epa05293019 Participants carry puppets of the Polish prime Minister Beata Szydlo (L), Law and Justice (PiS) leader Jaroslaw Kaczynski (C) and Polish President Andrzej Duda (R) as they gather to take part in the 'We are and will remain in Europe' opposition march in defence of democracy organised by Polish Committee for the Defence of Democracy (KOD) and Polish opposition parties Civic Platform (PO), Nowoczesna and Polish People's Party (PSL) in Warsaw, Poland, 07 May 2016. The march is an expression of support for Poland's presence in the European Union. EPA/RADEK PIETRUSZKA POLAND OUT
Da sabato 8 ottobre Népszabadság, il principale quotidiano di opposizione ungherese, dopo più di 60 anni di attività, non è più in stampa. E il suo sito sito nol.hu è stato chiuso. Il gruppo Mediaworks, proprietario della testata, ha liquidato il fatto con ragioni di sostenibilità finanziaria. Ma in 2mila sono scesi per le strade di Budapest per esprimere solidarietà ad alcuni tra gli ultimi giornalisti non allineati a Viktor Orban. L’episodio avviene a meno di una settimana dal referendum sulle quote di rifugiati perso per un pelo. E dopo un’ultima edizione del giornale che vedeva la pubblicazione di indagini sulla corruzione di alcuni alti ufficiali di Fidesz, inclusi il governatore della Banca centrale e il portavoce di Orban.
L’idea di Europa del blocco dell’est, viene enunciata da Jaroslaw Kaczynski, storico leader dei nazionalconservatori polacchi in un’intervista a Repubblica: «O l’Europa si riforma ascoltando ogni Stato nazionale membro, o sarà la disintegrazione». Il leader de facto del Paese messo sotto accusa dall’Unione europea per la libertà di stampa, aggiunge: «La ‘correctness’ limita la libertà di parola, religione, dibattito, decisioni. E assistiamo alla liquidazione della democrazia da parte di gruppi di pressioni. Ci opponiamo a ciò, in Polonia e in Europa. Per questo ho parlato con Orbàn di controrivoluzione, sebbene per tradizione polacca preferiamo chiamarla rivoluzione che aiuti a conquistare la libertà». «Tutti in Europa dobbiamo tornare al concetto di Stato nazionale, sola istituzione capace di garantire democrazia e libertà».
Con le sue sparate Kaczynski ci ricorda che nell’Est Europa c’è un “focolaio di guerra anti-Ue” pronto a esplodere. Fatto dal suo Paese e da quello di Orban, ma anche da Repubblica Ceca e Slovacchia, gli altri due del gruppo di Visegrád. È ai primi giorni di settembre 2016 che bisogna far risalire il colpo di fulmine tra Viktor Orbàn e Jaroslaw Kaczynski, quando per la prima volta si sono fatti vedere insieme, a Krynica, nel sud della Polonia. È qui che cominciano a tessere l’attacco all’Unione europea, in vista del vertice di Bratislava dove poi hanno optato per parole morbide, ma chiare, chiarissime. Chiedono la modifica dei Trattati comunitari, a partire dalle regole sui migranti.
L’idillio è stato coronato da metafore d’amore equestre: «Se ti fidi di qualcuno, diciamo in Ungheria, allora puoi andare con lui a rubare cavalli. E noi ungheresi andiamo con piacere a rubare cavalli assieme ai polacchi», aveva detto Orban in quella occasione. E Kaczynski ha risposto: «Ci sono alcune stalle nelle quali possiamo rubare cavalli assieme agli ungheresi, una di queste, particolarmente grande, si chiama Unione europea». Lui: Orban, 53 anni, con il suo partito il Fidesz comanda in Ungheria dal 2010 ma dal 1989 agita le piazze di Budapest contro le truppe sovietiche. L’altro: Kaczynski, 67 anni, più volte premier e ministro. Ha condiviso per anni il potere con il fratello gemello Lech, morto da presidente in carica nel 2010 in un incidente aereo. Il suo nemico numero uno è il liberale Donald Tusk (oggi presidente del Consiglio europeo) che lo ha tenuto all’angolo per molto tempo, fino a ottobre 2015, quando i nazionalconservatori del Pis (Diritto e giustizia) sono i tornati al potere. E non sono i soli a percorrere le autostrade dell’odio all’interno dell’Ue. Ed è a loro che rivolge la chiamata di Kaczynski: «Ovunque i populisti si rafforzano, dalla Germania con la AfD alla Francia con Marine Le Pen. Non penso che ella vinca le elezioni ma è giovane, ha tempo. O guardi alla Lega Nord, ai partiti populisti scandinavi. Non so come sarà l’Europa tra 6 anni. I 5stelle in Italia stanno sorpassando la forza di governo, un partito antieuropeo è al top della popolarità in Olanda, vediamo strane forze di sinistra antieuropee in Grecia e Spagna. Possono far esplodere la Ue».
Il ritorno al passato dell’Est è fatto di leggi che limitano l’informazione, di controverse riforme costituzionali, di misure economiche contro le imprese straniere e contro le banche. Di tentativi, fermati dalle proteste, di fare passi indietro sui diritti delle donne. E, soprattutto, di guerra ai migranti. «L’arrivo dei migranti mette a rischio la nostra sicurezza e finirà per annullare la nostra identità culturale e storica», si alternano i due leader della destra che cavalcano «le assurde quote di ripartizione nella Ue». Orban non ha vinto il suo plebiscito anti migranti il 2 ottobre, ma solo per poco.
Peter Riehl of Lone Tree, Colo., left, holds up the hand of Republican presidential candidate Donald Trump during a campaign rally, Monday, Oct. 3, 2016, in Loveland, Colo. (AP Photo/ Brennan Linsley)
Donald Trump sta vivendo le settimane peggiori della sua esperienza da candidato presidente. Prima ha perso malamente il dibattito contro Hillary Clinton e l’ha attaccata in maniera inconsulta a partire dal giorno dopo. Poi l’uscita pubblica dell’ex miss Universo Alisia Machado sul fatto che il miliardario, che gestiva il concorso, l’abbia chiamata Miss Piggy (e molto altro). La tappa successiva è stata la rivelazione del New York Times che ha scoperto che il miliardario non ha pagato le tasse per 18 anni grazie a un utilizzo abile dei buchi del sistema fiscale americano e a enormi perdite dichiarate nel 1995. Infine l’audio in cui TheDonald ci spiega come le donne non siano in gradi di resistergli perché lui è una celebrità e che lui le bacia prima di parlarci – il tutto detto in maniera più volgare di così. Infine il dibattito di stanotte che tutti gli osservatori dicono essere una specie di gestione del danno: Trump ha limitato i danni, evitato di fare gaffe e dato argomenti al suo pubblico.
Già, chi sono i suoi sostenitori e perché gli piace una persona così incoerente, priva di idee concrete sul futuro, che promette una riforma delle tasse che beneficerebbe quelli come lui e non i bianchi maschi lavoratori e pensionati che lo ammirano? Al tema abbiamo dedicato un lungo articolo sul numero 38 di Left, lavorando per il quale avevamo parlato anche con Alexander Zaitchik, che ha passato diversi mesi a parlare con le persone presenti ai comizi di Trump in alcune zone depresse degli Stati Uniti. Il frutto del suo lavoro è un libro di grande interesse The Gilded Rage, a wild ride through Trump’s America. Ecco la conversazione intera con l’autore e giornalista.
Un comizio di Trump a Melbourne, Florida (AP Photo/John Locher)
Chi sono le persone con cui hai parlato? Sono davvero una massa di diseredati, spostati e stravaganti americani?
Sono stato in diverse zone che potrei definire aree economiche depresse nel Nord est, nel west e altrove. Lontane tra loro ma simili in termini di come sono state colpite duro dalla globalizzazione. L’economia americana era organizzata attorno alla middle class, c’era buon lavoro sindacalizzato in questo Paese e molti tra coloro che votano per Trump sono cresciuti in quel mondo. E quando ascoltano lo slogan “Make America great again” è a quello che pensano: un mondo dove la stabilità economica era moneta corrente, si cresceva economicamente anche se in famiglia anche se uno solo lavorava. Non è tanto che pensano al tempo in cui c’erano meno immigrati, meno diritti per le donne o per le minoranze. Il fatto è che la maggioranza delle persone di questo Paese oggi cammina economicamente su un filo, da un mese all’altro, se per qualche ragione salta un salario, non c’è una base che consenta di continuare a pagare l’assicurazione sanitaria, la rata, le spese correnti.
I nuovi lavori sono soprattutto nei servizi non qualificati: si viene facilmente licenziati, non c’è rappresentanza sindacale, si guadagna meno. Una situazione che ha generato quella che definirei “disperazione politica”. Le persone si rendono contro che entrambi i partiti sono stati i campioni di quell’agenda pro-liberalizzazione dei commerci internazionali a cui imputano la loro condizione attuale. E Trump è l’unico che ne parla, che sembra genuinamente arrabbiato per come vanno le cose. E quindi poco importa, per queste persone, se è un cialtrone e se ha mille altri problemi da nascondere.
Se mi si chiede di ridurre a una la causa del sostegno per il candidato repubblicano – ce ne sono altre – io dico che è questa. Anche se molti, nei media, si rifiutano di accettare l’idea. Se vai a un comizio di Trump è più facile vedere i personaggi strani, quelli che urlano brutte cose razziste e prendere appunti su quelli. La copertura mediatica dei sostenitori di Trump avviene ai comizi, ma quando prendi le persone, fai abbassare loro la guardia, il pensiero che esprimono è meno gladiatorio, più articolato. Ne ho visti di razzisti, radicali di destra e strani, ma in fondo alle primarie Trump ha preso 13 milioni di voti: non sono tredici milioni di estremisti stravaganti. Di questo i partiti non vogliono sentire parlare: il tema del libero commercio è sempre stato bipartisan e la faccia del Nafta (il Trattato dio libero commercio con Canada e Messico), che per le persone di una certa generazione è l’inizio dei guai, è quella di Bill Clinton (come del resto l’abolizione del Glass-Steagal Act che ha cancellato la distinzione tra banche d’affari e di risparmio). Tutte le grandi riforme neoliberiste sono figlie di iniziative democratiche di quegli anni. Meglio negare il problema – che pure è un’ossessione dei democratici sul campo, che battagliano con il consenso dei lavoratori – e dire che i sostenitori di Trump sono un branco di fanatici. È più facile dire e pigro “lo scontro è tra razzisti contro non-razzisti, noi siamo migliori” che affrontare la difficile questione: come siamo arrivati a questo punto e cosa dobbiamo fare per cambiare?
A Loveland, Colorado (AP Photo/ Brennan Linsley)
E gli immigrati? Davvero c’è questa ossessione per l’immigrazione, per la necessità di costruire un muro?
In Arizona, Texas, New Mexico, nelle zone al confine con il Messico dove sono stato il tema è un altro: c’è gente che parla di economia, anche laggiù, che tutti hanno patito gli effetti della crisi tranne chi lavora nell’hi-tech o in qualche classe urbana professionale. Tutti devono pagare i costi crescenti dell’università. Laggiù però ho trovato una certa distanza tra la retorica trumpiana del muro al confine e quel che le persone che ci vivono pensano. Chi vive lungo la frontiera ha un’idea più articolata dell’immigrazione, sa di cosa parla, magari gli è capitato di avere a che fare con il traffico di droga e la criminalità che vive di e sul confine, di trovarsi nel mezzo di una situazione pericolosa, con gente armata – tutti problemi reali – ma non crede alle fandonie sul muro. Più in generale, sulle sparate più grandi di Trump, molti dei suoi sostenitori riconoscono che si tratta di balle, esagerazioni, magari ti spiegano che nemmeno lui ci crede ma il loro entusiasmo viene dall’ambiente, dall’energia che il miliardario genera nei suoi comizi: «Ok, lo so che non faremo il muro, ma sull’immigrazione cambierà le cose, non deporterà i musulmani, ma fermerà i rifugiati».
È un tema complicato: non puoi evitare il tema della razza se parli dell’appeal di Trump, razzisti tra i suoi sostenitori ce ne sono, altri lo sono in maniera non esplicita e, comunque, non credo sia quello ciò che genera il consenso nei confronti del candidato repubblicano. Ma il tema esiste e c’è ovunque: la questione della razza è qualcosa che c’è, è la per dividere, separare i lavoratori sindacalizzati, eccetera. È una costante. C’è una po’ di tribalismo bianco e preoccupato nella gente di Trump. Ma non è il fattore di traino del consenso. E poi, sarà bene non dimenticarlo, c’è pieno di democratici che sono molto liberal e attenti al razzismo che vivono in suburbs che sono bianchi al 99% e a cui non piacerebbe che le loro case perdessero valore a causa di una trasformazione demografica del loro vicinato. Non lo ammetterebbero mai: ma non sono solo i sostenitori di Trump a voler difendere il valore della proprietà – che in questo Paese è spesso determinato da fattori razziali. I sostenitori di Trump detestano la sinistra liberal proprio a causa di certe posizioni astratte, giudicanti. Se parli al progressista liberal medio che vive in un quartiere cool ti dirà: “c’è brutta gente razzista, noi siamo una specie di angeli bianchi non razzisti che guardano gli altri dall’alto”. Non è il modo migliore di affrontare la questione e non è la realtà. Quando Trump attacca la correttezza politica mette il dito nella piaga, l’idea che ci sia qualcuno di puro, sano, migliore è pura finzione, nessuno nel Paese ci crede, lui lo sa e ne approfitta, sfidando queste figure iconiche della sinistra che giudicano tutto e tutti – ed è facile sostenere che lo facciano da una posizione di privilegio.
In questi mesi è uscito un libro importante sulla storia dei bianchi, reietti, americani, (Nancy Isenberg, White Trash, The 400 year history of class in America). I seguaci di Trump sono quelli di cui parla Isenberg?
White trash è un modo di derubricare la gente senza terra nei primi decenni della storia del Paese, Isenberg ricostruisce quella storia in maniera egregia da allora fino alla cultura televisiva contemporanea che c’è dietro: persone senza terra, non scolarizzate e tenute ai margini. Ce ne sono molti così e il libro di Isenberg è utile non tanto a capire i sostenitori di Trump – non parla di quelli – ma per intuire cosa c’è dietro il risentimento di una parte dei lavoratori più poveri nei confronti delle élite liberal di sinistra delle metropoli costiere dai quali si sentono spesso giudicati. Scegliere Trump significa anche rivendicare la propria appartenenza: siamo così, siamo gente che lavora sodo, beviamo birra e spesso siamo grassi. C’è una base di white trash, il 79% dei bianchi senza istruzione dice che voterà Trump. Ma molti che sono invece piccola borghesia, imprenditori medi che vivono comunque in una comunità in crisi e la cosa ha un impatto sulle loro attività, se sono fornitori delle industrie tradizionalmente forti e oggi in crisi. O comunque la crisi ha un impatto sulla loro vita sociale, hanno amici che se la passano male.
C’è questo ferramenta della West Virginia con cui parlo nel mio libro sconvolto dall’epidemia di anti-dolorifici ed eroina che ha colpito tanta gente finita disoccupata ed è convinto che Trump farà qualcosa per fermarla. Ora, la crisi da overdose è figlia delle politiche di Big Pharma dei decenni passati, non della disoccupazione, ma le risposte di Trump lo convincono: lui farà passare la disoccupazione, lui farà passare questa ondata di tossicodipendenze.
Se l’economia funzionasse per tutti, se non ci fosse questa forbice nelle diseguaglianze, non credo che vedremmo tutto questo sostegno per lui. L’insicurezza e la paura sono ciò che, mi pare, alimenta una buona parte del consenso per i partiti di destra in Europa, di questi tempi. Mi pare che qui il tema sia la paura del futuro nel senso delle prospettive. Trump non avrebbe ottenuto la nomination se le persone non fossero spesso in bilico tra il sopravvivere dignitosamente e finire indebitati.
epa05578365 Yemenis stand on a hill overlooking the destroyed funeral hall a day after Saudi-led airstrikes targeted it, in Sanaa, Yemen, 09 October 2016. According to reports, the Saudi-led coalition warplanes targeted on 08 October a mourning ceremony at a community hall in the Yemeni capital Sanaa, killing over 140 Yemenis and wounding more than 525 others. EPA/YAHYA ARHAB
Ancora morti fra i civili nel bellissimo e martoriato Yemen. Ancora una volta un attacco saudita pianificato a freddo. Questa volta i caccia F15 della Royal Saudi Air force hanno bombardato una zona di Sana’a dove si svolgeva un’affollata cerimonia funebre per la morte del padre di un ministro del governo. Fra i 150 morti c’è anche il sindaco della capitale yemenita.
Alla cerimonia partecipavano molte famiglie con i bambini. Un attacco simile era stato già compiuto al mercato di Sana’a, il luogo più frequentato della città yemenita. Ed è stata una strage. L’intromissione saudita nel governo del Paese è passata da tempo dalla manipolazione agli attacchi diretti e deliberati contro la popolazione civile. La tecnica è sempre la stessa, gli F15 partono dall’Arabia Saudita colpiscono l’obiettivo e tornano indietro, lasciando sul terreno cadaveri di civili e i resti di ordigni MK83, un modello prodotto da Rwm Italia. Attacchi che l’Occidente osserva in silenzio, nascondendo molte responsabilità. Sono tedesche e italiane, infatti, le bombe che i sauditi rovesciano su quella che fu l’Arabia Felix, dove la fame sta diventando la maggiore causa di morte fra i bambini insieme ai bombardamenti.
Il ministro della difesa Roberta Pinotti ha detto di non sapere nulla di quelle bombe. «È il ministero degli Esteri ad autorizzare o meno la vendita di armi», ha risposto a un giornalista de Il Fatto che le chiedeva delle bombe fabbricate in Sardegna e spedite in Arabia Saudita (Ecco il video). Come se il ministero della Difesa e quello degli Esteri non facessero entrambi parte del governo Renzi. Una risposta che lascia ancor più basiti vedendo le foto della recentissima visita del ministro Pinotti in Arabia Saudita per stringere accordi. Un comunicato congiunto di Amnesty International e della Rete italiana per il disarmo già il 20 novembre 2015 definiva inaccettabili le dichiarazioni in cui il ministro della Difesa Pinotti, definiva regolari le forniture di bombe aeree all’Arabia Saudita e «nel rispetto della legge».
Da allora ad oggi sono pochissime le voci di protesta, ancor meno sono stati i giornali italiani che hanno parlato del conflitto in corso in Yemen ormai da anni.
Le grandi manifestazioni di piazza, durante la stagione delle primavere arabe, costrinsero il presidente Saleh a lasciare il posto che occupava dal 1978. Le rivolte a Sana’a furono guidate da studenti, fra loro molto donne. In mezzo a loro c’erano anche ribelli Houthi, musulmani sciiti che durante i lunghi anni di governo Saleh erano stati vessati ed emarginati come minoranza. Oggi il quadro della situazione del Paese è estremamente frammentato e complesso come avevamo cercato di raccontare nell’agosto scorso ( Rompiamo il silenzio sullo Yemen) .
Tra il 2011 e l’inizio del 2012 è cominciata una complessa transizione politica guidata dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, di cui fanno parte Arabia Saudita, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait, l’Oman e il Qatar, di fatto però pilotata dall’Arabia Saudita. Dopo le dimissioni forzate di Saleh (che tuttavia è presto rientrato a Sana’a continuando ad esercitare una grossa influenza e a guidare il suo partito9 è stato eletto presidente Abdel Rabbo Monsour Hadi con cifre da plebiscito. Ma l’appoggio ricevuto dai Sauditi ha subito indebolito la sua posizione agli occhi degli yemeniti, popolo indipendente e fiero, suddiviso in molti clan, ma con sunniti e sciiti che hanno sempre vissuto fianco a fianco. Al-Quaeda e più di recente l’Isis, che si contendono soprattutto postazioni strategiche nel Sud del Paese, non hanno mai fatto presa su larghi strati della popolazione civile. Sono sempre rimasti gruppi isolati. Anzi la popolazione yemenita è la prima ad essere colpita dagli attacchi dei fondamentalisti. Le comunicazioni sono difficili fuori dalle grandi città, interi villaggi sono senza acqua potabile e generi di prima necessità.
In parte diversa è la situazione nella bellissima Sana’a dove i ribelli sciiti Houthi sono diventati egemoni dal 2014 costringendo il presidente sunnita Abd Rabbo Mansour Hadi a fuggire in Arabia Saudita. La risposta dell’Arabia Saudita è stata militare fin dal marzo 2015. Ben presto hanno conquistato Aden, strategico porto sul Mar Rosso, e hanno fatto rientare Hadi, ma non sono riusciti a togliere Sana’a dalle mani degli Houthi. Verso i quali ha tentato un avvicinamento l’ex presidente Saleh, l’antico avversario, costretto a questa strana alleanza dalle circostanze. Cosa resta della Repubblica yemenita? Difficile dire. Sta svanendo l’unità nazionale affermata a fatica nel 1990, dopo che il sud del Paese aveva conquistato nel 1967 l’indipendenza ribellandosi ai coloni inglesi e instaurato un governo d’ispirazione comunista. Oggi lo Yemen non sembra nemmeno più diviso fra nord e sud come era un tempo, ma addirittura diviso in tre o quattro parti. La popolazione civile è allo stremo; colpito a morte lo straordinario patrimonio storico artistico yemenita che risale ai sabei e alla leggendaria regina di Saba nel X secolo a.C. Ma nello Yemen oggi la Russia e altre potenze europee non hanno interessi e non ci sono più ricchezze da saccheggiare e spartirsi. Così l’Occidente volta la testa dall’altra parte.
epa05579011 Republican Donald Trump (L) and Democrat Hillary Clinton (R) arrive at the start of the second Presidential Debate at Washington University in St. Louis, Missouri, USA, 09 October 2016. The third and final debate will be held 19 October in Nevada. EPA/GARY HE
«Considero un bene che una figura con il temperamento di Donald Trump non sia alla guida del Paese». «Già, perché se fosse così, tu saresti in galera». Il tono del secondo dibattito Tv tra Hillary Clinton e Donald Trump della scorsa notte è stato questo. Un duello che non verrà ricordato come un momento alto di discussione sui destini degli Stati Uniti. Cominciato senza nemmeno una stretta di mano. Nel complesso non un bello spettacolo per un pubblico, quello Usa che, come gli altri in Occidente, ha in questo periodo storico, un pessimo rapporto con i propri eletti e il modo in cui funziona la politica.
La domanda che tutti si ponevano era: come ha reagito Trump alla catastrofe provocata dall’audio delle sue stesse battute sessiste recuperate dal Washington Post da un pre-show televisivo Nbc del 2005, registrate mentre ci si apprestava a uscire dalla roulotte per cominciare le riprese? La risposta è: piuttosto male. E lo si era capito da prima che il duello andasse in onda. I novanta minuti di scontro sono stati i più violenti, duri e inutili della storia dei dibattiti. Il risultato è che Hillary Clinton ne esce rafforzata. Ancora una volta grazie alla sua capacità di gestire la situazione. Dall’altra parte un Trump migliore – nel senso della capacità di stare nel dibattito, non distrarsi – ma incapace di uscire dall’angolo nel quale è finito per essere quel che è: un miliardario megalomane che disprezza le donne, non paga le tasse e ritiene che la propria abilità sia tutto quel che serve per fare il leader della prima potenza mondiale.
Prima del dibattito della scorsa notte, il candidato repubblicano si era trovato sotto il tiro incrociato dei media, della sua avversaria e dei suoi alleati e di molti, molti colleghi di partito – se così si possono chiamare i leader repubblicani a cui il miliardario newyorchese a soffiato da sotto il naso il Grand Old Party durante le primarie. E prima del dibattito aveva cominciato a replicare con la contraerea che conosce: ad esempio ritwittando Juanita Broaddrick, che nel 1999 aveva accusato Bill Clinton di stupro. Il tweet diceva: Hillary chiama le parole di Trump “orribili” quando lei vive e difende uno stupratore. Non sappiamo se quella storia sia vera e neppure se l’account sia autentico, ma era un annuncio di come sarebbe stato il tono in Tv. Un annuncio ribadito con una conferenza stampa pre-dibattito tenuta con tre donne che hanno accusato l’ex presidente democratico di molestie.
Trump ha provato a far saltare il tavolo: Bengasi, i soldi presi da Wall street le 30mila email cancellate e Bill, «le mie erano chiacchiere da spogliatoio, le sue sono state azioni».
Trump è riuscito tutto sommato a surfare sulla questione dell’audio, in fretta e senza impantanarsi: «Non sono fiero di quelle parole». E ha usato lo scandalo per ricordare le malefatte di Bill. Che però non è candidato alla presidenza. Trump ha anche avuto buon gioco nell’attaccare Hillary per la rivelazione fatta da wikileaks, che ha diffuso alcuni discorsi a pagamento – e pagati dalle banche – dell’ex senatrice: qui Hillary parla di commercio globale, di due verità (una pubblica e una privata) e non fa bella figura. E la sua risposta «Per far passare la legge che aboliva la schiavitù anche Lincoln ha usato due registri», è indifendibile.
Trump è anche stato abile nello schivare la domanda sulle tasse: «Certo che ho usato le incongruenze del sistema per non pagare le tasse. Io faccio così e così fanno tutti i suoi donatori». Il punto, però, è che cercando di demolire l’immagine di Clinton non ha elevato la sua.
Dire «Se sarò presidente creerò una commissione che indagherà sulle tue mail», dopo che una commissione d’inchiesta ha già indagato, suona solo persecutorio. E poi, alla domanda su bombardare Assad, come suggerito dal suo vice Mike Pence, ha risposto «di questo non abbiamo parlato, ma non sono d’accordo», è un disastro: i due non parlano del tema più importante di politica estera e hanno due posizioni diverse?
Dal canto suo Hillary aveva diverse difficoltà e rischi. Sparare a zero contro il sessista, pericoloso, indisciplinato e non in grado di rispettare le donne e guidare il Paese? O lasciar passare il cadavere rispondendo con calma alle bordate contro Bill? Accentuare la distanza o giocare al gioco sapendo che Trump avrebbe fatto un macello e che l’unica era essere pronti a provare a rispondere a tono, sapendo tra l’altro di partire da una posizione di vantaggio? Clinton ha fatto entrambe le cose. Ha ripetuto come un mantra: quest uomo non è adatto, non è un leader, è pericoloso. E non ha perso la pazienza quando è stata attaccata sotto la cintura: «Come dice Michelle Obama, quando loro volano basso, voliamo alto».
Bengasi, le donne, l’Islam, le mail di Clinton, le tasse di Trump. Il dibattito in 4 minuti
Intendiamoci, TheDonald era già molto nei guai prima dello scandalo relativo al suo audio. Tutti i sondaggi tranne uno che sono stati condotti dopo il primo duello Tv, indicavano come questi avesse perso terreno da prima. Clinton, che continua ad avere un seguito poco entusiasta, è avanti di almeno 4 punti (alcuni dicono 7). Non solo: nel giro di poche ore figure che non lo avevano mai sostenuto – come Jeb Bush, Cary Fiorina (che aveva sperimentato la sua volgarità sessista durante un dibattito delle primarie), John McCain lo avevano attaccato o ripudiato. Altri, compreso Mike Pence, il suo candidato vicepresidente, ne avevano duramente criticato le parole. Altri ancora, che lo avevano appoggiato sperando in una sua vittoria, erano saltati giù dalla barca che affondava. E lui ne aveva avute per quasi tutti: Grande sostegno in giro, se non fosse per la leadership del Grand Old Party, ipocriti che si muovono per interesse personale, è la sintesi della risposta di Trump. E su questo non ha torto: c’è una enorme quantità di candidati che si sono accodati e oggi sono in fuga dal candidato che hanno dichiarato di sostenere. Come se non sapessero con chi si mettevano fin dall’inizio. Per i repubblicani sarà un mese di passione – e Trump prima o poi troverà il modo di vendicarsi.
Il pubblico CNN ha ritenuto che Hillary abbia vinto il duello peggiore di sempre. Anche il sondaggio YouGov dice lo stesso, ricordandoci però che c’è un divario enorme tra il parere degli uomini (tra i quali vince Trump di un soffio) e delle donne.
Trump ha evitato di essere un disastro, ma non ha elevato la propria statura: attaccando come ha fatto è per certo riuscito a restituire entusiasmo alla propria base. Ma resta l’uomo che non paga le tasse e che fa battute da spogliatoio. Non esattamente la figura ideale per quel voto indipendente e moderato che dovrebbe cercare di strappare a Hillary. Ci sono tanti americani arrabbiati e disgustati dalla politica che preferiscono il populismo trumpiano all’esperienza clintoniana. Sono tanti, ma allo stato attuale sono ancora una minoranza.
Che fine settimana scoppiettante, non c’è che dire: due di quei giorni in cui ci sarebbe da prendere appunti ogni minuto per la pioggia di insulsi starnazzamenti. La doppia morale vive la sua epoca migliore, qui in Italia e nel mondo, grazie alla presunzione di chi scambia il potere per potenza e esibisce una muscolarità ignorante e un po’ fessa pur di farsi sentire.
Così succede che metà mondo si scandalizzi per Trump che si bulla di come sia facile, con soldi e visibilità, poter avere a disposizione i corpi delle donne. In realtà Trump ha detto “donne” senza corpi usando una sineddoche al contrario, invertita come lui. E tutti giù a dire “che schifo”. Ma tutti. Compresi quelli che qui da noi sono stati fieri berluschini mentre il loro grande capo si sollazzava in potenti baccanali minorili raccontandoli a destra manca; compresi quelli che nella televisione e nella musica esercitano il solito larghissimo concetto di provino che con una donna non riesce ad esser scevro di animalità; compresi quelli che hanno questo strano concetto dell’esser capo se il sottoposto è femmina e poi tutti gli altri, i mariti che pestano le mogli, i fanatici del sesso scambiato di telefono in telefono e i violenti. Tutti contro Trump come se fosse un marziano, come se fosse solo lui.
Tra le perversioni poi spiccano gli ex bersaniani. Sì, loro. Soprattutto quelli che sono poi diventati renzini (dopo una parentesi da lettiani) e che saranno pronti a farsi mettere in piedi in faccia dal prossimo in odor di premierato. I “democratici” del Pd si sono inalberati perché l’ex segretario ha annunciato che voterà no al prossimo referendum sulla riforma costituzionale e tutti a pestare duro: gli hanno dato del falso, del fallito, dell’infame, del livoroso e poi tutta una serie di epiteti che non vale nemmeno la pena riportare. Chissà che soddisfazione per chi ha la natura del servo nello sputare sull’ex padrone. Questi, del resto, pensano che la libertà consista nell’avere un padrone che sia buono con loro: la libertà senza padroni non riescono nemmeno a immaginarla.
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Mark Wahlberg
Deepwater Horizon' film - 2016
Che succede se fai vedere a un ambientalista un filmone hollywoodiano su una delle peggiori catastrofi ecologiche mai causate dall’uomo? Avvertenza per il lettore: quella che segue non è una recensione ma la cronaca di due modi diversi di guardare uno stesso evento e la sua rappresentazione cinematografica. La pellicola in questione è Deepwater Horizon (in Italia il titolo è Deepwater – Inferno sull’oceano), il disaster movie appena uscito nelle sale dedicato all’incidente che il 20 aprile 2010 ha causato la morte di undici persone e l’enorme fuoriuscita di petrolio dalla omonima piattaforma di proprietà della compagnia Bp, sulla quale operavano per le attività di perforazione i tecnici della società Transocean.
Ben 4 milioni di barili di greggio dispersi nelle acque del Golfo del Messico perché i dirigenti del gigante petrolifero hanno sottovalutato un problema tecnico. Il disastro ambientale ed economico – l’industria ittica e quella turistica dell’area sono ancora oggi in ginocchio – nel film diretto da Peter Berg si sintetizza in una sola scena: un pellicano intriso di greggio irrompe nella cabina di comando di una nave “di servizio” appostata a poca distanza dalla piattaforma e sbatte da un vetro all’altro fino a cadere stremato.
La vocazione del film è un’altra, come ci ha spiegato il produttore italiano Lorenzo Di Bonaventura nel corso di una recente visita in Italia: «Ci siamo concentrati sul racconto delle cause e non delle conseguenze e, in particolare, sugli atti di ordinario eroismo del personale a bordo della piattaforma al momento dell’incidente. Volevamo che fosse prima di tutto un omaggio alle undici vittime». Di Bonaventura ha anche invitato i media a dare visibilità al film «per convincere gli Studios a realizzare sempre più pellicole come questa, basata su fatti reali e dedicata prevalentemente a un pubblico adulto, oltre a quelle che si producono più spesso sui supereroi».
Insomma, la pretesa è quella di un film impegnato, ma basta raccontare fedelmente la realtà di persone “normali” per poterlo definire tale?
Il prossimo gennaio la rivista Lo straniero pubblicherà il suo ultimo numero. Lo ha annunciato Goffredo Fofi nell’editoriale del luglio scorso. Finisce un’esperienza ventennale. Ma simbolicamente anche un’epoca, quella delle riviste letterarie che hanno acceso il dibattito del Novecento. Pensiamo per esempio a Belfagor diretto da Luperini, a Paragone ai tempi di Baldacci, ma anche a Linea d’Ombra diretta dallo stesso Fofi dal 1983 al 1995, e così via. «Purtroppo è inutile continuare rimpiangerle, quel modello non tiene più. Il mondo dei media che conoscevamo è esploso, si è frammentato, non è più mappabile. Se guardiamo al pubblico tradizionale dobbiamo dire che quelli che leggono sono una estrema minoranza, ma è anche vero che quella minoranza c’è ed è infra generazionale. Semmai il problema è che oggi sono un po’ meno riconoscibili i luoghi in cui si riesce ancora a fare critica», dice Giorgio Zanchini conduttore di Radio Rai, saggista e ideatore del Festival del giornalismo culturaledi Urbino e Fano (dal 14 al 16 ottobre).
Nel suo ultimo libro Leggere cosa e come (Donzelli) tratteggia un quadro articolato e complesso del panorama attuale dell’informazione culturale dando rilievo ai cambiamenti portati dalla diffusione di Internet che ha reso più facile e democratico l’accesso alle notizie. In particolare, Zanchini sottolinea la dimensione partecipativa e di condivisione che caratterizza i social network. Senza tuttavia tacere riguardo agli aspetti negativi: «Sul web si sviluppa il discorso pubblico, ma è difficile distinguere l’autorevolezza e l’affidabilità delle voci». La cacofonia di un flusso continuo e massiccio di input, scollegati fra loro, rischia di “travolgere” il lettore se non è abbastanza attrezzato e capace di distinguere le notizie dalle bufale. Senza contare il filtro che esercitano sulle notizie colossi come Facebook e Google.
Con i suoi pro e contro «la rivoluzione tecnologica ha generato un cambio di paradigma nell’informazione», dice Zanchini. Ma non ha ucciso la carta, come invece si paventava. Così come Anobii o Trip advisor, a nostro avviso, non rendono inservibile la critica colta e argomentata. Anzi. In un momento come quello che stiamo vivendo in cui l’offerta culturale di libri, dischi, mostre ecc., è enormemente aumentata rispetto a trent’anni fa c’è più che mai bisogno di mediatori culturali autorevoli, preparati, capaci di organizzare una gerarchia delle notizie e di provare a interpretarne il senso. Ma eccoci al punto: chi ha una formazione specifica e gli strumenti culturali non trova spazio. I critici sono rimasti senza mestiere, per dirla con il titolo di un libro di Alfonso Berardinelli che aveva già acutamente inquadrato il problema negli anni 80. Sparite molte storiche riviste, la critica, in parte, si è rifugiata in rete, in siti letterari come Doppiozero, minima&moralia, Nazione indiana, Finzioni, Il lavoro culturale, Le parole e le cose, il sito di Rivista Studio ecc., ma in Italia il mercato pubblicitario sul web non decolla ancora e il pubblico non è abituato a pagare l’online. Così le riviste culturali telematiche, da noi, restano dei raffinati prodotti di nicchia. «Il fatto è che oggi con la critica non si campa più», commenta Giorgio Zanchini. «Non ci sono più, o sono pochissimi, quelli che riescono a vivere facendo i critici militanti come potevano ancora fare Geno Pampaloni o Luigi Baldacci; oggi i critici o sono accademici o devono arrabattarsi con altri mestieri e, nei rimasugli di tempo, scrivono delle recensioni e indirizzano i lettori».
Anche perché sui quotidiani mainstream va scomparendo la Terza Pagina. Lo spazio per la critica letteraria, argomentata, approfondita, si è andato vistosamente restringendo, sostituito da presentazioni para pubblicitarie e anticipazioni gridate, da stellette e pollici alla Fonzie. La spettacolarizzazione della notizia e la rincorsa al gossip fa sì che Il Domenicale del Sole 24 Ore dedichi l’apertura dello scorso 2 ottobre a quanto guadagna la traduttrice Anita Raja, per dimostrare che è lei la misteriosa Elena Ferrante, autrice dell’Amica geniale e di altri bestseller internazionali pubblicati dalle Edizioni e/o. Il testo letterario in questa prospettiva non conta, non esiste più. Lo show biz “letterario” domina sulle pagine di Repubblica con le perfomances di Baricco e lo spiritualismo di Tamaro, sottraendo spazio all’informazione culturale, ma anche in rete, con la «colonna infame», che rende piccante il sito di Repubblica, fra Madonne che piangono e Olgettine e, come fa notare Alessandro Gazoia, autore di Senza Filtro,chi controlla l’Informazione e di un precedente saggio, anch’esso pubblicato da Minimum Fax, in cui il il saggista e blogger smascherava la falsa democrazia dell’editoria digitale.
Il panorama non è migliore se passiamo ad osservare come viene raccontato il patrimonio d’arte italiano sui grandi giornali, definito «petrolio d’Italia» e «macchina per far soldi» da politici, premier e ministri della Repubblica e trattato come tale in inserti del Corriere della Sera e di Repubblica pagati dagli organizzatori delle mostre, scritti dagli stessi curatori e impaginati come articoli e recensioni, non come redazionali pubblicitari, quali in realtà sono. «Quegli inserti sono stati oggetto di una lunga contrattazione», ricorda Zanchini che negli anni Novanta se ne è occupato come ricercatore. «I redattori protestavano perché quei quartini toglievano spazio, ma quei soldi servivano. Il risultato fu un compromesso. Come per i libri allegati, fu deciso che sarebbero state le firme del quotidiano a scrivere i testi, con un minimo di autonomia. Ma se vai a vedere quegli inserti restano una fregatura per il lettore che non capisce se quella è una pubblicità o no». Come vengono raccontati i musei, le mostre e il patrimonio diffuso che caratterizza la penisola sui media è il tema di un focus di approfondimento della quarta edizione del Festival del giornalismo culturale che si tiene a Urbino e Fano. Dove vengono presentati i risultati della ricerca l’Osservatorio News-Italia diretto da Lella Mazzoli dell’università di Urbino. Un’inchiesta che tratteggia un quadro poco incoraggiante anche rispetto ai canali preferiti dal pubblico dei musei e delle mostre per informarsi: la maggioranza del campione esaminato dichiara che la tv è la fonte preferita. Ma gli spazi per l’arte sulle tre principali reti pubbliche, sono circoscritti a poco più di un quarto d’ora alla settimana. I
l grosso problema dell’informazione sui beni culturali è il «culto maniacale e nevrotico della notizia», come diceva un grande urbanista e giornalista militante come Antonio Cederna. Non capita tutti i giorni che vengano ritrovati dei Van Gogh. O che ci sia una nuova attribuzione che allarga l’esiguo catalogo delle opere di Caravaggio. E allora c’è chi se l’inventa. Come è accaduto nel 2013 per la bufala dei disegni di Caravaggio che due auto proclamati esperti pretendevano di aver ritrovato nel Civico Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco a Milano. Disegni, fra l’altro già noti, della bottega di Simone Peterzano, il pittore bergamasco con cui Caravaggio si formò. “Curiosa” è stata anche la modalità con cui è stata diffusa la notizia, in esclusiva dall’Ansa, presentandola come una scoperta rivoluzionaria. Nonostante il ritrovamento di quei supposti autografi di Caravaggio non fosse stato pubblicato su nessuna rivista scientifica, ma solo in un ebook edito da Amazon. La logica dello scoop è la velocità, il controllo delle fonti sarebbe una perdita di tempo. E molti giornali cartacei, a cominciare da Repubblica, hanno ripreso pari pari il lancio di agenzia, salvo poi pubblicare smentite. Microscopiche. Un caso come questo, o come quello dell’Espresso che nel 2011 ha dedicato la copertina alla improbabile scoperta di un falso Raffaello conservato a Pitti, parlando di incredibile inganno durato secoli, presto smentito, difficilmente possono essere considerati una banale svista. «Quando si parla di storia dell’arte tutto è possibile», ha scritto Tomaso Montanari ne La madre di Caravaggio è sempre incinta (Skira). «In Italia il giornalismo storico-artistico è pressoché defunto, ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. È questo uno dei sintomi più gravi della riduzione di una disciplina umanistica ad escort della vita pubblica italiana: da mezzo per alimentare e strutturare il senso critico, a strumento di ottundimento di massa».
Tutta colpa di giornalisti ignoranti? O anche di un giornalismo sensazionalistico che corrisponde a precise scelte editoriali? Su questo punto offre molti spunti di riflessione Alessandro Gazoia mettendo a fuoco in Senza filtro, la logica neo liberale che è diventata il pensiero unico nei giornali in Italia, che negli anni Duemila hanno visto calare sempre di più le vendite, mentre la pubblicità, anche grazie alla legge Mammì, è stata rastrellata dalla tv, dalla Rai, ma anche e soprattutto dal gruppo Mediaset. La risposta a questa crisi dell’editoria dovuta a molti fattori, fra i quali anche la posizione a lungo dominante di Mondadori, è stata ovunque la stessa, fa notare Gazoia: «Aumentare il lavoro del giornalista, tutti fanno tutto, tutti scrivono su tutto. Per ragione di necessità, di velocità, di risparmio di risorse». Non importa se con competenza. Il giornalista, culturale o meno, è diventato un tuttofare che scatta foto, gira video, scrive il pezzo, lo impagina, lo rilancia su facebook, twitter, google plus, instagram… «Do more with less è il motto del giornalismo oggi in Italia, è richiesta la massima polivalenza funzionale», in molti casi, avendo compensi da collaboratore e tutele da freelance.
Un concorso internazionale di fotografia dedicato all’azione sportiva. Con una giuria di 53 foto editor ha selezionato 55 finalisti, 11 vincitori di categoria e un vincitore assoluto tra più di 34mila scatti di 5.645 fotografi dai 4 angoli del Pianeta. Il Red Bull Illume Image Quest 2016 ha scelto il suo vincitore tra 56 immagini finaliste divise in 11 categorie: si tratta del tedesco Lorenz Holder, premiato per la seconda volta consecutiva per uno scatto “autunnale” che ritrae l’atleta Senad Grosic mentre salta su un ponte in Germania in sella alla sua BMX.
Category finalist 2016 Enhance – Photographer: Mark Welagen – Athlete: Unknown – Location: Wijk aan Zee, Netherlands
Category finalist 2016 Close Up – Photographer: Chris Garrison – Athlete: Mike Dowdy – Location: Orlando, FL, United States
Category finalist 2016 New Creativity – Photographer: Jeremy Bernard – Athlete: Nicolas Vuignier – Location: Zinal, Switzerland
Category winner 2016 Sequence – Photographer: Daniel Vojtěch – Athlete: Miroslav Krejci, Jan Rudzinskyj, Stanislav Cejka and Jan Tvrdik – Location: Jaroměř, Czech Republic +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY
Category winner 2016 New Creativity – Photographer: Ale Di Lullo – Athlete: Aaron Chase – Location: Brooklyn, NY, United States
Red Bull Illume Image Quest 2016, Category: Vegard Aasen / Red Bull Illume Athlete: una delle immagini vincitrici del pi˘ grande concorso internazionale di fotografia al mondo dedicato alla azione ed all’avventura sportiva, Roma, 3 Ottobre 2016. ANSA/ UFFICIO STAMPA/ REDBULL +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++
Category winner 2016 Enhance – Photographer: Dean Treml – Athlete: Jonathan Paredes – Location: Copenhagen, Denmark
Category winner 2016 Close Up – Photographer: Denis Klero – Athlete: Rustam Gelmanov – Location: Fontainebleau, France
La festa della Costituzione – alla quale Left partecipa – dal 14 al 16 ottobre alla Città dell’Altra Economia di Roma (quartiere Testaccio) è organizzata dal Comitato romano per il No, che è la trasformazione dell’associazione Coordinamento per la Democrazia costituzionale, nata tre anni fa, quando apparve all’orizzonte la revisione costituzionale. Vi fanno parte giuristi, ma anche rappresentanti di movimenti studenteschi, sindacati, forze politiche.
La festa sarà popolare, dicono gli organizzatori: musica, teatro cinema, spazio per i giochi, addirittura una maratona. Ma ci saranno anche dibattiti e incontri (tra gli ospiti Maurizio Landini, Carlo Freccero, Marco Travaglio, Stefano Fassina). E soprattutto le lezioni – più volte al giorno – dei costituzionalisti. Le lezioni poi saranno pubblicate online a disposizione di tutti. I 500 comitati che ormai esistono in Italia sono costituiti tutti da volontari, la festa ha anche l’obiettivo di raccogliere fondi per organizzare la campagna referendaria.