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L’appello di Obama per Hillary. A Philadelphia una prova di forza democratica

Barack Obama e Hillary Clinton a Philadelphia
President Barack Obama, left, greets Democratic presidential candidate Hillary Clinton, right, as she takes the stage to speak at a rally at Independence Mall in Philadelphia, Monday, Nov. 7, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)

Philadelphia – Una prova di forza. Difficile definire in maniera diversa il comizio di chiusura della campagna di Hillary Clinton nella città della Pennsylvania che con i suoi suburbs potrebbe essere la chiave per aprire le porte della Casa Bianca. Migliaia e migliaia di persone hanno fatto file di ore per entrare nell’Independence mall, parco che raccoglie musei e siti storici per la rivoluzione e la nascita degli Stati Uniti per esserci e salutare l’ultimo comizio di Barack Obama da presidente. E a tributare un’ovazione incredibile a Michelle, figura cruciale di questa campagna elettorale e personaggio politico più popolare d’America. Migliaia per rispondere alle battute di Donald Trump, che ai suoi comizi spiega sempre che da Clinton vanno quattro gatti, mentre lui riempie gli stadi.

Democratic presidential candidate Hillary Clinton speaks at a rally at Independence Mall in Philadelphia, Monday, Nov. 7, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)

La folla era mista come i discorsi del presidente sulla diversità che arricchisce il Paese, e come la coalizione democratica che ha fatto vincere al partito di Hillary Clinton due elezioni presidenziali consecutive. Bianchi e neri, giovani e vecchi, asiatici e ispanici – soprattutto bianchi e neri, a Philadelphia. Una presenza massiccia, da sottolineare è quella degli hard hats for Hillary, i caschi da lavoro per Hillary: felpone pesanti col cappuccio e la sigla della loro cellula sindacale, camicioni a scacchi, scarpe da lavoro, pance di birra. Tutti, proprio come ve li immaginate. Una presenza probabilmente voluta dal partito, per mostrare che sì, i democratici vorrebbero proprio tornare a essere quel partito dei lavoratori bianchi che erano una delle gambe della coalizione del New Deal di Roosevelt. Con il problema che il mondo è un po’ cambiato.

Sul palco, prima di Hillary, nell’ordine: Jon Bon Jovi, che canta tre canzoni legge la lettera di un operaio repubblicano che non può proprio votare Trump e se na va dicendo: «Philadelphia, domani non mi tradire». Poi Bruce Springsteen, primo boato della serata. Il cantore dell’epopea del lavoro americano in decadenza canta Thunder road e una Dancing in the dark in versione ballata straziante. E poi, quasi in versi spiega perché la gente deve andare a votare. Sia lui che Jon Bon Jovi sono eroi per i lavoratori della costa est.

Bruce Springsteen performs during a Hillary Clinton campaign event at Independence Mall on Monday, Nov. 7, 2016 in Philadelphia. (AP Photo/Matt Slocum)

Chelsea e Bill Clinton a svolgere un ruolo minore, da presentatori della coppia presidenziale. Michelle entra tra le urla e fa, come tutti gli altri nella serata, un discorso pacato e un po’ emozionato. «Sono emozionata per due motivi, domani dobbiamo fare la storia eleggendo una donna e perché questa è l’ultima cosa importante che faccio per questo Paese» – la gente grida “Nooo” e molti ritengono che un seggio al Senato sia il prossimo passo, ma due anni sono lunghi. Anche l’attacco a Trump è delicato: «Abbiamo bisogno di un leader che veda la diversità come una ricchezza e non come una minaccia, un leader che non veda in noi ricchi e poveri, ma gente che lavora sodo». Retorica elettorale, certo, ma efficace come poche.

Poi una tirata sull’importanza di andare a votare, che è il paradosso degli ultimi giorni di campagne elettorali: tutto dipende per i democratici non da quanti voti prendono, ma da quanti potenziali loro elettori portano ai seggi. E infine l’introduzione, anche qui «per l’ultima volta da presidente, un presidente che ha lottato contro una corrente contraria e che ha sempre volato alto quando gli altri volavano basso».

Anche Barack Obama viene accolto da un boato, ma quello di Michelle è più caldo.«Otto anni fa, ho chiesto a tutti voi di unirvi a me in un viaggio improbabile. Abbiamo deciso non solo di cambiare le politiche, ma di ricostruire un’economia affinché ciascuno avesse una possibilità di successo, di riformare Washington in modo da rendere le vostre voci più potenti dei lobbisti. Abbiamo deciso di mantenere l’America sicura e forte non solo con la forza delle nostre braccia e lo straordinario valore delle nostre truppe, ma con la forza dei nostri ideali, per dare forma un’America che cambia in modo che ognuno appartiene e ognuno ha una parte, ognuno ha una responsabilità». Va bene, il quadro non è così roseo ma molte cose Obama le ha fatte – e le elenca – e non vuole che vendano buttate via. Per questo, spiega, mi sono speso tanto in questa campagna. Per evitare di consegnare il Paese a Trump: «I manager della sua campagna gli hanno tolto le password dell’account di twitter e noi vogliamo consegnargli i codici nucleari?» scherza.

President Barack Obama speaks at a rally for Democratic presidential candidate Hillary Clinton at Independence Hall in Philadelphia. Monday, Nov. 7, 2016. (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

In una serata di messaggi positivi, Obama è il più duro con Trump: «Chi vede le donne come oggetti, le minoranze e gli immigrati come inferiori, altre fedi come antiamericane, non può guidare questo variegato, dinamico Paese. Questo dovrebbe darvi una ragione sufficiente per votare domani. Ma non c’è bisogno solo di votare contro qualcuno, avete qualcuno straordinario da votare». Non sappiamo se ci creda davvero, in parte sì. Ma è un buon passaggio di testimone.

Democratic presidential candidate Hillary Clinton, center, is joined on stage by first lady Michelle Obama, left, President Barack Obama, second from left, Chelsea Clinton, second from right, and former President Bill Clinton, right, after speaking at a rally at Independence Mall in Philadelphia, Monday, Nov. 7, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)

Hillary sale sul palco, abbraccia, ringrazia e dopo aver raccontato la storia di Khazir Khan, il padre del marine musulmano morto in combattimento, chiede alla folla: «Se credete che tutti i nostri figli dovrebbero avere buone scuole e buoni insegnanti a prescindere dalla strada dove crescono allora dovete votare. Se credete in un college più accessibile, votate. Se credete che dobbiamo riformare il nostro sistema di giustizia penale in modo che ognuno di noi rispetti la legge, e ognuno sia rispettato dalla legge, votate. Se credete che dobbiamo proteggere i nostri figli e passare riforme di buon senso sulle armi, votate. Se credete che dobbiamo aumentare il salario minimo e, infine, garantire la parità di retribuzione per le donne, allora dovete votare. Ogni volta che parlo della parità di retribuzione per le donne, il mio avversario mi accusa di giocarmi la carta delle donne. Beh, sapete che vi dico: se parlare di parità di salario è giocarsi la carta delle donne, io la gioco». Hillary sembra più rilassata che in passato e parla meglio che in passato, lei che non è un granché come oratrice. E declina un programma che non è affatto male e risponde a molte richieste della sinistra. Certo, venire dopo il campione mondiale è un handicap.

La serata è finita, la gente torna a casa e una signora afraoamericana ci spiega: «Domattina mi alzo alle sei, alle otto voto e poi, ho un elenco di persone: se alle nove non hanno votato li vado a prendere a casa uno a uno e li trascino al seggio». Oggi l’America sceglie il suo presidente. Hillary non è il presidente dei sogni, ma avere un presidente dei sogni da votare non capita spesso. Dall’altra parte però c’è un incubo con i capelli ridicoli.

 


 

In breve:

Trump ha fatto cinque comizi ieri in molti Stati random, segno che, come dicono gli analisti, non ha chiaro quale possa essere la mappa elettorale per vincere. Ne prova molti e spera.

I latinos stanno andando a votare in massa e come mai prima. Da due cicli elettorali si parla del fattore ispanico, stavolta potrebbero rappresentare l’ago della bilancia a favore dei democratici.

C’è tensione nelle commisioni elettorali: le dichiarazioni di Trump e i trucchi usati per non fare votare le minoranze, potrebbero generare lunghe file in alcuni casi o forme di intimidazione ai seggi da parte di milizie o gruppi di destra.

Nino Di Matteo: si resta per lottare

Nino Di Matteo ha rifiutato l’offerta del Consiglio superiore della magistratura di un trasferimento lontano da Palermo per motivi di sicurezza. Non andrà alla Direziona Nazionale Antimafia che gli è stata proposta per facilitare (secondo la discutibile decisione del Csm) la sua protezione.

«Non sono disponibile al trasferimento d’ufficio – ha detto il magistrato -. Accettare un trasferimento con una procedura straordinaria connessa solo a ragioni di sicurezza costituirebbe a mio avviso un segnale di resa personale ed istituzionale che non intendo dare».

Eppure Di Matteo aveva dalla sua parte parecchi buoni (e utili) motivi per accettare: la Direzione Nazionale Antimafia è il ruolo che ha cercato a lungo (una volta è stato bocciato e poi la sua domanda è stata respinta per un vizio di forma), il processo sulla trattativa continua a essere l’obiettivo degli strali di una parte politica folta e trasversale, i mascariatori professionisti lo accusano sottovoce di rischiare poco poiché non è ancora morto e la mafia si gode l’isolamento del magistrato che la rincorre.

Qui da noi funzioni solo se fai antimafia con le figurine dei boss da dare in pasto ai giornali e alla gente. Se solo provi a toccare la complessità di un fenomeno che (citando Gratteri) riesce a entrare nella politica con la stessa facilità di una lama nel burro allora diventi subito troppo intraprendente, antipatico, visionario o fissato. Chissà che ne dicono Falcone e Borsellino guardando un Paese che commemora senza memoria.

Lui, Di Matteo, invece ha deciso ancora di prendere la strada più tortuosa. Si resta, per lottare. È la frase che ho ascoltato decine di volte dai testimoni di giustizia che chiedono di non scomparire per legge ma di vivere in un Paese in scompaiano i mafiosi; è la stessa frase che disse Borsellino con gli occhi umidi parlando della sua Palermo. E chissà come l’ha spiegato alla famiglia, Di Matteo, chissà come ha sorriso quando si è accorto che ogni tanto le situazioni si incastrano perfettamente per rendere inoffensiva una testa scomoda facendogli credere che gli si stia facendo un piacere. Stiamoci anche noi, magari.

Buon martedì.

 

Baobab, quarto sgombero in un mese. L’ordine è pubblico, ma la questione è umanitaria

È il quarto sgombero in poco più di un mese. Oggi, 7 novembre, come annunciato dai volontari, le tende in cui trovavano rifugio più di cento migranti transitanti da Roma sono state tolte con la forza.

«Ma perché ci salvate, se non ci volete? Perché ci salvate se pensate che la nostra vita non vale quanto la vostra?», scrive su facebook Myriam El Menyar dalla pagina di Baobab experience. Sotto la pioggia battente di queste ore, questa mattina, 70 migranti sono stati identificati, prelevati dalle forze dell’ordine e condotti all’ufficio stranieri di Via Patini. Tutti loro sono già in attesa di protezione internazionale e relocation europea.

«Non aiuteremo le forze dell’ordine e l’AMA a smantellare l’accampamento di fortuna», hanno continuato a ripetere i volontari, mentre sotto i litro occhi si preparava lo sgombero. «Non smonteremo le tende donate dai cittadini, già riparo insufficiente alle violente precipitazioni di questi giorni. Resisteremo, in modo pacifico ma fermo. Dalla parte giusta».

Intanto, più di cento migranti in transito dalla Capitale, restano per le strade di Roma, in cerca di riparo dalla pioggia battente di queste ore. Buonanotte Italia.

The Garden di Nicole Beutler. Meglio regnare in terra che servire in cielo

Cosa c’era prima del mondo? E com’era il mondo prima che ci fosse qualcosa?
«All’inizio non c’era nulla. Tutto era blu, di una certa “bluezza” diciamo, se solo il blu fosse esistito perché non c’era nulla. Forse era tutto viola, non proprio viola però perché nemmeno il viola esisteva visto che ancora non c’era nulla». A raccontarcelo è Nicole Beutler con 3: The Garden, ultimo appuntamento con Olandiamo, la sezione del Romaeuropa Festival dedicata alla danza contemporanea olandese, andato in scena ieri sera a Roma al Teatro India. Con questo spettacolo la coreografa dà letteralmente vita a una sua suggestiva cosmogonia, estrapola parole e immagini da testi mitici, filosofici e sacri e li umanizza sulla scena con danze ipnotiche e sensuali. Assoluto protagonista di questo surreale giardino dell’Eden è il corpo. Volendo trovare una definizione per il lavoro della Beutler lo si potrebbe descrivere come una psichedelica riflessione sul rapporto tra natura e cultura.

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Trittico del giardino delle delizie

Sul palcoscenico la coreografa tedesca inventa un mondo visivo e simbolico che attinge e trae spunto dalle opere dei filosofi naturalistici pre-socratici, al Trittico del Giardino delle delizie di Bosch, passando per gli studi rinascimentali sulla simmetria e senza dimenticare di strizzare l’occhio all’estetica New Age e al Kitsch.

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Uno dei momenti dello spettacolo

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Immagine da Tumblr

L’effetto, ipnotico e a tratti travolgente, è enfatizzato dalla stessa fisicità dei ballerini in scena e dalle musiche composte ad hoc dal dj Gary Shepherd e dalla band anti-pop Einstürzende Neubauten. È così che, infrangendo ogni dogma e stereotipo, dal Paradiso biblico di Adamo ed Eva si passa ben presto a quello che sembra essere più un raduno hippy inneggiante all’amore libero.

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Altro punto cardine della cosmogonia di Beutler è l’utopia del mondo naturale. Nello spettacolo rivive infatti il mito del ritorno al paradiso perduto, quello di John Milton, ma anche quello del buon selvaggio di Rosseau. «Credo che il sogno di un ritorno alla natura non abbia tempo. La natura rappresenta per noi ciò che è puro, intatto, in contrasto con ciò che ha subito il passaggio dell’uomo, che è stato modificato dalla cultura, che è stato civilizzato per diventare ordinato quindi artificioso» spiega Nicole e si domanda: «Abbiamo bisogno di creare un nuovo tipo di umanità per dare forma a una società migliore? E la strada da percorrere è quella di un ritorno alla natura?». Il dibattito, a pochi giorni dall’entrata in vigore degli accordi di Parigi sul clima, è sicuramente più aperto che mai.

Chi è Nicole Beutler

Nata a Monaco ma residente ad Amsterdam dove attualmente lavora, Nicole Beutler ha costruito tutta la sua carriera tentando una costante fuga dalle inevitabili categorizzazioni all’interno di generi artistici. 3: The Garden è un ulteriore attacco a ogni stereotipo e forma d’ideologia.

Quel che c’è da sapere sulla notte elettorale Usa

Katy Perry e Hillary Clinton a Philadelphia
Democratic presidential candidate Hillary Clinton applauds on stage as artist Katy Perry arrives with a cape that reads "I'm with Madam President" during a Get Out the Vote concert at the Mann Center for the Performing Arts in Philadelphia, Saturday, Nov. 5, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)

Dove si vince? Nei Battleground States (o Swing states o Purple States). Di colore viola, né rosso repubblicano né blu democratico

Le elezioni non si decidono a New York. E nemmeno in California o Texas. Tutte, sempre, si combattono in una manciata di Stati che tendono a cambiare colore o ad assegnare la vittoria a un partito per pochi voti. Qui si concentra la campagna elettorale, qui si spendono i soldi, qui si corteggia ogni singolo gruppo, ogni singolo voto. I più swing di tutti sono Florida e Ohio. Dal 2008 in poi il numero di swing states è aumentato: i nuovi entrati sono Virginia, North Carolina, Colorado dove l’afflusso di giovani bianchi e le minoranze storiche hanno cambiato la demografia e gli orientamenti elettorali. Quest’anno ballano anche Pennsylvania, Nevada, New Hampshire e Iowa. Seguire quelli, saprete chi vince.

Come si vince? Ottenendo 272 collegi elettorali

Collegi elettorali. Un sistema astruso che non garantisce che chi prende più voti vinca le elezioni. Sono le delegazioni degli Stati che eleggono il presidente. Il voto popolare, infatti, elegge dei superdelegati di ciascuno Stato in numero pari alla delegazione di eletti in Congresso (2 senatori per ogni Stato e un numero di rappresentanti calibrato sulla popolazione) che a loro volta esprimono il voto per il presidente. I componenti del collegio non hanno vincolo di mandato, ma alcuni Stati puniscono l’eventualità in cui il grande elettore decide di non seguire le indicazioni degli elettori. Per vincere servono 270 voti. Nel 2012 Obama ne ottenne 265, nel 1984 Reagan 525. Come forse sapete, nel 2000 Al Gore prese più voti di Bush, ma perse le elezioni.

Democratic presidential candidate Hillary Clinton, left, accompanied by LeBron James, right, takes the stage at a rally at the Cleveland Public Auditorium in Cleveland, Sunday, Nov. 6, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)
Cleveland, Le Bron James per Hillary Clinton (AP Photo/Andrew Harnik)

A che ora sapremo chi ha vinto? Presto. Forse

Qui sotto l’orario di chiusura dei seggi Stato per Stato. Se si escludono Nevada e Iowa tutti sono sulla costa est a sei ore di differenza dall’orario italiano. Quindi dopo l’una di notte (Florida e Ohio chiudono alle una italiana) ci si renderà conto di cosa succede. Poi, il presidente esce solo dopo che anche in Califronia si sono chiusi i seggi e il conto può essere ufficiale. Ciò detto, se alcuni Stati fossero “too close to call”, se il risultato fosse sul filo di pochi voti, tutto cambia.

L'orario di chiusura dei seggi

Chi controllerà il Congresso?

Guardando gli Usa soprattutto dal punto di vista della politica estera, abbiamo la percezione che il presidente abbia un potere assoluto. Il braccio di ferro continuo tra presidente e maggioranza negli anni di Obama è li a dimostrare il contrario.  Nel 2008 i democratici ottennero maggioranze nei due rami del Congresso. Perse malamente dal 2010 in poi. Oggi sperano di riconquistare il Senato, servono 5 seggi: hanno buone probabilità. Controllare Wisconsin, New Hampshire, Indiana, Michigan, North Carolina. Alla Camera i repubblicani hanno 247 voti su 435, ribaltare la maggioranza significherebbe un terremoto.

Sen. Bernie Sanders speaks during a rally for Democratic presidential candidate Hillary Clinton at Central High School on Sunday, Nov. 6, 2016, in Phoenix. (Patrick Breen/The Arizona Republic via AP)
Bernie Sanders comizia per Clinton in Arizona

Quanti senatori si eleggono?

Un terzo dei 100. È un paradosso del sistema Usa: i senatori restano in carica sei anni, quindi quelli che si eleggeranno quest’anno decadranno alle elezioni di mezzo termine del 2022. I rappresentanti invece si eleggono tutti ogni due anni: alle presidenziali e al midterm. Praticamente vivono in campagna elettorale.

Ma perché si vota di martedì?

Dagli anni quaranta dell’Ottocento il suffragio è universale maschile. E l’America era un Paese di contadini. Gli elettori dovevano spesso fare viaggi lunghi per recarsi ai seggi nella città più vicina. La domenica era esclusa, che c’è la messa e non si lavora. Il mercoledì era il giorno di mercato. Martedì consentiva a chi veniva da lontano di muoversi il lunedì e tornare al mercato. Che la cosa non sia cambiata è uno dei paradossi americani. Oggi, il martedì non favorisce la partecipazione al voto.

Donald Trump
Donald Trump a Minneapolis

Dove saranno i due candidati

Di solito i candidati sono vicini ai loro quartier generali. Obama era a Chicago, McCain in Arizona e così via. Stavolta, cosa eccezionale, sono tutti e due a New York. Città che non esprimeva un candidato da molto, molto tempo. Uno all’Hilton e l’altra in una specie di fiera, il Jarvis centre. Troppi giornalisti hanno chiesto l’accredito, quasi tutti gli stranieri se lo sono visto rifiutare. Anche nomi importanti.

Donne. Come voteranno?

Quanto influenzerà il voto la possibilità di una prima volta alla Casa Bianca? E quanto le disastrose (per lui) rivelazioni sulle molestie, le battute sessiste di Donald Trump? Nel 2012 le donne votarono Obama al 14% in più di Romney, gli uomini scelsero il repubblicano all’8% in più. È il gap tra voto maschile e femminile più ampio della storia. Aumenterà ancora?

Sostenitori di Trump a Minneapolis
Sostenitori di Trump a Minneapolis (AP Photo/ Evan Vucci)

Quanti ispanici voteranno?

Donald Trump ha vinto le primarie repubblicane grazie alla retorica sul muro lungo la frontiera messicana e la promessa di deportare gli 11 milioni di irregolari. Il che non ha fatto piacere ai 27 milioni di ispanici cittadini americani che hanno diritto di voto. Come non gli ha fatto piacere essere chiamati “bad hombres”, uomini cattivi durante l’ultimo dibattito Tv. Nel 2012 hanno votato 11,9 milioni e sono determinanti in Arizona, Nevada, Florida. Metà vota a New York, California e Texas, dove in teoria non c’è storia.  Rispetto alle scorse elezioni, 3,2 milioni di ispanici hanno raggiunto l’età del voto. Hanno votato in numeri alti nel voto anticipato. È un segnale?

 

Marijuana legale?

Tra i referendum statali a cui gli elettori dovranno rispondere ci sono quelli sulla legalizzazione della marijuana in 9 Stati. California, Arizona, Massachusetts, Maine, e Nevada votano per la piena legalizzazione. Florida, Montana, Nord Dakota e Arkansas per quella medica. Ovunque è in vantaggio il Sì. Altri referendum importanti riguardano il controllo delle armi.

sostenitori di DOnald Trump cantano l'inno
Sostenitori di Trump cantano l’inno in Iowa (AP Photo/ Evan Vucci)

As goes Ohio, so goes the nation 

È un detto elettorale che significa più o meno, chi vince in Ohio vince le elezioni. Non nel senso che lo Stato è l’ago della bilancia, ma piuttosto perché dal 1962 a oggi chi ha vinto le elezioni ha anche vinto nel Buckeye State. L’Ohio ha una demografia e una struttura sociale che riflette abbastanza quella del Paese. Il 2016 potrebbe rappresentare una eccezione: tra gli swing states, l’Ohio è quello dove Hillary Clinton è più in difficoltà.

Obama in Florida per Clinton
Barack Obama a Kissimmee, Florida. (AP Photo/John Raoux)

L’allarme del sindaco di Amatrice: «Ci stanno abbandonando»

Il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, durate l'incontro in Aula con la presidente della Camera, Laura Boldrini, Roma

Un fragoroso applauso dedicato ai sindaci dei paesi dell’Italia centrale. Si è aperta così la sessione organizzata dalla Camera dei Deputati e dall’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) sul terremoto. È a loro che il presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini ha rivolto “un abbraccio” e ha detto: «La messa in sicurezza del nostro territorio è una priorità», e ha assicurato: «Non vi lasceremo soli e faremo di tutto per tenere viva l’attenzione generale».

A loro e alle popolazioni che attualmente si trovano esposte alla pioggia e alle forti raffiche di vento, che da ieri si stanno accanendo sul Centro Italia. A Cascia, le tende allestite per la mensa degli sfollati (nelle quali vengono distribuiti 1.500 pasti al giorno) sono state spazzate via. Mentre nella notte l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) ha registrato circa 90 le scosse (di magnitudo non inferiore a 2) tra Marche, Umbria e Lazio. Due le più significative, di magnitudo 3.1 all’1:18 e alle 4:13 con epicentro vicino Ussita. Per fortuna, non ci sono stati ulteriori crolli.

Ma la paura più grande, è proprio quella di essere lasciati soli dalle istituzioni. A lanciare l’allarme è stato Sergio Pirozzi, il sindaco di Amatrice, il paese che insieme ad Accumuli ha subito maggiori danni in seguito alle scosse del 24 agosto: «Ho la sensazione che qualcuno ci stia abbandonando, e se fosse così sarebbe grave perché noi non vogliamo essere solo un borgo da cartolina», ha dichiarato il primo cittadino. «Tornerò ad indossare la fascia con lo stemma di Amatrice, quando avrò la certezza che nessuno ci abbandona». E rivolgendosi ai seicento sindaci presenti in Aula ha concluso: «Ma sono sicuro che nessuno abbandonerà nessuno, perché dimostreremo che non siamo bravi solo in 10 giorni ma in 365».

Il sindaco di Acquasanta (Ascoli Piceno) ha, invece, portato l’attenzione sulle misure da prendere in futuro per riportare il suo Comune alla normalità: «Avevamo già grossi problemi con la scossa del 24 agosto ora abbiamo molti sfollati, con circa 700 persone al mare; a questo punto dobbiamo capire quanti sono disposti a tornare nel nostro territorio per cercare di mantenere il tessuto sociale del territorio, visto che è già stato colpito nel recente passato da un forte spopolamento».
«Ora siamo tutti impegnati nel quotidiano, ma in termini generali – ha aggiunto il sindaco marchigiano – bisogna capire se ha senso o meno ricostruire. In questo ambito il primo decreto ci ha dato una mano, ora vedremo cosa conterrà il secondo. L’importante – ha concluso – è accelerare sugli iter burocratici».

Le voci degli amministratori raccontano una realtà in emergenza, ma anche i pericoli di un sistema che a ogni nuovo cataclisma si rinnova: ovvero l’isolamento di paesi e amministrazioni più sperdute, dei luoghi più periferici del sistema nazionale. Voci che non a caso, il presidente dell’Anci Antonio De Caro, ha definito – citando le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – il «terminale più esposto e sensibile della Repubblica», e dunque «la prima frontiera della solidarietà comune», cui devono essere destinati gli strumenti necessari ad affrontare l’emergenza. Facendo riferimento all’esame della nuova legge di Bilancio in corso oggi a Montecitorio, De Caro si augura che la nuova legge rappresenti il nuovo capitolo della collaborazione tra Stato ed enti locali, e chiede lo stanziamento di 3 miliardi di euro destinati alle Regioni e ai Comuni.

Parliamo di quei Comuni che formano l’“Italia dei paesi” – montana, isolata e lontana dai grandi centri urbani -, come l’ha definita il Presidente del Consiglio Nazionale dell’Anci, Enzo Bianco. «Questa è la vera emergenza italiana», ha sottolineato. Per affrontare la quale, occorre partire da quattro punti fondamentali: il controllo dell’esodo dai piccoli Comuni, la legislazione irrazionale, la consueta diffamazione dei sindaci e la sicurezza urbana.

Gli attacchi alla minoranza, l’antipatia. La Leopolda è andata come doveva andare

Renzi alla Leopolda
Italian premier Matteo Renzi speaks with his supporter at Leopolda hall in Florence, 06 November 2016. ANSA/Maurizio Degl' Innocenti

Un tempo (brevemente) laboratorio di idee, pur funzionale alla scalata del partito, la Leopolda è sempre più solo il palcoscenico di Renzi. Di Renzi e del suo governo. È naturale che sia così, per la kermesse di una corrente che si è presto scoperta gruppo di potere – detto senza che nessuno si debba offendere.
Ai tavoli di discussione un tempo sedevano ricercatori, avvocati, rampanti consiglieri comunali. Oggi ci stanno manager di partecipate, ministri, sottosegretari. È normale che la fabbrica delle idee finisca per essere il luogo in cui si cercano, al massimo, argomenti per sostenere ciò che si sta mettendo in pratica. Basterebbe non spacciarla per altro e sarebbe anche giusto, oltre che normale. Come lo è che il comizio del leader, un tempo sindaco e oggi presidente del consiglio e insieme segretario del partito, sia la riedizione di uno dei tanti, un comizio tra gli altri. Che anche la Leopolda – anzi, che soprattutto la Leopolda – sia il luogo da cui attaccare nemici, difendere le proprie riforme, tornare sullo scontro interno al Pd.

Non stupisce nessuno, infatti, che da Firenze sia arrivato un attacco alla minoranza dem. Lo scontro dipinto da Renzi è «tra passato e futuro, tra rabbia e proposta, tra nostalgia e domani, tra i Gattopardi e gli innovatori», non tra «due Italie», ma tra «due gruppi dirigenti, quello del Sì, che ha un’idea chiara, e quello del No: personaggi che, se li chiudi tutti dentro una stanza chiedendogli di mettersi d’accordo su una cosa, non ne escono più». Non stupisce neanche Bersani che pure dice che il coro “fuori-fuori” che ha accolto l’invettiva è «una pagliacciata che dimostra che in quel posto non c’è cultura politica».

Non stupisce Oscar Farinetti, che pure allerta “Matteo” sul rischio antipatia. Come spiegano tutti gli esperti di comunicazione e i politologi, Renzi su quella che Farinetti chiama antipatia ha costruito anzi la sua fortuna. Ha bisogno e ricerca continuamente un nemico, Renzi: «qualcuno a cui stare antipatico», come ci dice il professore Michele Prospero.
Non stupisce, dunque, che questo sia la Leopolda. Come scrive Massimo Giannini: «Un brutto spettacolo, inutilmente rancoroso e fortemente autoreferenziale. Soprattutto per una kermesse che ha la giusta ambizione di parlare al Paese, non a se stessa». «Ma c’è del metodo», aggiunge Giannini, «in questa scelta renziana».

Il metodo c’è ed è lo stesso di sempre. Con la sola novità della paura. La paura di non farcela, che spinge a preparare il piano B. A dire che dopo di lui, se vince il No, nessuno sogni un «governicchio» (scenario di cui scriveremo sul prossimo numero di Left in edicola): lui, segretario del Pd, non lo permetterebbe. Salvo non esser sicuro – si immagina – di fargli fare la fine del governo Letta. Picconandolo, sempre brillante, giovane, simpatico almeno per i suoi. Che sono quelli che contano.

Cosa ci ha insegnato Pepe Mujica

MONTEVIDEO, URUGUAY - MAY 1: Former Uruguayan President Jose Mujica (R) poses for a selfie with a woman as he takes part in a rally to mark May Day, International Workers' Day in Montevideo on May 1, 2016. Carlos Lebrato / Anadolu Agency

Sabato siamo stati ad ascoltare l’ex presidente dell’Uruguay al teatro Palladium di Roma. Ottantuno anni, Pepe Mujica è in Italia per una serie di conferenze e per promuovere Una pecora nera al potere, il libro di Andrés Danza e Ernesto Tulbovitz. Appena arrivato ha esordito così: «Perché non fate entrare la gente che è fuori? Perché non volete la gente?». Ecco alcune delle perle di saggezza che ci ha regalato durante il suo intervento.

«La militanza sociale e politica non è un mestiere. È passione. Chi vive sulle spalle della politica non può essere un buon politico».

Former Uruguayan President Jose "Pepe" Mujica attends a press conference in Tokyo, Japan on Wednesday, April 6, 2016. Mujica is on a one-week visit to Japan, where he will take part in several events to promote his book "A black sheep to power." (Photo by Sho Tamura/AFLO)

«Non possiamo farci rubare il tempo».

«La vita non è solo lavoro. Bisogna avere tempo di vivere. Le cose materiali non producono affetto. L’affetto lo producono le cose vive. Il tempo libero dedicato agli affetti. Dedicato all’amore».

epa04478998 A picture made available on 06 November 2014 shows Uruguayan President Jose Mujica next to his vehicle, a Volkswagen Beetle, at home in Montevideo, Uruguay, 16 May 2013. Mujica, considered the world's poorest state leader for his humble way of life, received an off of 1,000,000 US dollars to sell his Volkswagen 1987, as he admitted in a statement released on 06 November 2014, according to the local press. EPA/IVAN FRANCO

«Trovo molto bello che le macchine lavorino al posto delle persone. Il problema è che le macchine non lavorano per le persone. Ma per i padroni delle macchine».

«Vivere non è vincere. Vivere è imparare ogni volta qualcosa. È un continuo ricominciare».

March 1, 2015 - Uruguay - José Mujica saludando a seguidores del Frente Amplio (Credit Image: © El Pais/GDA/ZUMA Wire)

«Le vittime della guerra non sono quelli che decidono di farla. La lotta per la pace è la cosa più progressista in qualunque conflitto».

«È scientificamente meraviglioso che le macchine lavorino per l’uomo, ma in realtà in questo momento lavorano per le grandi imprese».

Su Left in edicola sabato 12 novembre, il racconto completo del nostro incontro con Mujica e un’intervista esclusiva all’ex presidente uruguaiano.

MONTEVIDEO, Oct. 2, 2013 Uruguayan President Jose Mujica (C) speaks to a student during the handing over ceremony of computer number one million of the Ceibal Plan, a literacy project created 6 years ago inspired by the ''One Laptop per Child'' project, in Montevideo, capital of Uruguay, on Oct. 2, 2013. (Credit Image: © [E]Nicolas Celaya/Xinhua/ZUMAPRESS.com)

A Bruxelles si torna a parlare di Grecia

A Bruxelles è di nuovo tempo di Eurogruppo. Oggi pomeriggio, i ministri delle finanze dei Paesi della Zona euro torneranno a parlare di Unione bancaria, occupazione, ma anche – e soprattutto – di Grecia. Nello specifico, si attende un aggiornamento riguardo allo stato di avanzamento della “second review” (“seconda verifica”) del programma di riforme previste dal bailout. La fase preliminare della “second review” è iniziata il 21 ottobre scorso. All’alba del meeting, in Germania si mette già l’accento sui crescenti contrasti all’interno del fronte dei creditori del Paese ellenico. Su Handelsblatt, Jan Hildebrand sostiene che la partita tra creditori europei – Germania in primis, e Fondo monetario internazionale (Fmi) – si giochi intorno alla definizione di tecnica di cosa voglia di dire “obiettivo di riduzione del deficit di medio periodo”.

Come spiega Hildebrand, nel quadro degli accordi attuali, è previsto che, dal 2018 in poi, lo Stato greco realizzi “nel medio periodo” un avanzo di bilancio del 3,5 per cento. Il punto è capire cosa voglia dire esattamente “medio periodo” e se il 3,5 per cento sia un obiettivo realistico, date le condizioni di salute economica della Grecia.

Secondo l’Fmi l’obiettivo non è realistico. Christine Lagarde spinge per una riduzione all’1,5 per cento. Obiezioni a tale modifica arrivano da Wolfgang Schäuble. Ma perché è importante la valutazione di questo obiettivo di deficit?

In estrema sintesi, più si riduce l’obiettivo di surplus, prima diventa urgente un intervento sul monte debito. L’Fmi vorrebbe un alleggerimento immediato delle condizioni di credito con conseguente effetto diretto sulle risorse finanziarie già messe a disposizione ad Atene, mentre Schäuble non ne vuole sapere di interventi prima dell’estate del 2018. Ma per Atene questa sarebbe una data fuori dal tempo. La settimana scorsa in Grecia c’è stato l’ennesimo rimpasto governativo per far passare le riforme nel quadro della “seconda verifica”. È veramente difficile che Tsipras possa sopravvivere politicamente oltre il 2017 senza un intervento sul debito. E questo Schäuble dovrebbe saperlo.

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