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Domani a Latina per l’acqua bene comune

Ripubblicizzare l’acqua è un diritto! Ne parleremo domani, sabato 8 ottobre, a Latina, ore 10, con esperti del settore e rappresentanti della società civile.
Modera il convegno il condirettore di Left, Raffaele Lupoli.

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Digitalife, quando gli algoritmi e la realtà virtuale diventano arte

Ipercubi riflettenti, cascate d’acqua robotiche, danze meccaniche e nebbie allucinatorie è quello che vi aspetta nello spazio espositivo La Pelanda – Macro Testaccio da oggi al 27 novembre all’interno della settima edizione di Digitalife nella sezione del Romaeuropa Festival.

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Più di un mese di esposizioni, concerti, spettacoli teatrali e conferenze che riflettono sull’uso dei nuovi linguaggi tecnologici usando la tecnologia stessa, decostruendola, esasperandola e reinventandola, in un altrove di sperimentazione, utopia e analisi in cui il tempo e lo spazio cambiano natura e lo spettatore si relaziona con la scienza e con l’arte in modo interattivo ed esperienziale.

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“Immersive Exhibit” accoglie le opere di quattro progetti artistici internazionali, a cominciare da St/ll, cascate d’acqua prodotte in tempo reale dalla macchina 3D Water Matrix azionata da 900 valvole robotiche, realizzata da Shiro Takatani, uno dei fondatori del collettivo giapponese DumbType famoso per le sperimentazioni digitali dal 1984.

Di ritorno a Digitalife dopo sei anni, Christian Partos presenta a Roma, dopo una prima alla Citè des sciences et de l’industrie a Parigi, The Sorcerer’s Apprentice, un’opera che usa il Water Matrix per creare danze fluide e indecifrabili.

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La perdita dei confini fisici e spaziali è la cifra dominante di Zee, l’opera di Kurt Hentschläger – il creatore del progetto Granular Synthesis – che conduce lo spettatore in una nebbia allucinatoria e labirintica in cui perdersi e rinunciare ad orientarsi.

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Unica opera italiana in mostra, Deep Dream_Act II del collettivo artistico NONE (Gregorio de Luca Comandini, Mauro Pace e Saverio Villirillo) è un ipercubo di specchi che bombarda lo spettatore con un flusso visivo e sonoro di dati condivisi (video, foto, gif) raccolti nei mesi scorsi nell’archivio Open Archive o condivisi sul momento dall’utente, in un’esperienza di voyeurismo e di riflessione critica sulla realtà virtuale.

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La mostra inaugura uno spazio dedicato alla riflessione sulle nuove tecnologie, che coinvolge anche i musicisti in un fitto programma che comincia il 19 ottobre (19-23 ottobre) con il duo tedesco Incite/ che accompagna Dark Circus del collettivo artistico francese Stereoptik, seguito dal live 50/150 Working on Satie >>> Talking to Satie di Alessandra Celletti e di Onze (Stefano Centonze) il 26 e il 27 ottobre e Sipario Sylvano di Temporeale Electroacustic Ensemble l’11 novembre. Il 13 novembre, invece una dedica al cinema di Hitchcock arriva da Blackmail Project di Edison Studio, Ilvo Nilsson e Daniele Roccato, mentre il 17 novembre Ljos del collettivo Fuse porta lo spettatore in un circo multimediale e il 19 novembre verranno presentati due strumenti musicali nuovi nell’incontro Invisibile e Adattivo del Centro ricerche musicali, Josè Miguel Fernandez, Thomas Koppel, Alexander Vert, Michelangelo Lupone e Philippe Spiesser. Il 26 novembre a chiusura della mostra si esibiranno Antonio Fatini e Marco Ricci con Giantstep, un incontro sulla musica elettronica.

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Il 24 novembre in occasione dell’anniversario dei 150 anni di relazioni tra Italia e Giappone si terrà, inoltre, una conferenza del Professor Hiroshi Ishiguro che presenterà Gemonoid HI-1 l’umanoide robotico da lui forgiato in grado di sostenere una conversazione come un vero e proprio essere umano.

A conferma della volontà di far incontrare scienza, arte e riflessione, la performance Understanding the Other celebrerà i 25 anni di attività del laboratorio di Robotica Percettiva della Scuola Superiore di Sant’Anna di Pisa, uno degli istituti italiani di eccellenza nella ricerca sulle nuove tecnologie, in attività dal 1991 nel laboratorio PerCro.

Nella cornice della Pelanda e a fianco delle installazioni artistiche e dei concerti, si terrà tra l’8 e il 16 ottobre un ciclo di spettacoli dedicati a Shakespeare dal titolo Table Top Shakespeare: Complete Work, in cui il collettivo Forced Entertainment metterà in scena le opere del bardo su un tavolo di un metro quadrato, facendo il verso ai video-tutorial di Youtube.

Qui il programma della manifestazione con tutti gli appuntamenti.

Sul referendum siamo condannati a due mesi di spacconate

Matteo Renzi durante un dibattito su La7, con Gustavo Zagrebelsky
Il premier Matteo Renzi (s) stringe la mano a Gustavo Zagrebelsky (d) in occasione della trasmissione televisiva 'Sì o No', condotta da Enrico Mentana (c) negli studi di La7, Roma, 30 settembre 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

«Spiace che i sostenitori del No si siano addestrati su tre o quattro refreain», e che non ti seguano, dunque, «quando si va su argomenti più complessi». Questa è la cosa più gentile sentita ieri in uno dei quotidiani dibattiti sul referendum costituzionale, e sono parole di Elisabetta Gualmini, che dovrebbe esser una politologa prima che la vicepresidente della regione Emilia Romagna, per il Pd. Era ospite di Otto e Mezzo con Marco Travaglio.

Gualmini ha anche commentato la battuta che Luca Lotti poche ore prima aveva indirizzato a Massimo D’Alema. Secondo Lotti, D’Alema sarebbe «accecato dalla rabbia e dall’odio personale per non aver ottenuto la sua poltroncina di consolazione» e per questo starebbe conducendo la battaglia per il No. Gualmini ha persino rincarato: «È un linguaggio un po’ inusuale per Lotti, è vero», ha detto, «ma certe volte parole forti ci possono anche stare». È proprio una ripicca, quella di D’Alema, per Gualmini, che ripercorre il ragionamento: «D’Alema ha scritto dal 1995 in avanti che era a favore del superamento del bicameralismo, che era per il doppio turno, e per il potenziamento dei poteri dell’esecutivo. Adesso ha completamente cambiato idea, e mi pare sia mosso dal livore». Insomma: «È un po’ triste».

È triste D’Alema che si muove per ripicca va bene (soprattutto perché, magia, son spariti gli argomenti più che fondati del fronte del No), ma forse è più triste questo continuo banalizzare il dibattito. Banalizzarlo e incattivirlo, in un circolo vizioso – bisogna dire – che è favorevole al premier, che punta al solito schema GufiVSRottamatori, ma da cui il fronte del No non riesce a sottrarsi. Come con gli attacchi a Roberto Benigni. E curioso è poi che gli stessi giornali che lo alimentano, ricercando la battuta sarcastica dall’intervistato, per dare uno straccio di titolo alle pagine, si dicano poi sconcertati e stufi. Scrive giustamente Folli su Rapubblica: «C’è un’alternativa alla prospettiva di due mesi di rissa elettorale come quella a cui assistiamo in questi giorni? La risposta sprezzante del sottosegretario Lotti alle critiche di D’Alema induce a pensare che no, questo sarà lo stile della campagna fino al 4 dicembre. Sotto questo aspetto, il paragone è scoraggiante. La Costituzione del 1948 fu la cornice di un Paese che seppe riconoscersi in alcuni valori fondamentali nonostante le drammatiche lacerazioni politiche dell’epoca. Oggi, viceversa, più che una discussione pubblica sulla riforma della Carta, prevale la logica della resa dei conti. La costante delegittimazione dell’avversario, tipica degli anni della cosiddetta Seconda Repubblica, prosegue e si trasferisce sul terreno referendario». Giusto. Buona cosa sarebbe offrire meno tribune, ma è complicato, lo sappiamo.

Vuoi per ragioni di share, vuoi per i clic, vuoi perché molti dei politici più in vista non sembra saper argomentare diversamente, è come se fossimo condannati a due mesi di spacconate, sul referendum. Spacconate, insulti, plateali mistificazioni. Mezzucci di propaganda, a volta scivolosi come il ricorso (la risposta del Tar arriverà il 17 ottobre) sul quesito referendario, presentato da un pezzo del fronte del No che però su quello stesso quesito aveva giusto un paio di mesi fa raccolto le firme. Il problema era che ad esser demagogico era il titolo della legge? Bastava dirlo all’epoca. Non si è detto, e il punto l’ha segnato così la propaganda del premier. Che sul questo terreno è più bravo, come ha imparato Zagrebelsky.

Fuori dall’austerity con la moneta fiscale

Ogni giorno nel mondo milioni di persone utilizzano monete complementari, digitali o con supporto cartaceo, per acquistare beni e servizi. Con questo sistema le aziende che ne accettano il corso possono aumentare il proprio volume produttivo, stimolare l’acquisto di beni e sostenere l’economia locale. Ne esistono diverse forme: le monete “commerciali”, di cui il Sardex rappresenta uno degli esempi di maggior successo, per aumentare gli investimenti e la vendita di beni delle aziende; le monete “dedicate o settoriali”, come i buoni-pasto, per finanziare l’acquisto di prodotti specifici; le “monete-tempo” il cui valore viene quantificato attraverso le ore lavoro dei partecipanti al circuito.

Si tratta generalmente di monete complementari che circolano in ambito locale o regionale. Per fare il salto sul piano nazionale, due anni fa con Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Enrico Grazzini e Giovanni Zibordi abbiamo costituito un gruppo di lavoro, a cui aveva aderito con entusiasmo anche il compianto professor Luciano Gallino, che ha elaborato la proposta della “moneta fiscale” (sulla rete è disponibile un e-book, all’indirizzo: urlin.it/143930).

La moneta fiscale consiste in titoli pubblici denominati in euro – Certificati di credito fiscale (Ccf) – che conferiscono al portatore il diritto a uno sconto fiscale dopo due anni dall’emissione, sono trasferibili a terzi, non generano un debito al momento dell’emissione e rispettano i vincoli imposti dai trattati e dai regolamenti dell’Eurozona.

Infatti, i Ccf sono un credito tributario e, ai sensi dei regolamenti europei di contabilità nazionale, non costituiscono indebitamento dello Stato che li emette poiché, a differenza di Bot e Btp, non vengono venduti per raccogliere denaro che deve essere restituito alla scadenza. Al momento dell’emissione, dunque, i Ccf non vanno iscritti a bilancio come riduzione delle entrate fiscali e possono funzionare immediatamente come mezzo di pagamento al posto dell’euro per finanziare consumi e investimenti. Ciò perché il loro valore non è soggetto ad alcun rischio di svalutazione sul mercato dei titoli: un Ccf da 100 euro alla fine varrà sempre 100 euro qualsiasi cosa accada sui mercati. E anche perché il denaro potenziale rappresentato dai Ccf è denaro legalmente “pieno” in quanto essi vengono per definizione accettati per pagare le tasse allo Stato, che è il maggior riconoscimento a cui qualsiasi forma di denaro possa aspirare, quale che sia la sua apparenza o denominazione, come moneta circolante in una nazione.

I Ccf dunque hanno un controvalore monetario sicuro, interessano esclusivamente chi paga le tasse in Italia e permettono di guadagnare due anni per rilanciare la crescita dell’economia prima che ci sia un impatto sul bilancio pubblico.

Nella nostra proposta, la moneta fiscale viene assegnata con una carta fiscale elettronica in modo gratuito a disoccupati, lavoratori precari e pensionati con assegni bassi, che rappresentano le categorie più svantaggiate con le maggiori potenzialità di espansione dei consumi. Inoltre, la moneta fiscale può consentire di ridurre il cuneo fiscale delle imprese per migliorarne la competitività e quindi per mantenere in equilibrio la bilancia commerciale e può essere usata dal settore pubblico per effettuare pagamenti di servizi e investimenti pubblici, permettendo di liberare euro dal bilancio dello Stato.

Riteniamo che la moneta fiscale possa stimolare una forte ripresa della domanda interna, del Pil e dell’occupazione. Da ciò deriveranno anche maggiori entrate fiscali lorde, più che sufficienti a compensare la perdita di gettito che si avrà quando i Ccf giungeranno a scadenza e cominceranno a essere utilizzati per ottenere sconti fiscali. Lo scorso anno Mediobanca ha elaborato una simulazione ipotizzando l’immissione di 20 miliardi di euro di Ccf nel 2016 e di ulteriori 40 miliardi nel 2017 e nel 2018. La simulazione (disponibile all’inidirizzo: urlin.it/14392f) mostrava che con questo intervento il Pil reale sarebbe cresciuto del 3,1% nel 2016 e del 3,0% nel 2017 portando il rapporto debito/Pil a ridursi dal 132,8 al 112% nel 2019.

Un programma di assegnazioni prolungato e certo, dunque, può sostenere la spesa pubblica e privata e può ridurre il costo del lavoro lordo delle imprese permettendo di rilanciare l’economia e di avviare una rapida riduzione del rapporto debito pubblico/Pil. La manovra sarebbe ancora più efficace se venisse costruita come un’operazione di sistema, poiché la mobilitazione e il coordinamento delle forze economiche – imprese, banche e sindacati – consentirebbe di sfruttare al meglio gli ampi incentivi che la manovra stessa offre.

La moneta fiscale è la strada più efficace che il nostro Paese può percorrere in tempi rapidi e in modo autonomo senza chiedere nulla all’Europa. Ciò anche alla luce delle alternative che abbiamo di fronte: 1. il rispetto dei vincoli europei farà affondare inesorabilmente la nostra economia; 2. un cambio di rotta della politica economica a guida tedesca non è un obiettivo che può essere conseguito in tempi brevi; 3. l’uscita dall’euro con un referendum comporta dei rischi altissimi perché passerebbero mesi prima della consultazione e il nostro Paese potrebbe finire sotto l’attacco della speculazione finanziaria con fughe di capitali e corse agli sportelli bancari; 4. l’uscita dall’euro senza referendum implicherebbe l’esistenza di una maggioranza parlamentare molto ampia; 5. un’espansione unilaterale del deficit pubblico ci porterebbe in rotta di collisione con la Bce, la Commissione europea e la Germania esponendo il nostro Paese al rischio di attacchi speculativi con spinte al rialzo sui tassi di interesse.

Per concludere, la “moneta fiscale” è una possibilità più semplice e meno traumatica dell’uscita “secca” dall’euro ed evita i rischi del deficit-spending. Nel tempo, potrebbe perfino sostituire l’euro creando le condizioni per un’uscita “morbida” dalla moneta unica qualora ciò si ritenesse utile o necessario. Ma potrebbe anche costituire uno schema permanente all’interno dell’euro, adottabile dall’Italia e da altri Paesi dell’Eurozona in crisi, per assorbire la disoccupazione, risanare i bilanci pubblici e gestire in modo civile gli imponenti flussi migratori che si stanno riversando sul continente europeo.

Il Nobel per la pace è un incoraggiamento a Santos: vada avanti

Cuba's President Raul Castro, center, shakes hands with the top commander of the Revolutionary Armed Forces of Colombia, FARC, Rodrigo Londono, right, as Colombia's President Juan Manuel Santos, left, looks on, after they signed a peace agreement between the government and the FARC in Cartagena, Colombia, Monday, Sept. 26, 2016. Colombians are being given the final say on endorsing or rejecting the accord in an Oct. 2 referendum. (AP Photo/Fernando Vergara)

Il presidente colombiano José Manuel Santos è il nuovo premio Nobel per la pace. Il comitato di Oslo ha deciso di fare una scelta in qualche modo sicura, evitando di entrare su terreni spinosi e minati come quello dei rifugiati e della guerra siriana – tra i possibili vincitori c’erano gli isolani di Lesbo e i Caschi bianchi, i corpi civili di pace della città siriana. Il premio a Santos è una specie di incoraggiamento ad andare avanti nel processo di pace che ha conosciuto un brusco stop dopo il voto del popolo colombiano che ha rigettato l’accordo firmato da Farc e governo di Bogotà.

Dopo quel voto sia Santos che i ribelli hanno promesso di proseguire negli sforzi per trovare una nuova intesa e Santos ha anche coinvolto l’ex presidente Uribe, il capo del fronte del No all’accordo – che però, invitato al tavolo, potrebbe assumere toni meno drastici: in fondo la pace conviene al Paese. Il premio è anche a questa costanza nel ricercare la pace: dalla campagna elettorale per la presidenza, fino al proseguimento degli sforzi dopo la sconfitta nel referendum.

I punti controversi dell’accordo riguardano l’amnistia e il salario per gli ex ribelli. Difficile non trovare una formula che, salvo in casi più gravi, non consenta a quelli che diventeranno ex ribelli di evitare il carcere, tra l’altro efferatezze e brutalità ce ne sono state molte anche da parte delle truppe governative.

Volendo essere un po’ dietrologi, si può ricordare che il processo di pace è stato mediato, oltre che da Cuba (e con un ruolo degli Usa) dalla Norvegia, la cui diplomazia ha spesso la capacità e forte volontà di promuovere negoziati e lavorare per la pace. Il capo del team diplomatico norvegese che è garante del processo di pace è Dag Nylander, che dal 2012 ha lavorato a Cuba dal 2012. Il premio è anche un premio indiretto al ruolo svolto da Cuba che, dopo la riapertura dei canali con gli Stati Uniti, può giocare un ruolo di grande interesse nella politica latinoamericana.

 

People hold up letters that form the word "Peace" in Spanish during a gathering at Bolivar square in Bogota, Colombia, Monday, Sept. 26, 2016. Colombia's government and the Revolutionary Armed Forces of Colombia signed a peace agreement to end over 50 years of conflict, in Cartagena. (AP Photo/ Jennifer Alarcon)
(AP Photo/ Jennifer Alarcon)

Su Left in edicola sabato un reportage dalla Colombia del post referendum


 

La cronologia della guerra civile colombiana

1964: nasce il gruppo armato per reagire alla repressione militare e con l’intento di formare uno Stato indipendente.
1996: arriva il primo grande attentato: 450 guerriglieri uccidono 27 sodati e ne sequestrano 60 alla base militare Las Delicias, a Puerto Leguízamo.
1998: accettando i negoziati per il disarmo, i guerriglieri ottengono un territorio indipendente nella regione di Caguán.
2002: il presidente Pastrana revoca il territorio e le Farc tornano nella foresta. Eletto presidente, Álvaro Uribe annuncia una guerra senza quartiere.
2008: il 4 febbraio molti colombiani manifestano cotnro le Farc. L’esercito uccide il leader del Farc Tirofijo e il portavoce Raúl Reyes.
2010: il neo-presidente Juan Manuel Santos avvia una trattativa segreta con le Farc.
2012: partono i negoziati di pace a L’Avana.
2015: Annunciato l’accordo definitivo per marzo del 2016.
25 marzo 2016: la firma dell’accordo slitta.
26 settembre 2016: a Cartagena de Indias la firma dell’accordo.
2 ottobre 2016: vince il No al referendum popolare.

Perché al Def di Renzi e Padoan non crede davvero nessuno

Renzi e Padoan presentano il Def a palazzo Chigi
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (s) e il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan (d) durante conferenza stampa al termine della riunione Consiglio dei Ministri che ha dato il via libera alla nota di aggiornamento del Def. Roma, 27 settembre 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

L’anno del Signore 2017 (sesto dell’Era Draghi) la crescita del Prodotto interno lordo dell’Italia sarà pari all’1%. Così dice il governo nel Documento di Economia e Finanza (Def). Un tasso di crescita a dir poco asfittico, se confrontato con quello di altri Paesi (persino quelli periferici dell’Eurozona) che arriva dopo un anno anche meno brillante, che era partito con previsioni di crescita dell’1,4% e pare finirà (se andrà bene) allo 0,8%.

Ma a questo 1%, già come dicevamo bassino, non crede davvero nessuno. Il vicedirettore della Banca d’Italia Luigi Signorini, davanti alle Commissioni bilancio di Camera e Senato, ha definito “ambizioso” l’obiettivo, un modo per dire irraggiungibile. La stoccata di Via Nazionale è diventata particolarmente dolorosa quando il burocrate ha affondato, spiegando che «nelle valutazioni del governo il mancato aumento dell’Iva avrebbe un impatto positivo sul tasso di crescita del Pil pari a 0,3 punti percentuali nel 2017, un effetto piuttosto forte rispetto a stime econometriche basate sui dati del passato».

Simile l’approccio della Corte dei Conti che per bocca del presidente Arturo Martucci sottolinea i “rischi di ribasso” dovuti agli «elementi di fragilità del quadro economico che si riflettono sul percorso programmatico di finanza pubblica». Anche l’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb), organismo che vigila sull’applicazione del pareggio di bilancio inserito nella Costituzione, è ben poco convinto: «Le previsioni di crescita per il 2017 – sostiene il presidente Giuseppe Pisauro – appaiono contrassegnate da un eccesso di ottimismo», mentre quelle del 2018 sono addirittura “fuori linea” tanto che l’Upb potrebbe non dare il suo disco verde alla manovra. Come se non bastasse, Pisauro avverte che anche la flessibilità (0,4% di deficit per affrontare le emergenze terremoto e migranti), che dovrebbe essere concessa dall’Unione Europea, potrebbe alla fine non arrivare.

La mazzata finale per Renzi e Padoan è poi arrivata martedì, quando il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato le previsioni del 2017, assegnando all’Italia un non particolarmente lusinghiero +0,9%. E si sa che le previsioni del Fondo sono in genere troppo ottimistiche.

Risultati così modesti tuttavia non sono solo il risultato di fatti oggettivi, ma anche della linea economica del governo, tutta incentrata alla riduzione delle tasse (peraltro molto “apparente”) e non all’aumento della spesa (di fatto ridotta), che potrebbe aiutare il Paese a crescere. Renzi ha finora puntato tutto su “bonus” e sconti fiscali ad hoc, quindi dall’effetto effimero. In più gran parte della manovra di finanza pubblica è incentrata sull’evitare che scattino le “clausole di salvaguardia”, cioè gli aumenti di imposte (in particolare l’Iva). Dei 25 miliardi di interventi previsti per il 2017, infatti, il 60% è devoluto a questo obiettivo. Il che in soldoni significa ridurre le spese per evitare che aumentino le tasse, con un effetto netto che risulterà comunque recessivo.

Il ministro Padoan respinge le critiche parlando di aumento degli investimenti. Ma anche qui si tratta di decimali di “buona spesa”, mentre il saldo primario (cioè la differenza tra spese e entrate dello Stato al netto degli interessi sul debito) addirittura aumenta, segnalando un quadro di austerità “light”. Il tutto avviene mentre siamo seduti sulla bomba ad orologeria delle banche italiane in difficoltà, da Mps ad Unicredit, e mentre Deutsche Bank rischia di cadere addosso all’Europa.

Nonostante i proclami altisonanti Renzi e Padoan hanno deciso di allinearsi alle richieste dell’Ue, mentre il quadro macroeconomico e finanziario del Paese si deteriora. Stiamo giocando col fuoco. Il rischio è che potremmo essere costretti a compensare con brusche manovre correttive, stavolta non “light”.

La Siria vive i suoi giorni più neri e un clima da guerra fredda fuori tempo

Aleppo, un'ambulanza distrutta dalle bombe di Assad
In this photo provided by the Syrian Civil Defense group known as the White Helmets, taken Sept. 23, 2016, a destroyed ambulance is seen outside the Syrian Civil Defense main center after airstrikes in Ansari neighborhood in the rebel-held part of eastern Aleppo, Syria. A year after Russia waded into the war in Syria, aiming to flex its national security muscles and prop up beleaguered Syrian President Bashar Assad, Moscow appears no closer to one of its military goals: getting the U.S. to coordinate combat operations in the civil war. And prospects of a diplomatic resolution seem dim. (Syrian Civil Defense White Helmets via AP)

Perché ci occupiamo di Siria questa settimana, cercando di raccontare cosa succede nel Paese e attorno (e anche nell’Iraq che confina con le aree occupate dall’Isis)? Perché in Siria non c’è più la guerra civile. Non in senso proprio. Il conflitto è entrato in una nuova fase.

Nel settembre 2015, quando i russi hanno cominciato a sostenere gli sforzi militari del regime di Assad finendo con l’essere coinvolti in maniera crescente dal punto di vista militare e politico, abbiamo assistito a un tardivo ritorno della Guerra fredda sul territorio siriano. E le conseguenze per i civili non sono state prese in gran considerazione, neppure dai governi europei, impegnati solo a ragionare su come e dove rispedire centinaia di migliaia di persone in fuga dalla guerra.

Dal 20 settembre scorso invece, a un anno da quel primo coinvolgimento ufficiale, la Russia – o le forze armate siriane – ha attaccato dal cielo un convoglio di aiuti umanitari diretto ad Aleppo. E la guerra siriana è cambiata.
Dopo quell’attacco aereo, avvenuto durante i primi giorni del cessate-il-fuoco lungamente negoziato tra Washington, Mosca e le parti che si combattono sul terreno, abbiamo assistito alla presa di mira di almeno tre ospedali nella città chiave della guerra di Siria, all’intensificarsi dei bombardamenti con ordigni di ogni tipo, da quelli al fosforo a quelli a grappolo, fino agli ordigni pensati per distruggere i bunker. E poco importa distinguere se si tratti delle sale operatorie sotterranee degli ospedali, delle scuole o di rifugi dei ribelli.
Se un tempo, insomma, ci si poteva rifugiare sotto terra, oggi nemmeno i rifugi anti aerei sono un luogo sicuro. Di questi giorni anche l’avanzata via terra e la conquista di nuovi quartieri da parte di quelle che chiamiamo truppe siriane, ma che sono ormai la sommatoria di soldati regolari, miliziani hezbollah libanesi, guardie della rivoluzione iraniane, milizie sciite di vario ordine e grado.

Da Aleppo arrivano immagini e testimonianze terribili: tutti raccontano come le settimane appena trascorse siano le peggiori da quando l’assedio è cominciato. Del resto, se come spiegano Putin e Lavrov a ogni pié sospinto, i nemici di Assad sono solo e tutti terroristi, perché non usare con loro mezzi brutali? Una ragione sarebbe che, come ormai ricordano in pochi, la rivolta siriana cominciò pacifica, e che solo la repressione brutale di Damasco l’ha trasformata in una guerra alla quale partecipano milizie jihadiste che si alimentano e crescono, per stessa ammissione dei loro capi, grazie alla brutalità di Assad. Il disinteresse occidentale, insomma, ha reso più deboli quelle forze che chiedevano riforme e più forti gli estremisti islamici.

Damasco e Mosca sembrano aver deciso che il disordine europeo e la campagna elettorale americana sono una finestra temporale di cui approfittare. Prendere Aleppo significherebbe ottenere una vittoria simbolica enorme, aumentando di molto il valore delle carte da giocare a un eventuale tavolo negoziale in sede Onu – che non potrà fare altro, se e quando ce ne sarà uno, che sancire la divisione del Paese. Nel frattempo i civili di Aleppo e delle altre decine di città e villaggi dove si combatte continueranno a morire, avere fame, sete e bisogno di cure. Il ricordo va a una guerra lontana, che avvenne con una sorta di beneplacito occidentale e che finì con città rase al suolo e opposizione annientata: quella di Cecenia. Da dove, non a caso, arriva qualche combattente straniero dell’Isis e dove il Califfato ha cominciato a mettere qualche base.

Si può fare qualcosa? C’è un appello alla pace credibile? O è il tempo di aumentare la pressione su Mosca da parte occidentale? Il primo passo è quello di Kerry, che all’ennesimo schiaffo preso dal suo omologo russo Lavrov ha deciso di interrompere i colloqui con Mosca a tempo indeterminato, «una decisione non presa a cuor leggero» recita il comunicato del Dipartimento di Stato. Di fronte a violazioni delle regole internazionali e alla morte di centinaia di bambini ci sono strumenti plausibili che non siano diplomatici? Difficile a dirsi. Riconoscere la dissoluzione della Siria come entità statuale nazionale, pensare a soluzioni federali alla bosniaca, a no-fly zone come quella del nord curdo dell’Iraq dopo il ritiro americano del 1991, o usare gli aerei per proteggere i civili è una strada sicuramente difficile da percorrere, ma anche l’unica. Solo frenando la ferocia della guerra in corso, gonfiando il petto con la Russia, ma senza intervenire sul terreno, si può pensare di avviare un tavolo negoziale vero. Un tavolo che ragioni sulle conseguenze regionali della fine del conflitto e che veda tutti i Paesi coinvolti in questa guerra per procura.

Lasciarlo fare solo agli americani, che fino all’intervento russo hanno trattato la Siria come fosse un problema secondario, sarebbe sbagliato. L’altro errore sarebbe lavorare per sfere di influenza: iraniani, qatarini, turchi e poi gli alleati maggiori: i russi da un lato, gli americani dall’altro. Un clima da Guerra fredda fuori tempo. Anche per questo, se esistesse una diplomazia europea capace di iniziativa autonoma e credibile, sarebbe buono e giusto vederla intervenire. Ma proprio in questi giorni l’Europa ha imposto all’Afghanistan un accordo sul rientro dei rifugiati: Kabul si riprende i suoi senza fiatare e gli aiuti proseguono. Questa Europa, insomma, non è all’altezza.

Marine Le Pen in testa ai sondaggi. Ma il suo vice è sotto inchiesta e il papà le fa causa

epa04558057 Marine Le Pen, leader of French Front National (FN) party, speaks during a press conference at the European Parliament in Strasbourg, France, 13 January 2015. She spoke about France and Europe facing the challenge of Islamist terrorism. EPA/PATRICK SEEGER

Continua a crescere il consenso per Marine Le Pen in Francia. Gli ultimi sondaggi danno in testa il suo Front national (Fn) con il 28%. Ma a turbare i sogni puri della formazione di destra arriva in questi giorni una comunicazione del tribunale: i giudici istruttori hanno rinviato a giudizio due dirigenti del partito, Wallerand de Saint-Just e Jean-François Jalkh. Lo riporta il quotidiano Le Monde, secondo cui i fatti riguardano l’indagine su sospetti guadagni fraudolenti ai danni dello Stato nelle campagne elettorali legislative e presidenziali del 2012.

 

In pratica gli inquirenti sospettano l’esistenza di un sistema per accumulare denaro pubblico, approfittando dei rimborsi statali per la campagna elettorale: l’accusa è di frode e appropriazione indebita e uso improprio, ha detto all’agenzia Afp una fonte vicina agli inquirenti. 

 

 

In particolare, al tesoriere del Front national, Wallerand Saint-Just, viene mossa l’accusa per il reato di uso improprio di beni aziendali, mentre a uno dei vice presidenti, Jean-François Jalkh, quello di truffa, appropriazione indebita e uso improprio di beni aziendali, sempre secondo la stessa fonte. Il Front national, dal canto suo, contesta le accuse e ha già annunciato di voler ricorrere contro il rinvio a giudizio. «Non siamo per niente d’accordo», ha replicato il tesoriere dagli schermi di Europe1: «Quei giudici non mollano la presa. Ma noi riusciremo a fargliela mollare». Da Jean-François Jalkh, invece, al momento solo silenzio.

Al centro delle indagini, i kit della campagna elettorale (opuscoli, manifesti, cartoline postali) – costati 16.650 euro – forniti ad alcuni dei 525 candidati del Fn da parte della società Riwal, guidata da Frédéric Chatillon, l’ex dirigente del Gud (Groupe Union Défense), gruppo di estrema destra ultraradicale (e ultraviolento)  già coinvolto nello scandalo dei Panama Papers e considerato molto vicino a Marine Le Pen. Per l’acquisto, i candidati hanno dovuto contrattare un prestito con tanto di interessi con Jeanne, un movimento satellitare del Front national. Secondo gli inquirenti alla alla base di questo sistema complesso ci sarebbero vantaggi e fatturati gonfiati, a spese dello Stato che, secondo la legge francese, rimborsa le spese elettorali ai candidati che superano il 5% dei voti.

Per Marine Le Pen – che è stata ascoltata dai giudici in qualità di testimone assistito e non è incriminata di alcun reato – la grana arriva proprio mentre è alle prese con “il suo vecchio”. Reduce da una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo a tre mesi di reclusione con la condizionale e 10mila euro di ammenda, Jean-Marie Le Pen ha annunciato, come riporta il quotidiano Le Matin, che sarà presente all’udienza dell’alta corte di Nanterre per chiedere di annullare la sua esclusione dal Front National. Sospensione decretata nell’estate del 2015 dopo alcune dichiarazioni di Le Pen sulla Shoah, che – ha detto – «non è stata particolarmente inumana, anche se vi furono degli errori, inevitabili in un Paese di 550mila chilometri quadrati». Adesso papà Le Pen chiede al partito che ha fondato e poi consegnato alla figlia Marine di essere reintegrato, e pure 2 milioni di euro di risarcimento per i danni arrecati alla sua «dignità, onore, reputazione e azione politica». Cosa dice sul suo sostegno alla figlia per le presidenziali 2017? «Per il momento no».

Anna Politkovskaja e gli altri. Raccontare la verità a tutti i costi

A picture of Russian journalist Anna Politkovskaya on paper flowers during a rally on the anniversary of her murder, in Moscow, Russia, 07 October 2014. Politkovskaya, a Russian journalist and human rights activist known as a critic of Russian President Vladimir Putin, was assassinated at her house eight year ago. ANSA/MAXIM SHIPENKOV

Sulla Novaja Gazeta lei raccontava quello che vedeva. Né più e, soprattutto, né meno. Perché questo era il dovere di un giornalista, per lei, Anna Stepanovna Politkovskaja.

Scriveva della Cecenia, dell’occupazione indebita russa del territorio, e scriveva della continua lesione dei diritti umani e civili della popolazione. Andava, vedeva i proiettili e le ferite sui muri e sulle persone, viveva con loro, con entrambe: ferite e persone. E scriveva. Degli ospedali, dei militari, russi e ceceni, dei campi profughi.

E ogni suo articolo era una denuncia ben precisa, che arrivava dritta non solo al cuore di chi la leggeva, ma anche alla “sensibilità” del potere. Arrivava a Putin, bersaglio principale assieme al suo governo dei suoi reportage e soprattutto di libri molto critici (Come per esempio A Small Corner of Hell: Dispatches From Chechnya, 2003 – Cecenia, il disonore russo) sulla conduzione della guerra. In Cecenia, in Daghestan, in Inguscezia

Non erano attacchi politici, quelli di Anna: erano resoconti, brandelli ricostruiti di realtà. Perché Anna è «una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo».

meme politkovskaja

Non solo: te lo fa sentire. Leggendo le sue righe, cammini nella steppa russa, nei gelidi inverni ceceni, nelle case dei profughi buie come tane di topi. E questo da fastidio. Far vedere la realtà al mondo, per l’equilibrio di un potere dittatoriale è ben più pericoloso di qualsiasi minaccia o sanzione di organismi internazionali; di qualsiasi dichiarazione di leader europei o statunitensi.

Per questo motivo, la sera del 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaja, smetterà di scrivere. L’hanno fermata con un proiettile in testa, nell’ascensore della sua abitazione a Mosca, mentre tornava a casa. È il giorno del compleanno di Vladimir Putin. Coincidenze. Il giorno dopo, la polizia russa sequestrò il computer della cronsita con tutto il materiale dell’inchiesta che la giornalista stava compiendo. Coincidenze. Il mandante dell’omicidio non è mai stato scoperto. Coincidenze.

Minacce di morte e tentativi di avvelenamento ne aveva collezionati. Sapeva di camminare sotto mira, e che sarebbe stato fatto di tempo. Tanto che nel 2005, un anno prima di essere assassinata, in una conferenza di Reporter Senza Frontiere a Vienna sulla libertà di stampa, denuncia:

« Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola a essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare. »

In ogni caso, purtroppo per chi pensava di eliminarne l’azione dirompente, l’assassinio della giornalista della Gazeta ne ha fatto un simbolo che ha mobilitato perfino la grigia e omertosa gelida opinione pubblica russa e portando il suo lavoro a conoscenza del mondo intero, amplificandone ancor di più il valore e l’operato.

 

In Russia oltre 200 giornalisti uccisi dal 1993

Fare il giornalista in Russia è diventato sempre più pericoloso a partire dagli anni 90. L’assassinio di Anna Politkovskaja ebbe enorme risonanza e fu, di fatto, uno dei primi casi a portare alla luce e far discutere l’opinione pubblica mondiale del tema.

Prima che Anna Politkovskaja venisse ammazzata sulle scale del palazzo in cui abitava, il 7 ottobre 2006, soltanto chi si interessava da vicino alle guerre cecene conosceva il nome di questa giornalista coraggiosa, dichiarata avversaria della politica di Vladimir Putin. Da un giorno all’altro, il suo volto dall’aria triste e decisa è diventato in Occidente un’icona della libertà d’espressione.

Emmanuel Carrère

Ma Anna non è stata la sola, le fonti russe parlano di oltre 200 uccisioni, anche se i rapporti pubblicati fin ora dalle organizzazioni internazionale parlano “solo” di diverse dozzine di omicidi. In particolare l’International Federation of Journalists ha commissionato un’ampia inchiesta in merito e reso pubblico un database online che documenta la morte o la sperizione in Russia di circa 300 giornalisti a partire dal 1993.
Oltre a una forte campagna per la libertà di stampa e la tutela di chi fa informazione, l’IFJ ha fornito anche una guida a disposizione dei reporter la cui vita è messa a rischio da inchieste e articoli sui quali stanno lavorando.

Non solo per mano di Putin.

A rischiare la vita per raccontare i fatti sono in molti anche fuori dalla Russia. Come la Politkovskaja sono stati uccisi molti altri giornalisti in tutto il mondo. In Messico per esempio la desaparecion non sembra essere un fenomeno solo del passato e le proteste contro le autorità politiche e la polizia colluse con i trafficanti di droga e colpevoli della sparizione forzata di molti reporter. L’ultima in ordine temporale è l’appello #MexicoNosUrge rivolto all’Unione Europea per intervenire e tutelare i giornalisti in pericolo. Infatti, in questi ultimi cinque anni, durante il governo del priista Javier Duarte de Ochoa sono stati assassinati 15 giornalisti e tutti gli omicidi sono rimasti impuniti.


 

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Tornano alla mente però anche tutti quei giornalisti uccisi nel nostro Paese per mano della Mafia, della Camorra, della Ndrangheta, del terrorismo o di giochi politici sui quali ancora non è stata fatta chiarezza.

C’è per esempio Peppino Impastato, voce di Radio Aut, dalla cui vita è stato tratto il film di Marco Tullio Giordana “I cento Passi”. Ucciso dalla mafia perché ormai sapeva troppo. Come lui Cosimo Cristina, cronista dello storico quotidiano parlemitano “L’Ora” – un punto fermo nella lotta contro le cosche siciliane – assassinato nel 1960 a Termini Imerese. Lo stesso destino toccò anche ai suoi colleghi di testata Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato.

C’è stato anche, Giancarlo Siani, corrispondente de “Il Mattino di Napoli“, impegnato in un’inchiesta sui  traffici illeciti della camorra e sul punto di pubblicare un libro che denunciava i rapporti fra politica e criminalità degli appalti nella gestione degli appalti post-terremoto dell’Irpinia, prima di essere “fatto fuori” a soli 26 anni con 10 colpi di pistola alla testa mentre era a bordo della sua Citroën Méhari.


 

Giancarlo Siani, un fumetto racconta la vita del giornalista ucciso dalla camorra a bordo della sua Mehari

 


Anche il terrorismo ha avuto le sue vittime nel mondo dell’informazione. Carlo Casalegno, vice direttore de La Stampa, fu assassinato nel 1977 dalle Br perché insisteva a scrivere dalle colonne della sua rubrica che non andava concessa tolleranza o impunità ai gruppi violenti. Stessa fine di Casalegno per Walter Tobagi del Corriere della Sera che, in quelli che erano gli anni di piombo, era solito riflettere  sulla responsabilità del giornalista di fronte all’offensiva delle bande terroristiche. Tobagi non poté parlare a lungo perché eliminato dalla Brigata XXVIII marzo, un gruppo terroristico di estrema sinistra.

Ma un altro tratto è comune a tutte queste vite: il coraggio di lottare per la libertà e di raccontare le cose come stanno. Come diceva Anna.