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Ancora guerra, ancora Rai. Caffè del 4 agosto 2016

Libia piano in tre fasi, dice Repubblica. Quale piano, di grazia? Quando mai la ministra della difesa Pinotti, che ieri ha annunciato il via libera all’uso di basi italiane per bombardare Sirte, ha informato il Parlamento? Eppure straparla di intervento militare da almeno sei mesi. Intendiamoci, il pacifismo assoluto non può essere fatto proprio dagli stati: l’Italia può avere la necessità di difendersi in Libia davanti al rischio che a due passi da casa si costituisca una base di lancio del terrorismo kamikaze. Ma vorremmo sapere quali siano le forze in campo, che affidabilità abbia il premier Serraj, portato a Tripoli dagli occidentali e tuttora protetto in un bunker, che gioco stia facendo il generale Haftar, che comanda qualcosa di simile a un esercito ed è appoggiato da Egitto e Francia, che fine faranno i terroristi in fuga da Sirte (mettiamo che vada così) dopo i bombardamenti, e chi si occuperà di loro. Invece niente, silenzio, strizzate d’occhio sulla nostra proverbiale furbizia, sull’equilibrio del premier Renzi, sul fatto che finora non abbiamo subito attentati. Un paese libero e democratico non può accettare di entrare in guerra senza dirlo, senza che il Parlamento sia chiamato a discuterne. Questo dovrebbero dire, all’unisono, le opposizioni. A questo dovrebbero rispondere tutti coloro che, nella maggioranza, non si vogliono ridurre a fare i camerieri di un premier che finge distacco e se ne sta con la famiglia in Brasile, aspettando le medaglie.
E a Raqqa che si vince la guerra, scrive Stefano Stefanini sulla Stampa. Ha ragione da vendere. Ed è sospetto l’atteggiamento di un ministro degli esteri e di un premier che si vantano di non andare là a bombardare, perché è lontano e non ci tocca direttamente. Per evitare sciocche osservazioni, ripeto che il problema non è lanciare un missile in più contro i terroristi e i civili innocenti che li circondano, il problema è dare la possibilità a curdi, yazidi, alayti, e ai sunniti dell’esercito iracheno di vincere la guerra con il Daesh, dando l’opportunità anche ai civili sunniti di sottrarsi alla legge del califfo. Perciò bisogna rompere con l’Arabia Saudita, a sua volta alleata dei terroristi di al nusra, che stanno cercando di “liberare” Aleppo. Fra parentesi, il pakistano giocatore di cricket arrestato a Genova ed espulso, è accusato, appunto, di far parte di al nusra. Ma bisogna dire la verità: il centro dell’infezione è Daesh, senza eliminare quella base tra Siria e Iraq, altre ne spunteranno. Se la si eliminasse, ridurre poi il danno in Libia, diventerebbe assai più facile. Oggi il ministro della giustizia Orlando dice che i terroristi islamici “hanno fanno festa (per gli attentati) nelle nostre carceri”, Corriere della Sera. Oggi Repubblica titola “Il servizio segreto dell’Isis (dunque con base in Iraq e Siria) addestra i jihadisti” e gli dice “Dovete colpire in Europa”. Dunque l’Italia cosa pensa di tutto ciò, quale strategia propone all’Europa per il medio oriente? Silenzio.
C’è poi il problema della Russia, di cui oggi non parlano i giornali. È diventata ormai la chiave della soluzione del problema del medio oriente -ancora di più dopo il tentativo di colpo di stato e il riavvicinamento di Erdogan a Putin che mette in braghe di tela la Nat0-. Che facciamo con Mosca? Continuiamo con le sanzioni, proseguiamo con il balletto delle manovre Nato ai confini della Russia? Bisogna offrire a Putin una ragionevole intesa in Ucraina che salvi i diritti delle persone e crei uno stato federale, con la parte “russa” e quella “europea” riunite ma fortemente autonome. Dobbiamo rinunciare alle sanzioni e costruire delle zone franche, di libero scambio tra euro rublo. Se questo fosse fatto, anche la possibilità di ricatto di Erdogan verrebbe ridotta. Se si continua a fare gli struzzi, finirà che in America vincerà Trump e che ristabilirà, lui, rapporti con Putin ed Erdogan, lasciando l’Europa ad esplodere sotto il peso della sua ignavia. E a pagare il prezzo più alto per gli errori americani.
SchifeRai. Quello che mi indigna delle scelte di Maggioni e Campo dall’Orto (via Berlinguer, sostituita dal giornalista dimessosi da Ballarò in politica con Giannini “troppo anti renziano”) è che tali scelte trasudano sottomissione. Non più a Berlusconi (che comunque era un gigante, con il suo gigantesco conflitto di interessi e la faccia tosta di assumersi senza infingimenti la paternità dell’editto bulgaro), né generica sottomissione “politica”, ma concreta genuflessione a ometti in carne e ossa (e senza arte né parte), ometti e donnette che il premier-segretario ha disseminato nelle istituzioni per propagare il suo verbo. Michele Anzaldi, che sentenzia “al Tg3 non si sono accorti di chi sia il segretario e il presidente del consiglio”, Francesca Puglisi, che ha denuncia addirittura una “conventio ad excludendum” ai danni del Pd, Alessia Morani, che il giorno in cui viene sgozzato padre Jacques attacca il Tg3 per non aver dato risalto alla apertura “di un ulteriore tratta” della Salermo Reggio Calabria. È a tali uomini e a codeste donne che Monica Maggioni e Campo dall’Orto danno prova di sottomissione. Il sovrano dice a Repubblica di non voler mettere il naso nelle scelte di viale Mazzini (forse per non sentirne la puzza) e prova a sottrarsi correndo via in Brasile con famiglia e fotografo, a cogliere allori olimpici. Povera Rai. Si caccia Bianca Berlinguer perché, con il nome che porta, sarebbe imbarazzante chiederle di fare propaganda smaccata per il Sì al referendum costituzionale. O pretendere che tessa le lodi della “ripresa” renziana!

Aggressione a Londra. Accoltellata una donna, 5 feriti

Attentanto a Londra. Una donna è stata accoltellata e altre cinque persone sono state ferite. L’aggressione è avvenuta in una zona centralissima, a Russell Square, vicino dal British Museum, intorno alle 22.30 del 3 agosto. Ne è responsabile un ragazzo di 19 anni è stato arrestato. Ha problemi di malattia mentale, ha dichiarato Scotland Yard che intanto indaga anche su eventuali piste terroristiche.

«Le indagini non escludono alcuna ipotesi», dice la polizia, che è stata chiamata da un testimone che aveva visto il giovane minacciare i passanti in zona Russell Square, con un coltello, insultando e imprecando. La donna colpita è stata immediatamente soccorsa, ma è morta poco dopo. È stato lanciato un appello a chiunque abbia assistito all’aggressione, con l’invito a contattare i numeri di emergenza, anche in forma anonima, per fornire qualunque informazione utile. L’attacco è avvenuto nella stessa area dove scoppiò una delle bombe esplose in contemporanea nella capitale britannica il 7 luglio del 2005 e che provocarono 56 morti e oltre 70 feriti e a poche ore di distanza dalla decisione di rafforzare la vigilanza armata in tutta la capitale inglese.
Il ragazzo ora si trova in ospedale, sotto custodia della polizia. Il caso è affidato alla polizia metropolitana londinese, con il supporto dell’unità antiterrorismo. È stato intanto disposto un ulteriore rafforzamento della presenza di vigilanza armata nelle strade di Londra.

Nell’arco di un anno, dall’aprile 2015 e all’ aprile 2016 sono stati registrati  9mila attacchi con coltelli, machete o pugnali a Londra . Un problema  legato anche  alle gang che imperversano nei quartieri più poveri della città, e che il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha indicato come una questione prioritaria da risolvere, già all’indomani della sua elezione. Queste gang infestano aree come la zona di Tottenham che si trova in periferia ( non quella omonima, centrale)  eBrixton e poi in particolare le zone più degradate nella parte est della metropoli. Sempre secondo i dati di Scotland Yard dei 9mila accoltellamenti, ben 1.620 hanno riguardato giovani vittime sotto l’età di 25 anni, mentre 866 erano addirittura adolescenti. Dodici i morti in totale nello stesso periodo di tempo, uno al mese in media. In tutta l’Inghilterra i reati legati al possesso e all’utilizzo di un coltello sono aumentati in un anno del 9 per cento e diverse campagne sociali, promosse dal governo ma anche dalle amministrazioni locali, denunciano il problema, cercando di fare prevensione e informazione.

Ultim’ora: Scotland Yard esclude la pista terroristica. Il ragazzo, cittadino norvegese di origini somale, che ha  ucciso una signora americana  nel centro di Londra ha problemi psichiatrici e ha agito da solo

Il Paese in guerra. Il Parlamento in vacanza

Fortissimi sui tweet, appuntiti sugli slogan e poi miseramente smussati sulle parole. Le parole che mancano sono quelle di una guerra in Libia in cui l’Italia ha una parte attiva che nessuno vuole raccontare. E così il Parlamento, che le parole ce le ha tutte nel nome stesso, si zittisce. Peggio, va in vacanza, sotto l’ombrellone. Un Parlamento silenzioso non si poteva certo inserire nella riforma costituzionale ma con un po’ di tempismo, si riesce a fare accadere.

Se è vero che il ministro Gentiloni giusto due giorni fa dichiarava altero che sarebbe stato tutto da valutare e discutere un eventuale disponibilità dell’Italia nel prestare le proprie basi agli attacchi Usa verso la Libia giusto ieri la Pinotti invece ha lasciato intendere (con un intervento in Aula, eh) che tutto è già stato deciso e quindi l’Italia è a disposizione. In mezzo ovviamente non c’è stata discussione, al solito. Non sia mai che se ne parli in Parlamento: un governo scolpito con i decreti non si brucia qualche giorno di vacanza per la guerra. Figurati.

Oggi è prevista la riunione della commissione Esteri e la commissione Difesa e i ministri non ci metteranno la faccia: sono attesi al massimo i sottosegretari nel tenue ruolo di piccioni viaggiatori. Solo così la parola “guerra” può rimanere una sinistra evocazione dei gufi senza nessuna associazione scritta con questo governo di scout ubriacati dal potere e il prepotere. Niente guerra, al massimo sentirete dire “disponibilità come concordato negli accordi bilaterali con gli Usa” e così ancora una volta tutto diventa una mera operazione di comunicazione sottaciuta.

Eppure oggi in commissione basterebbe porre una domanda secca: «il drone Usa Reaper è già decollato dalla base di Sigonella per sganciare un missile Hellfire?» Basterebbe una risposta secca per mettere in imbarazzo questa orda di balbettanti governanti. E vedrete che prossimamente puntualizzeranno che non c’è bisogno di un’autorizzazione del Parlamento per un’operazione del genere. C’è da scommetterci che lo diranno.

Però ricordatevi, a proposito del referendum, che quando vi dicono che il Parlamento è “un peso” nel governare spesso si riferiscono proprio a questi passaggi di dibattito, chiarezza e informazione. Aboliscono il Senato per farci un piacere, dicono, e mandano la Camera in vacanza mentre (forse, chissà) il Paese è in guerra. Bene. Avanti così.

Buon giovedì.

Ad Aleppo gas al cloro e bombe su 6 ospedali. L’Unicef: Strage di bambini

epa05452200 A handout picture made available by Syrian Arab news agency SANA shows Syrian families evacuated from Aleppo by the Syrian army in Aleppo, Syria, 02 August 2016 . Syria's Arab News Agency SANA says that tens of families have get out the eastern neighborhoods via al-Sheik Said corridor in the south of the northern city of Aleppo. It stressed that a number of gunmen turned themselves in to Syrian authorities and handed over their weapons. EPA/SANA HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Sei ospedali bombardati in una settimana dalle forze del regime di Assad, tra cui ce ne sarebbe uno pediatrico dove hanno perso la vita 4 bambini che a seguito dell’attacco non hanno più potuto avere l’ossigeno di cui necessitavano. Aleppo, città contesa da governo e ribelli, non è nuova ad attacchi sulle strutture sanitarie, ma quello degli ultimi giorni è il più violento mai registrato dall’inizio del conflitto siriano, nel 2011. Finora nel Paese sono stati censiti almeno 336 attacchi ai danni di strutture sanitarie con circa 700 vittime.

A proposito di Aleppo, Widney Brown, direttore dell’ong statunitense Physician for human rights, presente nell’area con i suoi operatori, ha dichiarato: «Dal mese di giugno abbiamo visto aumentare le segnalazioni di attacchi contro i civili ad Aleppo e i bombardamenti sulle infrastrutture mediche che rimangono nella regione. Ognuno di questi attacchi costituisce un crimine di guerra».

Anche l’Unicef esprime forte preoccupazione per quello che sta avvenendo nella città siriana: a farne le spese della guerra in corso sono soprattutto i bambini. Il direttore regionale dell’Unicef, Saad Houry, ha chiesto il libero accesso umanitario in città per poter soccorrere i bambini, che costituiscono un terzo dei 300.000 abitanti intrappolati nei quartieri assediati dai ribelli.

L’organizzazione dell’Onu per la tutela dell’infanzia si è detta allarmata per le dichiarazioni russe in merito all’utilizzo di gas al cloro durante un attacco dei ribelli a un quartiere della città controllato dalle forze governative che avrebbe ucciso 7 persone ferendone 23. È stato il capo del Centro militare russo di riconciliazione in Siria, Sergei Chvarkov, a dichiarare di aver informato gli Usa circa l’utilizzo di sostanze tossiche da parte dei ribelli in una zona residenziale di Aleppo.

Due giorni fa, erano stati invece i gruppi ribelli ad accusare il governo di aver utilizzato gas tossici nella città di Saraqeb, a sud ovest di Aleppo, in reazione a un’analoga accusa nei loro confronti da parte dei media di Stato, che parlavano di ricorso a gas nocivi proprio ad Aleppo. Attacchi al cloro – che contrariamente ad altri gas nocivi non è bandito perché utile a purificare l’acqua – si erano già verificati negli anni scorsi. Ieri intanto gli scontri si sono intensificati e gli insorti hanno cercato di rompere l’assedio del governo alle parti della città sotto il loro controllo.

Dopo 5 anni di guerra, l’Unicef stima che quasi 8,5 milioni di bambini siriani sono stati direttamente colpiti dalle conseguenze del conflitto, l’80 per cento del totale dei bambini del Paese. I siriani morti a seguito di questa guerra sono 280mila e dei 24,5 milioni di residenti almeno 6,5 milioni sono scappati.

Rompiamo il silenzio sullo Yemen

Lo Yemen è stato per millenni l’Arabia felix, un’oasi di civiltà lungo la via delle spezie. Si narra che qui fiorì il regno della regina di Saba che tenne testa a Salomone e per questo è stata dipinta dai cristiani con una zampa caprina.
Mitica sovrana, bella e saggia, Bilqis (questo il suo nome arabo, dall’antica dea dell’amore) è spesso evocata come immagine positiva nei discorsi delle donne yemenite che oggi lottano per l’emancipazione. Ma questo Paese della penisola araba, oggi martoriato dalla guerra civile, non è solo la terra dell’arabo classico codificato nel Corano, ma anche la culla di una straordinaria cultura pre islamica, che si è espressa in templi dalle colonne svettanti e vertiginose, in enigmatiche e lucenti sculture di alabastro, ingegnose dighe e sistemi di irrigazione ben più antichi di quelli romani. Mentre la raffinatissima architettura della capitale Sana’a, con la sua labirintica medina, fa pensare ai racconti delle Mille e una notte. «Parliamo di bellezze, non semplicemente naturalistiche, ma costruite dall’uomo con fantasia e studio», commenta Isabella Camera d’Afflitto, che in libri come Perle dello Yemen (Jouvence), Lo Yemen raccontato dalle scrittrici e dagli scrittori (Orientalia) e Letteratura araba contemporanea (Carocci) ha tracciato un quadro della letteratura yemenita che arriva fino ai nostri giorni, presentando nuove generazioni di scrittori – fra loro molte donne – che stanno emergendo nel vasto e variegato mondo della letteratura in lingua araba. Parliamo di romanzieri, poeti, drammaturghi, saggisti che oggi, «benché isolati a causa del conflitto in atto – racconta l’arabista della Facoltà di Studi Orientali di Roma – continuano a scrivere, cercando nuovi modi per pubblicare e non perdere i contatti con la comunità intellettuale internazionale». Anche se è molto critica la situazione in cui versa Sana’a, dopo che questo conflitto ha ucciso la speranza di rinnovamento delle primavere arabe. Anche in Yemen migliaia di giovani, ragazzi e ragazze, scesero in strada per chiedere democrazia e diritti. Ma alle proteste laiche e progressite del 2011 fece seguito il tentativo di colpo di Stato dei ribelli Houthi, sciiti sostenuti dall’Iran, e la dura risposta militare dell’instabile governo sunnita di Abd Rabbo Mansour Hadi, mal visto dalla popolazione, perché eterodiretto dall’Arabia Saudita, che ha approfittato di questa situazione di instabilità. Un conflitto, quello che si gioca sulla pelle dei civili yemeniti, sanguinoso e complesso, in cui si scontrano gruppi sunniti e sciiti, ma che più profondamente va letto nel quadro di annosi conflitti tribali per il controllo del territorio. Che il generale Sales, nei suoi 33 anni al potere, aveva astutamente saputo governare, restando a galla. E che negli ultimi anni è riesploso, fomentato da potenze straniere, in primis l’Arabia Saudita e l’Iran, ma anche con un coinvolgimento del Qatar e degli Emirati. Tanto che la città di Aden «che cinquant’anni fa – dice Camera D’Affitto – aveva leggi e costumi moderni ed era considerata la Parigi del mondo arabo» oggi è terreno minato, sottoposta ad attacchi dell’Isis e di gruppi legati ad Al Qaeda che hanno fatto di Mukalla, e del suo vantaggioso porto, il loro quartier generale. Insieme a un numero altissimo di vittime – si parla di settemila morti e 11mila feriti – questa devastante guerra di cui i media internazionali parlano pochissimo ha prodotto miseria, carestie, fame e immensi danni al patrimonio culturale yemenita. Solo nel 2015 i raid della coalizione sunnita per stanare i ribelli Houtii hanno distrutto 36 siti archeologici, di fatto vanificando larga parte del lavoro di scavo e di recupero compiuto negli anni Ottanta e Novanta da studiosi come l’italiano Alessandro de Maigret, al quale si deve l’importante scoperta dell’età del Bronzo yemenita, e in particolare del grande complesso di rovine (Wad Yala) che, dopo Marib, è considerato il più importante giacimento sabeo sinora scoperto nello Yemen.

Attacchi dell’Isis o pilotati da altri gruppi fondamentalisti come Al Qaeda hanno preso di mira anche l’accogliente e superba Sana’a, patrimonio dell’Unesco. Numerose esplosioni hanno colpito il centro storico, come quella avvenuta nel marzo del 2015 (pochi giorni dopo l’attentato di Tunisi al museo del Bardo) che ha ucciso 142 persone. I raid sauditi hanno distrutto celebri case-torri in mattoni e pietra, costruite nel caratteristico stile della città risalente all’età preislamica, è andato giù parte del palazzo reale del sovrano sabeo Ilisharah Yahdub del III sec. d.C. ma anche una intera sezione del Museo archeologico dello Yemen, dove si trovava una importante collezione di scultura pagana e musulmana. Non lontano da Sana’a è stata colpita anche l’antica Marib, capitale del regno sabeo, con la famosa grande diga, capolavoro di ingegneria idraulica che smistava l’acqua verso la città, e il sito di Sirwah. Alcune immagini mostrano la rovina del muro di cinta di Baraqish e la distruzione di eleganti templi ipostili, come quello di Nakrah, risalente al VII sec. a.C. e rimasto in uso sino al I sec. d.C., che era stato portato alla luce all’inizio degli anni Novanta (e poi restaurato nel 2004) proprio da de Maigret prematuramente scomparso nel 2011. Il direttore dello Yemen’s General Organisation of Antiquities and Museums, Mohannad al-Sayani, denuncia distruzioni mirate, per motivi ideologici, «che puntano ad annientare il patrimonio culturale yemenita simili a quelle intenzionali perpetrate dall’Isis in Iraq e Siria». Un attacco barbaro e antistorico in un Paese che ancora nel primo decennio degli anni Duemila viveva un periodo di grande vitalità culturale grazie a intellettuali come, ad esempio, ‘Arwa Abduh Uthmàn, ricercatrice del Centro di studi yemeniti impegnata nella lotta per i diritti delle donne attraverso la scrittura ma anche rifiutandosi di portare il velo. «La letteratura non è affatto marginale se si vuole capire lo Yemen oggi» sottolinea Isabella Camera D’Afflitto. «Le scrittrici oggi sono tante e il salto generazionale è enorme» se si considera che perlopiù provengono da famiglie povere che non potevano permettersi di mandare le figlie a scuola. «Le scrittrici e attiviste yemenite di oggi sono colte, hanno una laurea e un dottorato» racconta la docente di lingua e letteratura araba de La Sapienza, a Roma. Fino a non molto tempo fa a Sana’a erano aperti numerosi circoli culturali impegnati sul fronte dell’emancipazione femminile, che facevano informazione nei villaggi per cercare di debellare la piaga delle spose bambine. «All’ingresso di uno di questi circoli a Sana’a c’era una scritta che dava il benvenuto agli uomini», ricorda Camera d’Afflitto.« Ma ad una condizione: che non indossassero la Jambiya, il tradizionale pugnale curvo infilato nella cintura».

L’assurda conta dei femminicidi: siamo a 160 dal 2015. Ma nulla cambia

Sono così tante che è diventato difficile contarle. Sono oltre 60 nel solo 2016, 160 da gennaio 2015. Sono giovani, anziane o appena bambine. Sono infermiere, casalinghe, studentesse. Sono donne e sono tutte vittime di femmicidio.
C’è voluto che nel 2011 s’introducesse un termine per raccontare le storie delle vittime e definire i tratti costitutivi di un fenomeno che è ormai diventato endemico alla nostra società. Le vittime sono donne, gli assassini sono uomini. Il movente, per quanto ci si affanni a cercane di comprensibili, è influente.

La modalità ripetitiva, frutto di una violenza oscena che pare sempre cercare lo strumento più brutale per esprimersi. Vania Vannucchi, l’infermiera uccisa ieri a Lucca, è stata bruciata viva dall’uomo con il quale aveva avuto una relazione. Questa mattina a Caserta, Nicola Piscitelli ha ucciso Rosaria Lentini con 12 coltellate. Sabato scorso a Misterbianco, in provincia di Catania, Marina Zuccarello è stata sgozzata dall’ex fidanzato della figlia.

Dalla riflessione più fredda e generale, alla voce singola di ciascuna di queste atroci storie emerge il quadro di una realtà drammatica, di una pornografia della violenza che è il simbolo di una degenerazione emotiva profonda. Aldilà della messa in scena e dalla relazione che unisce i protagonisti, le singole storie di femminicidio danno voce all’urgenza di aprire un discorso pubblico sull’identità maschile, sulle relazioni tra i generi e sulla salute psichica e fisica delle donne.

Consenso, abuso, violenza, relazione, amore sono i termini di un vocabolario che deve essere discusso e che deve andare a sostituire quello assolutorio del raptus, della gelosia, del possesso, della rottura o del rifiuto che troppo spesso s’inserisce nel racconto o nella ricostruzione, come se un omicidio avesse bisogno di una giustificazione o di un elemento di razionale comprensibilità. Bisogna iniziare a parlare di educazione sentimentale, bisogna che si inizi a farlo nelle scuole. A dirlo alcune delle forze politiche.

Pietro Grasso, presidente del Senato, ha parlato di «un grande lavoro da fare, tutti insieme, per sradicare i resti di una cultura maschilista e possessiva che ancora permea la nostra società. Stare insieme è una sfida quotidiana: uomini e non si appartengono, si scelgono ogni giorno. Liberamente». Di campagne di educazione ha parlato anche la vicepresidente della Camera Marina Sereni, mentre il ministro per le Riforme costituzionali con delega alle Pari opportunità, Maria Elena Boschi, nel ricordare le vittime dei barbari assassini di questi giorni, ha annunciato di voler rafforzare l’impegno del governo nella prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne.

Boschi ha poi invocato la costituzione di una cabina di regia interistituzionale per l’attuazione del Piano straordinario a contrasto della violenza sessuale e di genere. Ma di strumenti validi in Italia ce ne sarebbero già e sono i centri antiviolenza. Quelli che stanno chiudendo. Lo dice in una dura nota, la deputata di Sinistra Italiana Celeste Costantino, presentatrice della proposta di legge sull’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole attualmente in discussione nella commissione Cultura di Montecitorio.

Secondo la Convenzione che garantisce la prevenzione e la lotta alla violenza di genere e che l’Italia ha ratificato nel 2015, i governi hanno l’impegno di sostenere ed incoraggiare – economicamente e culturalmente – il lavoro dei centri antiviolenza. Ma i fondi in Italia non ci sono e i centri sono comunque troppo pochi. Secondo il censimento di Women against violence Europe ripreso dalla piattaforma contro la violenza di genere, Chayn Italia, nel Paese i centri sono 140 e 73 le case rifugio, 6000 in meno di quanto previsto dall’Unione Europea.

Fintanto che i centri antiviolenza saranno minacciati dai tagli, l’educazione di genere relegata a polemiche posticce, quella che ormai si configura come una strage, rischia di continuare. La battaglia per la salvaguardia dei diritti e del corpo delle donne si deve combattere ogni giorno.

Chiamata diretta a scuola. Ora i prof devono “imparare” il linguaggio del corpo

Una delle immagini che appaiono sull'ironico book fotografico di maestri che prende di mira i provvedimenti della 'Buona scuola' del governo di Matteo Renzi, 8 aprile 2015. Il book è stato realizzato su Facebook dai docenti delle scuole elementari Longhena di Bologna, che in particolare contestano uno dei provvedimenti del ddl, cioè la chiamata diretta degli insegnanti da parte dei presidi. ANSA / FACEBOOK +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO? ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

«Non sbattete le ciglia ma ogni tanto leccatevi le labbra. E attenzione a non gesticolare troppo e a guardare di sbieco il preside…». Sissignori, a proposito di chiamata diretta dei professori capita di leggere anche i “25 consigli utili” per non fare brutta figura nel colloquio con il dirigente. È Orizzonte della scuola, uno dei portali di informazione più seguiti dai docenti, a pubblicarli, all’indomani della polemica che ha investito i “super poteri” dei presidi. Due dirigenti scolastici di Prato e Pistoia, avevano chiesto ai candidati di allegare al curriculum anche un video di due minuti “a figura intera” . Immediata la reazione e fiumi di ironia sul web con domande del tipo: “meglio in pantaloni o in bikini?”, ma anche tanta indignazione. Il senatore Pd Marco Di Lello ha anche annunciato una interrogazione parlamentare. «Forse – ha detto – qualche dirigente scolastico ha scambiato la chiamata diretta con un provino del Grande Fratello». Il ministro Giannini, intervistata dal Mattino sostiene che il video allegato al curriculum è una iniziativa che non parte dal Miur ma dai singoli dirigenti scolastici e comunque giudica la cosa «poco funzionale». Eppure l’idea del video “a figura intera” è una diretta conseguenza della legge 107 che prevede appunto i super poteri del preside.
Comunque Orizzonte della scuola, ha preso molto sul serio la storia del video. Anselmo Penna, prima di elencare i 25 consigli scrive: «Con molta probabilità, i dirigenti in questione vogliono avere un’idea chiara dei docenti che si candidano, analizzandone anche il linguaggio del corpo». Ed ecco quindi snocciolati i consigli che partono da come devono “essere” gli occhi, la bocca, il naso, le mani, la voce. Perfino il respiro, con suggerimenti che guardano lontano. «In oriente si dice che il respiro è il filo e la mente è l’aquilone, controllando il respiro si controlla la mente. Controllare il respiro vi aiuterà a mantenere la calma e gestire il vostro tono di voce». Ecco qua, sistemati i prof che magari contano sul proprio bagaglio di conoscenza ed esperienza , anche se il loro aspetto fisico non è da top model o da palestrato.

Tutta questa vicenda che ha del grottesco, è il risultato – in minima parte – anche di una trattativa fallita. I sindacati Cgil, Cisl, Uil e Snals (Gilda si era defilata) avevano tentato alcune settimane fa un disperato accordo con il Miur affinché la chiamata diretta e la mobilità dei docenti da ambiti territoriali a scuola venisse regolata in modo più soft, per competenze. Una iniziativa che aveva destato non poche polemiche perché i docenti con tanti anni di esperienza si sarebbero trovati scavalcati anche da chi, magari più inesperto, avesse nelle mani attestati vari di corsi di formazione. Comunque, al di là delle polemiche, non se n’è fatto di nulla. Al momento di fissare nero su bianco il pre accordo politico – a cui aveva aderito il sottosegretario Faraone – il Miur ha fatto marcia indietro e il tavolo, come si dice in gergo sindacale, si è rotto.
Adesso i sindacati passano al contrattacco, presenteranno ricorso al Tar contro la cosiddetta “chiamata per competenze” che il Miur, dicono in una nota, ha deciso in modo unilaterale. «Provvedimenti irragionevoli e contraddittori sul piano amministrativo che violano la trasparenza della pubblica amministrazione». Non solo. I sindacati – finalmente – denunciano il fatto che «sono anche in contrasto con importanti principi costituzionali, dalla libertà di insegnamento, ai diritti dei lavoratori, alla contrattazione».

La chiamata diretta, con questi sviluppi “folclorici”, tra video e linguaggio del corpo da imparare, non  è solo  la farsa dell’estate. In realtà colpisce la dignità e la professionalità dell’insegnante.

La Asl, i rifiuti, i Fori Imperiali. Il punto sulle grane del sindaco Raggi

La sindaca di Roma, Virginia Raggi, saluta dalla finestra del suo studio a margine della visita a Palazzo Senatorio in Campidoglio in occasione dell'apertura ai cittadini, Roma, 31 luglio 2016. ANSA/CLAUDIO PERI

Un po’ gli capitano – come l’emergenza rifiuti, che a Roma è ciclica e non certo un’esclusiva dell’assessora Muraro – un po’ se le cercano, i 5 stelle, le polemiche per rovinarsi (e rovinarci) il Ferragosto. Copiare intere frasi per redigere le linee programmatiche – come notato da Tommaso Labate sul Corriere della Sera – è infatti un ottimo argomento per chi li accusa di esser degli improvvisati. Tornare indietro sulla chiusura definitiva al traffico di via dei Fori Imperiali, da cui sarebbero restati fuori anche gli autobus – come invece deciso dalla giunta Marino, e operativo dal primo agosto – è poi un ottimo argomento per chi sostiene che i 5 stelle hanno le idee un po’ confuse, troppo spesso, incerti tra il mito della mobilità ciclabile e pubblica e la comodità di lisciare ancora una volta il pelo ai cittadini, a cui non piace la casta, come noto, piace il calcio (Paolo Berdini contrario allo stadio della Roma è stato in parte smentito dal vicesindaco Frongia), e di poter passeggiare ai Fori non importa nulla, per pigrizia, incultura o anche perché anni di urbanizzazione folle li hanno spinti a vivere in periferie lontane dal centro di Roma decine di chilometri, tanto che il centro più vicino alle loro vite è quello di Latina o qualche centro commerciale, e quindi tanto vale muoversi più comodamente quando si va in città.

Venticinque chilometri dista dai Fori, ad esempio, la zona di Rocca Cencia, centro nevralgico della vicenda rifiuti. Vicenda che nelle ultime ore, più che per i roghi, i sacchetti e i frigoriferi lasciati in giro, si sta caratterizzando per lo scontro a colpi di dossier tra l’assessora Paola Muraro e il presidente e amministratore di Ama, Daniele Fortini. I due si accusano a vicenda di esser protagonisti di un «golpe», addirittura. Per Muraro, tentato dalla vecchia dirigenza Ama in combutta col Pd ai danni della giunta Raggi: l’emergenza rifiuti sarebbe una sorta di polpetta avvelenata. Per Fortini è invece Muraro che vorrebbe far fuori lui (cosa che avverrà il 4 agosto) per far più spazio a Cerroni, il cattivissimo proprietario di Malagrotta che tanti affari ha fatto con la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti indifferenziati. Per Muraro è Fortini (e dice di avere le mail) a volere il ritorno di Cerroni (che è rientrato in scena offrendo, come soluzione al sovraccarico degli impianti in esercizio – di cui due già suoi – un ulteriore impianto a Rocca Cencia, appunto, che però è attenzionato dalla magistratura). Per Fortini è Muraro ad aver insistito sull’impianto di Rocca Cencia, con lui che in effetti le ha fatto notare le indagini e i costi più alti di quell’impianto. A suo favore Fortini porta poi i risultati di due anni in Ama, la raccolta differenziata salita dal 30 al 40 per cento – un mercato dove Cerroni non entra, non avendo impianti – e le gare per affidare lo smaltimento e il riciclaggio a impianti perlopiù fuori regione. Comunque, polemiche e accuse incrociate a parte, le novità sono due: il piano di Ama per recuperare il ritardo sta funzionando, la mole di rifiuti in strada diminuisce, pur lentamente, e il più (sperano ormai anche dal Campidoglio) lo dovrebbe fare Ferragosto, quando i rifiuti prodotti dai romani calano storicamente del 25 per cento; nelle prossime ore, poi, arriverà il successore di Fortini, e questo ci dovrebbe liberare, almeno in parte, dalla cortina di dossier.

Una buona notizia, per Raggi, è invece la richiesta di archiviazione per la vicenda delle consulenze per la Asl di Civitavecchia. La sindaca della Capitale era accusata di aver omesso di indicare un incarico assunto con l’Azienda Sanitaria di Civitavecchia quando era consigliere comunale. Doveva esser l’asso nella manica del Pd per i ballottaggi (l’inchiesta aveva preso il via dopo l’esposto di Renato Ienaro, presidente del Circolo romano sanità e ambiente del Partito democratico): non ha funzionato, allora, e il caso sarà adesso chiuso. Un boccata di ossigeno, è per Raggi, che però difficilmente compenserà la vicenda rifiuti, destinata a tenere banco ancora un po’, e la polemica sui Fori, che vede i fan di Marino (l’ex sindaco ha lanciato una petizione su change.org) e anche chi l’ha defenestrato difendere il progetto di pedonalizzazione che – per quello che chiederà l’assessore Linda Meleo alla giunta – è rinviata al 2021, quando cioè dai Fori dovrebbe sparire il cantiere della metropolitana. Ma suona molto come un mai più.

Jihadisti d’Italia. Oltre 100 affiliati di Isis e al Qaeda espulsi o arrestati

FILE- In this Friday, March 1, 2013 file photo, anti-Syrian President Bashar Assad protesters hold the Jabhat al-Nusra flag, as they shout slogans during a demonstration, at Kafranbel town, in Idlib province, northern Syria. The Nusra Front, Syria's al-Qaida affiliate, is consolidating power in territory stretching from the Turkish border to central and southern Syria, crushing moderate opponents and forcibly converting minorities using tactics akin to its ultraconservative rival, the Islamic State group. (ANSA/AP Photo/Hussein Malla, File)

Da Genova in Siria. Era tutto pronto quando la procura distrettuale anti terrorismo lo ha arrestato. Mahmoud Jrad, 23 anni, siriano, è accusato di «associazione e arruolamento con finalità di terrorismo». Il 23enne siriano non programmava attacchi terroristici nel nostro Paese, ma reclutava miliziani jihadisti da inviare a combattere con Jabhat al Nusra (letteralmente, “partigiani del soccorso al popolo della Grande Siria”), cellula legata ad al Qaeda che conta almeno altre 5 persone. Jabhat al Nusra, inoltre, è il gruppo protagonista del rapimento delle due cooperanti italiane Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, liberate a gennaio del 2015.

 

I jihadisti di al Qaeda, diversamente dai tagliagole dello Stato islamico, non puntano ad attacchi in Europa, ma a fare proseliti tra le comunità islamiche e arruolare nuovi combattenti da inviare in Siria e in Iraq. Non solo Isis, quindi. Oltre lo Stato islamico, altre sigle operano in Europa e in Italia, in primis al Qaeda ma anche – come spiega Umberto De Giovannangeli sul prossimo numero di Left (in edicola il 6 agosto) – «Demonizzare oltre 1 miliardo e 600 milioni di persone è sbagliato. Ma l’Islam integralista non è un’invenzione dell’Occidente. E anche quando l’Isis sarà spazzato via, il jihadismo si ripresenterà sotto nuove sigle».

 

Ma torniamo in Italia. L’Italia, finora immune da attentati di matrice islamica, ha però registrato un notevole numero di provvedimenti: 105 dall’inizio del 2015, tra arrestati ed espulsi. Le espulsioni sono un’arma facile per le mani del ministro Alfano. La lentezza e la difficoltà a vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana, infatti, rallenta sì il processo di integrazione delle comunità straniere, ma rende più semplice le procedure di espulsione. Arresti ed espulsioni. Come il 23enne siriano di questa mattina, residente a Varese con la sua famiglia. O come Farook Aftab, il pakistano di 26 anni che voleva colpire l’aeroporto di Orio al Serio, era residente in provincia di Milano ed è stato espulso il 2 agosto dopo essere stato arrestato il 31 luglio per motivi di sicurezza con un provvedimento del ministro dell’Interno. E ancora K.A, 23enne turco arrestato a Venezia la notte del 31 luglio con uno zaino, una mannaia lunga 30 centimetri, un sampietrino appuntito e documenti in fotocopia falsi. Materiale sufficiente a far scattare l’allarme anti-terrorismo e l’arresto. Mentre pregava ad alta voce Allah inginocchiato sulla pensilina dello scalo ferroviario insieme ad altri cinque. E poi il giovane somalo arrestato a marzo in un centro di accoglienza di Campomarino (Campobasso) e arrestato il primo agosto con l’accusa di istigazione al terrorismo, adesso è recluso nel carcere di Sassari: secondo i suoi compagni di centro (lui nega ogni cosa), incitava alla Jihad all’interno del centro, esaltava gli attentati ed era pronto a realizzarne uno alla stazione ferroviaria di Roma. Tra i numerosi arrestati e/o espulsi c’è anche Mohammed Madad, imam marocchino di 51 anni, residente nel Reggiano prima e nel Vicentino poi, sospettato di agevolare il terrorismo internazionale. L’imam è stato espulso il 27 luglio su provvedimento del ministro dell’Interno per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato. Il sospetto è che potesse anche agevolare il terrorismo internazionale.

Cinema d’autore. Al via il Locarno Film fest, in piazza Grande e online

È il festival degli amanti del cinema d’autore e di chi vuole scoprire nuovi talenti da ogni parte del mondo (non solo nell’Occidente che guida il solito mainstream). C’è grande attesa, dunque, per questa sera quando si accenderà il maxi schermo in piazza Grande a Locarno, per l’edizione numero 69 della kermesse ( dal 3 al 13 agosto) che rende omaggio a due cineasti, Kiarostami e Cimino, recentemente scomparsi e che hanno giocato un ruolo importante nella storia di questo festival, con le loro opere.

L’apertura è “da brivido”, con The Girl With All the Gifts il film di Colm Mc Carthy interpretato da Glenn Close e Gemma Arterton tratto dal bestseller  La ragazza che sapeva troppo, un insolito «zombie thriller» pubblicato in Italia da Newton Compton, dello scrittore e sceneggiatore inglese Mike Carey, che ha scritto storie dei Fantastici quattro e degli X-Men  ma soprattutto autore di libri e fumetti  di qualità.

Accanto al concorso e alle molte sezioni collaterali dedicate al cinema più sperimentale e ai nuovi talenti, quest’anno la rassegna rende omaggio a Jane Birkin (qui un’intervista con l’attrice francese), Roger Corman, Bill Pullman ( che ha spaziato tra registi diversi come Mel Brooks, Wim Wenders, Wes Craven e David Lynch)e Mario Adorf, dedicando loro delle personali e retrospettive. Con uno sguardo agli anni Settanta il Pardo d’onore quest’anno va allo scrittore Alejandro Jodorowsky mentre Stefania Sandrelli, brillante interprete non solo di film italiani che quest’anno festeggia settant’anni e cinquantacinque di carriera  sarà premiata con il Leopard Club Award 2016. Omaggio anche all’attore americano Harvey Keitel,  interprete di moltissimi film diretto da Scorsese, Altaman eTarantino  fra i quali ci piace ricordare qui e Lezioni di piano di Jane Campion e L’inchiesta di Damiano Damiani.  Dopo la premiazione di Keitel in piazza Grande il 6 agosto, domenica 7,  sarà riproposto Smoke, il film che vinse il Prix du Public a Locarno nel 1995.

Quanto al concorso internazionale quest’anno sono diciassette i titoli del concorso al vaglio del pubblico e della giuria presieduta da Arturo Ripstein. Fra i titoli da segnalare l’italo-austriaco Mister Universo di Tizza Covi e Rainer Frimmel sul mondo del circo e poi il ritorno di due autori come Yousry Nasrallah (già Pardo nel 1989) e Joo Pedro Rodrigues.  Mentre tra le opere prime e seconde del concorso Cineasti del presente (giuria presieduta da Dario Argento)  da non perdere di vista il debutto del videoartista Douglas Gordon in un documentario che ha per protagonista il regista d’avanguardia Jonas Mekas, e l’esordio del videoartsiat italiano Yuri Ancarani sulle contraddizioni del Qatar.
E ancora, fra le eventi collaterali, la proiezione del film Palma d’oro 2016, Daniel Blake di Ken Loach  e il travolgente epos indiano  di Bollywood Mohenjo Daro, che promette di far ballare tutta la piazza.

 

E per chi non ha la possibilità di andare a Locarno, il Festival  in collaborazione con Festival Scope, presenta i film in gara nella sezione Cineasti del Presente direttamente online. A partire dal  5 agosto tutti i film della sezione si possono vedere subito dopo la premiere e rimarranno online fino al 21 agosto, in lingua originale con sottotitoli inglesi.

I film saranno disponibili attraverso il sito Festivalscope.com e sul player dedicato per chi è felice possessore di un iPad.