Cuba, 27 January 2016. EPA/Alejandro Ernesto

«Voglio dire una cosa, c’è in Fidel, e con lui in una parte del popolo cubano, una statura di Quijote perché gli è toccato vivere un lungo periodo della sua storia sfidando la prima potenza mondiale. Non è cosa semplice avere coraggio, decisione e capacità di resistenza in questa epoca». Così, paragonandolo a Don Quijote, Pepe Mujica ricorda Fidel Castro poche ore dopo la morte del Lider Maximo, a Telenoche.

Poi, scrive di suo pugno una lettera d’addio. Dove, tra l’accenno veloce a un’intimità e l’ammirazione esplicita, rimprovera a Fidel di averci lasciati “orfani”. Eccola.

Querido Fidel:
appena appresa la notizia, è stato devastante. Non mi riesce di immaginarti, steso sul piccolo letto di legno che si è trasformato nel tuo ultimo rifugio. E sto qui, seduto all’ingresso della fattoria, pensando a cosa dirò al mondo e a come nascondere queste lacrime, anche se alcuni pubblicitari direbbero che sarebbe meglio si vedessero, che è così che si costruiscono le leggende.

Ma le leggende non si possono costruire, tu sei stato una leggenda, forgiata con lo stesso colpo della mitraglia e la bandiera sventolante nell’accampamento, là nella sierra. Non importa che fosse selva o pampa, è lo stesso, la battaglia duole nelle viscere di quella che chiamiamo la nostra terra. Che percorriamo ma che percorre noi stessi.

E penso di aver avuto fortuna, perché ho raggiunto la sedia da vecchio e la faccia da “bonaccione” non mi ha mai lasciato, nonostante la prigionia e la tortura; le critiche verso di me sono state minori, non ho dovuto affrontare il rigore del controllo pubblico al quale tu hai fatto fronte con statura di gigante. Hai dato esempio al mondo. Io non sono stato costretto a combattere tra patrioti e traditori, nessuno mi ha mai bollato come un tiranno. Ma questa fortuna può anche essere intesa in modo differente.

Il mondo che ho affrontato io è quello delle carte di credito e delle vite consumate in una lotta per la quale non c’è guerriglia possibile. Tutti mi ascoltano con attenzione, sorridono, applaudono e continuano a condurre le loro vite vuote con cose che li consumano, nel tempo, ma inevitabilmente. Lasci Cuba che continuerà lì, senza analfabetismo, con il miglior sistema di sanitario pubblico, con la migliore educazione del Continente e io ancora qui, nella battaglia, non per la vita, ma contro l’oblio, assorto in una lotta che non ha alcun senso perché il Sud diventa sempre più Sud ogni giorno, i mostri insistono nell’avanzata e adesso ci attaccano da tutte le parti.

La breve illusione del continente bolivariano torna a svanire, con la scomparsa di Hugo (Chavez, ndr), l’ignominiosa uscita di Dilma (Rousseff, ndr) e Cristina (Kirchner, ndr), il mio confino in uno scranno del Parlamento e lo stato di orfani in cui ci lasci. Presto l’assurdità di un mondo che non impara dalla sua Storia ci divorerà nuovamente.

Le ombre ci perseguitano e per oggi, caro amico, te ne sei andato e non terremo un’altra di quelle interminabili conversazioni in cui si respiravano amore e vittoria, dalle quali uscivo ringiovanito, sentendo che avrei potuto affrontare il più temibile dei gárgolas (grondaia con sembianze di mostro, ndr) o attraversare l’abisso con una sola spinta. La tristezza è inevitabile.

Ma che diresti tu? «Dai loco, non devi essere triste e cosa c’è di più? È solo carne e pelle, non fare il morto tu, la lotta prosegue e va avanti in ogni caso», e io dico alla mia mente provata: «Lui non parlava così, non era irriverente», meglio pensare che avresti detto qualcosa di più brillante, non le storie di questo vecchio pazzo che strappa applausi della folla, ma non è riuscito a muovere il suo popolo come te. Da Oriente* appare una battaglia finale? Difficile, non impossibile… nel frattempo, a te, stella dei Caraibi, una strizzatina d’occhio e un “¡Hasta la victoria… siempre!”.

El Pepe

*Fu a Oriente, sulla spiaggia orientale di Cuba (che oggi si chiama appunto provincia del Granma), che il ‘Granma’ raggiunse l’Isola. Quando è stata diffusa la notizia della morte del lider maximo, il 25 novembre, correva il 60esimo anniversario della spedizione del “Granma”, l’imbarcazione che salpò dal porto messicano di Tuxpan con 82 rivoluzionari a bordo. Soltanto in 12 riuscirono a fuggire agli attacchi militari dopo lo sbarco – tra loro Fidel Castro, Ernesto Che Guevara e Camilo Cienfuegos – e in meno di tre anni avrebbero rovesciato il regime di Batista.

«Milioni di illegali hanno votato»: con Trump, la post-verità entra alla Casa Bianca

Un comizio di DOnald Trump
FILE - In this Nov. 7, 2016 file photo, then-Republican presidential candidate Donald Trump gestures as he arrives to speak to a campaign rally in Raleigh, N.C. Trump says of his voters "I am your voice." But there's really nothing in Washington to amplify it. (AP Photo/ Evan Vucci, File)

Nelle ultime settimane di campagna elettorale, lo staff del futuro presidente degli Stati Uniti aveva fatto in modo di cambiare la password del suo account twitter. E così l’account seguito da milioni per qualche giorno non aveva prodotto iperbole, insulti, mezze verità o enormi bugie. La campagna è finita, Trump è presidente e gestisce di nuovo il social da 140 caratteri. E si vede.

La notizia è nota: Jill Stein, candidata verde alle presidenziali ha decisi di raccogliere fondi per chiedere il riconteggio delle schede in alcuni Stati. La raccolta è stata un enorme successo, mai qualcuno non appartenente a uno dei due partiti maggiori aveva messo assieme tanti soldi (non suoi), e le operazioni di riconteggio sono state avviate in Wisconsin. Poi verranno Michigan e Pennsylvania (qui raccontiamo cosa potrebbe succedere e perché il recount ha senso). La campagna Clinton, si è associata alla richiesta, ufficialmente per verificare se non ci siano state influenze esterne sul sistema informatico di conteggio dei voti – leggi: hackeraggio da parte dei russi o di altri.

La reazione di Trump è stata quella che vedete qui sotto e recita: «Oltre ad aver vinto l’electoral college a valanga, avrei vinto anche il voto popolare se non contassimo i milioni di persone che hanno votato illegalmente».

Segue serie di tweet in cui si attacca Clinton «che mi ha concesso la vittoria», si ricorda l’indignazione della candidata quando a domanda sulla legittimità del risultato elettorale Trump rispose «Non so, ve lo dico dopo le elezioni». Infine, si sostiene che ci sono stati brogli elettorali in Virginia, California e New Hampshire, Stati vinti da Hillary.

Se da un lato colpisce il tono della risposta, meno presidenziale che mai, la cosa che più impressiona è il fare affermazioni palesemente false senza lo straccio di una prova, senza fornire un elemento, un esempio. Semplicemente: a milioni hanno votato illegalmente, ed è vero perché ve lo dico io.

Dopo il referendum sulla Brexit, si è spesso detto che siamo entrati in maniera definitiva nell’era della post-verità. Non contano i fatti, le cose che succedono, variamente interpretate a seconda del punto di vista politico – posso chiamare quello dei rifugiati siriani un’invasione islamica o un esodo drammatico, ma sto parlando di una cosa che succede. Conta ciò che si afferma e il modo in cui lo si fa. Così durante la campagna referendaria britannica si discuteva del peso eccessivo degli europei sul sistema sanitario nazionale, anche se i numeri erano clamorosamente falsi, e così oggi si discuterà dei milioni che hanno votato illegalmente. Post-verità (post-truth) del resto, per l’Oxford dictionary è la parola dell’anno.

Ora, la notizia sulle frodi non è inventata da Trump, ma solo ripresa. Il giro è il seguente: alcuni account twitter parlano di frode elettorale, InfoWars, sito di destra noto per riprendere teorie del complotto ci ha scritto un articolo, l’articolo è stato rilanciato 50mila volte sui social network, che facendo un calcolo a spanne significa che almeno 10 milioni di persone hanno visto il titolo sulla loro timeline di Facebook. E così la notizia è diventata vera. Come quella su Soros che finanzia le manifestazioni anti-Trump – ripresa anche da Huffington Post e Linkiesta, di cui avevamo parlato qui.

Il tema è enorme e il fatto che queste notizie vengano spesso riprese anche da media considerati credibili, magari confezionate per non fare troppa brutta figura, è un segnale del fatto che siamo appunto entrati in un’era di post-verità, nella quale è vero ciò che diventa vero per gruppi di persone attraverso dei canali non necessariamente autorevoli, non necessariamente verificati. Con effetti non indifferenti sulla politica, come abbiamo visto con la Brexit e con Trump. Che poi queste non verità si accomodino su dei sentimenti reali – la sofferenza della classe lavoratrice bianca americana, le paure per il mondo che cambia e la Old England che non c’è più – è un altro discorso.

Con la serie di tweet di Trump di ieri c’è un altro passaggio: perché non usciamo da un clima di campagna elettorale permanente nel quale gli avversari sono truffatori, banditi, poveracci perdenti; perché a usare questi toni è il presidente e non qualcuno che parla in suo sostegno (che non a caso si è portato alla Casa Bianca Steve Bannon, stratega e mago della manipolazione delll’informazione). I politici dicono spesso mezze bugie, esagerano, amplificano e solleticano le paure o le speranze delle persone. Anche quello è il loro mestiere: per fare delle cose bisogna farsi eleggere e, quindi, generare consenso. Trump non stiracchia, fa un uso sistematico di notizie clamorosamente false. Lo fa per coprire i suoi problemi, per sviare l’attenzione, per alimentare una base che non aspetta altro che credere alle sue esagerazioni. E per questo è un nuovo salto di qualità. I media, i padroni dei social media che tanto contribuiscono ad alimentare il fenomeno e soprattutto ciascuno di noi, che è anche un consumatore di notizie, dovrebbe farci i conti e imparare a verificare ciò che sente dire.