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Donald Trump è presidente. Ecco l’ultima American Horror Story

Solo qualche settimana fa lo davano per spacciato e Time gli dedicava una copertina titolando “Total meltdown”. Questa notte le cose però sono andate diversamente e quasi 60 milioni di americani hanno scelto di eleggere un miliardario con idee razziste e autoritarie, senza nessuna esperienza o capacità politica di fare il presidente, a detta anche di molti repubblicani.

Le implicazioni di quest’elezione, storica ma non nel senso in cui ci attendevamo, sono difficili da prevedere su larga scala. Un fatto però è certo ed è parte di un trend globale: i candidati percepiti come membri dell’establishment perdono. E cosa importa se, soffermandosi due minuti in più a riflettere, qualsiasi elettore potrebbe capire che anche Donald il milionario è un membro dell’establishment, l’elettore medio lo vede gridare arrabbiato e lo sente simile a lui. L’uomo forte di cui si ha bisogno per essere traghettati fuori dalla crisi. L’uomo appunto, non certo la donna.

E Trump è talmente forte da aver elogiato dittatori come Saddam Hussein per le loro politiche autoritarie («He was a bad guy, really bad guy. But you know what he did well? He killed terrorists. He did that so good»), appoggiato leader che troppo democratici non sono come Putin, si è dichiarato favorevole alla tortura (waterboarding incluso) contro i nemici dell’America con la giustificazione che «dobbiamo sconfiggere i selvaggi», promesso la costruzione di muri e di politiche inumane contro gli immigrati.

Ha anche proposto una riforma sanitaria che tagli i costi di quella realizzata da Obama, troppo costosa perché allarga il sussidio sanitario a troppe persone, e gli Stati Uniti, si sa, non sono diventati certo un grande Paese grazie alla sanità pubblica, quindi meglio tagliare tutto e make America great again. Già che ci siamo, ha anche dichiarato di non essere d’accordo con le politiche messe in atto contro il cambiamento climatico, meglio: secondo il nuovo presidente si tratterebbe di un complotto messo della Cina per rendere le industrie manifatturiere americane meno competitive.

Un capolavoro di populismo insomma, manna dal cielo per una middle class ignorante e arrabbiata che a quanto pare costituisce la maggioranza di quella che è (era?) la più grande democrazia occidentale. Qualche americano si sta già organizzando per l’espatrio e non è una battuta, visto che questa mattina il sito del Canada dove è possibile richiedere i visti è bloccato per le troppe visite.

Veronesi, una vita contro il tumore, pensando alle donne

Umberto Veronesi

Umberto Veronesi non è stato solo un grande luminare dell’oncologia, ma un medico che amava le donne. Un medico che ha avuto la fantasia di mettere a punto una tecnica come la quadrectomia, che ha permesso per la prima volta di guarire dal tumore al seno, senza lesioni troppo gravi alla propria immagine. Erano anni in cui non esistevano ancora le risorse della chirurgia plastica che conosciamo oggi. E si può facilmente capire che significato abbia avuto.  La sua continua ricerca, il suo impegno con la Fondazione hanno prodotto risultati ancora più importanti, ma quella tecnica conservativa fu una svolta storica e un aiuto fondamentale. Non solo per la cura del tumore al seno, ma per l’integrità  psico-fisica delle donne che non dovevano più subire interventi gravemente invasivi.  E questo è il grazie più grande che ci sentiamo di rivolgergli. Insieme al riconoscimento per quello che Umberto Veronesi è riuscito a fare per affermare il metodo scientifico e la laicità in Italia, anche come ministro della Salute. E poi battendosi, perfino nella vita quotidiana, per la diffusione di una dieta più equilibrata, nel rispetto della natura, che nel suo caso arrivava a rinunciare completamente alla carne e nel suo caso anche al pesce, «per una questione etica non sterttamente medica», ci raccontava anni fa. Al contempo però Veronesi non è mai stato un vegetariano anti moderno, tanto da sostenere la ricerca sugli ogm. Impossibile dimenticare il suo impegno sul piano dei diritti civili lanciandosi in una fortissima battaglia in favore non solo del testamento biologico, ma dell’eutanasia per evitare il dolore inutile di malattie fisiche ad oggi incurabili.

Nel corso degli anni Umberto Veronesi è stato molto generoso con la nostra rivista. Fra i suoi moltissimi impegni è sempre stato pronto a rispondere. Anche per questo ci fa piacere ricordarlo con  questa intervista, non l’ultima, uscita su Left nel 2012.

Una vita contro i tumori

di Ilaria Bonaccorsi e Simona Maggiorelli

Professor Veronesi quali sono le nuove ricerche sul cancro che lei reputa più promettenti?
Tutta la ricerca è promettente e si può dividere sommariamente in due macro aeree: una che ha l’obiettivo di curare meglio il cancro (con nuovi farmaci, nuove particelle, nuove tecnologie) e l’altra che si concentra invece sull’indagine delle sue cause, per eliminarle. Nell’area terapeutica, mi aspetto nei prossimi 40 anni risultati significativi, che potrebbero innalzare la guaribilità generale fino all’ 80% dei casi. Nella seconda area vedo la svolta più lontana. Come ho scritto nel mio libro, il primo giorno senza cancro sarà quello in cui non ci ammaleremo più.

Già una decina di anni fa quando gli scienziati annunciarono di saper decodificare il genoma si disse che tutto questo avrebbe avuto ricadute positive e immediate per debellare il cancro, ma così non è stato, perché?
Dall’attuale lavoro degli scienziati per sequenziare più approfonditamente il Dna che cosa possiamo aspettarci? La promessa del Dna era quella di scoprire l’origine della malattia, vale a dire che cosa e come si crea il danno al Dna, che innesca i meccanismi di cancerogenesi. In realtà ci siamo trovati di fronte ad una complessità maggiore di quella attesa. Il cancro, va ricordato, non è una malattia, ma centinaia di malattie diverse che per convenzione riuniamo sotto un’unica categoria. Ognuna di queste malattie ha una sua evoluzione.

Si parla molto anche di nuovi farmaci molecolari. A che punto siamo arrivati?
I nuovi farmaci rappresentano una delle aspettative più forti della ricerca genetica, ma hanno effettivamente tardato ad entrare in clinica. Oggi sono circa 30 quelli utilizzati. Nei prossimi anni tuttavia il ritardo sarà rapidamente recuperato.

Lei è il medico che ha inventato la quadrectomia permettendo alle donne affette da tumore di conservare il seno e di non dover subire l’intervento come una lesione della propria immagine femminile. A che punto è oggi la cura del tumore al seno e quanto è importante che le donne che si sono ammalate non per questo smettano di sentirsi “desiderabili”?
Il tumore del seno è oggi uno di quelli a più elevata guaribilità. Se scoperto per tempo, quando è impalpabile e rilevabile solo strumentalmente, è guaribile nella quasi totalità dei casi e con interventi che rispettano l’integrità del corpo femminile. Dunque la salvezza per le donne esiste: la diagnosi precoce con mammografia ed ecografia. Con questo non intendo sminuire il “peso” della malattia. Il seno è simbolo della femminilità perché racchiude armonicamente la valenza della sensualità e della maternità e una diagnosi di cancro distrugge l’armonia fra la donna e il suo corpo. Per questo dico sempre ai miei medici che bisogna togliere il tumore non solo dal corpo, ma anche dalla mente. La senologia si è impegnata molto in questo senso, alleandosi alla chirurgia plastica e ricostruttiva e dando importanza al risultato estetico degli interventi chirurgici. Oggi credo che se la donna è capita nel suo profondo da medici e familiari, può trovare dentro di sé le risorse per guarire anche psicologicamente dal cancro al seno.

Nella sua lunga esperienza di oncologo le è capitato di rilevare un nesso fra depressione e minore reattività alle cure?
La depressione porta ad una minore reattività alla vita nel suo insieme e dunque una minore adesione alla cura. Una persona che non è motivata a guarire, non si sottopone alle visite, non crea alleanza terapeutica con il proprio mendico, non segue le terapie e così via. Non si può parlare tuttavia di minore risposta clinica alle terapie, così come non si può determinare un legame causaeffetto fra depressione e insorgenza di tumore, come da molte parti viene ipotizzato. Mi aspetto nei prossimi 40 anni risultati significativi, che potrebbero innalzare la guaribilità fino all’ 80% dei casi.

3 novembre 2012 Left

Leonardo, che ha vinto la maratona di New York senza arrivare per primo

Mentre oggi il mondo mena schiaffi sulle elezioni americane c’è una storia minima che mi è passata sulla scrivania. Ed è una storia minima che contiene tutti gli ingredienti del mito: la sfida, il nemico e la vittoria.

La sfida è una maratona e la maratona di New York è un traguardo di quelli che profumano. Leonardo Cenci, 44 anni suonati, è partito da Perugia dopo mesi di allenamento vero gli USA. Si è portato il passaporto, la voglia di correre, la sua attitudine al non arrendersi e la sua malattia: un cancro in progressione che non poteva certo lasciarsi a casa.

«Tutto pronto e tutto vero!… Sarò il primo italiano – ha scritto sul suo profilo Facebook prima della partenza – ed il secondo di sempre ad affrontare una maratona con il cancro, e per me solo questo, è già motivo di orgoglio per rappresentare l’Italia, l’Umbria, e la mia amata Perugia ma la cosa che mi gratifica di più, è di poter essere preso come esempio, e dimostrare al mondo che nonostante il cancro si può!!!… E SI DEVE! AVANTI TUTTA».

Ha tagliato il traguardo in 4 ore 27 minuti e 57 secondi. Non importa in che posizione. Si vince quando ci si scrolla di dosso i limiti che ti affibbiano gli altri. Si è rivoluzionari quando si smette di avere paura di ciò che non si conosce ma piuttosto si corre ad abbracciarlo.

Che bella corsa, che bella pagina, Leonardo.

Buon mercoledì.

Sul cognome materno siamo ancora appesi alla Corte

La corte costituzionale riunita

Potrebbe sembrare un assist per Maria Elena Boschi e la sua riforma, tant’è che della legge sul cognome materno ne avevamo già parlato, su Left, con Carla Bassu, costituzionalista per il Sì che ce la citava come esempio delle storture del bicameralismo perfetto. In realtà, chi ci legge sa bene che quello della navetta parlamentare, del parlamento troppo lento, è un falso mito (uno studio di Open polis spiega benissimo perché) e quindi su questa legge in attesa di approvazione torniamo senza farci troppi problemi.

È così: la legge sul cognome materno giace da due anni in Senato, ancora lontana dall’approvazione. Giace lì, a differenza di quello che molti di voi, sicuramente, pensano: ingannati, come spesso accade quando i giornali si lasciano prendere la mano con i titoli già alla prima votazione, avvenuta in questo caso alla Camera. 239 voti favorevoli, 92 contrari e 69 astenuti: sembrava fatta. E invece no.

Ancora una volta, per una legge di civiltà, semplicissima, presentata per la prima volta 40 anni fa, siamo appesi alla sentenza della Corte costituzionale, questa volta (già nel 2006 la Corte sollecitò l’intervento del legislatore, respingendo un analogo ricorso) attivata della Corte d’Appello di Genova sul caso di una coppia italo-brasiliana: si chiede se sia costituzionale l’automatismo nell’attribuzione del cognome paterno. Dobbiamo insomma, «ancora sperare nella Consulta», come dice la deputata di Sinistra Italiana Marisa Nicchi, «per sbloccare una legge che è ferma per ragioni politiche, da due anni, segno che la maggioranza non ha a cuore questa battaglia di civiltà e di riconoscimento della madre».

Sperare nella sentenza e sperare che basti per riportare la legge in aula. La consulta ha infatti “accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Genova sul cognome del figlio” e dichiarato “l’illegittimità della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori”. «L’approvazione di questa legge», continua infatti Nicchi, «sarebbe il segno del superamento di una società patriarcale e riconoscerebbe il ruolo importante della madre nella filiazione sancendo il definitivo superamento di uno storico disconoscimento». Ma siamo ancora lontani.

Donne, lavorano come gli uomini, ma costano meno

Foto tratta dal film "We want sex"

«Non dimenticate mai che basterà una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione», diceva Simone de Beauvoir. E le donne non sembrano essersene dimenticate, anzi: ritornano a scendere in piazza per lottare e difendere i propri diritti da quell’ondata retrograda che sembra soffiare sul mondo, negli Stati Uniti dove fa discutere il sessismo di Donald Trump come in Argentina dove al grido di Ni una menos le donne hanno manifestato contro la violenza di genere. Ma anche in Francia, dove il 7 novembre le lavoratrici francesi hanno incrociato le braccia e sono scese in piazza per protestare contro il cosiddetto “gender Pay gap”.

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Nel 2016 infatti la disparità salariale che sussiste tra gli uomini e le donne, secondo i dati Eurostat, è pari a 16,1 punti nella media europea (il record negativo spetta all’Estonia dove la differenza è di 28,3 punti). Questo significa che se un uomo riceve uno stipendio di 1.000 euro, una donna, per lo svolgimento della medesima mansione, ne guadagna solo 839. In Francia il 7 novembre, giorno della manifestazione, era l’Equal Pay Day, il giorno in cui si rilancia il tema della pari retribuzione tra i sessi perché da quella data fino alla fine dell’anno è come se le donne smettessero di lavorare, o meglio di guadagnare per il lavoro svolto rispetto agli uomini.
Nonostante negli ultimi anni si sia ridotto il divario di partecipazione al mercato del lavoro fra donne e uomini, tanto che nel 2014 le lavoratrici costituivano circa il 46% delle persone impiegate in Europa, permane comunque un forte svantaggio per le donne rispetto ai colleghi uomini che si collega inevitabilmente al gender pay gap.
Ad esempio «In Italia – spiega Sabrina Scampini autrice di Perché le donne valgono, anche se guadagnano meno degli uominimeno del 47 per cento delle donne ha un impiego retribuito, contro il 65 per cento degli uomini. In Europa il rapporto è 63 e 75. Non ci sono solo poche donne occupate rispetto agli uomini, ma quando lavorano lo fanno molto meno: il part-time non è un trattamento di favore, bensì uno strumento di discriminazione. Inoltre, se consideriamo il compenso totale, una donna prende 0,47 euro per ogni euro guadagnato da un uomo». Lievemente diversi i dati forniti dal World economic forum secondo cui in Italia ad essere impiegate sono il 54.14% delle donne contro il 73.58%.

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Grafica: Commissione Europea

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Grafica: Commissione Europea

Nel nostro Paese le cose sembrano andare meglio che in Francia e Germania, almeno se si guarda a quelli che sono gli stipendi delle donne. Se infatti, basandosi su i dati Eurostat 2014, l’Equal Pay day in Germania scatta addirittura l’11 ottobre (peggio fanno solo Estonia e Repubblica Ceca), in Italia sarebbe il 9 dicembre.

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Grafica: Slate

Secondo il Sole 24 Ore la differenza tra i salari medi degli uomini e delle donne in Italia sarebbe pari a 3.620 euro annui. Per la precisione gli uomini guadagnano circa il 12,2% in più delle colleghe donne, e la differenza retributiva aumenta con con l’aumentare del grado di istruzione.

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Grafica: Sole 24Ore

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Grafica: Sole 24Ore

Questo significa che nonostante gli elevati tassi di istruzione (le donne laureate sono quasi 2,4 milioni), più una donna avanza di grado nella sua carriera professionale più si fa ampio il divario salariale fra lei e un collega uomo di pari grado. Se un manager uomo guadagna in media 105.983 euro medi annui una donna ne percepisce in media 94.750.
Una differenza che fa riflettere non poco sull’idea di parità che sussista nel nostro Paese, per cui una donna al potere è ancora percepito come qualcosa di anomalo e meno valevole di un maschio che occupi la medesima posizione.

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Inoltre anche la crisi, come spiegava 30 anni fa ha il suo prezzo. Secondo il Global Gender Gap Report del 2016 stilato World economic forum infatti la tendenza verso la parità salariale negli ultimi tre anni sta subendo un arresto (in Italia addirittura un regresso). Analizzando i dati si capisce per esempio che se il cambiamento verso l’equità non subisce un’accelerazione, per avere parità di trattamento economico fra uomini e donne dovremmo aspettare il 2186, ben 170 anni.
Le prospettive peggiorano inoltre se si pensa che un salario equo determina indipendenza economica e la piena libertà di determinare le proprie vite senza dover dipendere da un partner maschile, e che questo ha implicazioni concrete anche sul tema della violenza contro le donne. Anche per questo infatti si scenderà in piazza, questa volta nel nostro Paese, il 26 novembre.

 

Cina, dal pugno alzato al pugno duro. La finta indipendenza di Hong Kong

epa05619619 A man holds a 'Hong Kong is Not China' flag during a protest against the Legislative Council oath-taking interpretation of the city's Basic Law, or mini-constitution, by the Chinese authorities in Beijing, in Hong Kong, China, 06 November 2016. During their swearing-in ceremony in October 2016, councillors-elect Leung and Yau altered their oaths in a provocative move against mainland China and displayed pro-independent Hong Kong flags. The Standing Committee of the National People's Congress (NPC) plans to discuss to overturn the oathtaking and hence bar the elected councillors, which has sparked protests in Hong Kong. EPA/ALEX HOFFORD

Pechino non ha apprezzato la manifestazione di dissenso proveniente da Hong Kong. Seppure amministrativamente e politicamente indipendente, la regione subisce tutt’oggi il decisionismo cinese.
É finita infatti con l’esclusione dal Parlamento dei due giovani deputati indipendentisti che in occasione della cerimonia di insediamento, si erano rifiutati di prestare giuramento alla Repubblica popolare cinese.
I due ragazzi, si erano presentati srotolando bandiere con scritto “Hong Kong non è la Cina” e avevano provocatoriamente pronunciato il nome “Cina” col dispregiativo «Chee-na» utilizzato dai giapponesi al tempo dell’occupazione. Una mossa che non è piaciuta alla Potenza destinataria.

Youngspiration's Yau Wai-ching (C) unfurls a flag that reads 'Hong Kong is not China' during the oath taking session for new legislators at the Legislative Council in Hong Kong, China, 12 October 2016. Yau is one of two newly elected lawmakers advocating higher autonomy for the city. EPA/JEROME FAVRE
Yau Wai-ching srotola la bandiera con scritto ‘Hong Kong non è la China’ durante la sessione di insediamento della nuova legislatura del Legislative Council di Hong Kong, 12 October 2016. EPA/JEROME FAVRE

Nonostante Yau Wai-ching (25 anni, la più giovane eletta della città) e Sixtus Leung, 30 anni, entrambi del partito Youngspiration, siano stati democraticamente eletti e per giunta con una valanga di voti, e nonostante il sistema politico sia completamente diverso da quello della Cina continentale ricalcando invece la Common Law britannica; e soprattutto nonostante Hong Kong dovrebbe restare – stando agli accordi del 1997 fra l’ex potenza coloniale britannica e la Cina – Regione amministrativa speciale, semi-libera, fino al 2047; il governo centrale di Pechino ha sentenziato che i due ragazzi non potranno entrare in carica nel Legislative Council, il Parlamento della City. La decisione era stata demandata alla magistratura territoriale, ma l’Assemblea nazionale del popolo di Pechino l’ha scavalcata, comunicando il suo giudizio: i due deputati «rappresentano una grave minaccia alla sovranità e alla sicurezza nazionale della Repubblica popolare cinese».

Una prepotenza senza precedenti che riaccende le tensioni fra i due Stati. Domenica infatti, migliaia di persone sono scese in piazza contro le ingerenze cinesi. Protesta che è stata sedata con lo schieramento di duemila agenti re qualche arresto. Mentre CY Leung il capo dell’esecutivo di Hong Kong, filo-cinese, ha già annunciato una svolta dura, con il varo di una legge anti-sovversione. Ma la mobilitazione riaccende la divisione fra democratici che sognano una secessione reale e filo-cinesi già esplosa due anni fa con i 79 giorni di mobilitazione di massa.

L’intervento di Pechino è ora diventata anche una questione di giurisprudenza, perché andando contro al principio “un Paese, due sistemi” siglato vent’anni fa, rimette in discussione il futuro dello stato di diritto nell’ex colonia britannica.

 

L’incubo americano si avvera. Con Trump presidente, addio a diritti e uguaglianza

NEW YORK, UNITED STATES - NOVEMBER 7: A supporter with a mask depicting U.S. Republican presidential candidate, Donald Trump, is seen during a rally in support Republican Presidential Candidate Donald Trump next to Trump tower on the last day before the elections in New York, United States on November 7, 2016. Mohammed Elshamy / Anadolu Agency

Donald Trump, comunque vadano le elezioni, resta un problema per gli Stati Uniti, perché xenofobia, ideologia della supremazia bianca e alcuni valori religiosi e conservatori sono sostenuti da destre molto agguerrite e da gruppi che riprendono gli slogan sanguinari del Ku Klux Klan. Lo sostiene il giornalista e scrittore Guido Caldiron nel suo nuovo libro Wasp (Fandango) una sigla indica i bianchi protestanti che non hanno fatto mai davvero i conti con il passato schiavista dell’America. E infatti oggi sembrerebbe rispuntare.
«L’eredità di quella storia non è mai stata elaborata negli Usa – dice il giornalista che scrive per il manifesto e Micromega -. Nonostante la grande maggioranza dei neri americani sia direttamente erede di coloro che furono catturati in Africa, portati da predoni arabi attraverso il deserto e poi oltreoceano dagli schiavisti europei. Un terzo degli odierni cittadini Usa nasce da questa violenza, dalla segregazione, dell’omicidio che avveniva se provavano ad alzare la testa, dagli stupri delle donne africane. Ciò che la maggioranza degli americani fa fatica a riconoscere è che tutto questo è alla base degli Usa. Ci sono voluti oltre due secoli perché, almeno sulla carta, agli afroamericani fossero riconosciuti almeno quei diritti che dopo la guerra di secessione, Lincoln gli aveva concesso. Ma ci sarebbero voluti ancora cento anni, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, perché la fine della schiavitù venisse capita.

Ma la questione del razzismo non è stata affatto risolta?
Si è aperto un nuovo capitolo che ha visto le disuguaglianze che prima erano sancite attraverso lo schiavismo diventare segregazione razziale. In gran parte del Paese, specie nel Sud, nasce una nuova segregazione sociale, nascono i ghetti neri delle grandi città industriali, la marginalità urbana, il diffondersi della malavita, della droga. Nascono quegli stereotipi che vedono i neri ancora oggi considerati come soggetti pericolosi. Proprio quei pregiudizi sono alla base dello stillicidio di morti violente dei giovani neri per mano delle forze dell’ordine. È come se il nuovo contesto si fosse adeguato a quel dramma originario. Non è stato mai messo davvero in discussione. Rimane un grande buio collettivo nella vicenda pubblica Usa.

Il doppio mandato di Barack Obama ha cambiato realmente la società o è rimasto un fatto simbolico?
L’elezione di Obama nel 2008 era stata salutata come l’inizio di un’era post razziale. Da decenni esiste un ceto medio nero composto da intellettuali, oltre che da numerosissimi sportivi. L’arrivo di un afroamericano alla Casa Bianca sembrava un punto di svolta rispetto al passato di segregazione razziale, ma il vero problema è l’assunzione di quel passato collettivo in seno alla nazione americana. Paradossalmente l’elezione di Obama ha prodotto una recrudescenza razzista: le destre e il partito repubblicano hanno boicottato tutte le proposte di legge, anche se timide. La stessa riforma sanitaria, l’“Obama care” è stata descritta come un tentativo di portare il socialismo negli Usa. Si è creato un fronte di destra che include anche i Tea party, la destra oltranzista. La presidenza di Obama è apparsa debole, lui forse è stato intimidito anche dalla consapevolezza di essere stato eletto per un fatto simbolico che trascendeva la sua stessa capacità politica. Nei fatti si è mosso con poca intraprendenza rispetto ai poteri consolidati, così non è stata affatto inaugurata una nuova era. Facendo un bilancio di questo decennio dobbiamo dire che la questione razziale è ancora dominante, anzi la situazione è peggiorata rispetto a un decennio fa.

Lo stesso emergere con forza di un candidato xenofobo come Trump la dice lunga?
Trump è il candidato della destra repubblicana che ha fatto dell’opposizione ad Obama la sua identità, con una carica razzista, dapprima, nascosta: c’è stato anche chi ha provato a dimostrare che Obama avrebbe occupato la carica di presidente illegalmente perché nato in uno Stato fuori dagli Usa. Trump ha sostenuto i gruppi che sostengono queste tesi con finanziamenti. In sintesi il candidato scelto dai repubblicani ha significato il ritorno della questione razziale, che non si declina solo nella dicotomia bianchi- neri, quello che si è sviluppato nell’ultimo quindicennio è stato un forte allarme verso l’immigrazione, in particolare quella ispanica.

La comunità ispanica come vive negli Stati Uniti?
Ci sono 15 milioni di cittadini ispanici, non solo messicani, ma anche centro americani e da altri Paesi, che lavorano nel Paese da decenni. I loro figli sono cittadini Usa perché nati lì, loro no, sono ancora degli illegali, che lavorano come domestici, nella cura delle persone anziane e per molti versi rappresentano l’ossatura del lavoro negli Usa. Verso di loro si è scatenato l’odio, materialmente con gruppi di miliziani, para militari che hanno cominciato a presidiare il confine; sul piano teorico con un discorso apparentemente articolato delle destre, addirittura Samuel Hunghtinton, nel 2004 ha scritto un libro in cui parla della necessità di preservare i valori originari dei fondatori degli Usa, di quel nucleo protestante che parlava l’inglese. Come faremo quando la lingua spagnola diventerà maggioritaria? Si chiede il teorico dello scontro di civiltà. Di fatto lo spagnolo è già diventato la lingua più diffusa in California, in Arizona, nel New Messico. Anche a New York dove gli ispanici sono centinaia di migliaia lo spagnolo è molto diffuso. Tutto questo ha costruito il terreno su cui poi è emerso Trump.

Quanto ha influito la crisi economica sul riemergere della xenofobia?
Dall’Europa ci rendiamo poco conto di come gli Usa siano diventati un enorme continente di poveri. Oltre il 15 per cento della popolazione totale vive sotto la soglia di povertà, facendo seguire i figli dai sistemi si sussidio alimentare, altrimenti farebbero la fame, ci sono moltissime persone che vivono in container, dopo la crisi dei Supreme. Ci sono delle vere o proprie cittadine fatte di caravan e camper. L’impoverimento del ceto medio e della working class è sotto gli occhi di tutti. Si sono persi milioni di posti di lavoro e su tutto questo Obama è intervenuto in modo debole. In molti gli rimproverano di essere stato più vicino agli interessi della City e della Silicon Valley più che a quelli di milioni di lavoratori Usa. Da qui la crisi del credito politico, in entrambi i campi. Trump e Clinton risultano apprezzati da meno della metà della popolazione. Sono candidati che non sono amati nemmeno dalla loro parte. Trump è avvertito come un outsider e questo è un vantaggio, perché non direttamente legato all’élite del potere politico consolidato a Washington.

Nel tuo libro ricostruisci il riemergere della supremazia bianca che rivendica una superiorità morale, soldi e religione. Il Ku Klux Klan non è uno spettro del passato. Le croci di fuoco tornano nella notte Usa?
Da un lato c’è il peso della cosiddetta destra religiosa, sono alcuni decenni che milioni di evangelici che erano stati lontani dalla politica si sono di nuovo fatti avanti. Questo fenomeno era iniziato all’epoca di Ronald Reagan. Negli anni 80 hanno sostenuto candidati repubblicani, chiedendo un impenno preciso per impedire l’aborto, che in molti Stati Usa è diventato una corsa ad ostacoli (come rischia di essere anche da noi), ci sono leggi statali che contestano le leggi federali che invece garantiscono la possibilità di interruzione. Gruppi anti abortisti fanno azioni intimidatorie davanti ai consultori, nelle cliniche, con i manichini coperti di sangue, fino agli estremisti armati che attaccano i centri medici e uccidono i ginecologi che praticano interruzioni di gravidanza. Mike Pence, il vice di Trump è stato governatore dell’Indiana, uno Stato conservatore, dove negli anni Trenta il Ku Kux Klan decideva i sindaci, i giudici, il governatore stesso.

Intanto si assiste ad un attacco feroce alla legge sull’aborto…
Il governatore dell’Indiana ha contestato la legge che consente l’interruzione di gravidanza, il dibattito è ancora incorso. Si vuole proibire l’aborto anche in caso di stupro e incesto. C’è una norma per cui in base di principi morali si poteva non assumere una persona per il suo orientamento religioso e sessuale. Questa legge è stata combattuta non solo dalle associazioni Lgbt, ma anche dalle grandi catene commerciali perché limitava i nostri affari. Insieme all’avanzare delle destre c’è stato il ritorno del Ku Klux Klan fenomeno nato all’indomani della guerra di successione e riemerso negli anni Cinquanta negli Stati del Sud, per opporsi al movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King. Oggi si assiste alla crescita di movimenti simili, non esiste il Klan in quanto tale, ci sono solo dei piccoli gruppi, ma come dicevamo sono riemerse le idee del suprematismo bianco che si esprime fortemente in rete in una sotto cultura che lambisce il partito repubblicano. Gruppi di cosiddetto nazionalismo bianco hanno sostenuto Donald Trump. Dal suo account ufficiale sono stati rilanciati quei temi. Arrivano a sostenere l’dea di un genocidio bianco, pensando a una sorta di sterminio dei bianchi compiuto dalle minoranze. Sono queste le idee che appartengono agli eredi del Ku Klux Klan e che Trump ha ritenuto di non dover cancellare dalle sue comunicazioni sui social media, dove è seguito da milioni di persone. Il suo staff ha studiato “le statistiche etniche”e le ha usate nella sua campagna, ispirandosi a Nixon si è vestito dei panni di chi riporta l’ordine. Si è voluto sostenere che i neri o altre minoranze sarebbero pericolose per i bianchi. In realtà negli Usa funziona un po’ come nelle caste indiane: i neri uccidono soprattutto i neri, i bianchi i bianchi e così via, gli ispanici si sparano fra loro. Ma Trump ha usato il pericolo delle minoranze nere come cassa di risonanza per portare idee simili a milioni di cittadini Usa. E poi ci sono le milizie, private, che rivendicano il pieno diritto di uso delle armi da parte dei cittadini. Talvolta sono anche armi da guerra e fucili di assalto dei Marines. Vanno in mano a giovani bianchi che rivendicano l’autonomia da Washington perché pensiamo che in questo clima di tensione le forze dell’ordine non siano sufficienti. Dicono: noi vogliamo difenderci da soli. All’interno di questa destra si vedono elementi regressivi che portano al passato delle destre religiose.

La religione è molto pervasiva negli Usa. Todorov sostiene che la radice puritana sia particolarmente persistente. Mentre Emilio Gentile ne La democrazia di Dio scrive che anche verdi come Al Gore e democratici come Clinton hanno fatto della loro fede un fatto pubblico, facendone un uso politico.
Il fenomeno del protagonismo in politica dei cristiani evangelici si è manifestato già alla fine degli anni Sessanta, in un momento in cui invece si viveva la rivolta afro americana, c’erano i movimenti femministi, quelli della nuova sinistra, ecc. Ma l’America profonda torna ad identificarsi con le origini puritane dei cristiani pellegrini con ideali di purezza della nazione, è quella la stagione in cui la destra inaugura la guerra dei valori, pensano si debba rispondere tornando alla natura dell’identità fondamentale, Wasp, bianchi e protestanti. Già Nixon alla fine degli anni ’70 e poi Reagan cercavano il rapporto con i bianchi vittime di razzismo, italiani, greci, irlandesi che finiranno per essere sedotti dal razzismo verso i neri. Quanto al risveglio degli evangelici non riguarda solo la destra che si rivolge ai ceti meno abbienti, ma racconta anche come i lavoratori e ceto medio siano stati indotti a votare contro i movimenti femministi e gay rivendicando l’identità machista del Paese quando poi andavano al potere. I repubblicani facevano politiche anti sociali le cui prime vittime erano gli operai bianchi. Il fenomeno si è visto anche dalla parte dei democratici. Jimmy Carter, per esempio, era un evangelico georgiano; per lui la religione aveva un ruolo di primo piano, raccontava di dedicare molto tempo alla preghiera. Anche Obama in alcuni momenti drammatici ha guidato il canto nella Chiesa nera dopo l’assassinio di un ragazzo nero, Nel 2008 c’è stata una registrazione di massa dei neri alle liste elettorali . Ed è un risultato che è dovuto alle chiese afroamericane del Sud.

Intanto Donald Trump continua a suonare la grancassa del razzismo.
Trump continuerà a pesare, il malessere non viene risolto, anzi potrebbe peggiorare se vince Hillary Clinton che è sentita come establishment. Su un fondo di emarginazione, crisi economica, si vuole colpire il potere politico di Washington, e si vogliono colpire gli immigrati. Se vince Trump avremo un effetto Brexit, se perde, il fenomeno Trump comunque, non si risolve il giorno dopo.

 

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Ungheria: Costituzione 1 – Xenofobia 0. Il Parlamento boccia la riforma antiprofughi di Orbán

epa05578426 Hungarian Prime Minister Viktor Orban watches the training session of the Hungarian national soccer team at the Skonto Stadium in Riga, Latvia, 09 October 2016. Hungary will face Latvia in the FIFA World Cup 2018 qualifying soccer match on 10 October 2016. EPA/TOMS KALNINS

«Né i ricchi migranti, né i ricchi terroristi devono poter venire in Ungheria». E non solo i profughi. Il leader dell’estrema destra ungherese, Gabor Vona, fomenta il premier Viktor Orbán. E lui, Orbán – dopo aver perso il referendum anti migranti che non ha raggiunto il quorum – si nasconde dietro il «ricatto politico» degli estremisti di destra e propone le modifiche costituzionali anti-profughi al suo Parlamento: l’inserimento nella “Legge fondamentale” ungherese (la Costituzione) del divieto di insediamento in massa di stranieri in Ungheria. Ma dai deputati ungheresi è arrivato il No. Così, anche il secondo tentativo di inserire un ulteriore ostacolo legale contro le decisioni dell’Ue sulle quote obbligatorie di ripartizione dei migranti è fallito.

Il partito di governo, Fidesz, non ha la maggioranza qualificata dei due terzi. Perciò, è sceso a patti con i nazionalconservatori, populisti e antieuropeisti di Jobbik. Che, come non ha mancato di urlare in ogni tv il leader del partito xenofobo Gabor Vona, chiedono al governo di alzare il tiro e inserire un punto alle modifiche: la rinuncia dello schema per cui vengono accordati permessi di soggiorno ai ricchi extracomunitari che acquistino obbligazioni ungheresi per un valore nominale di almeno 300mila euro (dal 2013 a oggi l’Ungheria ha emesso più di 10mila obbligazioni di questo tipo). Ma l’appoggio degli xenofobi non è arrivato. E per due soli voti, la riforma dell’esecutivo targato Orbán non è passata.

Il meccanismo europeo di ripartizione dei rifugiati (relocation) prevede per l’Ungheria l’accoglienza di poco più di mille richiedenti asilo (1.294), ma ormai è una questione di principio per la destra ungherese che ha trasformato la questione nel cavallo di battaglia elettorale. In vista delle elezioni politiche del 2018, quindi, non è da escludere che – sotto ricatto o no – Orbán tiri fuori dal cilindro nuove carte per la sua guerra contro l’Unione europea.

Il vicepresidente della Commissione: «L’Unione europea potrebbe fallire»

In un’intervista pubblicata ieri da Euractiv, Frans Timmermans, Primo vicepresidente della Commissione europea nonché ex-Ministro degli affari esteri olandese, ha parlato a tutto tondo della situazione dell’Ue: dal tema della solidarietà tra Paesi, alle politiche identitarie di alcuni governi, passando per la crisi dei migranti.

Timmermans ha affermato che, per la prima volta da 30 anni a questa parte, ha la sensazione che «l’Unione europea possa fallire». «Non è una questione di pessimismo, ma nemmeno l’Ue è eterna e si deve combattere per difenderla»; poi ha specificato che «invece di lodare l’Unione in quanto tale, dovremmo dimostrare che le sue politiche possono aiutare a risolvere i problemi che gli Stati nazionali non riescono a gestire».

Secondo Timmermans, uno dei problemi principali del nostro continente è rappresentato dall’indebolimento della classe media: «Il nostro ascensore sociale si è bloccato e ha cominciato a tirare verso il basso le prospettive future delle persone. Le disuguaglianze aumentano e le rivendicazioni identitarie ritornano in primo piano».
Interrogato sul disinteresse dei giovani verso la politica europea, l’ex Ministro olandese ha ammesso che la classe politica «ha fallito nell’educare i cittadini», i quali vengono invece radicalizzati da partiti estremisti.

Il Vicepresidente della Commissione ha poi commentato la Brexit: «In politica, la nostalgia verso il passato rappresenta sempre una paura del futuro». In seguito ha anche ringraziato i valloni per aver sollevato importanti questioni nel corso delle negoziazioni per il Ceta, ma ha detto che sarebbe stato una contraddizione non firmare un accordo con il Canada: «Gli accordi commerciali sono un modo per rafforzare i nostri valori comuni e uno strumento per guidare la globalizzazione nella direzione giusta».

Infine Timmermans ha dato uno schiaffo morale all’ex-Presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso. Timmermans non si spiega come Barroso abbia potuto accettare una simile posizione lavorativa: «In politica l’esempio è tutto. Se si parla di valori è necessario comportarsi anche in maniera consequenziale. Si deve essere all’altezza della posizioni istituzionale che si occupa».

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