Dopo aver disquisito a debita distanza su cosa fosse “bene” o “male” per Taranto, il Covid-19 ci porta ad affrontare lo stesso problema dei suoi cittadini. Mantenere invariato il tenore di vita rischiando l’esistenza nostra e dei nostri cari, o ripartire da dove eravamo rimasti prima di diventare “moderni”?

Negli anni Settanta dei miei vent’anni, d’estate andavo al mare da parenti in Puglia, da solo. Quando partivo mi batteva il cuore. Dopo ore e ore di viaggio, iniziava quella distesa gialla, il pensiero dei giorni a venire s’infilava nel caldo stanco di quella pianura sterminata, come acqua nella terra spaccata dal sole. E in treno, all’ultima curva prima della stazione d’arrivo, mettevo la testa fuori dal finestrino. Quando la corsa cedeva ai freni, gli ulivi smettevano d’inseguirsi, l’odore del ferro bruciato saliva dalle rotaie, s’infilava nelle narici pieno di promesse, col profumo di spighe e di giochi di ragazzi e, finalmente, il treno si fermava. Per strada, nessuno. Controra. Lì, d’estate, il sole picchia duro e asciuga tutto. Un cane attraversava indolente la strada, annusava qualcosa e s’allontanava. Se passava qualcuno non lo conoscevo, né m’interessava. I passi, sempre più svelti. La via principale, la piazza alberata con la fontana al centro, la chiesa. Gli ultimi metri, di corsa. Ero arrivato. In quella stagione ruvida nel suo appiccicarsi alla pelle e ai pensieri, i raggi del sole infilzavano persone e animali, penetrandoli di canicola. Solo quando tutto quel giallo si placava, cedendo all’azzurro della sera si potevano aprire bene gli occhi, e scrutare uomini, macchine, bestie. Noi, io e i miei cugini, salivamo sul tetto della casa, e gareggiavamo a lanciare i sassi contro l’orizzonte più lontano.

Quando lo sviluppo industriale in quella terra che per me era sinonimo di gioia ha cominciato a produrre morti, l’incantamento è finito. Scivolato via, come sabbia dalle dita in riva a quel mare la cui risacca di Lido Venere, il più bello e frequentato di Taranto, restituiva ormai scorie mortali. D’improvviso, la terra tarantina è diventata sinonimo di dolore, per quegli uomini e donne, ma pure bambini: tutti morti di “progresso”. Per meglio dire, d’incontrollato sviluppo industriale. Uno sviluppo chiamato Ilva, ma nato come Italsider in quel 1960 italiano miracolato da un boom economico che aveva creduto di declinare il futuro con l’acciaio. I contadini, i braccianti, gli edili diventati tutti metallurgici, lavorando quel metallo arrivato a primeggiare in Europa, a luccicare come specchio per un futuro radioso non solo per tutta la Puglia ma per il Mezzogiorno intero. Sappiamo come è andata…

Pino Casamassima è giornalista e scrittore. Autore di numerosi libri, ha diretto diverse testate.  Fra le sue numerose collaborazioni c’è anche Rai Storia. 

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