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Il Nobel per la Pace? Al mare

A Guardia Costiera boat arrives in the port of Lampedusa island after rescuing some 100 migrants off the shore on October 25, 2013. Two boats with other 219 migrants were picked up by Italian Navy ships deployed in Italy's new Mare Nostrum search-and-rescue operation, launched after more than 400 migrants drowned in two disasters earlier this month. Nearly 700 refugees were rescued off Sicily in several operations as European leaders grapple with the issue of illegal immigration at a European Union summit. AFP PHOTO /Filippo MONTEFORTE (Photo credit should read FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Ho provato ad affogare i miei dolori, ma hanno imparato a nuotare.

(Frida Kahlo)

Troppo liquido per sottostare alle perversioni architettoniche dei potenti che appendono le maschere del loro digrignar di denti a muri o fili spinati e troppo largo o lungo per essere piantonato da chi vorrebbe comprarsi tutte le strade per dettare i cammini degli altri: il mare premia gli esploratori con il cuore dolce nonostante i capelli infeltriti dal sale. Le onde di Lampedusa o di Lesbo indicano la via lattea dei soccorsi.

Il mare è antigovernativo perché in questi anni continua a bisbigliarci che non si possono incanalare i bisogni, ci insegna che la disperazione fugge ai recinti e che gli affamati muoiono di acqua nei polmoni piuttosto che lasciare vincere l’inedia. Se la politica rincorre decisioni stupide e inutili il mare se ne frega, continua a fare il mare. E il mare è così tanto che diventa ridicolo il tiranno quando, ubriaco da hybris, promette di asciugarlo per fargliela pagare.

Il mare e le sue coste hanno una legge non eludibile: si soccorre sempre, si soccorre tutti. Chissà quando è successo che una legge così semplicemente giusta sia stata buttata a mare e non ce ne siamo accorti. Il mare e i suoi abitanti l’hanno custodita per secoli e ce l’hanno portata fin qui.

E poi il mare è inesorabile: inghiotte i corpi che non siamo riusciti a salvare ma li sputa sulle coste. Sarebbe troppo semplice tenerseli in pancia: eccoli lì i nostri morti. Per avere cura della pace non bisogna avere pace delle nostre disaffezioni.

Ecco, io credo che stia facendo un gran lavoro, il mare. Lui, i suoi marinai e i suoi abitanti delle sue coste.

L’accordo sul clima di Parigi è in vigore. «Giornata storica»

The Eiffel Tower displays the message "Decarbonize" within the United Nations Climate Conference on Climate Change, on December 11, 2015 in Paris. World powers led a frenetic final push on December 11 to seal a UN accord aimed at averting catastrophic climate change, as sleep-deprived envoys battled in Paris over trillion-dollar disputes blocking a deal. / AFP / PATRICK KOVARIK (Photo credit should read PATRICK KOVARIK/AFP/Getty Images)

L’accordo di Parigi sul clima è a un punto di svolta: dopo che l’Unione Europea, il Canada, il Nepal e l’India lo hanno ratificato è pronto per essere entrare in vigore il 4 novembre. Le ultime ratifiche implicano che 73 Paesi pari a quasi il 57% delle emissioni di gas serra a livello mondiale si sono impegnati nel processo (la soglia minima per l’entrata in vigore era di 55 Paesi che rappresentassero il 55% delle emissioni di gas serra).

Come recita questo tweet del UN Climate Change Action, si tratta del trattato internazionale ratificato più velocemente che mai.

Anche il presidente Usa Barack Obama ha celebrato la «giornata storica» e la celerità dell’entrata in vigore dell’accordo. 

Per celebrare l’entrata in vigore dell’accordo sottoscritto a dicembre scorso nella capitale francese, segnaliamo questo bel video che riprende l’azione di Greenpeace a Parigi.

 

Pur ricordando che, come fa 350.org, il lavoro vero comincia adesso, per far rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti e implementarli (il governo britannico, ad esempio, ha dato via libera al fracking nel Paese proprio il giorno dopo la ratifica).

Nel processo di ratifica l’Italia non è purtroppo tra i Paesi virtuosi, se è vero che il disegno di legge di ratifica, tardivamente approvato dal Consiglio dei ministri del 4 ottobre, non ha ancora iniziato l’iter alle Camere. Questo significa che il nostro Paese sarà escluso dagli appuntamenti internazionali in cui si decidono le questioni inerenti la procedura e l’attuazione del trattato.

Infine, sarà bene ricordare che a novembre negli Stati Uniti si vota e che Donald Trump non crede al riscaldamento globale causato dall’uomo come una buona parte del suo elettorato. Qui sotto, l’immagine tratta da un rapporto del Pew Research Center ci indica come l’elettorato Usa sia diviso: i repubblicani conservatori credono che il surriscaldamento globale sia causa delle attività umane solo nel 15% dei casi. Un argomento in più, se ce ne fosse bisogno, per augurarsi che Trump non vinca.

Political groups are worlds apart in their beliefs about climate change
 

L’uragano Matthew devasta i Caraibi

La distruzione a Baracoa, Cuba,

Ha portato distruzione – e forse più di trecento morti tra Haiti, Cuba e nella Repubblica Dominicana. Ora l’uragano Matthew si dirige verso la Florida, per poi salire verso Georgia e South Carolina. Alcuni modelli meteorologici indicano che potrebbe aumentare di potenza e velocità, altri dicono che potrebbe spostarsi più verso l’interno – causando quindi danni più gravi. Per adesso l’uragano ha perso leggermente forze ed è stato passato da categoria 4 a categoria 3. Nella mattina americana (il pomeriggio italiano) arriverà in Florida. Negli Usa due milioni di persone hanno lasciato le loro case. È l’evacuazione più importante dai tempi dell’uragano Sandy, nel 2012.

Le immagini Reuters della devastazione ad Haiti
https://youtu.be/mmV4URWjAaw

Un popolo di emigranti, gli italiani che partono sono sempre di più

Aumentano gli italiani che emigrano
Un'immagine diffusa dall'archivio dell'Autorita' Portuale di Genova mostra una nave con a bordo 14 mila italiani in partenza per la Libia. "Ricordiamoci di quando da Genova si partiva per andare a lavorare in Libia": il presidente dell'autorità portuale di Genova commenta così l'arrivo imminente di due navi provenienti da Lampedusa con a bordo migranti nord africani e mostra una foto, trovata negli archivi di Palazzo San Giorgio, che illustra l'imbarco di 14.000 contadini italiani diretti nell'ex colonia. "Questa fotografia serve a ricordare la storia singolare così radicata del porto di Genova - sottolinea Merlo -. Quegli emigranti si imbarcarono dalla stazione marittima, a Ponte dei Mille, proprio dove arriveranno questi cittadini stranieri". ANSA / AUTORITA' PORTUALE DI GENOVA +++NO SALES - EDITORIAL USE ONLY+++

Sarà la libertà di movimento in Europa e una generazione che percepisce la mobilità come normale e positiva, sarà la crisi o sarà che all’estero il lavoro che si trova è migliore e spesso più stabile e meglio pagato. Ma secondo i dati presentati dalla fondazione Migrantes sulle iscrizioni all’Aire, l’Anagrafe dei residenti all’estero, il numero di persone che lasciano l’Italia continua a crescere. I nuovi residenti all’estero nel 2015 erano 107.529, 56,1% tra questi erano maschi e la stragrande maggioranza, quasi 70mila, appartengono alle classi d’età tra i 18 e i 49 anni – quasi trentamila tra 35 e 49, segno di una voglia/necessità di partire che non riguarda solo i giovani in ingresso nel mercato del lavoro.

In dieci anni, che coincidono più o meno con l’inizio della lunga crisi che attanaglia l’Europa, il numero di persone residenti è aumentato del 54%, passando da tre milioni a 4,8 milioni, il 7,9% della popolazione. Naturalmente, molti tra costoro sono gli emigranti di vecchia data, ma il milione e 800mila persone in più sono una nuova generazione che parte. Da segnalare: chi rientra lo fa soprattutto verso le regioni del Nord e le grandi città. A livello provinciale, i rimpatri avvengono principalmente verso Firenze, Roma, Milano, Torino, Napoli. Segno di un territorio che resta diviso – in senso di opportunità offerte dal mercato del lavoro – sia in termini geografici (nord-sud) che dal punto di vista centro-periferia.

Certo, l’emigrazione non è più la stessa di un tempo: ci sono i voli low cost e le videochiamate, la globalizzazione dei prodotti e una qualche conoscenza di quel che si troverà nel luogo in cui ci si trasferisce. Il tema è quindi, piuttosto, quello di un Paese che perde parti importanti senza attrarre immigrazione qualificata – cosa che Paesi più dinamici e capaci di sviluppare politiche in tal senso sanno fare e fanno.

Nella sintesi del rapporto Migrantes leggiamo:
Al 1 gennaio 2016 gli iscritti all’AIRE sono 4.811.163, il 7,9% dei 60.665.551 residenti in Italia secondo il Bilancio demografico nazionale dell’Istat aggiornato a giugno 2016. La differenza, rispetto al 2014, è di 174.516 unità. La variazione – nell’ultimo anno del 3,7% – sottolinea il trend in continuo incremento del fenomeno non solo nell’arco di un tempo, ma anche nell’intervallo da un anno all’altro. Le principali caratteristiche sono così riassumibili.
• A livello continentale, oltre la metà dei cittadini italiani (+2,5 milioni) risiede in Europa (53,8%) mentre oltre 1,9 milioni vive in America (40,6%) soprattutto in quella centro-meridionale (32,5%). In valore assoluto, le variazioni più consistenti si registrano, rispettivamente, in Argentina (+28.982), in Brasile (+20.427), nel Regno Unito (+18.706), in Germania (+18.674), in Svizzera (+14.496), in Francia (+11.358), negli Stati Uniti (+6.683) e in Spagna (+6.520).
Il 50,8% dei cittadini italiani iscritti all’AIRE è di origine meridionale (Sud: 1.602.196 e Isole: 842.850), il 33,8% è di origine settentrionale (Nord Ovest: 817.412 e Nord Est: 806.613) e, infine, il 15,4% è originario del Centro Italia (742.092).

Il numero di persone che lasciano le regioni del Sud per il Centro-nord cala leggermente ma appare molto alto: nel 2008 erano 81mila a cambiare regione, mentre nel 2014 72mila. In questo caso maschi e femmine cambiano casa sostanzialmente in percentuali simili. Nello stesso periodo aumentano – in controtendenza con gli altri gruppi –  i laureati che lasciano il Mezzogiorno.

Infine, e a proposito di Brexit, ci sono circa ventimila italiani di origine bengalese che si sono trasferiti in alcuni quartieri di Londra e Birmingham, dove la comunità bengalese-britannica è radicata, strutturata e molto grande. Sarà contento Salvini. Meno Theresa May, la leader conservatrice che ha promesso di ridurre i flussi migratori dall’Europa.

Il 6 ottobre del 1999 se ne andava Amália, regina del fado e cuore indipendente

«Quando morirò, voglio che la gente pianga per me». E così è stato. Quando accadde il 6 ottobre del 1999 Amália Rodrigues era nella sua casa di Rua São Bento, a Lisbona furono proclamati tre giorni di lutto nazionale e decine di migliaia di persone parteciparono tra le lacrime ai suoi funerali. Oggi nella sua casa le persiane sono ancora smaltate di verde, sulle pareti color ocra ci sono ancora i ritratti dipinti per lei dagli amici pittori come Maluda e Menez. La tavola è ancora apparecchiata e sul divano, insieme alla guitarra portuguesa, c’è ancora il suo suo scialle nero. Al civico 193 di rua São Bento è tutto come lo ha lasciato Amália Rodrigues. Qui aveva trascorso i suoi ultimi anni, in ritiro, dopo aver scoperto di avere un tumore. E oggi nel sottoscala, tra le azulejos, c’è una donna che vende dischi e souvenir.

«Sono nata così, alta un metro e cinquantotto, né brutta né bella, un tipo così così, con questo modo di essere triste, senza speranza e solitaria, come il fado». È nata in un imprecisato giorno di luglio del 1920 Amália, nella stagione delle ciliegie. Porta sui documenti la data del 23 luglio, ma festeggia il suo compleanno il primo del mese. Figlia di operai originari della Beira Baixam, trasferitisi poi nel quartiere operaio di Alcantara, è ancora una bambina quando i suoi decidono di mandarla dai nonni materni a Lisbona. Così, lascia i suoi due fratelli e le sue quattro sorelle e raggiunge la nonna Ana do Rosario Bento, che ha sedici figli e più di trenta nipoti. La situazione qui non è migliore, Amália lascia la scuola che ha appena dodici anni e va a lavorare: in fabbrica a incartare caramelle e sbucciare frutta, poi dietro una bancarella sul molo di Lisbona vende frutta, vino e souvenir ai turisti. Intanto, Amália canta e sogna le storie che guarda al cinema. Scrive e rielabora, cambia i testi e le note. Presto trova nella sua voce la più incantevole forma espressiva per liberarsi dal tormento e dalla sua inquietudine. Comincia a esibirsi in piccole manifestazioni locali con il cognome della madre, Rebordão. Poi, a 19 anni, ha inizio l’ascesa. Riesce a farsi ascoltare dal proprietario di un famoso locale di Lisbona, l’anno successivo il suo cachet superava già di venti volte quello dei maggiori artisti del momento. Intanto, nel 1940, a soli vent’anni, sposa Francisco Cruz, un operaio che si dilettava con la chitarra. Ma è un matrimonio riparatore, perché è incinta e si separa tre anni dopo. L’amore Amália lo trova a 40 anni, quando sposa l’ingegnere brasiliano César Séabra e rimane al suo fianco per tutta la vita.

«Non sono io che canto il fado, è il fado che canta in me». La Regina del fado accosta piano le mani davanti al ventre, avvolta nel suo scialle nero da fadista. E quando il suono della sua voce si imbatte all’orecchio è, ogni volta, una meraviglia. Una guitarra portuguesa, un baixo, una viola di fado. Tudo isto é fado, tutto questo è fado. E il suo testamento spirituale sta nei testi che lei stessa ha composto: Estranha Forma de Vida, su tutte. Per Amália il fado “è destino”, è fato (dal termine latino fatum, fato). Della sua carriera, lunga più di cinquant’anni, ci rimangono innumerevoli esibizioni dal vivo e almeno 170 album. Il primo lo incide nel 1945, insieme a grandi chitarristi e parolieri, come i poeti Linhares Barbosa e Amadeu do Vale. Ma per comprendere la Regina del fado non è necessario conoscere la lingua portoghese. Amália gode già di una certa notorietà anche all’estero: in Spagna, Brasile, Stati Uniti. E Italia, dove interpreta “La tramontana” di Antoine, ma soprattutto la musica popolare: “La bella Gigogin”, inno del Risorgimento italiano, i canti siciliani “Vitti ‘na crozza” e “Ciuri ciuri” e quelli napoletani come “La tarantella” e duetta con Roberto Murolo in “Dicitincello vuje” e “Anema e core”. Quando Henri Verneuil la sceglie per il film Les amants du Tage, aprendole le porte dell’Olympia di Parigi, Amália è già una celebrità internazionale.

«Grândola, vila morena, Terra da fraternidade». Tra tutte le note, queste furono forse quelle più significative per Amália che, durante la “Rivoluzione dei garofani” viene presa di mira da chi la considera – suo malgrado – un simbolo del regime di Salazar. Amália viene, di fatto, esiliata. È ferita, depressa, ma reagisce. E, per scrollarsi di dosso quelle ambiguità, decide di registrare “Grandola vila Morena”. Quella stessa canzone trasmessa dalle onde di “Rádio Renascença” alla mezzanotte del 25 aprile 1974, e che diede inizio alla Revolução dos cravos, la “Rivoluzione dei garofani”, che pose fine alla dittatura fascista, dopo cinquant’anni di regime. Le autorità le conferiscono il più alto riconoscimento nazionale, La Gran Croce dell’Ordine di Santiago, ma ormai saranno le sue condizioni di salute a non consentirle più di calcare i palcoscenici del suo Portogallo.

«Il fado non è né allegro né triste, è la stanchezza dell’anima forte, l’occhiata di disprezzo del Portogallo a quel Dio cui ha creduto e che poi l’ha abbandonato: nel fado gli dei ritornano, legittimi e lontani», scriveva lo scrittore portoghese Fernando Pessoa. “Foi Deus”, “Povo que lavas no rio”, “Barco negro”, “Coimbra”, “Uma casa portuguesa”, “Ai mouraria”, “Nem as paredes confesso”, “Lisboa antiga”. Le infinite variazioni della voce di Amália hanno incarnato gli eterni temi della tradizione portoghese: la nostalgia, la disperazione, l’amore e la morte. Oggi Amália riposa fra i grandi portoghesi di tutti i tempi nel Pantheon di Lisbona, ma per ascoltarla basta premere play. Che cuore perfetto, Amália.

Dalla #cannabismafiosa alla #cannabislegale

Come tutte le riforme che “si vogliono ma non si vogliono”, anche quella riguardante la legalizzazione della cannabis, slitta a data da destinarsi.

Dopo gli oltre 1230 emendamenti che avevano bloccato la discussione a luglio, ecco che la votazione di ieri alla Camera è stata – nuovamente – rimbalzata in Commissione. Motivi? Tanti e nessuno, se non un’audacia che il nostro Paese mal digerisce. Si, dunque all’uso terapeutico, sembrerebbe, ma mai sia invece l’utilizzo a fini ricreativi.
A fare il punto della situazione, è Pippo Civati, il cui libro Cannabis, dal proibizionismo alla legalizzazione (Fandango edizioni) è in uscita oggi.

Quali sono i motivi per cui tanta ostinazione nei confronti della liberalizzazione, ormai riconosciuta – basti guardare all’estero – come sinonimo di progresso?

Parlerei di legalizzazione, perché il mercato libero e liberalizzato c’è già: è accessibile e aperto a milioni di italiani, con una piccola particolarità, è criminale e monopolizzato dalla mafia. Noi vogliamo legalizzare che significa regolamentare, depenalizzare comportamenti che non danneggiano nessuno (come coltivare una piantina per uso personale nella propria abitazione) e contrastare meglio i fenomeni criminali collegati al narcotraffico. Ora chi si fuma una canna, finanzia spesso la ‘ndrangheta e i cartelli sudamericani. Non ha alcun senso.

Quali sarebbero, al di là delle facili battute, gli “effetti positivi” della legalizzazione?

In questi giorni le forze dell’ordine continuano a scoprire piantagioni di marijuana della criminalità organizzata. Succede in Calabria, succede in Sicilia: la mafia si sposta sempre di più sulla produzione della cannabis anche in Italia. Il primo effetto positivo è limitare l’influenza delle mafie nella produzione e nella vendita, da cui trae guadagni straordinari.
In secondo luogo, legalizzare significa avere in circolazione una sostanza meno nociva, più controllata, verificabile.
Da ultimo, decriminalizzare alcuni comportamenti riduce moltissimi rischi per chi assume cannabis saltuariamente, da maggiorenne, conducendo una vita normalissima. Non si capisce perché alcune droghe, in Italia, che fanno più male della cannabis, siano legali e la cannabis invece sia considerata un mostro. Milioni di italiani ne fanno uso. Sono tutti criminali? Non è il momento di intervenire sugli abusi per fare in modo che il consumo sia più maturo e consapevole?
Vogliamo passare, come si scrive su Twitter, dalla #cannabismafiosa alla #cannabislegale, perché la seconda è contro la prima.

E in termini economici?

Si tratta di un’operazione che può portare grandi benefici, sotto tutti i punti di vista: riduzione di costi per lo Stato (soprattutto risorse che riguardano forze dell’ordine, attività giudiziaria e sistema carcerario), possibilità di tassare il prodotto perché i proventi siano destinati alla prevenzione e insieme al nostro sistema sanitario, aumento di posti di lavoro legali (con corrispondente diminuzione di posti di lavoro criminali), aumento del Pil (che già ipocritamente conteggia le droghe, da due anni a questa parte, ma con stime per difetto).

Oltre che di numeri, il tuo libro fa anche una ricostruzione storica. Cosa ci dice la storia della cannabis di una società che la sappia utilizzare?

La canapa è un prodotto italiano, italianissimo. Da secoli. Per mille ragioni legate ai suoi mille usi. La discussione su cannabis terapeutica e ricreativa può consentire il recupero di quella tradizione, anche industriale. Nel libro cerco di raccontarlo, distinguendo certamente gli ambiti ma spiegando che si tratta di un prodotto che va recuperato, senza ipocrisie e senza chiusure.

Voi come Possibile state raccogliendo delle firme, assieme ai radicali, per una legge più avanzata sul tema, e c’è anche un tour impegnato sul fronte della legalizzazione. Come sta andando? Qual è la risposta della gente e quante firme avete raccolto?

La risposta è straordinaria e contiamo di arrivare nelle prossime settimane all’obiettivo delle 50.000 firme per depositare la Lip (tema che si incrocia con quello referendario, perché la ‘riforma’ prevede un numero triplo di firme…). Chiedo però ai cittadini di mobilitarsi, di accompagnare la discussione parlamentare, perché temo che l’inerzia tradizionalista e gli argomenti gasparrosi – come li chiamo, pensando agli oltranzisti del proibizionismo – trovino uno straordinario alleato nella timidezza del Pd e nella contrarietà del premier e del suo governo.

Civati, come mai proprio un libro sulla cannabis? Come mai, e forse lo chiedo più all’uomo che al politico, questa battaglia?

Perché è un tema importante per la politica. Perché la legalizzazione oltre a essere rilevante di per sé è uno specimen della politica in generale: questa è una buona legge, contrastata con argomentazioni infondate e basate su luoghi comuni. Mi affascina molto questo aspetto, in chiave legislativa. Sotto il profilo personale, credo che la nostra generazione debba superare certe ipocrisie: cose che si tollerano ma non si affrontano, una certa remissività alla mafia e ai suoi strumenti, l’incapacità di cambiare davvero paradigma. E non vale solo per la cannabis, né soltanto per i diritti civili, ma per la politica nel suo complesso. Si parla tanto di cambiamento, ma una vera trasformazione sembra ancora lontana. Questo è un capitolo tutt’altro che trascurabile (come viene presentato) che fa pensare a una rivoluzione possibile. Non solo sulla cannabis, si intende.

 

A capo dell’Onu il portoghese Guterres, garante dei rifugiati

epa04970419 United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) Antonio Guterres speaks during a press Conference at the end of the 66th Session of the Executive Committee of UNHCR, at the European headquarters of the United Nations, in Geneva, Switzerland, 09 October 2015. EPA/JEAN-CHRISTOPHE BOTT

Come annunciato: sarà Antonio Guterres il nuovo segretario generale dell’Onu, nominato per acclamazione dal Consiglio di sicurezza all’unanimità. Adesso la nomima dovrà essere ratificata dall’Assemblea generale, poi, dal primo gennaio 2017 Guterres prenderà il posto di Ban Ki-moon.

Erano ben sei su otto i candidati dell’Est Europa a succedere Ban Ki-moon alla guida delle Nazioni Unite. E, invece, il successore arriva da Lisbona. È Antonio Guterres, il socialista cattolico che però si dice favorevole all’aborto. Ad annunciare la sua elezione a capo delle Nazioni Unite è stato l’ambasciatore russo al Palazzo di Vetro, Vitaly Churkin, presidente di turno del Consiglio di sicurezza, che voterà ufficialmente oggi. Guterres è stato primo ministro del Portogallo dal 28 ottobre 1995 al 6 aprile 2002, fa parte del Partito socialista ed è stato presidente dell’Internazionale Socialista. Ma da giugno 2005 e per dieci anni è stato a capo dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, l’organismo dell’Onu che ha il mandato di occuparsi (e preoccuparsi) dei rifugiati. Chissà come l’hanno presa dalle parti di Viségrad.

La nomina del portoghese è una delusione per chi sperava nella prima donna per la carica di Segretario generale e per il blocco dell’Est europeo, a cui, secondo un principio non scritto di rotazione, spettava il posto. Il processo di decisione è però stato senza problemi, tutti i 15 del Consiglio sono stati d’accordo con la scelta – ha detto l’ambasciatrice Usa, Power. Una rarità di questi tempi. Guterres conosce l’organizzazione per aver guidato l’Unhcr in una fase delicatissima, attraversata dalle crisi afgana, irachena e infine siriana, durante la quale Unhcr è cresciuta enormemente ed ha assunto un ruolo centrale, anche dal punto di vista della visibilità.

Chi è Antonio Guterres

António Manuel de Oliveira Guterres nasce a Lisbona il 30 aprile del 1949. Figlio di Ilda Cândida dos Reis Oliveira Guterres e Virgílio Dias Guterres, funzionario della Compagnia di Gas ed Elettricità di Lisbona, ha trascorso la sua infanzia tra la capitale e la terra d’origine della madre, Donas, na Beira Baixa. Lo stesso luogo natìo di Amalia Rodrigues. António era un portento, dicono in famiglia. Pare che a quattro anni fosse già in grado di leggere e scrivere, e di piangere quando le storie che incontrava non avevano un lieto fine.
A sette anni, è già chiaro il suo interesse per la fisica. Anzi è tale da sostenere, poi, che sia stata proprio quella la sua «passione platonica». Termina la scuola secondaria e su di lui incombe l’attenzione dell'”Opus Dei”, che lo recluta. Guterres accetta «senza avere la minima idea» di cosa si trattasse, dirà, poi, quando le sue scelte entreranno in contraddizione con quella parentesi di vita. Negli anni a seguire, si dedica allo studio e alla famiglia, accompagna la madre a messa e frequenta la Gioventù cattolica universitaria. Nei tempi duri del Portogallo, a partire dalla seconda metà degli anni 60, nel pieno della dittatura fascista di Salazar, rimane lontano dalle manifestazioni studentesche. Si concentra invece sulla sua carriera e studia, studia sempre. La forte educazione cattolica, in gran parte ispirata dalla madre, lo conduce al Centro Sociale dell’Università e a vivere le miserie dei bairros (quartieri) Curraleira o la Quinta da Calçada. Curiosamente, proprio queste esperienze e l’impatto con la profonda ingiustizia sociale nel suo Paese lo allontanano dalla politica.

Ma nel 1971 – c’è ancora il regime di Salazar – dopo essersi laureato in Ingegneria elettronica, prende a frequentare il “Grupo da Luz”, dove militano personaggi come Helena Roseta, Marcelo Rebelo de Sousa, António Tavares e Victor Sá Machado. Tre anni dopo, per mano di António Reis, Guterres aderisce al Partito Socialista. Il disincanto verso il sistema e l’attrazione verso gli ideali socialisti di Marx, lo portano a licenziarsi dall’università dove aveva una cattedra in Teoria dei Sistemi e delle Telecomunicazioni per dedicarsi pienamente alla politica.
Dentro il partito socialista si scontra con i “vecchi baroni” che lo accusano di essere legato all’Opus dei. Ma la sua ascesa non si arresta. E dieci anni dopo, nel 1988, è il presidente del gruppo parlamentare del Partito socialista. Un anno dopo entra a far parte del Consiglio di Stato.

A questo punto, Guterres ritiene che sia giunto il momento della sua affermazione e al Congresso del febbraio 1992 vince la corsa alla direzione del partito contro Jorge Sampaio. E, alle elezioni del 1995, viene eletto deputato del partito socialista. A ottobre dello stesso anno, diviene primo ministro di un governo aperto, segnato dal dialogo tra le diverse forze politiche portoghesi. Viene rieletto nell’ottobre del 1999 e, quasi contemporaneamente, assume la guida dell’Internazionale socialista. Quando per il Portogallo, nel 2002, è l’ora della debacle. La sua carriera da adesso diventa internazionale.

Tutte le buone ragioni per camminare. Non solo il 9 ottobre

Siamo ormai alla quinta edizione della Giornata Nazionale del Camminare e ogni anno questa manifestazione ideata e promossa dalla Federtrek si arricchisce in qualità e quantità con iniziative che “camminando” creano sensibilizzazione, non solo sul tema molto sentito del benessere psico-fisico o della mobilità dolce in ambito urbano, a cui teniamo in modo particolare, ma anche con eventi di sensibilizzazione su tematiche sociali e culturali molto importanti. Insomma, il camminare come gesto “politico-culturale” che si prefigge di cambiare il mondo in cui viviamo invitando tutti, nessuno escluso, a riconnettersi con i luoghi dell’abitare, iniziando dai percorsi di prossimità in ambito urbano fino alla pratica di un turismo lento e consapevole.

Lo spot della Giornata del camminare 2016

CAMMINARE VERSO L’ALTRO. Un turismo che non morde e fugge dai territori ma che li attraversa lasciandosi arricchire nello spirito e nella consapevolezza di quanto il nostro essere viandanti possa contribuire ad aiutare quelle micro-economie, sempre più numerose, che costruiscono nuovi presidi territoriali e nuove comunità. Il nostro camminare quindi parte dalle città, dove si camminerà per tantissimi motivi, ma ci sarà anche la proposta di camminare insieme per incontrare le altre culture o religioni, incontrare gli spazi e i luoghi delle diverse appartenenze che rendono ricco il tessuto urbano.

Come ricordato qualche giorno fa da Enzo Bianchi nel suo discorso in occasione della Giornata Nazionale per la Memoria delle Vittime dell’Immigrazione, l’unica cosa seria per vedere gli stranieri è quella di incontrarli «nel faccia a faccia, ascoltare direttamente le loro storie, vederli nell’occhio contro occhio». Quale momento migliore per vedere l’altro, faccia a faccia, se non con il nostro camminare che non può più essere solo la dimensione sportiva e salutista dell’andare a passo svelto, ma che diventi sul serio scelta consapevole di rendere marginale l’uso dell’auto privata.

A MISURA DI BAMBINI. L’invito che rivolgiamo a noi stessi, alle associazioni che ci seguono e alle istituzioni, è quello di lavorare insieme perché il modello della città del futuro sia quello di Pontevedra in Spagna, dove la forte pedonalizzazione ha portato a rendere possibile il sogno di Francesco Tonucci e degli amici de Cnr, della Città dei Bambini e delle Bambine. Ecco perché tra le tante iniziative che mi piace ricordare ci sono quelle che promuovono il pedibus, come la straordinaria Erminia Battista che ormai ha reso virale il pedibus serale a Perugia. Le città del futuro o saranno sostenibili dal punto di vista sociale ed ambientale o saranno sempre di più luoghi dell’indifferenza, del distacco.

gdc

Non basterà avere città smart che utilizzano tutte le tecnologie possibili per essere meno inquinate se non proviamo a ridare centralità alle persone. Se mettiamo in circolazione solo auto elettriche avremo dato un contributo fantastico per abbattere il rumore e l’inquinamento, ma non avremo ridato le strade ai cittadini e quindi saremo lontani da quel nuovo umanesimo di cui abbiamo urgente bisogno. Un nuovo umanesimo si crea anche camminando insieme per riprendere il rapporto vitale con un fiume dimenticato dalla comunità, come ad esempio a Fabriano, o per dire che l’unica grande opera di cui ha bisogno il Paese è quella della prevenzione da terremoti e dissesti ed ecco perché uno dei temi forti di quest’anno è quello riportato in una delle nostre locandine promozionali: “Io cammino per ricostruire, io cammino per prevenire”.

Le informazioni di dettaglio sugli ormai più di 100 eventi in tutta Italia, li trovate su www.giornatadelcamminare.org

 

*Paolo Piacentini è presidente nazionale di Federtrek

Nel campo di Dibagah, tra chi fugge dal Califfato

mosul-header

Il 18 settembre Left è stato tra i primi a entrare nel campo profughi di Dibagah, che si trova nella zona di Makhmour, liberata dal Daesh meno di due settimane fa. Al suo interno ci sono quasi 28mila arabi, molti scappati dall’area circostante a Mosul, e in questo video raccontano la loro storia. Siamo riusciti a entrare anche nell’area di transito, normalmente interdetta alla stampa, dove quasi ogni giorno vengono arrestati presunti infiltrati o collaborazionisti del sedicente Stato islamico.