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Opposizione al cubo: quelli del PD che sono contro le riforme che hanno votato.

Bello, tutto bene, per carità. Ma chissà che ne dicono Civati, Mineo, Fassina o D’Attorre che dal PD si sono presi la briga di uscire quando sarebbe bastato restarci per fare la minoranza nella sua nuova versione: contro se stessa. Sì perché Tocci è entusiasta di comunicarci che è riuscito a racimolare una decina di parlamentari che voteranno contro la riforma Boschi al prossimo referendum sulla costituzione.

«Mi fa molto piacere pubblicare qui il documento sottoscritto in tal senso da dieci parlamentari democratici: Corsini, Dirindin, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ricchiuti, Tocci, al Senato; Bossa, Capodicasa, Monaco alla Camera.», scrive Tocci sul suo sito esultando per la sua sporca decina di dissidenti. Bello, tutto bene, per carità, ma nel voto finale di quella mostruosa riforma solo Tocci aveva votato contro. Solo lui. E, a ben vedere, Corradino Mineo che per coerenza se n’è andato. Il resto sono smemorati, convertiti, illuminati, distratti, improvvisamente coraggiosi, fulminati o semplicemente (banali) strateghi.

Il voto in Parlamento ormai è considerato un incidente di percorso: gente che ci tritura per votare l’Italiacum e poi ci dice che non va mica bene; gente che vota la fiducia zerbina al premier per poi dimettersi dalla vigilanza Rai; antirenziani che diventano renziani e oggi di nuovo antrenziani; pentiti di essersi pentiti di non essersi pentiti di asservirsi a Renzi. Opposizione al cubo: un’opposizione che si oppone a se stessa.

E, notate, sono gli stessi che urlavano al Civati (o al Fassina o al Mineo di turno) di andarsene. E poi sono rimasti lì, nel PD. Però contro, eh. È che non si capisce più: contro chi?

Buon venerdì.

Le dee di Olimpia, le atlete che hanno fatto la storia dei Giochi

nuoto la squadra femminile inglese. olimpiadi 1912

Nell’antica Grecia le donne erano ammesse ai giochi, eccezionalmente, alla corsa dei carri. Ma ” non direttamente a bordo del carro a condurre i cavalli, ma come finanziatrici dell’auriga e talvolta come allenatrici dei ronzini”, scrive Francesco Gallo ne Le dee di Olimpia (Ultra) che ricostruisce la storia della partecipazione femminile ai giochi. Osteggiata dal barone Pierre de Coubertin che avrebbe voluto tenerle fuori.Tanto che la prima edizione dei Giochi dell’era moderna che si svolsero ad  Atene nel 1896 fu tutta la maschile. Ma già le prime femministe si erano attivate e da allorora fino alla 31esima edizione dei Giochi che si aprono il 5 agosto a Rio, le donne si sono fatte sempre più spazio, in moltissime discipline.  Ne Le dee di Olimpia lo storico Gallo racconta  alcune delle più  grandi figure femminili che hanno fatto la storia delle Olimpiadi e dello sport. A cominciare dalla greca  Stamàta Revithi, che benché esclusa da de Coubertin percorse lo stesso tragitto degli uomini nella maratona, tagliando il traguardo solo un’ora dopo il vincitore.  Ai  giochi del 1900 e e del 1908 poi incontriamo alcune interessanti golfiste e tenniste.  Come la leggendaria  Charlotte Cooper che vinse per la prima volta a Wimbledon nel 1895 e bissa il successo l’anno dopo quando il tennis approda per la prima volta alle olimpiadi di Atene.  Giocò la sua ultima partita nel 1912, alla “veneranda” età di 42 anni, essendo diventata nel frattempo quasi completamente sorda.

Charlotte Cooper
Charlotte Cooper

 

Con la guerra furono le donne a sostituire in gara gli uomini  che erano al fronte e da quel momento la loro presenza fu sempre più massiccia. Basta pensare alle mitiche sirene di Stoccolma e alle flappers le donne emancipate dei ruggenti anni Venti.  Grande narratrice per immagini dei Giochi fu poi la regista Leni Riefenstahl. Ex ballerina costretta al ritiro anticipato per una lesione al menisco fu la regista de La montagna dell’amore, il film che uscì nelle sale esattamente dieci anni prima delle Olimpiadi del Führer, che la invitò a partecipare ai progetti della Camera Cinematografica creata dal dal suo ministro della cultura e della propaganda e le commissionò il documentario sulle Olimpiadi di Berlino:  un film  esaltava l’agonismo e e la competizione sul piano della forza e del vitalismo in chiave di propoganda nazista.  In Italia già con il futurismo si vedono le prime donne nelle vesti di piloti, e atlete mascolinizzate, per andar dietro al delirante messaggio di Marinetti, “la guerra igiene del mondo”. E Mussolini fece sua questa ideologia ginnica, pur pensando che le donne dovevano stare a casa a cucinare e fare figli.  protagonista di quella sciagurata stagione fu  Trebisonda Valla, detta Ondina, campionessa olimpica degli 80 metri ostacoli a Berlino 1936 e prima donna italiana a vincere una medaglia d’oro ai Giochi olimpici. Ondina si allenò in silenzio per quattro anni per farsi trovare pronta all’appuntamento con la storia. Davanti alla cinepresa della Riefenstahl inscenò una finale epica con l’amica e rivale di sempre, Claudia Testoni, la quale però rimase fuori dal podio, mentre Ondina mandò in tilt il primo cronometraggio fotoelettrico brevettato dallo svizzero Tissot che decretò la sua vittoria per un centesimo appena di vantaggio sulla canadese Elizabeth Taylor (omonima) e la tedesca Steuer.

Ondina Valla
Ondina Valla

Così si combatte il terrorismo nelle carceri

Un fermo immagine tratto da un video trasmesso da LiveLeak mostra Abu Musab al-Barnawi, portavoce di Boko Haram, indicato dall'Isis come nuovo leader del gruppo terrorista islamico nigeriano. 3 agosto 2016. ANSA/ LIVELEAK.COM +++ NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Come si sta muovendo l’Italia sul fronte della prevenzione del terrorismo? E nelle carceri, dove il fenomeno della radicalizzazione potrebbe sorgere più che altrove? Un quadro della situazione l’ha offerto ieri Andrea Orlando durante l’audizione al Comitato parlamentare sull’attuazione dell’accordo di Schengen che si occupa di vigilanza in materia di immigrazione. Da una parte il ministro della Giustizia ha reso noto quello che era più che un sospetto: e cioè che a dirigere il traffico di migranti vi sono anche uomini dell’Isis «che svolgono azioni di controllo e di indirizzo nella gestione dei flussi migratori verso l’Italia provvedendo anche a dare direttive sui criteri di distribuzione in Italia dei migranti». Ma Orlando non si è spinto oltre per il «segreto investigativo gravante sulle attività». Invece ha parlato dell’attività di prevenzione nelle carceri, il luogo in cui è più facile fare proselitismo da parte delle cellule jihadiste. Un fenomeno che si è visto anche nei casi dei terroristi che hanno operato in Francia nell’attentato al Bataclan. Anche soggetti che si trovano detenuti per reati comuni  è stato dimostrato che i carcere possono cadere facilmente nella rete di predicatori fondamentalisti. Il ministro ha ricordato più volte che esiste un’azione di coordinamento che fa capo alla Superprocura antimafia che dall’aprile 2015 ha anche i compiti di contrastare il terrorismo e anche la sinergia in atto tra ministero della Difesa e ministero dell’Interno. «Abbiamo avviato una intensa attività nelle carceri con lo scopo di analizzare, neutralizzare e contrastare quella zona grigia di proselitismo del terrorismo di matrice jihadista che fa presa soprattutto sulla seconda generazione di immigrati», ha detto Orlando. Al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è stato predisposto un apposito servizio di coordinamento per le informazioni che giungono dai vari penitenziari, per il collegamento con le forze di polizia e per l’accesso alle banche dati nazionali ed estere Quest’ultime sono fondamentali per la lotta al terrorismo così come la condivisione dei dati, ha sottolineato Orlando. Sapere per esempio che un soggetto che si trova in carcere per reati comuni in Italia, ma che in un altro Paese ha avuto condanne per terrorismo, serve per prevenire qualsiasi sua azione a contatto con altri detenuti. Nelle carceri italiane, vi è comunque una rigorosa separazione dei detenuti, gli integralisti sono isolati. Il fenomeno della radicalizzazione in carcere va poi monitorato costantemente, in modo da intervenire d’urgenza. Per esempio, può anche capitare, continua Orlando, che un detenuto “a rischio” una volta trasferito in un altro penitenziario, circondato da altri compagni, non scivoli più nella spirale jihadista.
Con la premessa che «il monitoraggio in Italia non è così allarmante», Orlando ha fatto il quadro della situazione dei detenuti «interessati al fenomeno della radicalizzazione». Sono 345, di cui 93 sospettati, 99 hanno dimostrato approvazione per gli attentati dell’Isis, 153 sono a forte rischio e 39 sono detenuti di Alta sicurezza, imputati per reati di terrorismo. I detenuti che provengono dai paesi di fede musulmana sono 10.500 mentre quelli praticanti sono 7500. A questo proposito, proprio per stroncare qualsiasi sentimento di vendetta, «per creare gli anticorpi contro l’odio sociale e religioso», Orlando ha parlato anche del fatto che debba essere garantito l’esercizio del culto ai detenuti, stipulando accordi con associazioni e comunità musulmane. In sostanza, ha concluso la sua relazione il ministro, la lotta al terrorismo è una «prova per l’Europa democratica», ci sono scelte urgenti da fare politicamente , scelte però che non prevedano «un appesantimento repressivo». La strategia invece è quella di badare all’efficacia effettiva degli interventi con analisi, monitoraggio e cooperazione. Magari con una procura europea forte, ha sottolineato il ministro.

Cosa si rischia offrendo le basi agli Usa?

Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, durante il question time, nell'aula della Camera dei Deputati, Roma, 3 agosto 2016. ANSA/GIORGIO ONORATI

«Adesso saremo costretti a fornire la nostra base di Sigonella dove sono presenti una dozzina di droni e di caccia americani. Bel colpo», scrive Fini, «adesso dovremo attenderci anche in Italia attacchi dell’Isis che più viene colpita in Medio Oriente e più, logicamente, porta la guerra in Europa». La speranza è che abbia torto Massimo Fini che sul Fatto Quotidiano dà forma alle paure dei più. Una nera premonizione che però ben sintetizza anche le reazioni di alcuni parlamentari d’opposizione, scattati in piedi quando la ministra Roberta Pinotti ha detto in aula che l’Italia – che già con l’Europa partecipa alla missione di pianificazione civile Eubam, appena prolungata di un anno – è pronta a fornire le basi per i raid Usa, su Sirte e gli obiettivi Isis. Due basi, in particolare, quella di Sigonella, appunto, e quella di Aviano. «Una follia: ci faremo percepire come nemici della Libia», dice ad esempio Alessandro Di Battista wannabe ministro degli Esteri 5 stelle, che si chiede: «oggi ha senso per noi prendere posizione, dare le basi militari e magari ricompattare una serie di fazioni contro il nemico occidentale?».

La domanda è retorica, ma è anche fondata, perché se il disinteresse che sembra proporre Fini, un terzismo pacifista, sembra un via difficilmente percorribile quando il nemico è alle porte, del piano del governo non si sa nulla, né si conoscono le valutazioni sui presupposti. Si sa solo che tra il 1 e il 3 agosto gli Usa hanno dichiarato di aver colpito diversi mezzi jihadisti. Ma quali sono le forze in campo, che affidabilità ha il premier Serraj, portato a Tripoli dagli occidentali, che gioco sta facendo il generale Haftar, che comanda un suo esercito ed è appoggiato da Egitto e Francia, che così sarebbero sul fronte opposto al nostro? È vero poi che da Sigonella sono già partiti, prima della comunicazione all’Aula, droni americani armati? Pinotti per ora conferma solo che «eliminare le centrali terroristiche dello Stato islamico in Libia è di fondamentale importanza per la sicurezza del Paese nordafricano, ma anche dell’Italia».

Sono domande, dunque, a cui né Pinotti né Renzi danno approfondite risposte. Renzi è in Brasile per le Olimpiadi – magari ci dirà al ritorno. E se l’Arci nota come la missione Odyssey Lightning condotta dagli Stati Uniti (e dell’Italia) è «l’ennesima iniziativa militare portata avanti senza un chiaro mandato delle Nazioni Unite e senza il consenso della maggioranza delle parti locali», le domande a cui si deve rispondere trovano spazio anche nel centrodestra. Forza Italia siciliana si dice preoccupata per l’isola, così più esposta. La paura si è insomma fatta strada. Paura o consapevolezza fiera – come quella ostentata dal Foglio – «siamo pronti all’inesistenza del rischio zero?». Tra le espulsioni degli ultimi giorni, le minacce neanche troppo velate di Erdogan secondo cui Mogherini avrebbe tifato per i golpisti, e le basi per la Libia. Siamo pronti a una guerra, che potrebbe arrivare in casa, in questa forma così spaventosa?

Mafia. Arrestato il senatore Stefano Caridi

Antonio Stefano Caridi abbandona l'aula dopo il risultato del voto alla domanda di autorizzazione all'esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip nei suoi confronti, nell'ambito di un procedimento penale per associazione mafiosa, Roma, 4 agosto 2016. ANSA/GIORGIO ONORATI

Perché un senatore non dovrebbe essere arrestato per mafia e qualunque altro cittadino invece sì?
L’interrogativo ha sangue e sudore, quelli di Stefano Caridi, accusato di far parte di una super struttura della ’ndrangheta e dunque destinatario di un provvedimento che ne dispone la custodia cautelare, vale a dire l’arresto immediato. Ma Caridi è senatore e il Senato ha discusso per l’intera giornata, con le valigie con dentro il costume da bagno già ammucchiate in portineria, se si dovesse o no concedere l’autorizzazione all’arresto. Citerò solo la senatrice Fucksia, che fu eletta, caposlista per il Movimento 5 stelle, nella regione Marche, e che in seguito si è allontanata dal movimento. Ha detto Serenella Fucksia: questo Caridi potrebbe essere innocente, dunque evitiamogli la tortura della carcerazione preventiva. Ecco il punto, perché, se accusati (anche) ingiustamente di far parte della ’ndrangheta, Caridi, Mineo, Fucksia dovrebbero evitare il carcere, mentre un magistrato, un farmacista o un giornalista, colpiti dalle medesime accuse, no? L’immmunità parlamentare, come d’altronde il vitalizio, fuono previsti in un tempo nel quale essere deputato o senatore comportava un rischio. Nessun imprenditore avrebbe dato un lavoro a un operaio entrato in Parlamento come comunista. E non pochi gruppi di potere avevano interesse a infangare, con false accuse, un parlamentare che si fosse battuto per il piano regolatore in un tempo in cui le mafie ingrassavano con il sacco delle nostre città. Oggi, al contrario, ciascuno citerebbe il suo mandato da senatore come credenziale per trovare lavoro. E pochi deputati rischiano qualcosa per via della loro abilità. Cara Serenella Fucksia, capisco il tuo rifiuto di certa becera propaganda a 5 stelle, ma concedere l’autorizzazione all’arresto di Caridi è solo un modo per dire che il cittadino parlamentare vale quanto tutti gli altri. Senato e Camera conmbattano con buone leggi la giustizia sommaria che talvolta abusa dei cittadini. Questo è il loro compito, non quello di proteggere i componenti di Camera e Senato, come se fossero una casta di intoccabili.

Turisti occidentali feriti, aumenta il caos in Afghanistan

In Afghanistan questa volta ad essere stati colpiti sono stati gli occidentali. Intorno alle 13 di Chesht-e-Sharif, il distretto afghano vicino al confine con l’Iran, un gruppo di turisti occidentali è rimasto vittima di un assalto da parte di un commando di uomini armati di cui, al momento, risulta ignota l’appartenenza politica.
Si tratta di otto britannici – secondo il Guardian due sarebbero scozzesi – tre statunitensi e un tedesco. Le vittime dell’assalto, nessuna delle quali ha riportato lesioni gravi, viaggiavano lungo la strada che collega Herat, la città fondata da Alessandro Magno, al sito archeologico di Bamyan, distrutto dai taliban nel 2001 e considerata dall’Unesco patrimonio dell’umanità.

Il sito archeologico prende il nome dalle due imponenti statue di Buddha sbozzate direttamente nella montagna e si trova a 230 km da Kabul e che furono fatte saltare dai fondamentalisti. Quella regione, centro culturale e turistico dell’Afghanistan, è controllato dal governo ombra dei Taliban che secondo alcune fonti locali potrebbero essere gli autori dell’imboscata. Qualora fosse davvero opera dei talebani, l’attacco di oggi confermerebbe il rapido sgretolarsi delle già delicate condizioni di sicurezza del Paese. Lunedì, infatti, a Kabul i talebani hanno fatto esplodere un camion all’ingresso di un hotel della capitale che ospita contractors stranieri, mentre ad Helmand, la regione al confine con il Pakistan, sono riusciti a riconquistare diverse porzioni di territorio. Le forze taliban si sono avvicinate alla capitale della regione Lashkar Gah, provocando la reazione delle autorità afghane che hanno chiesto agli Stati Uniti di intensificare la propria azione sul territorio.

Gli attori sul campo di guerra afghano sono tre. Mentre i talebani cercano di colpire obiettivi strategici per togliere terreno alle forze di governo e ai loro alleati stranieri, l’ISIS cerca di seminare il terrore tra la popolazione e di destabilizzare le già precarie condizioni di sicurezza e stabilità del Paese. Lo scorso 1 agosto i terroristi di Daesh hanno fatto 80 vittime a Kabul, in quello che è considerato il più grave attentato degli ultimi 15 anni. Dal canto loro le forze straniere, nulla possono nell’arginare il conflitto civile ed interetnico che sta divorando le risorse e gli equilibri del paese. Nonostante Obama abbia dichiarato il mese di voler lasciare 8,900 dei suoi uomini in Afghanistan fino al 2017, il territorio controllato dalle forze governative si riduce sempre di più. Secondo l’ex presidente Karzai, alleato degli Stati Uniti nella transizione post-talebana originata dalla guerra del 2001, gli statunitensi dovrebbero abbandonare il paese o concentrarsi su quelle forze – soprattutto pakistane – che sostengono i talebani. La triangolazione del conflitto interno afghano aumenta quindi il caos senza lasciar intravedere alcuna risoluzione politica o militare definitiva.

Mentre resta da capire la dinamica e le ragioni dell’attacco di oggi che nessuno ha ancora rivendicato, il Guardian ricostruisce l’ incauta avventura delle sue vittime. Il viaggio dei turisti occidentali era stato organizzato da una compagnia inglese che da anni offre tour turistici del paese flagellato dalla guerra. Le compagnie sono in realtà sono tante, ma la maggior parte ha sospeso le proprie attività di touring a seguito del deteriorarsi delle condizioni di sicurezza. Nonostante i richiami alla prudenza, i turisti continuano a visitare Bamiyan, le sue montagne e alcune delle regioni storicamente controllate dai talebani. Secondo alcuni dati ufficiali, tra il 2014 e il 2015, i visitatori del sito archeologico e dell’aerea circostante sono aumentati. 144 stranieri e oltre 2000 afghani – moltissimi provenienti dalla capitale – si sono incamminati per quelle stesse strade dove oggi come in passato i viaggiatori sono rapiti o brutalmente attaccati dalle forze in lotta per il controllo del territorio.

Pena di morte. Maglia nera a Cina Iran e Arabia Saudita. Il caso Turchia

Andy Warhol, sedia elettrica

La battaglia per i diritti umani e per l’abolizione per la pena di morte  registra un passo avanti  nel 2015 e nei primi sei mesi del 2016. I Paesi che mantengono la pena di morte sono progressivamente diminuiti nel corso degli ultimi dieci anni:  il 30 giugno 2016 risultavano scesi a 38, rispetto ai 54 nel 2005.

L’anno scorso le nazioni che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati 25, rispetto ai 22 del 2014 ( e ai 26 del 2008).

Il dato positivo e incoraggiante è che 160, fra Paesi e territori,  hanno deciso di abolire la pena di morte. Di questi, quelli totalmente abolizionisti sono 104, gli abolizionisti per crimini ordinari sono 6, mentre quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 6.  Quanto ai Paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 44.
Questo però vede per contrasto l’aumento delle esecuzione in Iran e in Arabia Saudita, mentre sono riprese in Ciad. Lo documenta il rapporto di Nessuno tocchi Caino, che dedica il premio abolizionista del secolo alla memoria di Marco Pannella.

Volendo osservare più a fondo il quadro internazionale, “va rilevato che nel 2015 ci sono state 2400 esecuzioni in Cina. In Iran almeno 970, tante in rapporto alla popolazione. Il terzo Paese boia nel 2015 è stato il Pakistan: sono state 326 le esecuzioni compiute”, ha detto Elisabetta Zamparutti presentando il Rapporto appena pubblicato.

Ancora nella prima parte del 2016 troviamo in vetta a questa macabra classifica la  Cina, l’Iran e Arabia Saudita.  Da rilevare anche che in America sono “i democratici” Stati Uniti a farsi paladini della pena di morte.  Sono già 14  le esecuzioni nei primi sei  mesi del 2016.

Quanto all’Africa sono 66 le esecuzioni compiute da Somalia, Egitto, Ciad, Sudan.

In Europa solo la Bielorussia ha mandato a morte una persona, mentre in Russia è in atto una  una moratoria sulla pena di morte.

 Un grave passo indietro nella lotta contro la pena di morte si registra invece nella Turchia di Erdogan che minaccia di volerla  ripristinare.  In una intervista televisiva il presidente turco ha detto che “il popolo la vuole”, dichiarandosi pronto a firmare qualora il Parlamento ne proponga il ripristino. In questo modo inviando messaggio alla nazione che mima una dialettica democratica.

In Turchia la pena di morte era stata abolita nel 2004, e poi cancellata dalla legislazione ordinaria. ” In passato la Turchia ha ratificato tutti i trattati contro la pena di morte del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite.  Come farà ora Erdogan a dismettere tutto questo apparato giuridico?” si domanda Zamparutti di Nessuno tocchi Caino, auspicando una reazione internazionale.

Ecco  le cifre in dettaglio pubblicate da Nessuno Tocchi Caino:  Nel 2015, le esecuzioni sono state almeno 4.040, a fronte delle almeno 3.576 del 2014, mentre erano state almeno 5.735 nel 2008. Il significativo aumento delle esecuzioni nel 2015 rispetto al 2014 si giustifica con l’incremento registrato in Iran, Pakistan e Arabia Saudita.
Nei primi sei mesi del 2016, almeno 1.685 esecuzioni sono state effettuate in 17 Paesi e territori.
Nel 2015, non si sono registrate esecuzioni in 3 Paesi – Bielorussia, Guinea Equatoriale e Palestina (Striscia di Gaza) – che le avevano effettuate nel 2014. Nei primi sei mesi del 2016, non si sono registrate esecuzioni in 7 Paesi – Ciad, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania, India, Indonesia e Oman – che le avevano effettuate nel 2015.
Viceversa, 5 Paesi, che non avevano effettuato esecuzioni nel 2014, le hanno riprese nel 2015: Indonesia (14), Ciad (10), Bangladesh (4), Oman (2) e India (1). Altri 3 Paesi, che non avevano effettuato esecuzioni nel 2015, le hanno riprese nel 2016: Botswana (1), Bielorussia (1) e Palestina (Striscia di Gaza) (3).
Anche se non è possibile confermarlo, è probabile che esecuzioni “legali” siano avvenute anche in Siria nel 2015 e in Corea del Nord, Siria, Sudan, Vietnam e Yemen nei primi sei mesi del 2016.
Nel 2015 e nei primi sei mesi del 2016, altri 6 Paesi hanno rafforzato ulteriormente il fronte a vario titolo abolizionista: Costa d’Avorio, Figi, Mongolia, Nauru e Suriname hanno abolito totalmente la pena di morte; lo Zimbabwe ha superato i dieci anni senza effettuare esecuzioni e quindi può essere considerato un abolizionista di fatto.
Negli Stati Uniti, nel maggio 2015 il Nebraska è diventato il diciannovesimo Stato della federazione ad abolire la pena di morte e il settimo a farlo negli ultimi otto anni. In altri quattro Stati – Washington, Colorado, Pennsylvania e Oregon – i Governatori hanno sospeso le esecuzioni a causa degli evidenti difetti che connotano il sistema capitale.
Nel 2015 e nei primi sei mesi del 2016, ulteriori passi politici o legislativi verso l’abolizione o la moratoria di fatto della pena capitale si sono verificati in 43 Paesi.
In 5 Paesi – Burkina Faso, Corea del Sud, Guinea, Kenya e Uganda – sono state annunciate o proposte leggi per l’abolizione della pena di morte nella Costituzione o nei codici penali, mentre il Vietnam ha ridotto il numero di reati capitali.
Altri 8 Paesi – Guyana, Laos, Liberia, Malawi, Niger, Sierra Leone, Tagikistan e Tailandia – hanno accettato raccomandazioni o annunciato passi verso l’abolizione della pena di morte in sede di Revisione Periodica Universale del Consiglio dei diritti umani dell’ONU.
Altri 12 Paesi hanno confermato la loro politica di moratoria di fatto sulla pena di morte o sulle esecuzioni in atto da molti anni: Bahrein, Comore, Eritrea, Etiopia, Libano, Marocco, Papua Nuova Guinea, Qatar, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Tunisia e Zambia.
Nella Regione dei Caraibi, in 6 Paesi – Belize, Cuba, Dominica, Giamaica, Guatemala e Saint Lucia – non sono state comminate nuove condanne a morte e i bracci della morte erano ancora vuoti alla fine del 2015. In altri 5 Paesi della Regione dei Caraibi – Antigua e Barbuda, Bahamas, Grenada, Saint Kitts e Nevis e Saint Vincent e Grenadine – non sono state comminate nuove condanne a morte e i condannati nei bracci della morte erano poche unità.
Inoltre, commutazioni collettive di pene capitali o sospensioni di esecuzioni a tempo indeterminato sono state decise in 7 Paesi: Camerun, Gambia, Ghana, Myanmar, Nigeria, Sri Lanka e Swaziland.
Sul fronte opposto, 5 Paesi, che non avevano effettuato esecuzioni nel 2014, le hanno riprese nel 2015: Indonesia (14), Ciad (10), Bangladesh (4), Oman (2) e India (1). Altri 3 Paesi, che non avevano effettuato esecuzioni nel 2015, le hanno riprese nel 2016: Botswana (1), Bielorussia (1) e Palestina (Striscia di Gaza) (3).Ciad e Oman hanno ripreso le esecuzioni dopo, rispettivamente, 12 e 6 anni di moratoria di fatto.

Quella sinistra alternativa che purtroppo ancora non c’è

Sono passati meno di tre anni da quando Matteo Renzi vinse, con ampio margine, le primarie e fu eletto segretario del Partito democratico. Nel discorso della vittoria, il discorso della “Bella Addormentata”, egli paragonò l’Italia alla principessa di Charles Perrault. Piena di virtù, bella e intatta ma prigioniera dei rovi nel bosco incantato. Il bosco della burocrazia e dell’intermediazione, della casta e della vecchia sinistra che solo un principe rottamatore avrebbe potuto con un atto d’amore sciogliere dall’incanto.

Poco dopo, il 18 gennaio, Renzi invita al Nazareno un Berlusconi già condannato e allontanato dal Senato. Il 19 febbraio, incontra Grillo e gli grida: «Esci dal blog». Il 22 toglie la campanella di Palazzho Chigi dalle mani di Letta al quale aveva detto «Stai sereno, Enrico». Li ha corteggiati per vampirizzarli. La sua (ir)resistibile ascesa, dopo aver annunciato una riforma costituzionale tanto bonapartista quanto la destra non avrebbe osato sperare, dopo aver distribuito un cadeau di 80 euro ai dipendenti elettori tradizionali della sinistra, e promesso, in stile grillino, l’azzeramento della casta dei senatori, si concluderà con un trionfo alle europee, 41%.

Alla vigilia di ferragosto si conclude la luna di miele. Mario Draghi lo incontra in modo riservato a Città della Pieve e gli chiede meno chiacchiere politiciste e più riforme liberal-liberiste: un colpo di maglio a sindacati e diritti dei lavoratori, diritto di licenziare e abbattimento delle tasse per gli imprenditori. Il ragazzo di Rignano sa che pagherà un prezzo per questo. Decide allora di andare in fondo: il jobs act – dice – porterà nuova crescita, è dunque la riforma più di sinistra. La sinistra che non lo capisce, Landini, Camusso, Bersani, non ha storia: va rottamata. Da quel momento la narrazione renziana è proseguita su tre idee forza. Grazie a noi la ripresa sta arrivando, anzi è già arrivata. Le riforme servono a evitare gli inciuci: alla fine vince uno solo e governa per 5 anni. Il Pd è superato, ora serve un partito per l’Italia, lo chiameremo Partito della Nazione.

Due anni dopo di questa narrazione non resta più nulla. La ripresa è la continuazione della crisi in altre forme. Il Pd non sarà Partito della Nazione e, per paradosso, i 5 stelle sembrano diventati loro movimento pigliatutto, che attrae elettori di sinistra, di centro e di destra. L’Italicum non lo vuole neppure Napolitano. E delle riforme Boschi restano il linguaggio astruso e lo strame di 47 articoli della Costituzione.

Renzi è finito? Direi di sì. Ma intanto Cameron è caduto, Hollande ha ricevuto l’avviso di sfratto, Clinton ha una fifa blu di perdere con Trump. Ecco che il segretario-premier può vantarsi, in puro stile doroteo, di essere il meglio del peggio. La sua forza sta nella mancanza di un’alternativa, non solo immaginata o raccontata, ma capace di camminare sulle gambe e con il cuore di una sinistra di nuovo protagonista.

Quando, a fine dicembre, ho accettato di dirigere Left, portavo con me un progetto ambizioso, quello di trasformare la rivista nel pungolo di una ricerca collettiva, nell’organizzatore di un confronto tra le idee e le persone della sinistra. Parecchi hanno risposto all’appello: li ringrazio. Ma molti altri sono rimasti sulle loro posizioni a inebriarsi del proprio odore. La sfida non ha funzionato, nonostante l’impegno intelligente profuso dalla redazione. Ne prendo atto e lascio la direzione. Non Left, cui assicuro, per quel che vale, il mio impegno e il mio affetto.

Questo editoriale lo trovi su Left in edicola dal 6 agosto

 

SOMMARIO ACQUISTA

Qual è il legame fra terrorismo e malattia mentale?

Sul rapporto tra terrorismo e malattia mentale interviene Andrea Masini, dirigente psichiatra di una Asl romana e direttore della rivista di psichiatria e psicoterapia Il Sogno della farfalla (L’Asino d’oro edizioni).

C’è la malattia mentale dietro gli attacchi terroristici? E il rischio emulazione?
La malattia mentale indubbiamente c’è, anche se non dobbiamo generalizzare e banalizzare. Non si può considerare la drammatica realtà che stiamo vivendo come frutto solo della malattia mentale. Questa c’entra e va individuata caso per caso. Per esempio, dei due ragazzi dell’attacco alla chiesa vicino a Rouen, uno aveva fatto tre tentati suicidi e anche il modo dell’aggressione al sacerdote fa pensare alla malattia mentale, mentre diverso è il caso del ragazzo di Monaco che aveva tante frustrazioni scolastiche e che poi si è suicidato. Il grande problema della psichiatria è che non sa leggere questi casi e non ha più la sua capacità di aiutare la cultura e la stampa a capire il fenomeno. Al massimo si parla di depressione, ma la depressione non c’entra. È chiaro, ci sono tanti aspetti da valutare, a seconda dei casi: l’attacco al Bataclan non aveva nulla di psichiatrico, mentre invece a Nizza l’attentatore sembra una persona con una debolezza mentale che viene sfruttata più o meno da un’organizzazione islamica. Ma il più delle volte non c’è la depressione, ma la schizoidia, la schizofrenia, la freddezza lucida che a volte nasconde un delirio. Pensiamo a Lubitz, il pilota che fece cadere l’aereo con 150 persone a bordo. Lui aveva un delirio strutturato, ma tutti i giornali dicevano che era depresso. Insomma, la psichiatria deve avere la capacità di dire le cose chiare, di distinguere un caso dall’altro. Detto questo, la componente psichiatrica negli attacchi c’è, e a questa si lega anche l’eventuale rischio delle emulazioni .
Che differenza c’è tra il terrorismo di adesso, quello che abbiamo vissuto in Italia e le stragi in America?
Il terrorismo degli anni 70-80 in Italia è stato tutt’altra cosa. E cosa ci fosse dietro ancora purtroppo non lo sappiamo, rispetto per esempio alle stragi di Bologna o dell’Italicus. È tutta un’altra storia. Così come quella delle stragi in America dove l’Isis proprio non c’entra. Là non c’entra nemmeno il possesso di armi, se mai quello che emerge della società americana, è la sua profonda religiosità. Anche se ha cento chiese diverse, ricordo che l’America ha stampato sulla sua moneta “In God we Trust”, cioè il dio assoluto. In qualche modo questo elemento c’entra con quei violentissimi episodi che spesso vedono un ragazzo che si arma, torna a scuola e fa una strage. Anche in questo caso da denunciare è l’incapacità assoluta della psichiatria americana – ormai tutta organicista – di vedere cosa c’è dietro ai giovani protagonisti di queste stragi. Di nuovo si può parlare di schizoidia e schizofrenia lucida.
Lei parla di religiosità della società Usa e negli attentati affiora comunque la religione. Nasce da qui la paura della gente?
Assolutamente sì. Credo che quello che sta dicendo il papa, ovvero che tutte le religioni sono simili e che devono essere alleate, significa annullare duemila anni di storia durante i quali si è verificato uno scontro, in particolare tra i monoteismi in cui esiste una differenza di pensiero notevole, dal discorso del peccato originale all’incarnazione di dio. I concetti del Cristianesimo sono inconciliabili con le altre religioni. La religione monoteista porta – contrariamente a quanto dice il papa – all’eliminazione dell’altro, a dire che il mio dio è quello vero e il tuo è quello falso. Così il fondamentalismo islamico si scontra con un altro fondamentalismo, stavolta cattolico, del “In God we trust”, che da anni rivendica la verità, di aver raggiunto il massimo dello sviluppo umano.

(Articolo pubblicato su Left del 6 agosto 2016)

Chiedo scusa, ma che vi ha fatto di male la musica?

«Hang the dj», provocavano gli Smiths. Avete letto in queste ore, degli spostamenti di 610, il programma di Lillo e Greg, e di Caterpillar. Cosa grave e che indigna, certo. Ma due trasmissioni radiofoniche ci hanno lasciato la pelle grazie all’arrivo di Carlo Conti che tanto professa il suo amore per la musica. Discutibile, forse, ma se lo rivendica a ogni pie’ sospinto il suo esser stato un Dj. Il nuovo direttore artistico della radio di casa Rai, s’accanisce su Radio2 e spegne Babylon e Mu, mentre resta incerto il futuro di “Rock and Roll Circus”, di Carolina Di Domenico e Pier Ferrantini, che, al momento, non ha ricevuto alcuna comunicazione.

Il primo, Babylon, in onda il sabato e la domenica dalle 21 alle 22,30, è alla sua sesta stagione. Quello di Carlo Pastore è quel che si definisce un “programma musicale puro” dedicato alla musica contemporanea: selezione di musica internazionale, novità e approfondimenti (tipo, i newyorkesi Wu Tang Clan, gli inglesi King Krule e Kasabian). Ispirato al modello Bbc – come ammettono gli stessi sul sito: «abbondare in canzoni è meglio che annoiare in chiacchiere».
E poi le sessioni live dall’auditorium M di Corso Sempione: Lana del Rey in esclusiva, i britannici Beady Eye di Liam Gallagher, Vaccines o Miles Kane, John Grant e Joan As Policewoman. O ancora la musica italiana: Luci Della Centrale Elettrica, Verdena, Brunori SAS. E poi i Mogwai. I Mogwai, Conti! La più grande band postrock scozzese, che il 12 gennaio del 2014 ha suonato proprio a Babylon – in esclusiva mondiale – “Rave Tapes”.

Per il secondo bersaglio di Conti, Mu, in onda ogni sabato e domenica dalle 17 alle 18, lascio la parola a Matteo Bordone: «Cari ascoltatori, qualche settimana fa MU, il programma più ruminante della radiofonia italiana, ha concluso la sua terza stagione nei fine settimana di Rai Radio2. Nel frattempo il nuovo direttore artistico di Radio Rai, Carlo Conti, ha espresso fin dalle sue prime dichiarazioni un’idea di radio molto lontana dalla nostra, sia per quanto riguarda il ruolo delle parole che il tipo di musica da proporre, oltre all’idea di “servizio pubblico”. Per me la radio deve essere un posto familiare e stimolante, dove sentirsi a casa ed essere accompagnati nei viaggi sonori più avventurosi e divertenti possibile. Per questo ho scelto MU quando Renzo Ceresa mi ha chiesto che titolo volessi dare al mio programma. MU è un pezzo della parola musica, è il continente perduto asiatico, è il modo dei monaci zen per dire no senza dire no, ed è il verso dei bovini, così placidi e massicci, ovunque nel mondo a rimuginare sul cibo. L’idea di una radio di sottofondo, fatta solo di hit da classifica e poche parole, non è compatibile con quello che so e mi piace fare davanti al microfono. Per questo la notizia che MU non ripartirà a settembre è triste ma prevedibile, coerente con il nuovo corso di Radio2».

Insomma, ci resteranno Sanremo (perché Sanremo è Sanremo) e i Migliori anni. Caro Carlo Conti, ma tu non amavi la musica?

p.s. Se il nuovo direttore artistico ha scritto la parola fine sulla musica in radio Rai, a noi resta sempre la gomma da cancellare. Qui, una petizione contro la chiusura di Babylon”