In un Paese normale, il fatto che la polizia – cioè il ministero dell’Interno – abbia infiltrato un agente sotto copertura in un partito politico regolarmente partecipante alle elezioni sarebbe uno scandalo istituzionale. In Italia scivola via, sepolto sotto il rumore di fondo delle invidie di redazione. Per dieci mesi un agente di appena 21 anni, in servizio presso la direzione centrale della polizia di prevenzione (l’antiterrorismo, che il ministero stesso definisce «polizia politica»), ha frequentato assemblee, manifestazioni, incontri interni di Potere al Popolo. Sempre presente durante la settimana, sempre assente nei fine settimana, senza alcun mandato dell’autorità giudiziaria.
La versione ufficiale, secondo cui sarebbe stato un giovane entrato per caso nel partito senza ordini superiori, crolla di fronte alle date di trasferimento, alla costanza della presenza, ai documenti ufficiali e ai riscontri fotografici. Il Ministero dell’Interno non ha chiarito chi abbia autorizzato, e con quale legittimità, un’attività sistematica di controllo su una formazione politica regolarmente iscritta alle competizioni elettorali.
Ma questo è solo l’ultimo episodio. Prima ancora sono emerse le intercettazioni illegali a giornalisti di Fanpage.it, ai dirigenti delle Ong Mediterranea Saving Humans e Refugees in Libya, e ai loro contatti, spiati attraverso spyware militari come Paragon. Non siamo davanti a una sbavatura. È un salto consapevole in un regime che il dissenso non lo tollera: lo sorveglia, lo controlla, lo neutralizza.
Buon venerdì.
Foto dalla pagina facebook di Potere al popolo