Il dialogo Picasso-Giacometti a Parigi, Caravaggio a Londra , Alberto Burri a Città di Castello, Anish Kapoor a Roma, Ai WeiWei a Firenze, Yves Klein a Liverpool, e molto altro. Le mostre da vedere durante le feste, aperte anche l’ultimo dell’anno. Ecco un carnet ricco di proposte:
Picasso e Giacometti a Parigi Il Museo Picasso fa dialogare le proprompenti opere di Pablo Picasso (1881-1973) con quelle tormentate ed essenziali di Alberto Giacometti (1901-1966), due protagonisti del Novecento che hanno approfondito il tema della rappresentazione cercando l’invisibile, la realtà interiore dei soggetti che nelle loro pitture e sculture non è più riconoscibile come fisionomia cosciente, ma assume un senso più profondo e, in questo modo, universale. Il piano piano terra e il primo piano del Musèe Picasso diventano così teatro per oltre 200 opere dei due maestri provenienti dalla Fondazione Giacometti, dall’enorme collezione picassiana del museo parigino e da collezioni private, che offrono opere raramente viste. Durante il lavoro di ricerca per la preparazione di questa esposizione sono emersi documenti inediti, schizzi, taccuini che illuminano il raporto non solo formale, fra lo schivo Giacometti e il meno rriservato Picasso di vent’anni più grande. la mostra approfondisce vari aspetti delle loro diversissime personalità mettendo in luce la loro grande libertà di ricerca e di invenzione. Ma anche il gusto per la dialettica e il confronto che fra loro si snodò, dai primi anni Trenta intorno al tema del ritorno al realismo che segnava quegli anni per proseguire poi nel confronto con il surrealismo, che per Picasso fu un interesse fugace e che non portò buoni frutti. Nelle otto sezioni, seguendo un filo cronologico e tematico, la mostra invita a uno stimolante confronto fra le loro rispettive creazioni individuano corrispondenze inedite e comuni passioni come quella per le arti non occidentali. Cosi al paffuto Paul in veste di Arlecchino di Picasso fa eco il filiforme Pinocchio di Giacometti, alla , Donna seduta in poltrona rossa (1932, in foto) corrisponde dialetticamente The Goat (1950) dello scultore svizzero . E ancora Donna (1933-1934) e Male camminare (1960) e molto altro fra disegni, sculture, dipinti e bozzetti. Fino al 5 febbraio 2017
Restando in Italia si segnalano altre due interessanti occasioni per vedere opere di Picasso dal vivo. All’Ara Pacis, fino al 19 febbraio, Picasso Images mentre l’Arena Museo Opera di Verona (AMO), fino al 12 marzo propone Picasso figure 1906-71 un’opera per ogni anno della vita di Pablo Picasso lungo un arco temporale che va dal 1906 fino all’inizio degli anni ‘70. In mostra circa novanta opere del pittore spagnolo fra le quali Nudo seduto (da Les Demoiselles d’Avignon del 1907), Il bacio (1931), La Femme qui pleure e il Portrait de Marie-Thérèse entrambe del 1937 e molte altre opere approfondite nel catalogo Skira.
Beyond Caravaggio è la mostra dell’anno a Londra ed è la prima esposizione inglese che propone di esplorare l’influenza del rivoluzionario realismo di Caravaggio sulla pittura del suo tempo. Non solo fra i suoi seguaci più diretti, perché la fama del Merisi si sparse presto per l’Europa e maggiori artisti del Seicento accorsero a Roma per vedere i suoi capolavori, cercando di emulare il suo crudo e intenso naturalismo, e i suoi drammatici chiaro scuri, di cui tuttavia restarono nella maggior parte dei casi solo deigli imitatori. Lo stile caravaggesco diventò un must anche nel nord Europa, salvo poi tramontare nei secoli successivi che videro Caravaggio precipitare nell’oblio ( fino alla sua riscoperta novecentesca grazie a Roberto Longhi). In questa mostra, in parte esemplata su quella presentata fino all’estate scorsa a Madrid, sono raccolte opere preziose di caravaggio come Amor vicit omnia e questo corrucciato San Giovanno battista proveniente da . E poi la cattura di Cristo del 1602 e accanto ad opere di Orazio Gentileschi, Valentin de Boulogne, Jusepe de Ribera e Gerrit van Honthorst e altri maestri spagnoli, fiamminghi e olandesi. Fino al 15 gennaio 2017.
A Roma, intanto, oltre a poter vedere dal vivo alcune delle opere più importanti di Caravaggio, si può vedere la Canestra dell’Ambrosiana con cui il Merisi rivoluzionò la tradizione della natura morta, dando pari dignità alla rappresentazione di figure umane e oggetti, che dalle sue mani acquistano un senso trasfigurato e umanissimo. Dipingendo pere, mele, fichi, uva con acini ammaccati Caravaggio raccontava altro e in questo modo rivendicò l’autonomia della pittura, come realtà parallela e potenziata che nulla a che fare con ripetitività e i rigidi canoni della pittura di genere. Lo racconta la mostra L’origine della natura morta in italia che nella Galleria Borghese, accanto alla Canestra, espone l’autoritratto come Bacco (Bacchino malato), il Ragazzo con cesta di frutta, il Suonatore di liuto e la Cena in Emmaus Mattei. Curata da Anna Coliva con Davide Dotti e accompagnata da un catologo Skira, è aperta fino al 19 febbraio. Da non perdere l’appassionata e colta monografia su Caravaggio che lo storico dell’arte Tomaso Montanari presenta su Rai 5. Con il titolo La vera natura di Caravaggio, prodotta da Land comunicazioni, offre un’occasione di approfondimento puntuale, non scontata e conivolgente. Venerdì prossimo andrà in onda la terza puntata. Chi avesse perso le precedenti può rivederle su Rai replay
Burri a Città di Castello. Qualcosa di caravaggesco potremmo scovare anche in Alberto Burri, nei suoi toni ombrosi e nei contrasti fra brulicante nero e rosso vivo. Nella carnalità della pittura che, benché astratta, ci parla di umanissimi drammi. Dopo la grande mostra al Guggenheim per il centenario della nascita dell’artista umbro è la sua Città di Castello a rendergli omaggio, con una mostra curata da Bruno Corà. Con il titolo, Alberto Burri: lo Spazio di Materia – tra Europa e U.S.A, negli Ex Seccatoi del Tabacco, indaga i rapporti fra il maestro dei cretti, dei sacchi, delle compustioni con filoni come il New Dada, il Noveau Réalisme e l’Arte Povera , di cui lui fu indiretto ispiratore. Direttore della Fondazione Burri e fra i più fini interpreti della sua opera, Bruno Corà mette in luce l’invenzione linguistica scaturita dal suo lavoro. “Nell’impiego diretto e pressoché esclusivo della materia ne ha ottenuto una spazialità inedita all’insegna di un “controllo dell’imprevisto” e di un magistrale equilibrio che ne ha qualificato le forme” scrive Corà . Accanto ad un nucleo scelto di una ventina di opere di Burri – dai catrami alle muffe, dai sacchi ai gobbi, dai legni alle combustioni, dai ferri alle plastiche, dai cretti ai cellotex fino al “nero e oro” – sono esposte opere di Pollock, Motherwell, Hartung, De Kooning, Wols, Calder, Marca-Relli, Scarpitta, Matta, Nicholson, Tàpies, Colla, Rauschenberg, Twombly, Johns, Fontana, Manzoni, Castellani, Uncini,, Klein, Rotella,, Kounellis, Calzolari, Pistoletto, Pascali, Scialoja, Mannucci, Leoncillo,, Afro, Capogrossi, Kiefer, Miró e molti altri artisti del secondo Novecento assonanti con la ricerca di Burri. Fino al 6 gennaio 2017.
Frida Khalo a Bologna Non solo Frida, ma anche opere di artisti che furono amanti, amici e sodali dell’artista messicana. In mostra a Bologna si possono vedere opere di Diego Rivera che fu anche suo compagno di vita in una tormentata relazione durata molti anni. Organizzata da Arthemisia (catalogo Skira) questa esposizione presenta opere della Collezione Gelman, una delle più importanti raccolte d’arte messicana del XX secolo. Oltre ai quadri di Kahlo, Rivera, RufinoTamayo, María Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Ángel Zárraga si possono vedere fotografie, documenti, bozzetti, mmagini iconiche, abiti e gioielli, proponendo così vari percorsi all’interno della “Rinascita messicana” (1920-1960) e delle vicende, non sempre facili, dei suoi protagonisti. La Collezione Gelman è nata nel 1941, quando Jacques Gelman e Natasha Zahalkaha, emigrati dall’Est Europa, si incontrarono a Città del Messico. All’inizio raccolse le opere di artisti messicani già affermati, tra cui Maria Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Rufino Tamayo e Angel Zarraga, succcessivamente entrarono anche quelle di Frida Kahlo e Diego Rivera. Parte del ricavato della mostra sarà devoluto ai terremotati. Fino al 26 marzo 2017
Yves Klein alla Tate Gallery di Liverpool Noto soprattutto per i suoi monocromi blu oltremare, Yves Klein è stato il geniale folletto dell’arte francese del Novento, purtroppo scomparso troppo presto. La Tate Gallery di Liverpool lo omaggia con una affascinante retrospettiva, in cui sfilano molte delle migliori invenzioni, sculture e opere pittoriche astratte, ma spesso realizzate a partire da modelle in carne in ossa. Come le sue Antropomotrie, realizzate invitando modelle nude a bagnarsi nel colore per poi lasciare fuggevoli impronte su grandi tele stese per terra. L’aspetto ludico, e una infinità curiosità verso culture diverse da quella occidentale, a cominciare da quella giapponese, sono i fili che attraversano sotteraneamente tutta l’opera di questo poliedrico artista francese che attraverso l’astrattismo una nuova spazialità che non fosse solo fisica. E che, affascinato dall’opera di Lucio Fontana, cercò di seguirne la strada come raccontava una bella mostra Klein Fontana Milano Parigi 1957- 1962 al Museo del Novecento a Milano. Fino al 5 marzo 2017.
L’espressionismo al Man di Nuoro La loro grafica tellurica, le immagini scheggiate, l’uso antinaturalistico del colore fecero dell’espressionismo un movimento che immediatamente segnava una differenza da tutta l’arte precedente, non solo da quella polverosamente accademica. Mentre in Francia germinava il movimento Fauve grazie a Matisse, in quello stesso anno, il 1905, a Dresda nasceva Die Brücke, provando a gettare un ponte fra la modernità metropolitana e la tradizione nordica improntata a un gusto del primitivo, del paesaggio selvaggio, letto in chiave spritualista. La mostra Soggettivo primordiale, aperta al MAN di Nuoro fino al 5 febbraio, ripercorre la storia dell’espressionismo tedesco attraverso una selezione di oltre cento opere provenienti dalla collezione dall’Osthaus Museum di Hagen. E nel catalogo edito da Magonza i due curatori, Tayfun Belgin e Lorenzo Giusti, mettono bene a fuoco questa discrasia intrinseca all’estetica espressionista. Tanto che pittori come Kirchner, come Nolde e persino artisti dichiaratamente di sinistra come Grosz potevano essere facilmente equivocati nella loro ricerca di “autenticità” e rifiuto del filisteismo borghese. Mentre il vitalismo, la critica degli aspetti disumani del nascente capitalismo e la trasformazione del popolo in massa amorfa e atomizzata, rappresentati nella loro pittura, furono addirittura cavalcati in una prima fase dal nascente nazionalsocialismo. Così il culto del nord, certo romanticismo esoterico, la grafica galvanica di Kirchner, Heckel e compagni diventarono il segno ambiguo che poteva essere letto e fatto proprio anche delle destre. Gli espressionisti si fecero sismografi di qualcosa di terribile che si stava profilando all’orizzonte, artisti come Grosz, che poi sarebbe fuggito negli Stati Uniti, rappresentavano questo clima plumbeo con volti ghignanti, profili aguzzi, ambienti sghembi, che sembrano precipitare. Il nazismo cercò di pervertire il senso dell’espressionismo, cercando di appropriarsene. Quando Hitler prese il potere nel 1933, quegli stessi elementi diventarono il segno, lo stigma, il motivo per cui l’arte espressionista fu bollata come degenerata ed esposta al pubblico ludibrio nella mostra del 1937, fra cartelli di insulti e disegni di malati di mente. fino al 5 febbraio 2017
Kirkeby a Mendrisio (Mi) Non solo artista e poeta, ma anche geologo, Per Kirkeby si è spesso occupato del «grande e continuo movimento che giace sotto la superficie del globo, sotto le nostre vite, che si esprime in salti, in fratture, in ciò che i geologi leggono come faglie»; è questo movimento tellurico a percorrere in maniera carsica l’universo pittorico di quest’artista (classe 1938), forse meno conosciuto di Anselm Kiefer a cui talvolta viene accostato, ma che ha alle spalle un percorso ricchissimo e affascinante. Essendosi dedicato anche alla scultura e a interventi in spazi architettonici aprendoli al cielo, al verde, alla natura, come quello realizzato anni fa per la città di Torino. Negli anni Settanta del Novecento è stato vicino al neo espressionismo di Markus Lüpertz e Georg Baselitz. Ma si è sempre distinto per una sua vena poetica, lontana dall’aggressività materica dei cosiddetti neo selvaggi tedeschi. Per scoprire il suo universo pittorico si può andare a vedere la personale che,gli dedica il Museo d’arte di Mendrisio, poco lontano da Milano. Il percorso espositivo, curato da Simone Soldini, è incentrato sul periodo che va dal 1983 al 2012, particolarmente fertile, forse il più maturo, in cui il talento di Kirkeby si è espresso in tele di grandi dimensioni che invitano ad addentrarsi in una fitta foresta di forme astratte, con una tavolozza di verdi profondi, attraversati dalla luce e poi delicate opere su carta, acquerelli fatti durante esplorazioni in Groenlandia. Completano il percorso sei sculture realizzate per la scenografia di spettacoli del Teatro Reale di Copenaghen e il New York City Ballet. Ma vorremmo ancora soffermarci un momento sui dipinti. Non solo perché invitano a “vedere” che la quiete apparente della crosta sulla quale appoggiamo è perennemente instabile e che il suo movimento genera un palinsesto di nuovi “fogli” per l’artista. Ma soprattutto perché l’invito di Kirkeby a «posare lo sguardo», poeticamente su ciò che ci circonda ha come fine la creazione di immagini nuove, senza sudditanza servile alla realtà cosciente. Scienziato e insieme artista, proseguendo sulla strada aperta da Cézanne con la serie di vedute della Saint Victoire, Kirkeby invita a diffidare di chi propone figure di frattali e colori sintetici come nuova visione. Il postmoderno in questo senso non segna un positivo salto di paradigma e svia dalla ricerca sulle immagini. Il nuovo in pittura non può essere la trascrizione meccanica di scoperte della fisica, pur importantissime. L’artista danese sviluppa questo suo discorso teorico in un saggio che si può ora leggere nel catalogo della mostra pubblicato da Mendrisio Museo d’arte. Fino al 29 gennaio 2017,
Paul Signac a Lugano Estroverso, amante dei viaggi e allergico alla disciplina troppo rigida. Ma anche lettore curioso e attento alle novità, soprattutto di ambito scientifico, Paul Signac non visse soltanto la stagione post impressionista, dove lo confinano i manuali. Ma navigò a vele spiegate nel mondo delle avanguardie seguendo una propria rotta. Sviluppando una ricerca sulle potenzialità espressive del colore. Fino ad abbandonare completamente le fugaci e pallide visioni dell’impressionismo e il freddo pointillisme post impressionista – che egli stesso aveva contribuito a inventare – per avvicinarsi a un uso del tutto libero, irrazionale del colore, alla maniera dei Fauves e dal primissimo Henri Matisse.Diversamente dall’amico e sodale Georges Seraut, con il quale condivise gli studi di ottica e l’interesse per la fotografia, Signac non accettava di buon grado di stare rinchiuso nel proprio studio a dipingere paesaggi costruiti meticolosamente a furia di puntini. All’inizio si era entusiasmato all’idea di provare ad emulare il meccanismo della visione, che prende forma e si compone a partire da macchie separate, ma non era così ossessivo da passare intere giornate in quell’esercizio. Come ricostruisce la curatrice Marina Ferretti Bocquillon nel catalogo Skira della mostra Signac riflessi sull’acqua al Masi-Lugano, il pittore francese ben presto sostituì l’evanescente puntinismo con pennellate di colore più larghe, poi cercò di trovare una nuova strada attraverso l’acquerello che gli offriva la possibilità di dipingere in modo più libero e appassionato, senza la rigida maschera di una tecnica “a mosaico”. Nascono così evocative e sfrangiate vedute di Venezia (in mostra a Lugano con altre 140 opere di Signac); una Venezia dipinta nel 1904 all’imbrunire, con vibranti tocchi di bluette che – azzardiamo – sembrano anticipare le antropometrie di Yves Klein. Un anno dopo, con La place des Lices a Saint Tropez, Paul Signac era già oltre, sperimentava con acquerello, penna e inchiostro, guardando ad Oriente, emulando Van Gogh e il suo interesse per le stampe giapponesi. Fino alla fine Signac (1863-1935) non smise di cercare un modo per reiventare la pittura, andando oltre la mimesis e la riproduzione della realtà basata sulla visione retinica. Lo cercò dipingendo en plein air e nel proprio atelier dove poteva giocare con la fantasia. Ma anche impegnandosi a sviluppare la riflessione teorica, in un’ampia produzione saggistica. Il suo libro su Delacroix e la luce, in particolare, circolò molto anche fra i pittori più giovani, molti andavano a trovarlo in Costa Azzurra dove talora potevano incontrare anche a Matisse. Fino all’8 gennaio 2017
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