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Eppure la gentilezza è ancora rivoluzionaria

È successo una decina di giorni fa: a San Giorgio Liri, paese frusinate tra i monti Aurunci, stavamo tenendo la piazza per un incontro sul prossimo referendum costituzionale. Una della tante serate di politica che si ripetono in questi giorni negli spiazzi ancora temperati d’estate: un tavolo, microfoni, qualche bottiglietta d’acqua naturale, la bandiera di un partito o di un comitato intovagliata cadendo di fronte al pubblico e un angolo che diventa palco lì dove c’è più luce. Bene o male questo referendum ha moltiplicato le riunioni all’aperto che coltivano il fare comunità: bene o male questo referendum ha sbriciolato il rarefatto talk show nel più nobile “parlarne insieme”.

Una serata che si svolgeva come spesso succede tra lo snocciolare i nodi critici, i dubbi e le proposte. A vederla fino a qui sarebbe sembrato tutto normale. Fin qui.

Poi all’improvviso un anziano signore con passo lento benché sicuro si è avvicinato con una scatola in mano e il viso gentile. Portava caramelle all’anice e uno a uno ha preso a offrirle a tutti. Tutti: scivolando tra le file come il cestino delle offerte in chiesa ha guardato tutti diritti negli occhi. «Caramella?». Solo questo diceva. Si è avvicinato anche al tavolo dei relatori: cosa volete che gliene freghi dei palchi e dei confini immaginari a chi s’è preso la briga di scendere così tardi da casa per sapere se qualcuno volesse una caramella.

La gente, intorno, è rimasta incantata. Alcuni addirittura apparivano intimiditi di fronte a una gentilezza tanto disinteressata. Un brivido sulla schiena della platea s’è fatto rivolo e poi freddo: quanto siamo disabituati alle persone gentili. Quanto rimaniamo folgorati da chi ci mostra con delicatezza attenzione per i bisogni anche più elementari. Deve avere pensato, l’offritore di caramelle, che chissà quando gli ricapita di avere una piazza così partecipata e una così alta concentrazione di persone da poter servire.

Buon martedì.

 

Quando Roma fu liberata dal Papa

Breccia di Porta Pia

“In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa e annunziano l’entrata degli italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli”. Così accoglieva la breccia di Porta Pia Francesco De Sanctis, il 20 settembre 1870, quando il generale Cadorna e il suo esercito entrarono nello Stato Pontificio, strappando al Papa l’ultimo baluardo di potere temporale e facendo di Roma la capitale del Regno. L’Europa dell’epoca era scossa dal conflitto franco-prussiano e lo storico difensore del Papa, il francese Napoleone III, aveva perso la guerra ed era stato imprigionato, venendo meno all’impegno verso il Pontefice. Al Papa restava soltanto San Pietro, dove si rifugiò in un primo momento, mentre lo Stato Pontifico cominciava a dissolversi.
Si compiva l’ultimo atto dell’unificazione d’Italia, l’apice del Risorgimento italiano, e giungeva al termine la “questione romana”, quella guerra tra ragioni di Stato e ragioni di Chiesa che era stata combattuta a suon di encicliche e di minacce di occupazione.
A nove anni dalla proclamazione della “Libera Chiesa in Libero Stato” nel novello parlamento italiano da parte di Camillo Benso conte di Cavour, in virtù della sua centralità geografica, Roma diventava la capitale di un’Italia nuova, che, -in ritardo rispetto al resto d’Europa- proclamava la sua adesione alla modernità.
Prendendo in prestito ai padri della Chiesa Pietro e Paolo le parole, papa Pio IX rispose “Non possumus” alla lettera in cui, l’8 settembre del ‘70, re Vittorio Emanuele II gli annunciava la necessità di occupare lo Stato Pontificio ” E ancora “Non possumus” aveva sentenziato quando, l’11 settembre del ‘48, dalla piazza del Quirinale il popolo romano gli chiedeva la Costituzione, e allo stesso modo aveva risposto tutte le volte che qualcuno aveva tentato di spodestarlo, rimarcando con solennità la difesa della Chiesa dei padri.
La presa di Roma -avvenuta senza spargimento di sangue per volere del Papa- ha aperto uno squarcio nella frontiera che la Chiesa aveva innalzato tramite una fitta attività editoriale
– di cui l’enciclica “Quanta Cura” e il “Sillabo” (1864) erano i manifesti ufficiali – a condanna delle dottrine moderne, dal socialismo all’ateismo al comunismo e persino al cattolicesimo liberale, che avrebbero trovato, poi, spazio nelle prime file del parlamento italiano.
Per quanto straordinaria ed epocale, la caduta temporale del Papa determinata dalla breccia di Porta Pia non era proprio novità per quel secolo: il Papa era stato deposto già nel 1798 in occasione dell’invasione francese, poi nel 1808 con il dilagare delle repubbliche napoleoniche e nel 1848, in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana.
La determinazione di Pio IX a mantenere Stato e Chiesa ugualmente sovrani e distinti durante il suo lunghissimo pontificato (lungo quasi 32 anni) ha portato, dopo la breccia di Porta Pia, all’esclusione dei cattolici dalla politica tramite il non expedit da lui pronunciato, che ebbe fine soltanto nel 1919 con la fondazione del Partito Popolare Italiano.
Un decennio dopo la scesa in campo di Don Luigi Sturzo, è stata abolita la festa nazionale del 20 settembre – proclamata nel 1870 -, in seguito alla firma dei patti Lateranensi, che hanno riaperto le relazioni di mutuo riconoscimento e tra Stato e Chiesa, mettendo un punto alla “questione romana”.

Le riforme garantiranno meglio il diritto alla salute? Non è vero. Parla Anna Falcone

La campagna per il referendum si fa sempre più accesa. Tra endorsement di ambasciatori Usa, report allarmistici dei colletti bianchi della finanza e il premier che promette ai poveri 500 milioni di euro – ma secondo la Ragioneria di Stato sono circa 60 – risparmiati con il taglio dei senatori e del Cnel, il fronte del sì utilizza anche l’argomento scottante della sanità. “Sì per un’Italia in salute” è lo slogan scelto da Federico Gelli, deputato e responsabile Pd per la Sanità.

Ma sarà garantito il diritto alla salute uguale per tutti nel ddl Boschi? È vero che con la riforma del Titolo V e il potere pressoché totale conferito alle Regioni nel 2001, sono piovuti contenziosi a non finire tra Stato e Regioni ed è anche vero che se si dovesse fare la radiografia della sanità nelle Regioni ne uscirebbe un quadro disastroso, tra diseguaglianze palesi, inefficienze e ruberie. Ma la revisione costituzionale servirà? «Questa riforma della Costituzione è uno specchietto per le allodole», premette Anna Falcone, avvocato e vicepresidente del Comitato del No.

Ci spieghi perché sulla sanità il ddl Boschi sarebbe uno specchietto per le allodole. Partendo proprio dall’inizio, da quello che è accaduto nel 2001, quando si volle il federalismo regionale.

L’aver devoluto la materia sanitaria, coen la riforma del titolo V della Costituzione ha determinato degli squilibri fra cittadini nella fruizione del diritto alla salute. E ciò non tanto a causa delle competenze conferite alle Regioni, quanto in ragione delle oggettive asimmetrie di risorse e capacità organizzative fra i diversi territori. Il diritto alla salute è, infatti, un diritto estremamente oneroso da sostenere per lo Stato in tutte le sue articolazioni: se ci sono le risorse per finanziare prestazioni e servizi il diritto è garantito, altrimenti no, e sappiamo tutti come le capacità finanziarie, le strutture e i modelli organizzativi siano estremamente diversi fra Regione e Regione. Il problema risale a un vizio originario della riforma del Titolo V: a fronte di Regioni che partivano da condizioni economiche e di capacità fiscale molto diverse si è imposto, di fatto, un federalismo fiscale non solidale, ma asimmetrico. Un sistema fondato sull’autonomia degli enti territoriali e delle Regioni in particolare, tenute a colmare, pressoché da sole, tali diversità e, quindi, le potenziali discriminazioni fra i cittadini nella fruizione dei servizi e dei diritti sottesi. A partire dalla salute la cui spesa, come sappiamo, assorbe la maggior parte dei bilanci regionali. L’art.119 Cost., così come riformato, prevedeva, infatti, un “fondo perequativo” che avrebbe dovuto “rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona – compreso il diritto alla salute – ma è rimasto lettera morta. Il fine della norma costituzionale è stato, però, di fatto congelato e il fondo non è mai stato adeguatamente finanziato per garantire che i cittadini italiani potessero fruire di servizi e prestazioni sanitarie uguali a prescindere dalla Regione in cui avessero avuto la (s)ventura di vivere.

E allora come si è cercato adesso di sopperire a questo vizio originario?

Sviando il problema, ovvero, riportando in capo allo Stato la competenza legislativa in materia di salute. Ma la effettiva e uguale tutela della salute non dipende dall’esercizio accentrato o condiviso della competenza legislativa, ovvero da chi e in che misura (Stato e/ Regioni) stabilisce contenuti e condizioni di quel diritto. La salute, come tutti i diritti che ‘costano’, non si garantisce, cioè, solo a parole, cristallizzandolo in una norma di legge di rango primario, ma diventa effettivo solo se si predispongono le condizioni per renderlo effettivamente fruibile, e per questo servono risorse adeguate, stanziate non solo a livello nazionale, ma anche locale. In mancanza di fondi e di modelli organizzativi efficienti, anche una sanità accentrata rischia di essere inadeguata alla domanda di prevenzione e cura dei cittadini utenti.

Questo è il problema un po’ di tutti i diritti sociali, giusto?

Certo. I diritti sociali sono diritti economicamente condizionati: se non ci sono risorse e fondi adeguati, la mera dichiarazione di volontà volta a voler garantire sia i LEP (livelli essenziali delle prestazioni) che i LEA (livelli essenziali di assistenza), a livello nazionale, e servizi di qualità a livello locale, rimangono ovviamente lettera morta. Questo è il problema principale.

Come si è intervenuto sul Titolo V?

La nuova riforma interviene redistribuendo le competenze legislative: con la modifica dell’articolo 117, comma 2 lettera m. Dove si dice che «nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ci sono disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare». Viene cancellata la competenza concorrente Stato – Regioni e la materia sanitaria passa, quindi, nella competenza legislativa di livello nazionale.

Che cosa ne pensa?

Innanzitutto va chiarita la portata delle parole. Non c’è scritto da nessuna parte che il diritto alla salute viene garantito in modo uguale su tutto il territorio, rimane solo la determinazione dei livelli essenziali. Ma un conto è dire che questi ci sono e un conto dire che esiste la garanzia reale e uguale del diritto alla salute. Sarà comunque lo Stato a stabilire quali sono questi livelli essenziali, in forza della previsione normativa di «disposizioni generali e comuni per la salute», ma questo non significa che si tornerà automaticamente alla situazione quo ante (che non era rosea), né che la situazione migliorerà necessariamente. Anzi. Questo è tanto più vero se andiamo a guardare cosa rimane nella competenza delle Regioni.

Cosa rimane dei poteri delle Regioni?

Tutta la parte della programmazione, dell’organizzazione dei servizi sanitari e sociali. Una parte di non secondaria importanza. Pensi all’organizzazione delle ASL, ai piani regionali in materia sanitaria, ma anche alla gestione del personal e dei presidi sul territorio. La qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie dipende primariamente da quest’attività di programmazione e organizzazione, che non è meramente esecutiva, ma influenzata dalle condizioni in cui versano le singole regioni.

Quindi nel ddl Boschi non si incide sulle risorse.

Esatto, in particolare sulla perequazione delle risorse e sulla garanzia reale del diritto: si legge di efficienza, ma non di equità e fruibilità concreta di servizi e prestazioni. È questo l’aspetto che manca e che è fondamentale per poter garantire che l’organizzazione dei servizi sanitari sia efficiente ed adeguata ai bisogno effettivi dei cittadini, e non condizionata alle risorse disponibili nei territori. È un po’ la stessa differenza che corre fra il progetto di massima e quello esecutivo in cui si stabiliscono tempi, materiali, risorse, fattibilità ecc.: se non c’è copertura sul secondo, il primo rimane sulla carta. Noi quindi per quanto riguarda l’organizzazione sanitaria e il rapporto Stato-Regioni continuiamo a cadere in questo tranello. Perché poi va chiarito un punto una cosa: già la Corte Costituzionale aveva limitato fortemente in questi anni l’ampiezza delle competenze legislative delle Regioni in materia sanitaria. Dove si continua a non a incidere è il problema economico e fiscale. Una fiscalità solidale ancora non c’è. Voglio proprio capire come faranno Regioni ricche e regioni povere a organizzare strutture e servizi sanitari in modo da adeguarli ad un alto e uguale livello nazionale di protezione dalla salute, senza alcun reale intervento economico dello Stato, anche e soprattutto sulla c.d. spesa storica che continua a gravare pesantemente sui bilanci regionali.

Perché?

L’articolo 119, quarto comma stabilisce :«le risorse derivanti di cui ai commi precedenti assicurano il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni». In mancanza di correttivi in senso equitativo, ciò continuerà a significare che le Regioni dovranno continuare a provvedere da sole a finanziare le funzioni loro affidate. In materia sanitaria ciò significa che le più povere, quelle che in origine registrano una maggiore incidenza di patologie e domanda di servizi sanitari, ma anche una capacità contributiva più debole, sono quelle che hanno meno risorse da investire in salute e prevenzione. Si registra, cioè, un rapporto inversamente proporzionale fra bisogni dei cittadini e risposta sanitaria. È in questi territori, infatti, che il picco della spesa sanitaria è molto più alto rispetto alle altre Regioni, non solo per il passivo accumulato nei bilanci o per la cattiva gestione, ma per un fatto evidente: la povertà, purtroppo, genera maggiore incidenza di patologie e di disagio anche sanitario, non solo sociale. E le Regioni più povere da sole non ce la fanno. Lasciare i territori più deboli in queste condizioni significa ostentare indifferenza alla reiterata violazione del diritto alla salute, se non mancanza di responsabilità di governo. Non è ammissibile su un problema che mette in gioco la vita delle persone vendere soluzioni ipocrite che giochino sulla vita di cittadini.

Cosa prevede la riforma costituzionale per evitare questo problema?

Non corregge il modello del federalismo asimmetrico, ma si limita a reiterare quel principio apodittico stabilito con la prima riforma del Titolo V per cui le Regioni a statuto ordinario, anche solo nei limiti delle nuove competenze in materia organizzativa e di programmazione sanitaria, che sono ahimè essenziali per l’effettivo godimento del diritto, devono vedersela da sole. Sul punto, anche la legge delega sul federalismo fiscale (n. 42/2009) aveva stabilito che il finanziamento delle spese per sostenere i LEP fosse commisurato ai fabbisogni – la cui quantificazione dovrebbe avvenire con riferimento ai c.d. “costi standard” in modo da garantire condizioni di efficienza e appropriatezza su tutto il territorio nazionale – e non alla spesa storica. Mentre sappiamo che sulla sanità è proprio la spesa storica a pesare e a reiterare l’esistenza di tanti sistemi sanitari quante sono le Regioni. Ma riforma ha preso in considerazione solo quest’ultimo aspetto dei costi standard e non quello dei bisogno effettivi, inserendo, sempre nell’articolo 119 Cost.:«Con legge dello Stato sono definiti gli indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle medesime funzioni». Significa che saranno stabiliti dei limiti di costo per le siringhe, per i guanti di plastica, per le varie tipologie di prodotti o di macchinari di cui si devono fornire gli ospedali secondo un criterio di efficienza di spesa e in relazione a fabbisogni astratti. Bene: è chiaro che devono essere previsti limiti di spesa e deve essere garantita una ragionevole uniformità dei costi standard per evitare sprechi e truffe, ma da solo l’efficientamento della spesa non risolve il problema della uguale garanzia del diritto alla salute nelle diverse Regioni. Qui occorre fare i conti non solo con i problemi di ottimizzazione finanziaria e trasparenza della spesa pubblica, ma quello originario della evidente di disparità fra risorse disponibili e qualità dei servizi, che non può essere colmata dalle sole economie sui costi e da fabbisogni condizionati alla spesa disponibile. Questa indicazione dei riferimenti di costo e di fabbisogno solletica molto alcuni dirigenti sanitari perché, ad una prima e superficiale lettura, sembra sollevarli da tante responsabilità gestionali, ma non è così: si troveranno a fare i conti con livelli di prestazioni e assistenza determinati dallo Stato e impossibili da garantire nei territori, a meno di elevare, nelle Regioni economicamente più deboli, un’imposizione fiscale già di per sé insostenibile per redditi medi molto più bassi, che caricherà maggiormente sui loro cittadini il costo di un diritto, quello alla salute, che più ogni altro, dovrebbe essere uguale per tutti. Insomma: una discriminazione a copertura di un’altra discriminazione. E, a tal proposito, c’è ancora domanda da porci.

Quale?

Se le Regioni non riusciranno a garantire il diritto alla salute nelle funzioni organizzative e di programmazione loro affidate, come si risolverà il problema? A livello istituzionale, molto probabilmente si alimenterà il contenzioso volto a chiarire dove finisca la competenza dello Stato nello stabilire i livelli uniformi di tutela della salute e dove inizi la competenza delle Regioni nel garantire prestazioni e servizi sul territorio. Non è escluso, anzi è prevedibile, che a fronte di norme nazionali che vorrebbero assicurare un certo standard uniforme di tutela della salute, non disponibile o riscontrato a livello locale, aumenti anche il contenzioso privato verso il personale medico e le strutture sanitarie. Perché in questo rischia di trasformarsi una riforma miope, che riconosce formalmente il diritto nelle leggi nazionali, ma non si preoccupa di garantire risorse e strutture per assicurare prestazioni e servizi adeguati in tutti i livelli locali.

Quale potrebbe essere la soluzione secondo lei?

Innanzi tutto, smetterla con le ipocrisie e le riforme di facciata: lo Stato non può limitarsi a scrivere le leggi a garanzia del diritto alla salute, senza prevedere adeguate risorse per la sua effettiva fruizione, senza discriminazioni, su tutto il territorio nazionale. E poi occorre finanziare adeguatamente il fondo perequativo in base ai bisogni reali dei cittadini e dei pazienti, non ad un algoritmo astratto di efficientamento della spesa.

Si continua a perseguire, anche in materia di politica sanitaria, una logica ‘turboliberista’ che si illude (o illude) di risolvere i problemi con l’imposizione di criteri economici improntati all’ “austerity” e all’ egoismo locale, senza rendersi conto che una democrazia che non investa sui diritti dei suoi cittadini è una democrazia svuotata del suo fine principale. Non siamo un’azienda che deve fare utili sulla salute e sulla vita, ma una società che si è posta come fine – proprio grazie alla Costituzione del ’48 – la tutela dei dignità e dei diritti fondamentali delle persone. Questa riforma li ha persi di vista e, incidendo sula seconda parte della nostra Carta, finisce per indebolire anche la prima parte sui diritti dei cittadini. Noi vorremo ribaltare la prospettiva e ribadire che la Costituzione non si può stravolgere, ma deve essere ancora attuata nei suoi snodi cruciali, a partire dai principi e di diritti fondamentali. Questo fondo perequativo se fosse stato attivato e finanziato adeguatamente avrebbe neutralizzato le diseguaglianze fra le regioni e garantito anche alle più deboli un equilibrato esercizio delle funzioni loro affidate dopo la riforma del Titolo V. Così non è stato e si pensato di risolvere il problema eliminando le competenze concorrenti delle Regioni, non dotandole dei mezzi e delle risorse necessarie per esercitarle pienamente, in forma compiuta, matura e responsabile.

Bisogna uscire delle ipocrisie. Questa, ad una attenta analisi, si svela essere la riforma dei proclami: non solo non si è voluto intervenire sul problema reale, ma la si è venduta la modifica di alcune norme del Titolo V come la panacea per tutti i mali della sanità. Nulla di più fasullo. A meno di non dover credere che, evidentemente, i problemi che si voleva risolvere fossero altri e non corrispondano, nella visione ‘riformatrice’, ai problemi di  prevenzione, cura e reale tutela della salute dei cittadini.

A Berlino si fa strada la coalizione delle sinistre. Preoccupa la destra “a due cifre”

epa05546462 Election staff empty the ballot boxes in the vote for the new Berlin House of Representatives in Berlin, Germany, 18 Septemeber 2016. EPA/MONIKA SKOLIMOWSKA

La Grosse Koalition cede il passo, il partito di Merkel affonda e Berlino potrebbe presto sperimentare il primo governo composto da forze di sinistra e verdi. Dopo il voto di ieri per il rinnovo del Abgeordnetenhaus – il parlamento della città-Stato – Spd, Linke e Grünen hanno i numeri per assumere la guida della capitale tedesca, sommando ben 92 seggi.

In un contesto dell’affluenza alle urne in aumento (66,9% contro il 60,2 del 2011), i grandi partiti storici della Germania perdono consensi come mai era accaduto dal dopoguerra: i socialdemocratici del sindaco Spd di Berlino Michael Müller calano di quasi sette punti ma restano la prima forza politica con il 21,6% e 38 seggi, mentre la Cdu di Angela Merkel è il secondo partito con il 17,6 e 31 seggi, ma anch’essa in flessione (-5,7%). I loro 69 seggi sono troppo lontani dagli 81 di maggioranza necessari nel parlamento berlinese, così si fa strada l’ipotesi rosso verde.
Il leader della Spd sigmar Gabriel con un tweet si congratula con il paritto locale e con il sindaco Miller perché – dice – la città resta sociale e umana, ma sta al suo partito adesso decidere se abbandonare la Cdu e cambiare la maggioranza che governa la capitale.

Il primo alleato dell’Spd potrebbe essere Die Linke, che è andata meglio del previsto ottenendo 27 seggi e 4 punti percentuali in più rispetto alle elezioni del 2011, il 15,6%. L’altro alleato potrebbero essere i Verdi tedeschi guidati da Cem Özdemir, che seguono  a breve distanza Die Linke con il 15,2% ottenendo lo stesso numero di seggi, 27. La leader della Linke, Katya Kipping, festeggia la vittoria e fa sapere che farà di tutto per avere una nuova maggioranza “a sinistra” per la capitale tedesca. «Perché – spiega Kipping – penso che in questo Paese non si possa più accettare il divario sempre maggiore tra ricchi e poveri né la crescita del razzismo. Penso che abbiamo davvero bisogno di sviluppare una nuova dinamica sociale. E questo include l’obiettivo di liberare veramente questo Paese dalla povertà».

Le preoccupazioni di Kipping sono rivolte ai populisti della destra xenofba di Afd, Alternative für Deutschland, che entrano per la prima volta nel parlamento berlinese dalla riunificazione delle due Germanie. Prima del voto, il sindaco di Berlino aveva avvertito che un risultato a due cifre di Afd sarebbe stato letto «in tutto il mondo come il segno del ritorno della destra e del nazismo in Germania». Forti ora del 14,1% dei consensi (meno di quanto si temesse ma comunque tanto), i dirigenti di Afd cantano vittoria e annunciano che quella di Berlino è soltanto una tappa di avvicinamento alla conquista del Bundestag. Due giorni prima del voto, a Lipsia è stata incendiata l’auto della leader del movimento di ultradestra, Frauke Petry, che ha subito puntato il dito sulla «violenza della sinistra» e che ora, alla luce del risultato elettorale, soffia sul fuoco e galvanizza i suoi chiedendo le dimissioni di Angela Merkel.

Il sesto partito è l’Fdp, la formazione liberale di centro-destra che con il 6,7% supera a sorpresa lo sbarramento al 5 ed entra nel parlamento berlinese, mai prima composto da così tanti partiti.

Pochi fondi per l’istruzione. Così condanniamo le nuove generazioni all’ignoranza

Il dato politicamente più significativo tra le cifre che spuntano dal rapporto annuale dell’OCSE sull’istruzione (Education at a glance 2016) è quello che certifica che i governi che si sono avvicendati in Italia negli ultimi dieci si sono distinti per una pervicace sottrazione di risorse all’istruzione pubblica. Infatti, il rapporto OCSE avverte che «in Italia, il livello relativamente basso della spesa pubblica per l’istruzione non è riconducibile al basso livello della spesa pubblica in generale, bensì al fatto che all’istruzione sia attribuita una quota del bilancio pubblico relativamente esigua». Una constatazione che trova conferma nel confronto sulla diffusione del fenomeno della disaffezione allo studio tra il nostro paese e realtà nazionali che soffrono particolarmente l’attuale crisi economica, come la Grecia e la Spagna. Da noi gli abbandoni precoci dai percorsi scolastici sono cresciuti molto più che altrove. Insomma, quelle misure che hanno impoverito la scuola italiana non sono state dettate da improrogabili necessità economiche ma da inequivocabili scelte politiche. C’erano e ci sono le condizioni per offrire un’istruzione di qualità e accogliente per chi è sventaggiato. Ma si è scelto di non farlo. Si è voluto ingolfare il principale motore della mobilità sociale nel nostro paese, cioè la scuola, rendendo l’impegno scolastico dei nostri ragazzi sempre meno determinante per il loro futuro. La conseguenza più grave di questa politica è la condanna delle nuove generazioni all’ignoranza, alla passività e alla povertà. Con la cosiddetta “Buona scuola”, poi, non c’è alcuna inversione di tendenza. Del resto, il documento di presentazione della “Buona scuola” conteneva l’ingannevole dichiarazione che nelle condizioni economiche attuali un’amministrazione statale non può permettersi di offrire l’istruzione a tutti i cittadini. Chi ha ideato questa “riforma” non è stato neanche sfiorato dal proposito di restituire ai nostri studenti le ore di scuola sottratte ad alcuni insegnamenti fondamentali dai tagli di Tremonti e di Gelmini. Una simile riparazione avrebbe significato invertire la rotta. Ma manca, appunto, la volontà politica. In linea con questa volontà distruttiva e con il pretesto di introdurre un sistema meritocratico, sono stati congelati gli scatti di anzianità, rendendo sempre più poveri gli stipendi degli insegnanti di scuola, impastoiati nelle aumentate incombenze burocratiche ed estenuati dalle accresciute cause di conflitto con colleghi e dirigenti. Nella più completa indifferenza di una classe dirigente responsabile del degrado culturale, sociale ed economico del nostro paese.

 

Perché Pisapia sbaglia. E bisogna votare No

(In senso orario da sinistra) Giuseppe Sala, commissario unico Expo 2015; il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, ll presidente del Consiglio Matteo Renzi e Livia Pomodoro presidente del tribunale di Milano a margine dell'incontro "Expo Milano 2015 - l'impegno continua", 10 novembre 2015. ANSA / MATTEO BAZZI

Giuliano Pisapia in un’intervista a Repubblica ha spiegato le ragioni per cui non se la sente di iscriversi al “fronte del NO” in vista del prossimo referendum sulla riforma costituzionale. Al netto degli elementi di merito rispetto al testo della riforma, che peraltro nel discorso di Giuliano appaiono assai marginali, nel suo ragionamento richiama la sinistra contraria alla riforma alla necessità di non esasperare gli animi in nome di una superiore necessità: l’unità del centrosinistra.

Prima di affrontare questo punto, che pure mi pare decisivo per discutere la tesi di fondo che Pisapia da tempo rilancia, voglio però soffermarmi sul merito della questione. Scompaiono nelle parole di Pisapia la quasi totalità dei punti maggiormente critici della Riforma. Non c’è traccia di una valutazione sull’impianto neo centralista della riforma che sottrae potere a regioni ed enti locali, nulla sul ruolo e sulla funzione del nuovo Senato né tantomeno sulla sua composizione non elettiva. La discussione sul carattere autoritario di una riforma che insieme alla legge elettorale ridisegna completamente la mappa dei poteri dello stato senza alcun equilibrio viene derubricata ad eccesso di propaganda. Ma l’assenza più sorprendente è quella di un ragionamento sul modello a cui guarda l’impianto della riforma e, forse più in generale, delle riforme di questo governo.

A me pare che con lo sviluppo e l’acuirsi della crisi sia andata affermandosi un’idea secondo la quale per governare al tempo della crisi serva una democrazia senza popolo, una democrazia a bassa intensità di partecipazione e possibilmente a zero intensità di conflitto. Del resto l’ormai datato ma attualissimo documento con cui, nel maggio del 2013, JP Morgan indicava nelle Costituzioni del sud Europa nate dalla liberazione dal fascismo uno degli ostacoli alla governance della crisi, ci dice più di qualcosa sugli interessi che si muovono attorno al tema delle cosiddette riforme di sistema. Così come ci dice molto il dibattito sulla governabilità e sul valore della stabilità. Termini a cui viene assegnata un’aurea salvifica in nome però di una sostanziale neutralità.

In questo senso e seppur con ragioni che, ne sono certo, sono lontanissime da quelle di chi come Marchionne o la Signora Merkel hanno in queste settimane esibito il loro appoggio alla Riforma proprio in nome della stabilità, il ragionamento di Giuliano non coglie l’essenziale. Si muove sul terreno, peraltro molto frequentato, che esclude la possibilità di una alternativa di fondo al quadro che abbiamo davanti. E dunque, di fronte all’assenza di una vera alternativa propone di concentrare le forze sulla mitigazione e sull’aggiustamento, punto per punto, delle politiche che hanno caratterizzato la stagione delle grandi o piccole coalizioni. Questo è il punto che a me pare centrale anche nella discussione sulla riforma della Costituzione. Mi pare cioè evidente che un intervento così massiccio sulla seconda parte della Carta serve a rendere più agevole la costruzione di politiche che mettano in discussione l’impianto della prima parte formalmente non toccata dal testo Renzi-Boschi.

Per queste ragioni la sfida referendaria è tutt’altro che uno scontro fratricida tra Guelfi e Ghibellini. È la sfida tra due diverse idee di democrazia e per questo è anche il terreno su cui una sinistra, che voglia riproporre le ragioni del conflitto tra alto e basso dalla società non può permettersi ambiguità.

Sindrome Argentina. Elsa Osorio: «Macri ferma le conquiste sociali»

epa05511491 Hebe de Bonafini, President of Plaza de Mayo Mothers Foundation, participates at the 'Marcha de la Resistencia (March of the Resistance)', in downtown Buenos Aires, Argentina, 26 August 2016. The Marcha de la Resistencia is carried out against the policies of President Mauricio Macri and the unemployment rising rates in the country. The march is planned to last 24 hours. EPA/David Fernández


Accade ogni giovedì pomeriggio dal 30 aprile 1977. Con un fazzoletto bianco annodato in testa, simbolo di una lotta pacifica mai combattuta ad armi pari, le Madri di Plaza de Mayo marciano di fronte alla Casa Rosada. In silenzio, per 30 minuti, intorno alla piramide su cui si affaccia il palazzo presidenziale, sono lì a mantenere viva l’attenzione verso la tragedia dei desaparecidos. La fine di un processo, la condanna dei responsabili, la ricostruzione della verità, la memoria, la giustizia per i loro figli rapiti, torturati, uccisi e fatti sparire, sono i pensieri “fissi” di queste donne oggi ultraottantenni. «Le pazze di Plaza de Mayo», così venivano apostrofate dai golpisti durante gli anni della dittatura civico-militare (1976-83), oggi sono tra coloro che lottano contro le politiche neoliberiste del presidente Macri. Alla marcia numero duemila, che si è svolta l’11 agosto, ha rischiato di non poter partecipare Hebe de Bonafini. Sulla storica leader delle Madri pendeva un mandato di cattura. È stato ritirato all’ultimo momento grazie alla rivolta spontanea di centinaia di persone che a Buenos Aires ne hanno impedito un arresto fondato su accuse inconsistenti.

Non è che l’ultima di una serie di azioni compiute per imbavagliare, intimidire, annichilire chi si oppone o è d’intralcio alla controriforma di Macri, definito da Bonafini come il nuovo «Mussolini, anzi, peggio, Hitler». Il pensiero corre a iniziative dell’attuale governo come l’arresto di Milagro Sala, parlamentare e attivista di Tupac Amaru in carcere da 200 giorni senza processo, ai licenziamenti di massa nel settore pubblico rivitalizzato dopo la crisi del 2000, ma anche al taglio dei fondi statali alle Nonne di Plaza de Mayo. Anni di conquiste sociali e civili polverizzati in pochi mesi, cosa sta accadendo in Argentina? Chiediamo alla scrittrice Elsa Osorio, autrice di un potente libro denuncia sui vent’anni dittatura, I vent’anni di Luz, mentre in Italia esce All’improvviso la verità edito da Castelvecchi che il 19 settembre viene presentato da Andrea Speranzoni alla libreria Coop Zanichelli di Bologna.

Nel suo Paese aveva preso avvio un importante lavoro di elaborazione della memoria. Rischia di essere interrotto dal presidente Macri?
Sì, credo che questo sia un rischio reale. Oltre a quelli già elencati ci sono altri indizi terribili. Ne posso citare uno, benché simbolico è più che inquietante: il 24 marzo, l’anniversario del golpe, è diventato ormai un movimento di massa. Gruppi politici e organizzazioni che si battono per i diritti umani continuano a ripetere nunca más, “mai più” ci sarà la dittatura. E io con loro. Fino a pochi mesi fa pensavo che non sarebbe più potuto accadere. Lo penso anche ora, ma quest’anno, nel quarantennale è stato invitato Obama. Un’offesa assoluta. Le dittature in America Latina e il Piano Condor, ordito dalla Cia, hanno a che vedere con gli Stati Uniti: come si è potuto invitare proprio il presidente Usa? La manifestazione è stata impressionante, forse ancor più degli anni scorsi. Alla fine Obama ha lanciato un fiore, assieme a Macri, sul Rio de la Plata, come omaggio ai desaparecidos gettati lì dai voli della morte. A me questa è sembrata una provocazione. Ci sono dei settori della società che parlano dei torturatori responsabili d genocidio come di poveri anziani maltrattati. Non credo che saranno liberati, perché nel Paese si è sviluppata una presa di coscienza importante, ma questi sintomi sono inquietanti e il pericolo esiste.

«Gli anni della dittatura sono stati un esilio interiore per me», lei dice a Cristina Guarnieri nel libro intervista All’improvviso, la verità. Come è riuscita a sopravvivere alla dittatura?
Fui licenziata per via della legge di sicurezza nazionale che non mi permise più di lavorare da nessuna parte, ma rimasi in Argentina. In quel contesto nacque quella che in seguito sarebbe stata chiamata la «cultura della vita parallela»: la gente studiava e faceva mille cose di nascosto. Fu un inferno. Io sono riuscita a sopravvivere non per qualche speciale ragione. Ho sempre avuto consapevolezza del fatto che sono una sopravvissuta. Sono viva,come moltissimi altri potevo esser già morta. Per questo ogni giorno della mia vita mi dico che non bisogna fermarsi fino a che tutti i colpevoli non saranno stati giudicati.

Quando Menem concesse l’indulto ai militari lei decise di trasferirsi in Spagna. Finita la dittatura fu una ferita anche vedere l’amnesia che il governo voleva imporre?
L’indulto per i criminali condannati durante la presidenza di Alfonsin, il primo governo democratico dopo sette anni di dittatura, fu insopportabile. Seguirono le leggi d’impunità che solo anni dopo divennero incostituzionali. Tuttavia l’Argentina è riuscita in qualcosa di cui mi sento orgogliosa: poter giudicare e condannare centinaia di genocidi. Eppure tutto questo è di nuovo in pericolo e di nuovo con un governo democratico.

In Spagna cominciò a lavorare a I vent’anni di Luz. La storia dei niños robados in Argentina trova un precedente sotto la dittatura franchista, quando in nome di Dio e della patria venivano tolti i figli alle repubblicane per darli a famiglie vicine al regime. Alla morte di Franco divenne un business gestito da suore. Che ne pensa?
Mi ha sempre stupito il fatto che pur avendo vissuto tanti anni in Spagna ho sentito parlare dei bambini rubati solo quando sono tornata in Argentina. Le due vicende sono abbastanza diverse ma con un punto in comune: questo crimine orrendo del furto dei bambini. In Spagna una tragedia è stata trasformata in un commercio che ha arricchito anche la Chiesa. In Argentina la Chiesa fu assolutamente compiacente con la dittatura, tanto che l’ambasciatore vaticano Pio Laghi disse una volta alle Nonne di Plaza de Mayo: «Non preoccupatevi, signore, le famiglie che hanno i vostri nipoti hanno pagato molto bene, per cui i bambini staranno molto meglio con loro di come sarebbero stati con i vostri figli sovversivi».

 

Desaparecidos, Bergoglio apre gli archivi ( ma solo a metà)

Tra i Paesi latinoamericani che negli anni 70 hanno vissuto il terrore della dittatura, l’Argentina è quello in cui una volta ristabilita la democrazia (1983) i golpisti si sono sentiti meno al sicuro. Dopo la lunga parentesi determinata dalle leggi di Punto final (1986) e Obediencia debida (1987), e dagli indulti firmati dal presidente Carlos Menem nei confronti dei militari condannati dal suo predecessore Alfonsin, norme poi decadute nel 2005 perché incostituzionali, la giustizia ha ripreso a lavorare con il sostegno dell’opinione pubblica, condannando centinaia di genocidi della “guerra sporca”. Ancora oggi sono in corso molti processi sull’appropriazione di bambini e contro i principali responsabili del golpe. Diversa è la questione che riguarda la verità sulla sorte di quasi 30mila desaparecidos. Dove sono i corpi, quando e come sono morti, chi li ha uccisi? Si tratta di crimini contro l’umanità e sono domande in troppi casi senza risposta. Molti dei tasselli che mancano sono custoditi negli archivi segreti della Santa Sede e della amministrazione Usa che tramite la Scuola delle Americhe a Panama ha formato 60mila militari sudamericani, iniziandoli alle più efficaci tecniche di repressione, spionaggio militare, interrogatori e torture. Bergoglio, da papa, ha espresso a più riprese l’intenzione di aprire alla consultazione gli archivi vaticani. Stando alle dichiarazioni ufficiali è solo questione di tempo. «C’è un lavoro di catalogazione in atto e si prevede che possa essere completato nei prossimi mesi, dopo di che si studieranno i tempi e le condizioni di consultazione» ha annunciato padre Federico Lombardi a marzo 2016. Cosa c’è scritto in quelle carte? Chi potrà consultarle? Una figura chiave è Pio Laghi, il nunzio vaticano a Buenos Aires dal 1 luglio 1974 al 21 dicembre 1980. «Ancora non è chiaro se la Santa Sede aprirà solo gli archivi della nunziatura a Buenos Aires, oppure anche quelli di altre nunziature che contengono informazioni sul periodo della dittatura» racconta a Left Luis Badilla, direttore del sito di informazione religiosa “Il sismografo”, che ha scavato a fondo nelle carte delle diocesi argentine e nella corrispondenza privata di Laghi. «Il nunzio – prosegue Badilla, interpellato in occasione di un incontro sul tema organizzato alla Fondazione Basso dall’associazione 24marzo – mandava in Vaticano i suoi rapporti sulle persone scomparse. Esiste una lista di circa 5mila nominativi». I familiari si rivolgevano sempre in chiesa per avere notizie e tramite i vescovi Laghi riceveva i nomi delle persone la cui sorte era sconosciuta. Dopo di che girava la domanda al ministro dell’Interno: che fine hanno fatto? «Spesso la risposta è stata “di questo non sappiamo nulla” oppure “ci risulta all’estero”». Parole di ghiaccio dietro cui si celavano le sparizioni forzate, che Laghi diligentemente ha annotato nei suoi dispacci ufficiali. Il 24 marzo il presidente Obama ha consegnato al suo omologo Macri alcuni archivi desecretati della Cia. Negli Stati Uniti i documenti declassificati vengono consegnati alla stampa, come si regolerà il Vaticano? «Con ogni probabilità – racconta Bonilla – saranno dati in versione cartacea e digitale alla magistratura argentina, eventualmente al governo, probabilmente a organizzazioni di diritti umani tra cui le Nonne di Plaza de Mayo. Ma non ai giornalisti. La Santa sede non avrà rapporti diretti con i media. La questione è oggetto di trattative in questi mesi. Le carte saranno consegnate solo a chi ne farà un uso legittimo e utile». Via il segreto ma a piccole dosi, il diritto di cronaca su dei crimini contro l’umanità per il Vaticano può essere letale. ( Federico Tulli)

 

 

Rema

TUTTE LE VIGNETTE

L’arancione è il partito del “ni”

Giuliano Pisapia alla presentazione del programma elettorale di Giuseppe Sala al Teatro Franco Parenti di Milano, 19 marzo 2016. ANSA/STEFANO PORTA

Avrebbero dovuto essere il fiore della sinistra che doveva cambiare il Paese: l’onda arancione, ci dicevano, sarebbe stata la marea positiva che si sarebbe portata via il vecchio e avrebbe concimato il nuovo. Dico, ma ve la ricordate la speranza su Zedda, Pisapia, Doria e De Magistris (quest’ultimo, tra l’altro sempre sbertucciato dagli altri in nome di una diversità antropologica che forse con il senno di poi non è mica tanto sbagliata). Arancione vivo che poi negli anni è diventato rosso stinto.

Andiamo con ordine: ieri Giuliano Pisapia rilascia un’intervista in cui ci dice di non avere ancora deciso cosa votare al referendum sulla riforma costituzionale. Un’intervista che segna una svolta nella comunicazione politica: la dichiarazione di cosa non si pensa spiattellata su un quotidiano nazionale. Pisapia, insomma, ci insegna cosa NON è vero. E si accoda a Bersani (che si sta lasciando andare a riti vodoo in attesa di decidere cosa deve decidere), a Speranza (che dice che oggi voterebbe no ma chissà come si sveglierebbe domani) e poi agli altri non pervenuti come Zedda e Doria.

Stupisce? No, per niente. Per caso qualcuno ha avuto modo di sapere cosa ne pensino gli “arancioni” di jobs act, buona scuola e tutte le ultime riforme? Dati non disponibili, come nelle stazioni meteo più sperdute che sembra non interessino a nessuno.

Quelli che dovevano essere rivoluzionari nel tempo sono diventati perfetti democristiani di sinistra. O democristiani sinistri, forse. Hanno imparato in fretta la lezione della politica moderna: non prendere posizione è il prerequisito obbligatorio per riuscire ad autopreservarsi. E se è vero che questo atteggiamento ce lo aspetteremmo (e ce lo aspettiamo) tra i moderati al governo rimane la delusione per questi che avevano in mano un capitale politico che in fondo appartiene a molti.

Che peccato sentire balbettare lì dove avrebbe dovuto accendersi la miccia. Chi l’avrebbe detto che avremmo visto Pisapia a braccetto con la Boschi (e Verdini sullo sfondo)? Più d’uno l’avrebbe detto. A pensarci bene.

Buon lunedì.