Approvata la riforma costituzionale, ora si va verso il referendum. Ecco il parere del giudice del Tribunale di Torino e componente del Comitato esecutivo di Magistratura democratica

La riforma costituzionale approvata suscita preoccupazione. Tre, schematicamente, gli ambiti di intervento della riforma: la separazione delle carriere; la riforma del Consiglio superiore della magistratura; l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare, esterna al Csm.
Per comprendere le ragioni del grido di allarme lanciato dalla magistratura associata, è utile fare un passo indietro, ai tempi in cui nacque la Costituzione repubblicana. I costituenti avevano nitida memoria di un potere giudiziario che durante il ventennio subì le prepotenti pressioni del regime e risultò in larga parte prono alle volontà del governo. Per questo la Costituente avvertì la necessità di istituire un organo garante dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura dalle maggioranze politiche, affidando al Csm – tra le altre cose – la vigilanza sulla professionalità dei magistrati, la nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari, la valutazione degli illeciti disciplinari da loro eventualmente commessi.

La Costituzione disegnò la fisionomia del Csm in modo che esso fosse autonomo, ma non separato dalle altre istituzioni repubblicane: presieduto dal presidente della Repubblica, il Csm è composto per due terzi da magistrati (eletti) e per un terzo da figure di elevato profilo professionale, elette dal Parlamento con maggioranze qualificate (per favorire la partecipazione di maggioranze e opposizioni alla costituzione dell’organo). Pesi e contrappesi interni al sistema repubblicano, coerenti con l’esigenza di limitazione di ogni potere, scolpita nell’art. 1 della Costituzione.
La riforma altera questi equilibri. Iniziamo dalla composizione che si immagina di introdurre per i due Consigli superiori della Magistratura (il Csm per la magistratura giudicante e il Csm per quella requirente) e dall’istituzione dell’Alta Corte disciplinare. La composizione dei due Csm in apparenza resta immutata negli equilibri (presieduto dal capo dello Stato, composto per due terzi da togati e per un terzo da componenti di designazione parlamentare). Equilibri immutati solo in apparenza: infatti, la componente togata sarà sorteggiata, attingendo all’intera platea dei magistrati; la componente parlamentare sarà, invece, sorteggiata all’interno di professionalità qualificate in ambito giuridico previamente selezionate dal Parlamento. Quanto all’istituzione di un’Alta Corte, cui affidare la giurisdizione disciplinare sugli illeciti attribuiti ai magistrati ordinari (e solo a loro, vai a sapere perché…) la riforma prevede che l’Alta Corte debba essere composta da tre componenti designati dal presidente della Repubblica, tre sorteggiati dall’elenco predisposto dal Parlamento e nove sorteggiati tra i magistrati che svolgono o abbiano svolto funzioni di legittimità (con un sorteggio che, dunque, attinge da una platea di magistrati ristretta e non totalmente rappresentativa della magistratura, così introducendo l’idea di una “gerarchia” all’interno della magistratura). Per i riformatori, l’introduzione del sorteggio è necessaria per affrancare la magistratura dal virus del correntismo.
Due repliche. Primo: il pluralismo culturale in magistratura esiste; prevedere che esso si esprima in modo trasparente – attraverso elezioni e non con il sorteggio – in un organo chiamato ad esercitare funzioni di garanzia, amministrazione e regolazione, mi sembra una logica conseguenza. Secondo: le degenerazioni del sistema di autogoverno non sono prerogativa esclusiva della componente togata (è sufficiente ricordare il c.d. caso Natoli o diverse occasioni in cui già oggi la componente laica espressa dalla contingente maggioranza politica ha dimostrato di agire in una logica “di gruppo”). È evidente il diverso criterio di legittimazione delle componenti togate rispetto alle componenti di estrazione politica. La sorte sarà cieca, ma solo a metà: per i togati, una legittimazione istituzionale debole (la pura sorte); per la componente politica, la sorte attingerà invece da una platea di persone già selezionate politicamente; senza nemmeno la cautela di richiedere che l’elenco dei “sorteggiabili” sia compilato con maggioranze qualificate. Se si pensa alla verticalizzazione del potere politico cui stiamo assistendo, all’affermarsi di logiche di maggioranza nella vita istituzionale, ai sistemi elettorali vigenti, alle altre riforme costituzionali in cantiere (il premierato) è facile prevedere che gli elenchi dei sorteggiabili stilati dal Parlamento vedranno una dominante presenza della contingente maggioranza politica. Non una buona notizia per l’indipendenza della magistratura, posto che la valutazione di professionalità, il potere di attribuire o meno incarichi ritenuti di prestigio e, peggio, la competenza disciplinare assicurano la possibilità di conformare – con lusinghe o minacce di “carriera” – l’habitus mentale dei singoli magistrati, con prevedibili conseguenze sull’indipendente esercizio della giurisdizione. Affidare tali attribuzioni ad organi – che dovrebbero essere “di garanzia” – in cui la componente di estrazione politica ha concrete possibilità di risultare egemone suscita forte preoccupazione per l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione.
Veniamo infine alla separazione delle carriere. La riforma prevede l’impossibilità di transito dalla carriera giudicante a quella requirente (e viceversa) e l’istituzione di due Csm. È un intervento necessario? È utile?
È bene partire dai dati. Già oggi, vi sono regole rigide (che qualificano irreversibile l’unico passaggio di funzioni tollerato; che impongono il trasferimento di sede e il divieto per gli ex Pm di esercitare per diversi anni funzioni giudicanti penali), tali da rendere il transito da una “carriera” all’altra un’evenienza statisticamente irrilevante (ogni anno inferiore all’1%). Non era dunque necessario riformare la Costituzione.
Secondo i suoi sostenitori, la riforma sarebbe però necessaria per assicurare – in nome dei principi del giusto processo – che il giudice sia un soggetto autenticamente terzo e imparziale, immune dal pregiudizio derivante dalla comune appartenenza all’ordine giudiziario di giudicanti e requirenti. Ma anche qui, occorre partire dai dati di realtà. Non è vero che la comune appartenenza all’ordine giudiziario inquina la terzietà del giudice e alimenta pregiudizi accusatori. Dati statistici pubblicati un paio d’anni or sono dicono che, in quasi la metà dei casi, i processi si concludono con una sentenza di assoluzione. Non vi è spazio per approfondire questo tema, su cui incidono più fattori (fra tutti, l’importante contributo delle difese); resta però il dato: le statistiche smentiscono l’ipotesi che i giudici siano condizionati nelle loro decisioni dalla comune appartenenza del Pm allo stesso ordine giudiziario. Lo ha detto – con cristallina chiarezza – anche un autorevole esponente dell’avvocatura, l’avvocato Coppi: «Io non ho mai pensato di aver vinto o perso una causa perché il Pm faceva parte della stessa famiglia del giudice». Ma la separazione delle carriere – si dice – è necessaria per assicurare un contrappeso alla cultura giustizialista delle procure. Accadrà il contrario: l’esistenza di un corpo separato di magistrati, cristallizzato nel ruolo di pubblico accusatore e l’istituzione di un Csm ad hoc, costituito in maggioranza da pubblici ministeri favoriranno l’affermazione di una cultura prevalentemente accusatoria nel corpo professionale dei Pm; un esito opposto alle intenzioni. Più che sulla separazione, sarebbe forse utile investire sulla contaminazione di percorsi formativi e professionali (tra tutti gli attori della giurisdizione: giudici, pubblici ministeri, avvocati).
Perché allora un investimento politico così forte su questa riforma? La risposta l’ha data lo stesso ministro della Giustizia: oggi «il Pm è un super-poliziotto che può agire senza rispondere a nessuno» (Il Foglio, 2 dicembre 2024); per questo è necessario separare le carriere: «Per riequilibrare i poteri» (sito istituzionale, 17 gennaio 2025). Questa è la posta in gioco: la normalizzazione del giudiziario da parte della politica. Gli indizi in tal senso sono molteplici: l’esigenza di riequilibrio dei poteri; la necessità che il Pm “risponda a qualcuno”; l’istituzione di un Csm “separato”, in cui sarà di fatto egemone la componente di nomina parlamentare. Se si collegano queste indicazioni ad altri dati normativi e alle riforme in cantiere, il disegno è ancora più chiaro: le procure sono già oggi disegnate dal legislatore secondo un modello con significativi elementi di gerarchia; pendono all’esame del Parlamento disegni di legge volti a far sì che sia il legislatore – cioè: la contingente maggioranza politica – a dettare i criteri di priorità cui dovranno conformarsi le procure; l’esecutivo ha la possibilità di controllare la polizia giudiziaria. Al riguardo, segnalo un passaggio eloquente: nel corso della discussione sulla riforma costituzionale, la maggioranza ha bocciato un ordine del giorno teso ad impegnare il governo ad «astenersi da qualsiasi iniziativa, legislativa e non, volta a indebolire o compromettere il principio della dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero e il divieto di interferenza degli altri poteri nella conduzione delle indagini». Quali sono le ragioni di questa bocciatura?
Unendo i puntini ecco l’immagine: un pubblico ministero meno autonomo, più esposto al condizionamento della politica e destinato ad essere attratto nell’orbita del controllo dell’esecutivo; due consigli superiori della magistratura e una giurisdizione disciplinare fortemente influenzati dalle contingenti maggioranze politiche, in un sistema polarizzato; un corpo della magistratura meno indipendente e più esposto – attraverso disciplinare e carriera – alle influenze della politica.
In definitiva: la separazione delle carriere è un’arma di distrazione di massa. Essa cela un altro obiettivo – la normalizzazione della magistratura (ossia la riduzione di autonomia e indipendenza) – gravido di conseguenze negative non per i magistrati, ma per i cittadini.

L’autore: Andrea Natale è giudice del Tribunale di Torino e componente del Comitato esecutivo di Magistratura democratica

Questo articolo è uscito su Left di febbraio 2025