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Amore e sesso tra Crociate e Night Club. Il nuovo fumetto di Martoz

Ha solo 26 anni Alessandro Martorelli in arte Martoz, fumettista, illustratore e street artist che ha appena pubblicato la sua seconda graphic novel Amore di lontano (Canicola edizioni) le cui tavole originali saranno in mostra a Roma presso la Galleria Parione 9 fino al 6 novembre. È giovane eppure ha già esposto (oltre che nella Capitale) anche a Parigi, a Los Angeles, New York e Mosca.

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L’opera di Martoz si distingue fin dal primo colpo d’occhio per uno stile unico, personale e coraggioso. «I profili, le panoramiche cittadine e i paesaggi, con l’uso della prospettiva ribaltata diffusasi in epoca medievale, qualsiasi dettaglio rende Martoz riconoscibile. Non si tratta qui di dare giudizi. Basterà dire che fa piacere riconoscere con un colpo d’occhio l’immaginario di un artista, rendersi conto che quei corpi sono i corpi di Martoz e possono essere suoi solamente» spiega Elisa Albanesi raccontando le tavole esposte.

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Ma che cos’è Amore di Lontano? È una storia d’amore dolce eppure tormentata, poetica e brutale, innocente e allo stesso tempo estremamente sessuale e sensuale.
«Amore di lontano ha due punti di partenza» spiega Alessandro «veri e propri riferimenti di base su cui si costruisce la storia: Fiori blu di Raymond Queneau e L’Amore di lontano di Jaufré Rudel. La miscela di surrealismo e amor cortese che sorge dall’unione di questi due autori contraddistingue fortemente il fumetto». E anche la vicenda narrata segue infatti due filoni: due personaggi, due mondi. Uno contemporaneo e l’altro medievale che si incrociano, lontani nel tempo, eppure intimamente connessi. «I miei protagonisti sono Antares, un capitano di ventura che guida l’esercito leonese in Terrasanta al tempo delle Crociate» racconta Martoz «e Jaf, un erotomane tormentato che vive nel nostro tempo e trascorre una vita per lo più sbandata. Nonostante il divario temporale che li separa, i due si ritrovano connessi da un misterioso fattore: in entrambi i tempi, si dice infatti che viva una fantomatica donna dalla presenza angelica: “Mila”. Sia Jaf che Antares – con le loro vite smodate ed esorbitanti – ripongono fiducia in questa figura femminile nella speranza di essere salvati da un’esistenza assurda, caratterizzata dalla morte (nel caso di Antares) e dal sesso sfrenato (nel caso di Jaf)».

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Antares e Jaf viaggiano dalla Spagna a Saint Tropez, dal Libano a Tripoli, dalla Germania alla Turchia, e anche Amore di Lontano è un fumetto errante nato in autobus, percorrendo freneticamente la città da nord a sud, da est a ovest. «Il mio precedente lavoro era nato in metropolitana, quindi più o meno siamo là…è sui mezzi pubblici che si creano i fumetti» ci dice Martoz ridendo «stavo riflettendo su un servizio che avevo visto in tv sul turismo sessuale e ho mescolato quei pensieri degli elementi della poesia italiana del medioevo e Jaufré Rudel che stavo studiando all’epoca. È così che mi è venuto in mente di costruire una storia mescolando il viaggio che si fa per cercare delle donne con il turismo sessuale e L’Amore di lontano di Rudel. Poi ho letto Fiori Blu di Queneau e ho completato il quadro».

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«Dal Post-moderno al Medioevo un viaggio onirico tra l’ocra e il blu»

Elisa Albanesi

La storia è costruita su una serie continua di rovesciamenti sottolineati anche dalle tonalità usate per colorare le tavole: calde quelle ambientate nel 1147, fredde e acide quelle nelle quali si muove Jaf. Allo stesso modo mentre «La dimensione di Antares, che dovrebbe essere onirica in quanto viene presentata come un sogno di Jaf, è storicamente realistica e cronologicamente nitida» racconta Martoz «quella di Jaf è indefinita e avvolta nel mistero. Nonostante la vicinanza temporale al lettore, quella di Jaf è una vicenda surreale e acquosa».

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Il risultato è un bizzarro poema cavalleresco, tra Medioevo e giorni nostri, incentrato sulla febbrile ricerca di una donna, di una redenzione amorosa, e raccontato da un tratto graffiante, cubista. Inutile dire che si legge tutto d’un fiato.

12 ottobre 1492. Ha inizio il più grande eccidio della storia dell’umanità

Nessuno ha scoperto l’America. Quando Cristoforo Colombo sbarcò nelle Antille il 12 ottobre del 1492 ben 100 milioni di Americani vivevano già lì. Da millenni.

Appena squillò la tromba,
tutto era pronto sulla terra,
e Geova divise il mondo
tra Coca-Cola Inc., Anaconda,
Ford Motors, e altre società

Canto General di Pablo Neruda

Quando Colombo “scopre” il Nuovo Mondo, in verità, ha inizio il più grande eccidio della storia dell’umanità. Tra epidemie, guerre, assassinii, schiavitù, espropri e fame, la dominazione europea costa agli indigeni tra le 50 e le 114 milioni di vite.

La festa dei dominatori. Gli italoamericani, orgogliosi del fatto che sia stato un navigatore italiano a compiere la più grande scoperta della storia, la chiamano Columbus Day, il il Giorno di Colombo. Il 12 ottobre l’Empire State Building di New York City accende le sue luci riproducendo il tricolore italiano. E in tutti gli Stati Uniti, banche, uffici postali e uffici federali sono chiusi, così come gli uffici dell’ambasciata italiana a Washington D.C. e i vari consolati italiani che si trovano nel Paese. Fu il presidente Franklin Delano Roosevelt a stabilire che il Giorno di Colombo diventasse festa nazionale in tutti gli States. Dal 1971, la ricorrenza è fissata per il secondo lunedì del mese di ottobre.
In Spagna il franchista “Día de la Raza”, dal 1958, è mutato in Día de la Hispanidad ed è festa nazionale. I tempi cambiano, e oggi sui social network la voce spagnola è quella di Pablo Iglesias: «Ai nostri amici latinoamericani: siamo orgogliosi della vostra indipendenza e di poterci guardare negli occhi».

 

 

In Costarica lo chiamano “Día de las Culturas” (giorno delle culture) e si festeggia con un carnevale l’unione della cultura spagnola, indigena e afro-caraibica. In Messico si portano fiori ai piedi del monumento alla razza situato a Città del Messico e, tra canti e balli, gli indigeni alzano le loro voci nella Piazza dello Zocalo. In Colombia si festeggia nelle scuole, dove con delle opere teatrali rappresentano il significato che questo giorno ha avuto per la storia. In Argentina, dal 1917, il 12 ottobre è il giorno della riaffermazione dell’identità ispanoamericana di fronte agli Stati Uniti, e lo chiamano il Día della Resistencia de los Pueblos Originarios (giorno della resistenza dei popoli originari). Ma è il Venezuela di Hugo Chávez che, dal 2002, cambia profondamente il senso di questa data: chiamando la festa Día de la Resistencia Indígena (Giorno della resistenza indigena), perché non lo considera come la data di una scoperta, ma come la commemorazione della resistenza aborigena contro l’invasione spagnola.

Nei decenni 1491-1550 per effetto delle malattie tra l’80% e il 95% della popolazione indigena delle Americhe perse la vita: un decimo dell’intera popolazione mondiale di allora (500 milioni circa). La prima malattia nel Nuovo Mondo, causata da un germe dell’influenza dei suini, nel 1493 a Santo Domingo, annientò la popolazione: da 1.100.000 a 10.000 abitanti.
Poi il vaiolo, che destabilizzò l’impero Inca favorendo la campagna di conquista di Francisco Pizarro e il massacro della popolazione. E dopo ancora il morbillo e le epidemie che giungevano dall’Africa insieme ai nuovi schiavi. E ancora, alla ricerca di oro, bruciavano villaggi sterminando le intere popolazioni e facendo prigionieri e schiavi. Infine, dove non uccisero le malattie, lo fecero le armi, la schiavitù, la deportazione, i lavori forzati e la fame.

Oggi si contano più di 800 popolazioni indigene, per una popolazione di circa ai 45 milioni di persone dove i governi progressisti riconoscono i loro diritti.

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Tante discussioni sulle riforme, ma la legge sul reato di tortura non si fa

Si discute tanto di riforme costituzionali, di come snellire la macchina dello Stato, si annunciano grandi opere come il ponte sullo Stretto, ma non si riesce a fare una legge che introduca in Italia il reato di tortura. È così, i diritti civili, quelli vissuti e sofferti nella carne e nella psiche delle persone, passano in secondo piano rispetto ai “grandi” problemi. Eppure ci vorrebbe veramente poco. Anzi, dovrebbe essere una tendenza “naturale” dei politici quella di difendere e tutelare la dignità dell’essere umano, di chi si trova in una situazione di debolezza e di impotenza. Invece la legge è ancora nella fase di stallo.

L’ultima seduta al Senato, il 19 luglio, aveva visto l’opposizione del centrodestra, Gasparri e Giovanardi in prima fila. Lo stesso ministro Alfano in più occasioni pubbliche non ha mancato di spendere parole a favore delle forze dell’ordine, proprio su questo tema. Fatto sta che il disegno di legge che aveva come primo firmatario Luigi Manconi è tornato in Commissione giustizia e non se ne è saputo più nulla. Il capogruppo Pd Zanda aveva preso l’impegno di far tornare il testo in aula, ma è tutto fermo. Forse, chissà, il presidente del Consiglio Renzi attende il passaggio delle “forche caudine” del referendum del 4 dicembre e nell’attesa forse è meglio non far irritare troppo il centrodestra ma soprattutto il Ncd di Alfano.

Domani alle 10 si terrà un sit-in proprio in piazza Montecitorio promosso da Antigone, proprio per riportare all’attenzione pubblica e dei politici il silenzio assordante sul disegno di legge.

L’Italia ha ratificato la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite nel 1988, quasi trent’anni fa. Ne sono passati 25 da quando il Parlamento ha cercato di inserire il reato di tortura all’interno dell’ordinamento penale italiano, ma non c’è mai stato accordo tra le forze politiche. Eppure l’Europa ci chiede l’introduzione del reato e più volte siamo stati richiamati da istituzioni europee. Esemplare a riguardo è stata la sentenza della Corte di diritti umani Europea di Strasburgo che ha condannato l’Italia, nell’aprile del 2015, per il pestaggio della polizia nei confronti dei manifestanti durante l’irruzione alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001. Il ricorso fu presentato da Arnaldo Cestaro, manifestante veneto all’epoca 62enne. Nella sentenza si leggono queste parole a proposito del blitz delle forze dell’ordine fatto con: “intento punitivo, di rappresaglia, per provocare l’umiliazione e la sofferenza psichica e morale delle vittime”. Nonostante le condanne, i colpevoli, non sono punibili per le torture, visto che nel nostro ordinamento non esiste il reato.

All’inizio di questa legislatura sembrava che qualcosa si fosse mosso: la proposta di legge aveva iniziato il suo iter parlamentare. Approvata al Senato nel marzo 2014, poi fu approvata alla Camera, proprio sull’onda della condanna dell’Italia per le torture nella scuola Diaz da parte della Cedu, nell’aprile del 2015. Il testo, qui modificato, fu spedito nuovamente al Senato dove però è stato affossato.

Domani in piazza Montecitorio con Antigone e le tante associazioni che hanno aderito (Amnesty, Arci, A buon diritto, Acat Italia, Cittadinanzattiva, Magistratura democratica, Giuristi democratici ecc.) ci saranno anche Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo che oltre ad aver seguito il caso di Stefano Cucchi, ha portato nelle aule di giustizia la richiesta di verità per altre persone che sono morte mentre erano affidati alle forze dell’ordine.

«Non so se faremo in tempo a introdurre il reato di tortura entro il 2016, vedo un panorama grigio e penso che ci sia bisogno di una presa di posizione forte e netta», aveva detto qualche giorno fa Ilaria Cucchi a Pisa per l’Internet Festival. La petizione Contro ogni tortura: l’Italia approvi la legge entro il 2016 che ha lanciato su Change.org ha superato i 238mila sostenitori. «Sono rimasta sorpresa dal modo in cui le persone hanno accolto la nostra iniziativa», ha detto, sottolineando come da parte dell’opinione pubblica, l’introduzione del reato di tortuna sia ormai condivisa e anzi, attesa. « I politici sembrano non accorgersi che sempre più persone non vogliono far finta di niente. Forse – ha concluso Ilaria Cucchi – avere l’introduzione entro il 2016 è un’utopia ma dobbiamo continuare a combattere per l’introduzione del reato di tortura». Domani sarà un primo momento per ricordarlo ai politici.

Berta Zuniga Cáceres: «Hanno assassinato mia madre, ma la nostra battaglia non si ferma»

Berta Zuniga Cáceres, figlia della ambientalista honduregna assassinata in casa sua il 3 marzo 2016, è venuta a trovarci in redazione. In questa intervista video ci parla delle indagini e del futuro delle battaglie ambientaliste degli indios honduregni. Intanto, dall’Honduras giunge la notizia di due tentativi di omicidio ai danni dei successori di Berta.

Tomás Gómez Membreño, che ha assunto come capo del Consiglio Civico di Organizzazioni Popolari e popoli indigeni (COPINH) stava tornando a casa dalla sede dell’organizzazione nella notte di lunedì quando uomini armati hanno aperto il fuoco contro la sua auto.

Gómez, che insieme a Cáceres era stato costretto a nascondersi nel 2012 dopo accuse penali false mosse nei loro confronti, ha riferito di essere stato seguito e intimidito da convogli militari a La Esperanza, dove ha sede COPINH.

Sempre lunedì mattina, uomini armati hanno aperto il fuoco contro la casa del capo della comunità di Alexander García, il leader COPINH della comunità di Llano Grande, Colomoncagua, dormiva in casa con la moglie e due figlie, quando colpi sono stati sparati attraverso la porta e la finestra. È il secondo tentativo di assassinio contro García.

 

La nostra intervista a Berta Caceres Flores dopo l’annuncio della vittoria del premio Goldman 2015, il Nobel ambientalista

150mila firme per bloccare la pensione di José Manuel Barroso

Una petizione firmata da più di 150mila cittadini europei chiede la sospensione dei diritti pensionistici per l’ex-Presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, reo di per aver accettato un incarico presso Goldman Sachs.

L’iniziativa è stata lanciata da impiegati delle istituzioni europee e rappresenta un caso storico di mobilitazione. Nel dettaglio, ben 70mila firme sono state raccolte in Francia e 55mila in Germania. La petizione invoca un’investigazione indipendente sulla condotta di Barroso alla luce dei dettami dell’articolo 245 sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), che recita:

“Fin dal loro insediamento, essi [i membri della Commissione europea] assumono l’impegno solenne di rispettare, per la durata delle loro funzioni e dopo la cessazione di queste, gli obblighi derivanti dalla loro carica, ed in particolare i doveri di onestà e delicatezza per quanto riguarda l’accettare, dopo tale cessazione, determinate funzioni o vantaggi”.

Nel frattempo, anche nel Parlamento europeo le questioni legate alla trasparenza e ai conflitti d’interesse sono all’ordine del giorno.

Durante un dibattito parlamentare di settimana scorsa a Strasburgo, un funzionario della Commissione europea ha accusato il Parlamento europeo di applicare due pesi e due misure quando si parla di buona condotta dei funzionari pubblici. Le allusioni della Commissione facevano riferimento al dossier sulla trasparenza, in mano al deputato dei Verdi, Sven Giegold, e congelato da settembre. Proprio Giegold ha però accusato i conservatori di fare ostruzionismo sul tema.

Eppure le porte girevoli tra politica e business continuano a fare notizia anche altrove.

In Germania, per esempio, Peer Steinbrück fa ha lasciato il suo incarico parlamentare al Bundestag tedesco per diventare “advisor” del consiglio di amministrazione della banca ING-DiBa. E’ vero, Steinbrück non sarà un VIP fuori dai confini, ma è pur sempre stato ministro delle Finanze tedesco tra il 2005 e il 2009, nonché candidato Cancelliere del Partito socialdemocratico alle scorse elezioni politiche del 2013.

Allo stesso tempo, è notizia di qualche giorno fa che l’ex referente per l’area “politica energetica” del ministero dell’Economia tedesco ha accettato la posizione di “Senior Advisor for Governmental Relations” presso Nord Stream 2, un progetto infrastrutturale della multinazionale Gazprom che prevede la costruzione di una conduttura attraverso il mar Baltico per collegare Russia e Ue. Del resto, l’amore tra Gazprom e le istituzioni tedesche ha lunga data: il buon vecchio Gerhard Schröder, ultimo Cancelliere tedesco socialdemocratico prima dell’epoca Merkel, è ancora ben radicato in azienda.

Leggi anche:

Europa – EuObserver José Bové, deputato europeo dei Verdi bloccato a Montreal: non può entrare in Canada. Colpa del CETA?

Regno Unito – The Independent 170 domande sul Brexit per Theresa May: il Labour mette pressione al Primo ministro per capire il destino dello UK post-referendum

Grecia – EkathimeriniPiù di 11mila migranti fermi sulle isole dell’Egeo

Germania – Die Welt Martin Schulz sarebbe il miglior candidato socialdemocratico per le elezioni politiche del 2017 secondo i cittadini tedeschi

Trump contro tutti: guerra civile nel partito repubblicano

Sostenitori di Donald Trump
Supporters cheer for Republican presidential candidate Donald Trump cheer during a rally, Monday, Oct. 10, 2016, in Wilkes-Barre, Pa. (AP Photo/ Evan Vucci)

«Non ha la capacità, la conoscenza e neppure la voglia di imparare per il lavoro che vorrebbe fare. E questo era vero anche prima che sentissimo le cose che abbiamo sentito qualche giorno fa. Non devi essere un marito o un padre per indignarti nell’ascoltare le parole di Trump. Ti basta essere una brava persona. Questo candidato non è adatto alla Casa Bianca. Non sarebbe adatto nemmeno per un lavoro da 7-Eleven (la catena di supermercati)». L’ultimo a sparare su Donald Trump è Barack Obama, in un comizio pro-Hillary in North Carolina, uno degli Stati in bilico, tra quelli che determineranno chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca.

La verità è che a giudicare dai sondaggi gli swing states, così si chiamano, sono sempre di più: il candidato repubblicano sta infatti facendo di tutti per sabotare la propria campagna e quella dei repubblicani che corrono per mantenere la maggioranza nei due rami del Congresso. I comportamenti suoi e dei membri del suo partito stanno rendendo la campagna elettorale del 2016 un incubo per il Grand Old Party. Dopo novembre il destino stesso del partito potrebbe essere in discussione. Conservatori, religiosi, moderati, establishment e base del partito sono tutti disorientati a causa di una serie di episodi e delle loro ricadute. E nessuno sa bene come reagire. Oppure reagisce in maniera che rischia di danneggiare ulteriormente il partito.

Gli evangelici e i “commenti da spogliatoio”

Probabilmente il nastro diffuso da Nbc verrà ricordato come la chiave di volta di una campagna tra le meno tradizionali della storia americana. Per chi non lo sapesse, in un audio registrato prima di un’intervista Tv, Trump spiega ai suoi interlocutori che «quando sei una celebrità le donne ti lasciano fare tutto», che lui non aspetta il consenso prima di baciarle e altre delicatezze peggiori di queste. Dopo che il nastro è stato diffuso Christianity Today, il giornale evangelico più importante, ha pubblicato un editoriale del direttore nel quale si dice: non possiamo votare Trump (e naturalmente nemmeno Hillary). Gli evangelici, una forza importante e determinante per i repubblicani in Stati come Ohio e Florida, sono terrorizzati dalla presidenza CLinton perché temono di perdere la maggioranza alla Corte Suprema. Ma per loro i peccati messi in fila e ostentati come virtù dal miliardario newyorchese, sono troppo. Questo pezzo della destra conservatrice  che fu determinante per eleggere Bush non si mobiliterà per Trump.

Il passo indietro di Paul Ryan (e degli altri) e la reazione di Trump

Dopo  la diffusione dell’audio, lo speaker della Camera, forse la figura più importante del partito in questa fase, ha cancellato un comizio. E poi ha annunciato che non farà più campagna per Trump. Ryan non è tra coloro che si sono sempre tenuti a distanza da TheDonald. Non è un suo sostenitore entusiasta, come Rudy Giuliani o il governatore del New Jersey Chris Christie, ma da un certo momento in poi si era messo al lavoro. Ryan è un conservatore fiscale e molto religioso di quelli che negli ultimi anni hanno preso in mano il partito repubblicano. Per lui l’appoggio a Trump era un azzardo: al suo pubblico non piace. La reazione di Trump è stata furibonda.I tweet con cui Trump attacca i membri del suo partito Nei tweet qui sopra si parla di repubblicani sleali, più difficili da combattere di Hillary e del fatto che «ora che non ho più i ceppi posso finalmente combattere per tornare a fare l’America grande». I ceppi sono gli altri repubblicani. La guerra insomma è dichiarata. La svolta è dovuta alle difficoltà, ma anche al cambio della guardia alla guida della campagna: Paul Manafort era stato imposto dal partito a guidare il team di Trump e si è dimesso dopo poche settimane. I due non andavano d’accordo e, secondo il candidato, manafort lo costringeva in un vestito non suo. Lo stesso che gli aveva garantito di risalire nei sondaggi.

Al posto di Manafort è arrivato Steve Bannon, figura controversa, estremista, proveniente dal mondo dei media della destra, soprattutto talk radio, che alimentano le teorie del complotto. Una corrente politico-culturale, se vogliamo dargli questa dignità, in perfetta sintonia con Trump e con il suo populismo, in perfetta sintonia con la base militante che ha fatto vincere le primarie al miliardario, ma non necessariamente adatta a vincere le elezioni. Molti tra coloro che credono nelle cose di cui parlano le talk radio – milioni di ascoltatori – non vanno necessariamente a votare, si sentono estranei dalla politica di Washington, hanno visioni estreme. Alcuni troll grillini, non nei contenuti ma nel modo di pensare, somigliano abbastanza a questo profilo. I tweet di Trump sono in puro stile Bannon.

Che possono fare i repubblicani?

Difficile rispondere. Prendere le distanze inimicandosi quella base che ha fatto vincere le primarie a Trump e che continua ad avere un sostegno entusiasta e militante (il video qui sotto è un esempio di folla pro-Trump di questi giorni)? Il candidato ha già mostrato che segnalerà i traditori della sua causa. Questa gente potrebbe decidere di non andare a votare per i candidati repubblicani in Congresso. Sostenere Trump, ma senza mostrarlo troppo? Si rischia di fare la figura dei furbetti, non generando entusiasmo nella base trumpiana e neppure convincendo i moderati e gli indipendenti a votarti. Continuare a sostenere Trump? Una specie di suicidio se non si è candidati in posti come l’Oklahoma o il Kansas dove un repubblicano vincerebbe le elezioni anche se si presentasse ai comizi vestito in tutù. La soluzione sarà: ognun per sé e dio per tutti. A seconda dello Stato, della propria base locale, dei calcoli elettorali contea per contea, i candidati faranno una di queste scelte, consegnando agli americani un’immagine pessima e rischiando comunque grosso.

E dopo le elezioni, comunque vada -alcuni cominciano a pensare che il Grand Old Party potrebbe perdere non solo il Senato ma anche la Camera – i repubblicani dovranno reinventare se stessi. Anni di opposizione estrema a Obama, il Tea Party, le battaglie sulle questioni etiche hanno creato il successo di Trump, che per vincere ha fatto la guerra con l’estremista evangelico Ted Cruz, non con i quasi moderati alla Bush e Rubio. A dominare la base è un anti-elitismo che vuole meno tasse, meno Stato, meno immigrati, più anti-terrorismo e più guerra all’Isis (ovvero più Stato). Nessuno sembra avere chiaro in che modo uscirne. Il simbolo del partito repubblicano è quello dell’elefante, la verità è che oggi sarebbe più appropriato il negozio di porcellana nel quale l’elefante Trump è entrato e ha preso a calci le vetrine.

 

 

Le forme organiche di Arp, ispirate a Lucrezio

Una delle opere di Jean Un'opera di Arp esposta alle Terme di Diocleziano ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Antieroe del Dada, anche se lui stesso aveva contribuito a fondarlo nel 1916 a Zurigo. Così Alberto Fiz definisce Jean Arp presentando la mostra che gli dedica il Museo nazionale Terme di Diocleziano fino al 15 gennaio (in collaborazione con Fondation Arp ed Electa). In effetti lo scultore francese fu una personalità davvero originale nel quadro delle avanguardie del primo Novecento. Seppe cogliere gli elementi più innovativi del Dada, del Costruttivismo russo e perfino del Surrealismo, senza restarne prigioniero.
Anzi, ne stimolò l’evoluzione, da movimenti di rottura delle convenzioni accademiche e di contestazione della società borghese, a nuova visione della modernità che mette al centro l’umano e il rapporto con la natura. Non fu molto ascoltato dai suoi colleghi, a dire il vero, molti dei quali si fermarono alla pars destruens. Ma riuscì a sviluppare una poetica personalissima.
Come si può vedere dal vivo nella bella e importante mostra monografica che presenta ottanta opere di Arp nelle aule delle Terme, dalla prima testa scolpita in Germania nel 1904 fino alle ultime realizzazioni come Femme Paysage del ’66. Le sue forme pure che ricreano forme organiche, policentriche, vitali, in questo suggestivo spazio sembrano entrare in risonanza con l’idea di felicitas a cui era improntata la costruzione delle terme pubbliche a Roma.

L’armonia, la morbidezza di forme, l’apparente semplicità delle sculture di Jean Arp hanno in realtà alle spalle una raffinata elaborazione filosofica nutrita di letture lucreziane e romantiche (in particolare del filosofo e poeta Novalis). Ma il risultato appare leggero, luminoso, vivo, come se il marmo, il bronzo, il gesso non avessero un peso reale, guizzando nella luce. Alle sculture a tutto tondo che emulano la crescita biologica e il suo progredire (a cui oggi si rifà palesemente Tony Cragg) si affiancano quelle ancor più suggestive che evocano nudi, immagini di donna che danzano.

Forse, omaggio d’amore alla compagna Sophie Taeuber-Arp, che era danzatrice e a sua volta artista. Ma rappresentata come immagine ideale, senza un volto descritto e riconoscibile. Come immagine indefinita, in movimento, eppure estremamente femminile. La carnalità, la superficie levigata di queste sculture che suggeriscono la morbidezza della pelle, è uno degli aspetti più affascinanti dell’opera di Arp scultore, dalle Concrétions humaines degli anni Trenta al grande Berger des Nuages, l’Aloux Aux Griffes con cui vinse la Biennale del ‘54. La scultura intitolata Hommage a Rodin sottolinea le radici romantiche dell’ispirazione di Arp. Altre, più essenziali, sembrano classiche, ma liberate dall’immobilità dell’antico.

 

Arp, Nadir
Arp, Nadir

Arp, ritratto
Arp, ritratto

Arp, collezione Intesa San Paolo
Arp, collezione Intesa San Paolo

Una delle opere di Jean Arp alle Terme di Diocleziano a Roma, 29 settembre 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Una delle opere di Jean Arp alle Terme di Diocleziano a Roma, 29 settembre 2016.
ANSA/MASSIMO PERCOSSI

#vocidigiustizia una campagna per combattere la corruzione

«Siamo 1.128.972 Italiani e abbiamo deciso di non arrenderci. La corruzione sta distruggendo il
nostro Paese». Si presentano così i cittadini che su riparteilfuturo.it lanciano la campagna #vocidigiustizia per difendere i whistleblower indirizzata ad Anna Finocchiaro, Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato e a tutti i membri della Commissione Affari Costituzionali del Senato.
Chi sono i whistleblower e perché sono importanti in un sistema che vuole uscire dalla corruzione? Ecco qui una risposta chiara:

Whistleblowing from riparte il futuro on Vimeo.

La corruzione sistemica danneggia gravemente il nostro Paese. I dati parlano chiaro: a più alto livello di corruzione corrispondono meno competitività, meno investimenti, meno produttività, meno progresso tecnico, meno innovazione, meno impresa e perciò più disoccupazione.
All’interno dell’Unione Europea l’Italia è al penultimo posto nella classifica globale di percezione della corruzione, (Transparency International, «Corruption Perception Index», 2015) e occupa il 18°posto nel Global Competitiveness Index (World Economic Forum, 2015) che valuta annualmente la produttività e l’efficienza dei paesi.
Chi denuncia l’illegalità sul posto di lavoro, agisce nell’interesse di tutti e per questo va tutelato. Qui sotto la storia di Andrea Franzoso, esemplificativa di quel che spesso accade a chi ha il coraggio di denunciare. Se volete firmare la petizione basta andare qui

Chi arresta il terrorista? I rifugiati. Pensa te.

Una storia che non andrebbe nemmeno scritta per quanto è banale, ma in questa epoca di iperboli dentate, pur di raccattare qualche voto vale la pena scriverla, ripeterla, moltiplicarla, ritagliarla e tenersela in tasca perché la deriva che sbava dalle bocche dei Trumpini di casa nostra merita lezioni anche se per le persone normali queste sono notizie che non lo erano.

I fatti, quindi: Jaber Albakr, ventiduenne siriano di Damasco sospettato di avere forti legami con l’Isis, riesce a scappare dalla polizia che aveva preparato un’irruzione nel suo appartamento a Chemnitz. La notizia rimbalza in breve tempo su tutte le testate internazionali e l’ipotesi che Albakr stesse progettando un attentato aggiunge il pepe che serve per rendere la vicenda abbastanza pop.

Il terrorista ha sperato di poter trovare rifugio presso alcuni connazionali a Lipsia. Anche lui, evidentemente, crede che il mondo si divida per razze, nazioni e religione. E invece no. I due rifugiati hanno pensato bene di invitare Albakr nel loro appartamento per poi immobilizzarlo e farlo comodamente arrestare dalla polizia.

I due siriani che hanno reso possibile l’arresto sono siriani e ovviamente rifugiati. Uguali al terrorista secondo gli occhi miopi di qualcuno; in realtà diversi come sono opposti i buoni ai cattivi, gli illegali rispetto a quelli che stanno nelle regole, gli integralisti così anomali per gli equilibrati.

I rifugiati ieri, per dire, ci hanno protetto. Loro.

Buon mercoledì.