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Siamo stati al Baobab dopo lo sgombero, ecco cosa ci hanno detto

Negli ultimi tre giorni si sono contati 10mila sbarchi. «Donne, uomini e bambini in fuga da guerre, dittature, fame e povertà attraversano l’Italia nel loro viaggio in cerca di futuro. Roma è stata ed è una tappa di questo viaggio». Migranti in transito, quelli che passano dalla Capitale. E, fino a venerdì scorso, hanno trovato accoglienza e solidarietà in via Cupa, nel campo informale dove, da maggio 2015 ad oggi, sono transitati quasi 60mila migranti diretti verso nord.

Oggi a Roma si svolge un Consiglio Straordinario su via Cupa. Ma i volontari del Baobab experience, pur occupandosi da mesi del fenomeno e avendo acquisito una certa esperienza nella gestione, non sono stati invitati a partecipare. Perciò, dalle ore 15 in poi, contemporaneamente al Consiglio Straordinario, daranno vita a una manifestazione di solidarietà con le popolazioni migranti. Le attiviste e gli attivisti di Baobab Experience invitano tutti e tutte coloro ci sono stati vicini in questi mesi ad un presidio di solidarietà con le migranti ed i migranti in transito nella nostra città.

Ex grillini di tutta Italia, unitevi

Federico Pizzarotti, sindaco di Parma e dimissionario dal Movimento 5 Stelle
Il nuovo sindaco di Parma, Federico Pizzarotti (Movimento 5 Stelle), 21 maggio 2012. "Grazie a mia moglie - ha spiegato dopo la vittoria al ballottaggio - ai cittadini e al gruppo che ha lavorato da un anno". Saprà rispondere alle aspettative? "Agirò con la massima trasparenza, nelle decisioni più popolari e in quelle meno popolari. Quello che spero è che la partecipazione rimanga alta, questa è la garanzia più importante". ANSA/PIER PAOLO FERRERI

È passata poco più di una settimana dall’uscita dal Movimento 5 Stelle del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti. Oggi pomeriggio, la sua fedele squadra lo seguirà anche in questo. Ma quali conseguenze avrà questo esodo? La falda in Emilia-Romagna è aperta da anni, ed è un terreno troppo fertile, soprattutto per il Movimento che lì è nato, per non pensare che saranno in parecchi a seguirlo. L’incontro a Comacchio di domenica scorsa dimostra che, al di là della fantapolitica, il legame personale, oltre che politico, degli ex pentastellati potrebbe essere determinante.

«Esco. Sono un uomo libero».
Anche lui, il sindaco più stimato e avversato del Movimento 5 Stelle, si è tolto la casacca. Una casacca che ha pesato e pesa quanto un’armatura d’acciaio, chi è nel Movimento e amministra in autonomia lo sa: ad alcuni di loro, ogni passo richiede uno sforzo enorme e illogico. Spesso non ripagati, ma anzi frustrati dallo spettacolo di disparità e contraddizioni che il partito di Grillo mette in scena attraverso il blog, e non solo. E così, meglio continuare a lavorare con serenità secondo i principi civici e le lealtà nei confronti della cosa pubblica che hanno ispirato il Movimento delle origini. Oggi, la squadra compatta di consiglieri di maggioranza del Comune parmense, dal capogruppo Marco Bosi fino al Presidente del Consiglio Marco Vagnozzi, seguirà il Primo cittadino, uscendo in massa (17 su 18) dai Cinquestelle. Non sappiamo ancora quale sarà il nuovo nome e simbolo che il gruppo ex pentastellato assumerà dalla seduta del Consiglio di oggi. Quello che è noto, è che troverà un nutrito gruppo di “ex” ad attenderlo. Ormai, complice la malagestione dei rapporti e del gruppo locale da parte del fedelissimo Massimo Bugani, consigliere comunale di Bologna al secondo e – in teoria – ultimo mandato, in Emilia-Romagna sono più i fuoriusciti (o cacciati) dei seguaci. Almeno se parliamo del Movimento originario, quello che nella regione rossa aveva organizzato i primi meet-up non ancora “meet-up” nelle cantine, e che è sbocciato col primo, storico Vday del 2007.
Non c’è città che non abbia perso almeno un consigliere; non c’è un mu che non abbia subito abbandoni di massa, dall’Appennino alla costa. Un ciclo ormai si è concluso. Di quell’era, restano a combattere solo alcuni validi parlamentari. In passato sempre stati schierati, per altro, dalla parte del sindaco parmense.

Stelle di tutta l’Emilia unitevi?
Dunque Pizzarotti rischia di trovarsi in maggioranza? Sarebbe l’ennesimo schiaffo silenzioso e beffardo che il caso assesterebbe al partito del blog nella sua inspiegabile guerra contro “capitan Pizza”. Che capitano lo rischia di diventare davvero. Alle scorse comunali nelle cittadine emiliano-romagnole si è faticato a trovare candidati “storici”. Esemplari i casi di Rimni e Ravenna, dove addirittura il gruppo locale era spaccato in tre filoni, tanto che alla fine in entrambi i comuni – dove il M5s sarebbe stato forte – si è scelto di non autorizzare le liste. Mentre gli attivisti ribollono come pentole a pressione. Sul tavolo della Procura di Bologna c’è addirittura un fascicolo aperto sulla raccolta firme per le Regionali. Denuncia sporta da ex (iper)attivisti dell’Appennino, schifati dal “nuovo corso” che il Movimento aveva preso alle passate elezioni. Corso che riassume così Marco Fabbri, giovanissimo sindaco di Comacchio anche lui “ex” e padrone di casa lo scorso weekend: «Massimo Bugani ha devastato il Movimento regionale, in passato era il più vivace se non l’antesignano di un pensiero politico di rottura e cambiamento, oggi è quasi a zero, sprofondato nel caos. Si è inserito nel sistema che fa i soldi con i blog, a Rimini e Ravenna ha regalato le amministrative comunali al Pd»

Proprio a Comacchio, alla sagra dell’anguilla, gli “ex” si sono incontrati domenica. «Un incontro fra amici, niente di più», assicurano. Ma all’appello, subito ribattezzato sulla stampa locale “il patto dell’anguilla”, hanno risposto tutti. Dalla parlamentare imolese Mara Mucci, alla senatrice reggiana Maria Mussini che era in missione all’estero, ma ci dice: «Noi esistiamo e con noi esiste chi ci vuole credere ancora. Il fatto che il M5S sia stato “occupato” da altri ci lascia intatti in quello che siamo. Se si riprende il cammino, io ci sono». Oltre a loro, i due sindaci, l’ex capogruppo regionale Defranceschi, gli attivisti della prima ora come Valentino Tavolazzi, e molti degli ex (ca vais sans dire) consiglieri comunali.
Vero, chi conosce il Movimento sa che l’aria che si è respirata in quel contesto, era quella piacevole fra amici legati da una passione comune, che si ritrovano. Ma, proprio il nome di quella passione civica che li ha accomunati, è difficile credere che di politica non si sia parlato.

Il problema è la disaffezione alla politica che i fuoriusciti, scottati da delusioni cocenti e personali – com’è personale l’impegno e un certo modo di fare politica – portano con loro. Molti degli eletti ormai si dedicano ad altro, a partire dall’ex delfino e consigliere regionale Giovanni Favia: «La pulizia etnica dei pensanti – ha scritto su Facebook il giorno dell’uscita di Pizzarotti -, iniziata nel 2012 da parte dei padroni del marchio, è stata ora portata a termine. Umiliazione dopo umiliazione, hai resistito anche troppo». Favia ora gestisce con successo un locale nel capoluogo emiliano. Ha appoggiato una lista civica assieme a Federica Salsi alle amministrative, ma da esterno. Sarà sensibile al richiamo del “Pizza”?
Proprio l’ex consigliera comunale bolognese, anche lei cacciata perché partecipò a una trasmissione televisiva – ora appare ridicolo, ma tant’è – sembra determinata a starne fuori: «Io ora mi dedico alla mia famiglia e al mio lavoro», ha spiegato in un’intervista. Ma «a Pizzarotti mi sento di dire che è giusto che lui continui a occuparsi della sua città, nonostante sia tirato per la giacchetta da quanti lo vorrebbero a capo di un movimento nazionale. Condivido questa sua posizione, anche perché fare il capo di un altro Movimento significherebbe fare la brutta copia del M5S. Le persone che sperano che Pizzarotti, porti avanti questo progetto non hanno capito che gli stanno chiedendo ciò che stanno criticando nei confronti di Grillo, ovvero di essere un capo».

Stessa cosa per l’ex capogruppo regionale Andrea Defranceschi, autore ai tempi di molte denunce e oggi rivolto verso altri orizzonti. Defranceschi ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un’amara elegia del «funerale del Movimento». «Quello del 2009, quello che ha fatto alzare dal divano tanti di noi, che ci ha fatto mettere sudore, fatica, tempo e denaro, quello che ci ha fatto perdere gli affetti, dimenticare di avere avuto degli hobby. C’eravamo tutti a -3°C, da soli in una piazzetta a dare dei volantini. Avevamo tanti ideali, mille speranze, tanta fiducia e ottimismo. Volevamo essere diversi e lo siamo stati. Per poco tempo, ma lo siamo stati». E se risorgesse dalle ceneri? Sospeso, ripreso, poi cacciato per inchieste che l’hanno prima travolto poi visto assolto, grande amico del sindaco di Parma, anche lui, dice, non ha nessuna intenzione di tornare a dedicarsi alla politica. Almeno, “non per il momento”: una frase che dicono tutti e che tradisce infondo, la passione politica che hanno dovuto rimettersi in tasca.

Che l’uscita della squadra di Pizzarotti avrà un seguito è certo. L’ultima “defezione” venerdì scorso a Minerbio da parte del consigliere comunale locale, Giancarlo Valentino. Tutto sta nel vedere se riuscirà a ricoagularsi. Da Rimini a Piacenza passando per Comacchio naturalmente la provincia bolognese e decine di piccoli comuni sparsi, forze disperse, ma ancora attive. Cellule dormienti che, chissà, potrebbero risvegliarsi. E mettersi in “movimento”.

Spose forzate e poco istruite, per le bambine c’è ancora tanta strada da fare

international girls day, scolare yemenite
epa05220920 School girls stand on a bridge as they look towards historic buildings in the Old City district of Sana'a, Yemen, 19 March 2016. According to reports, the UN Special Envoy for Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, arrived in the Houthis-held capital Sana'a to resume the consultations with Yemen's warring factions, in a fresh attempt to put an end to the nearly year-long conflict in the war-torn country. Since 26 March 2015, the Saudi-led coalition has been launching military operations against the Houthi rebels and allied positions to restore power to Yemeni President Abdo Rabbo Mansour Hadi. EPA/YAHYA ARHAB

Sposate a forza e prima di diventare donne, tenute lontane dalle scuole, più povere e persino selezionate (nel senso di abortite) prima della nascita. Oggi è la V Giornata Internazionale delle Bambine e delle Ragazze proclamata dall’ONU e i dati diffusi dalle agenzie Onu e da altri centri studi e Ong non sono allegri.

A quanto riporta il dossier “Women, Business and the law 2016: Getting to equal” del World Bank Studyci spettano altri cento anni di iniquità tra uomini e donne, se manteniamo i trend attuali, contrariamente a quanto promesso dall’Agenda 2013 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.
Benché le donne stiano conquistando sempre più spazio nei discorsi pubblici e in politica, collezionando le sue icone contemporanee, come la celebre giovane Malala Yousafzai – che a 17 anni ha ricevuto il premio Nobel per la pace  -, questa giornata dedicata alle bambine diventa l’occasione per fare il punto sulle battaglie che il genere femminile deve ancora affrontare. 

Secondo Save the Children, più di 700 milioni di donne al mondo si sposano prima dei 18 anni e una su tre lo fa prima dei 15 anni, per motivi di povertà, violenza sessuale e per convenzioni sociali. In questa classifica l’India risulta in testa con il 47 per cento delle ragazze sposate prima dei 18 anni (24, 5 milioni in tutto), seguita da Afghanistan, Yemen e Somalia, dove spesso le bambine meno abbienti diventano mogli a dieci anni. Il legame tra matrimonio precoce e povertà risulta evidente nei dati sulla Nigeria, dove il 40 per cento delle ragazze povere si sposa prima dei 15 anni, diversamente dalle coetanee benestanti che raggiungono a stento il tre per cento.

epa05211323 A primary school girl writes on a board at the Eastview School in Caledonia, Harare, Zimbabwe, 14 March 2016. Students most of whom their parents are low income earners and informal traders, learn under very poor facilities. EPA/AARON UFUMELI

 

La mortalità materna è – dopo il suicidio, che le donne tentano tre volte in più rispetto agli uomini – la maggiore causa di morte tra le adolescenti tra i 15 e i 19 anni, tanto che 70,000 giovani donne muoiono di parto o di complicazioni durante la gravidanza ogni anno prima di aver compiuto 18 anni. Secondo i dati dell’UNFPA (United Nations Population Fund), la selezione prenatale a sfavore delle femmine ha provocato l’aborto di 117 milioni feti femminili nel 2010, soprattutto in India e in Cina, che al momento sono i paesi più popolosi del mondo ma anche i più maschili a causa della selezione delle nascite. Un dato sbilanciato verso i paesi in via di sviluppo è anche anche quello della morte per parto, che nel 99 per cento dei casi riguarda donne provenienti da aree povere del mondo, per un totale di 287 mila all’anno. Un aspetto che rende più fragili le ragazze rispetto ai loro coetanei maschi è la mutilazione degli organi genitali, praticata soprattutto nei paesi del continente africano (Somalia, Guinea, Gibuti, Egitto, Eritrea, Mali, Sierra Leone, Sudan), dove più di 200 milioni di bambine e donne che vivono oggi sono state infibulate in 30 paesi, mentre 86 milioni nate tra il 2010 e il 2030 dovranno subirla.
Anche sul fronte HIV/AIDS le donne sono più a rischio degli uomini, con il 60 per cento in più di possibilità di contrarre il virus, soprattutto a causa di violenze sessuali.

epa05225109 Afghan school girls attend a class at a makeshift camp due to lack of proper school buildings, in Herat, Afghanistan, 22 March 2016. Although the Afghan Government and foreign NGOs have taken initiatives to enroll school children across the country, millions of children of school age remain deprived of education and illiteracy is still widespread. EPA/JALIL REZAYEE

La difficoltà ad accedere al mondo del lavoro è un altro indice rilevante nell’analisi della condizione femminile oggi: 155 paesi al mondo applicano leggi restrittive nei confronti delle donne sul piano delle libertà civili, compreso il lavoro. In 32 paesi le donne devono chiedere il permesso ai mariti o ai figli maschi per  avere il passaporto e per poter viaggiare, mentre in 19 paesi le donne devono, per legge, obbedire al marito su ogni fronte. Il paese che possiede il più alto numero di leggi contro la libertà femminile è l’Arabia Saudita (ne ha 29), seguito da Giordania (25), Iran, Afghanistan , Yemen, Sudan, Iraq e Siria con 19 leggi; in Europa la media è 2 (anche in Italia), mentre in Canada, Perù e Messico non ce sono affatto. Le restrizioni a scapito delle donne riguardano anche l’accesso delle bambine alla formazione scolastica: nei paesi arabi il 60 per cento delle bambine non frequenta la scuola, e benché la scolarizzazione mondiale negli ultimi anni sia aumentata (duplicandosi), questo dato è rimasto invariato dal 2000. ll lavoro infantile, invece, riguarda ancora 168 milioni di bambini nel mondo, la cui metà è coinvolta nel giro della prostituzione, soprattutto se si tratta di bambine tra i 5 e gli 11 anni.

Un dato allarmante riguarda anche le bambine e le donne che affrontano un viaggio migratorio, che nell’80 per cento finisce sul mercato della prostituzione europeo, dopo un viaggio in cui nel 90 per cento dei casi hanno subìto violenze e abusi.

Per quanto riguarda l’Italia, in occasione di questa giornata, la onlus Terre des Hommes ha lanciato la campagna #Indifesa accompagnata da un rapporto sulla condizione delle giovani donne. L’analisi registra in Italia un aumento drammatico della pornografia minorile, in aumento del +543 per cento, che colpisce nell’80 per cento dei casi giovani donne e bambine; in aumento risultano anche gli atti sessuali contro i minori di 14 e di 16 anni da parte di parenti stretti e affidatari (in aumento del +148 per cento): nel 2015 le vittime di abusi sono state 411 e nel 78 per cento dei casi si tratta di ragazze. Ma i nemici più feroci delle bambine e delle giovani donne, dice il rapporto, sono i coetanei maschi: secondo i dati del Ministero della Giustizia i maschi minori condannati per violenze sessuali sono 817 , mentre 267 sono i minori responsabili della pornografia e della prostituzione minorile.

Nella (fu) rossa Bologna maxi sgombero all’occupazione di corso De Maria

Momenti di tensione durante lo sgombero da parte delle forze dell'ordine di una palazzina occupata abusivamente da oltre un centinaio di persone, famiglie con diversi minorenni, alla periferia della città Bologna 11 ottobre 2016. ANSA/GIORGIO BENVENUTI

«Spray urticanti, nonostante la presenza di minori e persone malate. Cariche all’interno dello stabile con una testa rotta, e fuori sei contro i solidali accorsi», denunciano da Bologna mentre è in corso lo sgombero in corso di De Maria. All’alba di oggi, 11 ottobre, i blindati della polizia e dei carabinieri hanno chiuso le strade agli incroci con via Tiarini e via Niccolò dall’Arca. Anche l’ingresso alla stazione di via Carracci è stato chiuso, tra le proteste dei pendolari.

Lo sgombero riguarda lo stabile occupato in via Mario De Maria 5, alla Bolognina, dove da più di due anni e mezzo vivono decine di famiglie italiane e straniere. È l’ultima occupazione abitativa del collettivo Social Log, seguita agli sgomberi dell’ex Telecom e dell’edificio in via di Mura di Porta Galliera.

Tutto intorno allo stabile, gli scontri tra polizia e manifestanti. In via Matteotti, dove il traffico è stato bloccato da cassonetti spinti in strada. E in via Carracci dove si è formato un presidio di una trentina di attivisti, dietro lo striscione: «La casa è un diritto». L’intero quartiere nella mattinata è stato travolto dalle tensioni. Gli scontri si sono spinti fino a piazza dell’Unità. Traffico in tilt.

«Hanno tolto acqua e luce, stanno tagliando i cancelli dentro il palazzo. Le famiglie sono comunque determinate a resistere. Ci chiediamo dov’è l’assessore alla casa Virginia Gieri e dove sono i servizi sociali», protesta Fulvio di Social Log. Mentre la consigliera di Coalizione civica Emily Clancy denuncia che le viene impedito di assistere alle operazioni di sgombero. «È questa la politica abitativa del Pd del sindaco Merola e di Renzi», dicono per le strade di Bologna.

#instaleft, la libertà in uno scatto

Si è conclusa un’altra settimana e sul nostro Instagram ci ha tenuto compagnia la giovane fotografa Tay Calenda che da Parigi con i suoi scatti ci ha raccontato la sua idea di libertà. Ecco alcune delle foto che vi sono piaciute di più:

Invitation au voyage II { invito a viaggiare II } Credits : @tay_calenda

Una foto pubblicata da Left (@leftavvenimenti) in data:

Under the métro in Paris. Sotto la metropolitana di Parigi. Credits : @tay_calenda

Una foto pubblicata da Left (@leftavvenimenti) in data:

Under the métro in Paris. Sotto la metropolitana di Parigi. Credits : @tay_calenda

Una foto pubblicata da Left (@leftavvenimenti) in data:

Infrared II Credits : @tay_calenda

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Little Worlds Uranus Credits : @tay_calenda

Una foto pubblicata da Left (@leftavvenimenti) in data:

Questa settimana invece sarà la volta di Angelo Grande che potrete seguire sempre qui. Ve lo presentiamo:

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Photo credit Rocco Corselli

Angelo De Grande (in arte Ade) é uno storico dell’arte, appena dottorato alla Sorbona. Lo studio dei grandi classici e una passione trabordante per l’immagine in tutte le sue declinazioni fanno di Angelo un personaggio fuori dal comune. Abbiamo a che fare infatti con un pittore, fotografo, incisore, filmaker e grafic designer che va dove la curiosità lo trascina anche contro la sua volontà.
Ecco qualcuna delle foto scattate da Del Grande per Left

Danza con la luna @angelo_de_grande @francisiracusa

Una foto pubblicata da Left (@leftavvenimenti) in data:

I confini sono spesso invisibili. @angelo_de_grande

Una foto pubblicata da Left (@leftavvenimenti) in data:


progetto a cura di Francesca Fago

Sharing e gig economy: più flessibili, non più contenti

Gig economy: Un ciclista fa consegne per Uber
epa05562244 A delivery by bike of Taxi service Uber on the way in Amsterdam, The Netherlands, 29 September 2016. Meals of local restaurants will be served by couriers on bike. EPA/KOEN VAN WEEL

La prima foto che illustra Independent work: Choice, necessity, and the gig economy rapporto McClatchy sul lavoro indipendente (freelance, autonomo, precario, chiamatelo come volete) è quella di un dog sitter. Segno che anche i grafici che lavorano per il gigante della consulenza alle imprese sanno che nelle economie avanzate il lavoro autonomo è difficile da definire: si va dall’autista Uber, al dog sitter, dal consulente finanziario, al softwtarista freelance. A seconda di chi sei, dell’ambito nel quale lavori, del Paese dove vivi, cambia tutto.

Il primo dato che salta agli occhi è quello quantitativo: nel rapporto si parla di 162 milioni di persone che lavorano come lavoratori indipendenti tra Stati Uniti ed Europa. Ovvero una percentuale che oscilla tra il 20 e il 30% della popolazione in età da lavoro – se guardiamo alla popolazione attiva, quindi, gli indipendenti sono ancora di più. Numeri che confermano quel che sapevamo già: nell’Occidente sviluppato il lavoro dalle 9 alle 5, dipendente e strutturato non è più la realtà nella quale viviamo. La flessibilità sembra destinata a crescere e con essa dovrebbero cambiare i ritmi della società, gli orari delle strutture rigide (dalla scuola, agli uffici pubblici), gli strumenti di tutela e welfare, l’organizzazione familiare e la distribuzione del tempo tra uomini e donne.

L’altro dato importante del rapporto McClatchy riguarda la volontarietà dell’indipendenza: il 14% del totale è autonomo per costrizione, il 16% fa un secondo lavoro indipendente perché non guadagna abbastanza, il 30% invece è soddisfatto della propria indipendenza. Infine ci sono quelli che fanno un lavoro indipendente come seconda fonte di reddito per scelta e non per necessità.

La verità è che siamo di fronte a una gamma infinita di incroci e possibilità. Ci sono i giovani americani in carriera che non hanno ancora esigenze familiari e che adorano la flessibilità totale perché possono lavorare di più o di meno a seconda di esigenze, bisogni, scelte. Ci sono gli adulti scandinavi o olandesi che hanno una rete di protezione che non discende dall’occupazione, ci sono i lavoratori di molti Paesi del Sud europeo che l’indipendenza se la sono vista imporre a partire dagli anni 90, quando, come ricorda il rapporto, quello che veniva percepito come un eccesso di rigidità del mercato del lavoro ha prodotto riforme nel senso della flessibilità che hanno creato un mercato a doppia velocità: da una parte i garantiti dall’altra gli indipendenti – che in questo caso possiamo chiamare precari. L’Italia, con il suo sistema arretrato, ha insomma anticipato la gig economy, ma non ha mai adattato il suo sistema di welfare alla flessibilità introdotta. Ne parliamo da 20 anni senza passi avanti. Infine ci sono gli indipendenti part-time: chi oltre al lavoro affitta case su Airbnb, fa l’autista part-time per Uber, fa l’imbianchino nel weekend, è anche un produttore artigianale e vende le sue cose online.

Una dimostrazione secca di questa teoria è l’infografica che troviamo proprio nel rapporto, relativa ai soli dati raccolti dagli istituti di statistica (che forniscono numeri tendenzialmente più bassi di quelli di McClatchy). Le parti in azzurro e celeste rappresentano le percentuali di lavoro autonomo e temporaneo. Come si nota, le percentuali si somigliano, ma dicono cose diverse: in Svezia e Germania una rete di welfare molto potente consente l’indipendenza per scelta nel 70-74% dei casi, in Spagna, gli indipendenti per forza sono il 42%. Grecia, Italia e Spagna (nell’ordine) hanno tassi più alti di inattività e disoccupazione. Ulteriore differenza: in questi Paesi l’indipendenza non volontaria prevale su quella volontaria. Il lavoro, insomma, è più precario.

Quanti lavoratori autonomi in Europa e negli Stati Uniti? Il grafico

Per molti, la capacità di scegliere gli incarichi ed esercitare il controllo su quando e come lavorare è una novità positiva. Questo vale soprattutto per i giovani, che secondo i dati raccolti nel rapporto (che non comprende tutti i Paesi elencati nella tabella qui sopra) lavorano come indipendenti nel 50% dei casi. E un po’ anche per le donne, sebbene spesso la loro sia una scelta imposta da esigenze di lavoro di cura. I più poveri, e questo è un dato che va sottolineato, sono in percentuale quelli dove il lavoro indipendente è più diffuso. Segno di un mercato del lavoro che offre posizioni precarie per lavori nei servizi poco qualificati. In America questa è una tendenza che ha caratterizzato i primi anni della ripresa occupazione post-2008.

A questo ptoposito è interessante un’altra indagine, solo americana, stavolta, condotta da Deloitte e pubblicata lo scorso agosto. Su 4mila persone che lavorano nella cosiddetta gig economy (il lavoro da freelance, temporaneo a contratto) intervistate, il 67% preferirebbe un lavoro stabile. Solo il 41% ritiene che la flessibilità offerta sia un vantaggio importante, ma il 56% ritiene che un reddito stabile e alcuni benefici di welfare, che negli Usa sono molto legati all’occupazione, sono un vantaggio maggiore. Le donne vedono nella flessibilità un benefit nel senso che riescono meglio a combinare la vita familiare con quella lavorativa, ma sono meno soddisfatte degli uomini dalla gig economy. Segno forse che occupano più spesso posizioni meno pagate?

La minoranza non crede all’apertura di Renzi. Giustamente

Gianni Cuperlo perplesso
Gianni Cuperlo arriva alla sede del PD, per la direzione nazionale del partito, a Roma, 10 ottobre 2016. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

«Da quando sono segretario non ho mai vissuto un momento senza polemica interna», si lamenta Matteo Renzi, che vanta di aver fatto 31 direzioni nazionali, convocandole tutte lui – «anzi noi», si corregge ricordandosi che il presidente dell’assemblea sarebbe Matteo Orfini – perché così aveva promesso durante le primarie e per lui «gli impegni con gli iscritti valgono più dei maldipancia dei leader». Si lamenta della minoranza interna, ovviamente. «Non facciamo caminetti, noi parliamo qui. Noi», dice ancora Renzi che vorrebbe così bacchettare Pierluigi Bersani e Gianni Cuperlo, colpevoli di aver esternato ancora una volta le loro sofferenze sul referendum costituzionale, sui giornali, pubblicamente. Un po’ come faceva Renzi ai tempi della rottamazione, si può notare, ma all’epoca evidentemente i panni li si poteva lavare un po’ ovunque.

Arriva comunque con una sua strategia ben studiata, Matteo Renzi, nella direzione che è stata descritta come la più dura e che invece sarà seguita – come ovvio – da altri capitoli dell’appassionante love story tra Renzi e la minoranza dem. «La vostra risposta è no. Ma qual era la domanda?», dice sarcastico Renzi, che accusa la minoranza di muoversi per partito preso, giusto per dargli contro. L’accusa arriva ma è presto respinta. Gianni Cuperlo è il primo big intervenuto in direzione, che prende la parola per dire che no, «non è vero» che la minoranza ha solo polemizzato con Renzi e che anzi qualche complimento in due anni e passa di governo gli è pure stato fatto. Cuperlo però prende la parola soprattutto per annunciare che lui, se Renzi alla fine lo «costringerà» a votare no, si dimetterà da deputato: «Perché chi è vecchio non è sempre vecchio e chi è nuovo non è sempre nuovo», dice Cuperlo convinto di aver assestato un bel colpo.

Renzi in realtà è impassibile, convinto di aver messo la minoranza all’angolo con la proposta di mediazione: «È mio compito farmi carico del problema politico che per alcuni di voi rappresenta il combinato disposto tra legge elettorale e riforma costituzionale» ha detto con aria responsabile prima di proporre che in Senato sia al più presto incardinata la legge elettorale che normerà l’elezione dei senatori, la legge scritta dalla minoranza e che giace in Senato da mesi, e che nel partito sia invece varata una commissione per sondare gli altri partiti sulle modifiche da apportare all’Italicum («Ma siamo alle allucinazioni», dice Renzi a chi gli chiede di fare mea culpa: lui lo terrebbe così). Ma c’è un problema: «il prima possibile», per la legge sui senatori, è comunque dopo la consultazione referendaria, e la commissione per l’Italicum, anche, è solo un percorso, nulla di certo, e anzi molto di fumoso. E questo è l’appiglio della minoranza. Che a Renzi non crede. Ma rimane ancora un po’ sul «Nì».

«Il punto non è accontentare la minoranza», dice infatti Roberto Speranza, «il punto è capire che il meccanismo tra riforma costituzionale e legge elettorale cambia la nostra forma di governo». Una forma da respingere, ovviamente, «perché la tua proposta è insufficiente», continua Speranza, che chiede invece che – «come è stato per l’Italicum» – ci sia subito una proposta del Pd e del governo: «Perché non si può consentire a una piccola minoranza di diventare maggioranza nel parlamento. E non lo dico perché ho paura che vincano i 5 stelle. Anche se fossimo noi, non si può governare solo per il meccanismo del ballottaggio».

#Pinottirisponda. La ministra della Guerra tutta querele e niente risposte

La bomba peggiore la Pinotti se la sta fabbricando in casa, nel suo ufficio tetro di quel ministero in cui da sempre si scambia l’opportunità del silenzio con un’omertà che fa comodo a chi governa e solo a loro: la ministra alla Guerra balbetta qualcosa mentre dalla Procura di Brescia escono i numeri impressionanti di ordigni fabbricati in Italia e impacchettati per essere sparati sullo Yemen colpendo, al solito, anche qualche civile cha passeggia sulla strada sbagliata.

Lei, la ministra più silenziosa del West, si difende dicendo che l’azienda che fabbrica armi ha base in Germania e quindi le carte sono a posto. Sembrerebbe una barzelletta se non fosse che nel caso in cui davvero le cose stiano come pensano in molti (Amnesty International Italia, Rete Italiana per il Disarmo e la magistratura, tanto per citarne qualcuno vedi qui) si tratterebbe di sbadataggine criminale.

Criminale? Vedo già qualcuno crucciarsi. E allora lo riscrivo: criminale e illegale. Illegale perché contro la legge italiana (e le convenzioni ONU) e criminale perché l’oppressione dei sauditi sugli sciiti dello Yemen è figlia di un intervento militare che non è mai stato autorizzato dalle Nazioni Unite, se non addirittura condannato.

Il dubbio di contribuire alla morte di civili dovrebbe far rizzare i capelli a tutti: opposizione, populisti, patrioti, sinistri e destri dovrebbero bussare alla porta del ministero finché non apra qualcuno per dire qualcosa di sensato e significativo. E invece lei, la Pinotti, si gode la distrazione di un Paese concentrato più sulla legge elettorale rispetto alle persone e può permettersi, beata lei, di minacciare querele a chi pone le domande che non le garbano. Poveri noi.

È vero che, viste le frequentazioni della Pinotti, con una querela comunque alla fine ci andrà bene. Ce la caviamo con poco.

Risponda, Pinotti. Risponda.

«Così lavoriamo sotto le bombe». L’intervista video a un medico di Aleppo

La situazione ad Aleppo è drammatica e gli ospedali, da mesi, faticano a far funzionare i loro presidi sanitari. Alcuni sono stati attaccati e resi inagibili in questi giorni. Il video di Medici Senza frontiere qui sotto è un resoconto della situazione fatto da un medico che vive e lavora nella città assediata.

L’organizzazione internazionale ricorda come in città ci siano solo 35 medici nella zona est di Aleppo e solo sette di loro sono in grado di effettuare interventi chirurgici su feriti di guerra, secondo gli ultimi dati della Direzione della sanità. “I pazienti hanno accesso limitato alle cure sanitarie nei pochi ospedali ancora attivi e parzialmente funzionanti.

Soltanto tra il 6 e l’8 di ottobre, gli ospedali nell’est di Aleppo hanno riferito di aver ricevuto almeno 98 feriti, tra cui 11 bambini, e 29 persone uccise dagli attacchi aerei. “Durante i pesanti bombardamenti, i pazienti feriti dormono davanti agli ospedali, perché le sale e i corridoi sono pieni”, racconta Ahmed Laila, capo della Direzione della sanità di Aleppo est.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) inoltre, gli ospedali e le organizzazioni mediche sono preoccupati per le scorte di carburante, essenziali per il funzionamento dei servizi e delle 21 ambulanze che attualmente stanno lavorando in una zona di circa 250.000 persone. «Il blocco ha portato, tra le altre cose, alla mancanza di carburante che ha paralizzato la città. Le strutture mediche sono sul punto di rimanere senza elettricità, il che potrebbe bloccare la loro attività salvavita», aggiunge Pablo Marco, coordinatore delle operazioni di MSF in Medio Oriente.

Quattro grandi ospedali di riferimento supportati da MSF sono stati bombardati nelle zone controllate dall’opposizione nel Governatorato di Damasco rurale. Questi incidenti fanno parte di un’intensa campagna militare da parte del governo siriano e dei suoi alleati sulle aree controllate dall’opposizione.

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