«All’inizio pensai che stavo combattendo per salvare gli alberi della gomma, poi ho pensato che stavo combattendo per salvare la foresta pluviale dell’Amazzonia. Ora capisco che sto lottando per l’umanità» diceva Chico Mendes, il sindacalista che si batté contro il disboscamento della foresta amazzonica e per questo fu assassinato nel 1988. Ancora oggi la sua visione e la sua lotta politica restano fondamentali. Non si tratta “solo” di difendere il grande polmone verde dell’Amazzonia, i suoi ricchissimi fiumi e la biodiversità di un panorama straordinario dalla deforestazione selvaggia e dagli incendi. La lotta per salvare l’Amazzonia è innanzitutto lotta per i diritti delle popolazioni indigene che quell’ecosistema hanno contribuito a preservare e trasmettere di generazione in generazione, insieme al loro sapere e alle loro lingue. Una straordinaria ricchezza culturale che il presidente del Brasile Bolsonaro vorrebbe cancellare dalla storia, completando l’opera di conquistadores, dittatori e multinazionali affamate di profitto ad ogni costo. Ne abbiamo già scritto a più riprese denunciando lo sfruttamento intensivo dell’ambiente, la deforestazione compiuta ad hoc, l’accerchiamento e la deportazione degli Indios rilanciata con violenza dall’attuale presidente sceriffo, sodale di Salvini e di tutti i leader nazionalisti che stanno scrivendo le pagine più buie dei nostri anni. In Amazzonia oggi sopravvivono 500 popoli indigeni: circa un milione di persone. Fra loro, ci raccontano antropologi ed esperti, ci sono Karipuna, Guarani, Yanomani, Kichwa, Shuar, Wajãpi ma anche tribù meno conosciute che vivono in isolamento, senza contatti dal mondo esterno. Fondamentale è stato, ed è, il loro contributo nel plasmare e proteggere quei grandi ecosistemi forestali. Con coraggio, nonostante il dolore per la perdita e le minacce, nonostante gli scarsi mezzi, sono loro oggi i partigiani del futuro dell’Amazzonia e del nostro futuro. Le donne indios in modo particolare - come racconta in questo sfoglio l’antropologo e ricercatore Yurij Castelfranchi - sono state protagoniste di pacifiche manifestazione di protesta. Nelle prime settimane di agosto varie organizzazioni di donne indigene si sono mobilitate a Brasilia per protestare contro la repressione dei loro diritti fondamentali e collettivi. Hanno preso vita così la prima marcia delle donne indigene e il primo forum nazionale. E a loro abbiamo voluto rendere omaggio con questa storia di copertina in cui denunciamo le responsabilità del capitalismo selvaggio, nazionalista e violento di Bolsonaro, delle multinazionali della carne bovina, dalla soia e dei mangimi animali ma anche dei piccoli proprietari, dei cercatori d’oro che uccidono e depredano gli Indios. Con l’aiuto di esperti abbiamo cercato di capire anche chi siano i complici internazionali che traggono vantaggi da questo crimine che si sta compiendo davanti ai nostri occhi, senza che nessuno dei grandi attori internazionali intervenga in modo adeguato. Le grandi potenze radunate al G7 di Biarritz hanno stanziato 20 milioni di euro, quando l’organizzazione del vertice ne è costata perfino di più. Un’elemosina che Bolsonaro ha rifiutato intimando di stare alla larga, di farsi gli affari propri e, in precedenza, inventando fake news, incolpando le Ong, come va di moda fare anche in casa nostra. Il presidente del Brasile ora promette l’intervento dell’esercito per combattere gli incendi, ma la grande foresta pluviale ha tutto da temere da questo leader di estrema destra, fondamentalista evangelico o cristiano a seconda della convenienza, che si è lanciato in una crociata contro gli indios, contro l’università e il mondo della ricerca che offre loro protezione, e contro gli ambientalisti. «Il capo di Stato più pericoloso al mondo per l’ambiente», lo ha definito The Economist in un’inchiesta in cui il settimanale documenta come dal suo arrivo al potere, lo scorso gennaio, la desertificazione dell’Amazzonia abbia subito una forte accelerazione. L’incremento ha avuto un balzo tra aprile e giugno poi è cresciuta in modo esponenziale a luglio (+278%) determinando in un solo mese la scomparsa di 2.255 km quadrati di foresta vergine, l’equivalente del Lussemburgo. Una tragedia immane che ci riguarda tutti da vicino, come chiariscono militanti, esperti e politici in questo sfoglio nessuno si salva da solo. Questioni come quelle ambientali o vengono affrontate in modo multilaterale oppure diventano irrisolvibili. In questo pianeta sempre più interconnesso, che si tratti di cultura, conflitti militari, negoziazioni commerciali o questioni climatiche, servono risposte collettive. [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 30 agosto 2019

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«All’inizio pensai che stavo combattendo per salvare gli alberi della gomma, poi ho pensato che stavo combattendo per salvare la foresta pluviale dell’Amazzonia. Ora capisco che sto lottando per l’umanità» diceva Chico Mendes, il sindacalista che si batté contro il disboscamento della foresta amazzonica e per questo fu assassinato nel 1988. Ancora oggi la sua visione e la sua lotta politica restano fondamentali.

Non si tratta “solo” di difendere il grande polmone verde dell’Amazzonia, i suoi ricchissimi fiumi e la biodiversità di un panorama straordinario dalla deforestazione selvaggia e dagli incendi.

La lotta per salvare l’Amazzonia è innanzitutto lotta per i diritti delle popolazioni indigene che quell’ecosistema hanno contribuito a preservare e trasmettere di generazione in generazione, insieme al loro sapere e alle loro lingue. Una straordinaria ricchezza culturale che il presidente del Brasile Bolsonaro vorrebbe cancellare dalla storia, completando l’opera di conquistadores, dittatori e multinazionali affamate di profitto ad ogni costo.

Ne abbiamo già scritto a più riprese denunciando lo sfruttamento intensivo dell’ambiente, la deforestazione compiuta ad hoc, l’accerchiamento e la deportazione degli Indios rilanciata con violenza dall’attuale presidente sceriffo, sodale di Salvini e di tutti i leader nazionalisti che stanno scrivendo le pagine più buie dei nostri anni.

In Amazzonia oggi sopravvivono 500 popoli indigeni: circa un milione di persone. Fra loro, ci raccontano antropologi ed esperti, ci sono Karipuna, Guarani, Yanomani, Kichwa, Shuar, Wajãpi ma anche tribù meno conosciute che vivono in isolamento, senza contatti dal mondo esterno.

Fondamentale è stato, ed è, il loro contributo nel plasmare e proteggere quei grandi ecosistemi forestali. Con coraggio, nonostante il dolore per la perdita e le minacce, nonostante gli scarsi mezzi, sono loro oggi i partigiani del futuro dell’Amazzonia e del nostro futuro.

Le donne indios in modo particolare – come racconta in questo sfoglio l’antropologo e ricercatore Yurij Castelfranchi – sono state protagoniste di pacifiche manifestazione di protesta. Nelle prime settimane di agosto varie organizzazioni di donne indigene si sono mobilitate a Brasilia per protestare contro la repressione dei loro diritti fondamentali e collettivi. Hanno preso vita così la prima marcia delle donne indigene e il primo forum nazionale. E a loro abbiamo voluto rendere omaggio con questa storia di copertina in cui denunciamo le responsabilità del capitalismo selvaggio, nazionalista e violento di Bolsonaro, delle multinazionali della carne bovina, dalla soia e dei mangimi animali ma anche dei piccoli proprietari, dei cercatori d’oro che uccidono e depredano gli Indios. Con l’aiuto di esperti abbiamo cercato di capire anche chi siano i complici internazionali che traggono vantaggi da questo crimine che si sta compiendo davanti ai nostri occhi, senza che nessuno dei grandi attori internazionali intervenga in modo adeguato. Le grandi potenze radunate al G7 di Biarritz hanno stanziato 20 milioni di euro, quando l’organizzazione del vertice ne è costata perfino di più. Un’elemosina che Bolsonaro ha rifiutato intimando di stare alla larga, di farsi gli affari propri e, in precedenza, inventando fake news, incolpando le Ong, come va di moda fare anche in casa nostra.

Il presidente del Brasile ora promette l’intervento dell’esercito per combattere gli incendi, ma la grande foresta pluviale ha tutto da temere da questo leader di estrema destra, fondamentalista evangelico o cristiano a seconda della convenienza, che si è lanciato in una crociata contro gli indios, contro l’università e il mondo della ricerca che offre loro protezione, e contro gli ambientalisti. «Il capo di Stato più pericoloso al mondo per l’ambiente», lo ha definito The Economist in un’inchiesta in cui il settimanale documenta come dal suo arrivo al potere, lo scorso gennaio, la desertificazione dell’Amazzonia abbia subito una forte accelerazione.

L’incremento ha avuto un balzo tra aprile e giugno poi è cresciuta in modo esponenziale a luglio (+278%) determinando in un solo mese la scomparsa di 2.255 km quadrati di foresta vergine, l’equivalente del Lussemburgo. Una tragedia immane che ci riguarda tutti da vicino, come chiariscono militanti, esperti e politici in questo sfoglio nessuno si salva da solo. Questioni come quelle ambientali o vengono affrontate in modo multilaterale oppure diventano irrisolvibili. In questo pianeta sempre più interconnesso, che si tratti di cultura, conflitti militari, negoziazioni commerciali o questioni climatiche, servono risposte collettive.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 30 agosto 2019


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