Fino al 10 ottobre al Romaeuropafestival il nuovo spettacolo del regista israeliano realizzato con artisti israeliani, palestinesi e iraniani

House, lo spettacolo-fiume (due ore e mezza) presentato al Teatro Argentina l’8 ottobre nell’ambito dell’edizione del RomaEuropa festival di quest’anno ha coinciso con la prima ricorrenza del 7 ottobre (l’attacco terroristico di Hamas a cui è seguita l’invasione israeliana e il bombardamento di Gaza ora esteso anche al Libano). Per comprendere il punto in cui si è arrivati, è necessario fare un passo indietro e cercare di comprendere le ragioni di questo lungo conflitto, del quale al momento non si riesce a intravedere alcuna soluzione, né pacifica né militare. Amos Gitai, regista israeliano che in più occasioni si è espresso in maniera critica nei confronti del proprio governo, ci aiuta a capire le radici della questione israelo-palestinese. Lo ha già fatto con alcuni suoi film e documentari, tra cui vale la pena citare Bayit (Casa), una docu-fiction del 1980, sul tema dei vari trasferimenti di proprietà di una casa araba a Gerusalemme, commissionato dalla televisione ma poi non andato in onda.
House (realizzato con artisti israeliani, palestinesi e iraniani) riprende il tema di quel documentario e racconta la storia di una casa in Gerusalemme Ovest per un quarto di secolo attraverso le vite degli abitanti che qui si sono succeduti, a cominciare dalla famiglia araba che fino al ‘48 era in possesso dell’immobile e che poi lo aveva abbandonato dopo l’arrivo dell’esercito israeliano, passando per i successivi abitanti, fino ad arrivare agli acquirenti attuali, che realizzano una ristrutturazione per mettere a frutto il loro investimento immobiliare. I lavori vengono affidati a una piccola ditta della Cisgiordania nella quale lavorano operai palestinesi. Il cantiere diventa così il punto d’incontro di personaggi diversi per radici culturali e lingue (gli attori in scena parlano quattro lingue: ebraico, arabo, inglese e francese). Ogni personaggio è portatore di un punto di vista diverso. Ci sono “vincitori” (i nuovi proprietari e il loro architetto) e “perdenti” (gli operai palestinesi), ma tutti condividono un malessere derivante dalla loro condizione di sradicati. Gli acquirenti dell’immobile infatti sono parenti dei sopravvissuti della Shoah che hanno deciso, per diversi motivi, di trasferirsi a Gerusalemme. C’è un artista belga, unico sopravvissuto della sua famiglia, che decide di stabilirsi in Israele, e che è costretto ad imparare l’ebraico da zero, ma c’è anche chi ha deciso di vivere in Israele per motivi religiosi, come una ragazza proveniente da una comunità ortodossa di New York. Ci sono sostanziali differenze tra le diverse ondate e generazioni di ebrei che sono arrivati in Israele (dopo i sopravvissuti della Shoah, arrivarono ondate provenienti dall’Iraq, dalla Turchia e dal Maghreb) che si riflettono anche nei diversi accenti e punti di vista dei diversi personaggi. Ma anche tra gli arabi ci sono sostanziali differenze tra le famiglie arabe che abitavano in Palestina e che nel ‘48 sono state costrette ad abbandonarla (rappresentate dal personaggio dell’antico proprietario che torna a fare visita alla sua casa dove era nato), e i palestinesi della Cisgiordania, costretti a sottostare a ogni genere di vessazioni quotidiane (che i personaggi in scena raccontano in modo piuttosto accurato).
Lo spettacolo in questione, prodotto da La Colline Théâtre National di Parigi diretto da Wajdi Mouawad e che conta nel suo cast Irène Jacob (l’indimenticabile attrice de La doppia vita di Veronica e del Film Rosso di Kieslowski), sostanzialmente rappresenta una sorta di documentario. Non offre soluzioni, anche perché un’opera teatrale non è tenuta e non è in grado di farlo, ma offre una diagnosi piuttosto precisa del male che ha generato quel conflitto, che dalla fondazione del moderno stato di Israele a oggi non è mai cessato (e che nell’ultimo anno è giunto a una delle sue fasi più cruente della sua ormai lunga storia).
Amos Gitai, regista ma anche autore del testo e della scenografia, ha saputo concepire e realizzare un’opera corale, nella quale tutte le anime di un paese, segnato da un tragico destino fin dalla sua nascita, trovano una loro voce.
Da quanto detto si può facilmente dedurre che lo spettacolo in questione non ha un vero e proprio finale. Ogni personaggio espone il suo punto di vista, le sue ragioni, le sue sofferenze e il suo dolore, e potrebbe continuare così per ben oltre le due ore e mezzo della sua durata. Il suo punto di forza, e allo stesso tempo la sua debolezza, è proprio questo: manca il punto finale. Allo stesso tempo rimane un’opera aperta. I personaggi in scena conoscono e sono consapevoli della tragica situazione in cui si trovano, ma non sono in grado di costruire un dialogo per superarla.
L’allestimento è arricchito da un accompagnamento musicale, eseguito dal vivo dal violinista e compositore Alexey Kochetkov, dalle cantanti liriche Dima Bawab e Laurence Pouderoux, dal tenore inglese Benedict Flinn, guidati dal direttore del coro Richard Wilberforce, nel quale si rispecchia tutta la ricchezza delle tradizioni musicali mediorientali, nel quale, almeno idealmente, possiamo immaginare una ricomposizione dei contrasti tra le diverse anime e le diverse voci e lingue che compongono lo spettacolo.

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, scrittore e docente universitario