Secondo una stima delle Nazioni Unite ci sono più di 21 milioni di rifugiati sparsi per il mondo, un numero senza precedenti nella storia e che potrebbe essere quasi pari a quello della popolazione di un’intera nazione. Proprio per questo il Comitato Olimpico Internazionale ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla crisi dei migranti mettendo insieme una squadra olimpica di atleti rifugiati che fra due giorni marceranno insieme durante la cerimonia di inaugurazione di Rio 2016 portando la bandiera olimpica.
Juncker nomina il britannico King per la Sicurezza e la lotta al terrorismo dell’Ue. Nonostante Brexit

Il nuovo Commissario alla Sicurezza e alla Lotta contro il terrorismo e la criminalità viene dal Regno Unito e si chiama King. Sembra una battuta, e invece il 2 agosto Jean-Claude Juncker ha nominato, con un colpo di scena, un britannico per il delicatissimo portafoglio della Commissione. Nonostante la Brexit, e nonostante all’indomani del referendum di Londra, Juncker avesse dichiarato “I disertori non saranno accolti a braccia aperte. Il Regno Unito dovrà accettare di essere considerato come un Paese terzo, non saranno trattati con i guanti. Se gli inglesi dovessero dire di no, la vita nella Ue non sarà come prima”. E infatti King non parteciperà alle riunioni ministeriali. Sarà Dimitris Avramopoulos, il commissario degli Affari interni e immigrazione, a rappresentare la Sicurezza alle riunioni con i ministri dell’Ue e al Parlamento europeo. Eppure i toni adesso cambiano e nella lettera inviata da Juncker a King la scorsa settimana, il presidente della Commissione ha toni morbidi e accoglienti, e parla di Gran Bretagna e Unione europea che condividono “una finalità unitaria e chiara” per l’avvenire.

King avrà un ruolo fondamentale nel garantire “una risposta efficace dell’Ue alle minacce alla sicurezza per il periodo 2015-2020″, anche se la Gran Bretagna potrebbe aver lasciato l’Unione europea entro il 2020. Il suo nome era già stato fatto a luglio, dopo le dimissioni di Jonathan Hill seguite alla Brexit, Julian King era stato indicato come nuovo rappresentante britannico alla Commissione europea. Ma il portafoglio di Hill, alla Stabilità finanziaria, è già stato ripartito tra Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici. Sir Julian King vanta un lungo passato da diplomatico. Lo conoscono bene a Parigi, dove è stato ambasciatore del Regno Unito, ma anche a Bruxelles dove, tra il 2008 e il 2009, è stato direttore di gabinetto del commissario al Commercio Peter Mandelson. E sua moglie occupa un posto di rilievo nelle stanze del Servizio di azione esterna dell’Unione europea.

King dovrà lavorare a Bruxelles mentre partono i negoziati per la Brexit. Come l’hanno presa i britannici? Gli euroscettici non troppo bene, a giudicare da quanto si legge su The Indipendent: “Juncker deve essere letteralmente pazzo se pensa che i cittadini britannici possano iscriversi a un sindacato di sicurezza con l’Ue. Crede davvero che i burocrati inesperti della Commissione europea siano messi meglio dei servizi di sicurezza britannici?”, ha tuonato il portavoce dell’Ukip Il portavoce difesa di UKIP, il deputato Mike Hookem. Ma anche se il 23 giugno il Regno Unito ha votato per l’uscita dall’Ue, di quell’Ue fa ancora parte.
Rai di lotti e di governo.Caffè del 3 agosto 2016
Minimizzare, stare ai fatti, evitare paroloni. Sembra questa la scelta dei giornali in edicola. Per una volta, direte. Cominciamo con i bombardamenti su Sirte. “Dureranno un mese”, assicura il Corriere. Repubblica sottolinea che l’Italia resta per il momento un po’ di lato e scommette sulla conquista, in un mese, della città libica: “Sirte la Battaglia finale”. La Stampa dà conto della reazione di Putin, irritata ma con gli Stati Uniti: “Putin attacca Obama e chiede neutralità all’Italia”. L’eco delle bombe quasi si sente, ormai, in Sicilia, ma noi incrociamo le dita e speriamo di non dover andare in prima fila e che duri il meno possibile. Fra i commenti, molte cose (anche giudiziose) sulla necessità dell’intervento americano per evitare che l’Isis, con la sua presenza a Sirte, allarghi la forbice tra il governo (debole) di Tripoli e le truppe di Haftar (un po’ meglio organizzate e appoggiate da Egitto e Francia). Se Sirte fosse ripulita dai terroristi, le tribù libiche potrebbero sedersi per discutere del futuro.
Ho ascoltato l’intervista di Lucia Goracci a Erdogan, almeno la parte che Di Bella ha deciso di trasmettere. Devo dire di non aver avuto la stessa sensazione che si ricava dai titoli, e cioè quella di un Erdogan che minaccia l’Italia per l’indagine della procura di Bologna sul figlio, attacca la Mogherini e si prepara a far saltare l’accordo con la Merkel sui migranti. Ho visto piuttosto un dittatore che comincia a sentirsi solo. Vorrebbe che America, Europa e Italia gli riconoscessero il ruolo, che crede di aver avuto, nella lotta “al terrorismo”, che i nostri capi di stato e di governo si mostrino più solidali con lui, andando a Istanbul per condannare i militari “golpisti” e le bombe sul parlamento, che l’Unione Europea dia più visti ai turchi e intensifichi i rapporti commerciali. Erdogan vuol mostrare ai Turchi di aver credito in occidente. Le critiche della Mogherini, il silenzio sui visti, il fatto che il figlio, Bilal, non possa tornare a Bologna per concludere gli studi, le interviste che Fethullah Gûlen rilascia dall’America, gli sembrano altrettanti siluri che lo delegittimano. Quando Goracci gli ha chiesto della pena di morte, ha tirato su la lista dei paesi -in testa gli Stati Uniti- che prevedono la pena di morte. Quando gli ha chiesto degli arresti in Turchia, ha paragonato i suoi nemici alla nostra P2. E la storia di Bilal l’ha detta per sostenere che le accuse di corruzione a lui e alla sua famiglia, sia che vengano da un magistrato italiano o da Gúlen, altro non sarebbero che un tentativo di golpe (ai suoi danni) sotto altra forma.
Trattare con Putin, costringere Erdogan a allentare la morsa. Dovrebbero essere gli obiettivi dell’Europa. Sia Putin che Erdogan sanno di aver bisogno di noi, di un’Europa che non detti legge con le armi e non crei nuove cortine di ferro, che commerci e sviluppi rapporti culturali. L’Europa dovrebbe porre una sola condizione: il rispetto dei diritti dell’uomo e del cittadino nei paesi con i quali essa dialoga. Se non lo farà, se rimarrà vaga e distratta, timorosa di scegliere e adusa a farsi proteggere – e dunque dirigere- dagli Stati Uniti, allora Putin ed Erdogan sposteranno verso Est il centro di gravità delle loro politiche, e punteranno dalla vittoria di Trump. Nella fase storica segnata dall’insorgere di una anti mondializzazione terrorista e oscurantista, la grande battaglia è quella per i diritti e le libertà. Tutto si tiene.
Credito nella bufera. Crolla il titolo del Monte dei Paschi, molto male Unicredit, male Commerzbank e Credit Suisse. Federico Fubini ipotizza che i continui esami europei alle banche, gli stress test, abbiano stressato gli investitori, che non capiscono più cosa ci sia dietro e dunque non si fidano. Insomma è l’incertezza politica europea che pesa sui mercati.
Bianca Berlinguer lascia il Tg3, Di Bella resta a Rainews24. Lasciare una direzione dopo 7 anni potrebbe non esser un trauma. E mi pare di capire che a Bianca abbiano almeno offerto qualcosa, non la lasceranno a scaldare una sedia. Però il contesto di questo avvicendamento è squallido. Viene dopo il calcione di quel tale Anzaldi, uomo del premier in Vigilanza: “Renzi è il segretario del Pd e il capo del governo, e al Tg3 sembrano non essersene accorti”. Il sostituto della Berlinguer, Luca Mazzà, si è segnalato per le “coraggiose” dimissioni da Ballarò in dissenso con Massimo Giannini, il quale era caduto in disgrazia presso Renzi. Quanto a Di Bella, immagino che,sorridendo, oggi dica: hic manebimus optime. Era in predicato – sponsor il responsabile dell’informazione Verdelli- per dirigere oltre a Rianews24, Rai- Regione e Tg3. Una grana enorme, capo del personale (giornalistico) con quasi duemila amministrati, addio alle incursioni in video, o all’attentaanalisi del colpo di stato turco fatta al telefono quella notte stessa. Però quell’idea -che non io ho mai condiviso perché credo che tra direttore e redattori serva un rapporto diretto e personale- celava l’assoluta mancanza di progetti per il futuro dell’informazione e della Rai. Ora Maggioni e Campo dall’Orto rinunciano persino a fare finta. Niente cambia dietro il cavallo di Viale Mazzini. Solito tran-tran, solito ossequio al governo, bacio della pantofola al più forte partito dell’opposizione e sempre in auge la regola aurea della lottizazione: avanti i modesti.
La Rai e il federalismo dell’indignazione
Anche per la Rai il futuro sarà per la prossima volta, quindi. E sarebbe fin troppo facile andare a ripescare le promesse non mantenute: anche su questo ritorniamo al vento freddo della delusione. «Fuori i partiti dalla Rai!» è l’urlo con cui ciclicamente il salvatore di turno ammaestra il popolino con la stessa retorica di cho invece vorrebbe chiuderla, la Rai. Frasi fatte, propaganda fritta, come questa:
Oppure i soliti proclami, roba così:
Quello che sappiamo oggi della Rai è che Bianca Berlinguer (non certo renziana) sia stata rimossa per lasciare il posto a quello stesso Luca Mazzà che sbatté la porta a Ballarò non concordando con la linea “troppo antirenziana” del programma. In tempi di servitù l’autonomia di pensiero è un pericolo, del resto. Da sempre. Servono analisi? E allora oggi vale la pena riprendere le parole di Enrico Mentana che dice:
«Questa storia del cambio di direttori nei tg Rai è tristissima e pacchiana insieme. È chiaro che l’obiettivo era rimuovere Bianca Berlinguer dal tg3. Ed è chiaro che i top manager Rai questo obiettivo proprio non se lo erano prefisso, tanto è vero che poche settimane fa sono stati presentati i palinsesti della nuova stagione, senza tenere conto di un possibile spazio “risarcitorio” per lei. Insomma, l’ordine è venuto improvviso e da fuori. In vista del referendum? Direi proprio di… sì. Ma per non farla troppo evidente si è pensato di non sostituire solo lei. Quindi via anche Masi dal tg2, così, per compagnia, per dimostrare alla Commissione di Vigilanza che non è un fatto personale, e politico. Una foglia di Fico, insomma. Quelli dell’opposizione strepiteranno per il colpo contro i sostenitori del no referendario, quelli della maggioranza diranno che la Berlinguer era lì da 7 anni e cambiarla non è un delitto, e nessuno si filerà il povero Masi, danno collaterale di una guerra politica, che conferma al di là di ogni sarcasmo che tutti noi paghiamo la Rai nella bolletta della luce, ma le mani sull’interruttore sono sempre le stesse.»
E ancora una volta vedrete che gli stessi che scendevano in piazza contro l’editto bulgaro berlusconiano si insabbieranno. Succede sempre così quando la normalizzazione si insinua. Succede sempre così quando s’insedia l’idea che le ingiustizie siano solo quelle che riguardano i nostri. Federalismo dell’indignazione: eccoci.
Buon mercoledì.
(aggiornamento: la Rai dice che le nomine non sono ancora ufficiali. Vedremo)
La guerrigliera curda che leggeva Dostoevskij
Lo scrittore e musicista Marco Rovelli ha fatto un lungo viaggio in Kurdistan per ritrovare tracce di Filiz, la guerrigliera dagli occhi verdi che dà il titolo al suo nuovo, intenso, romanzo, pubblicato da Giunti. Un viaggio che gli ha fatto scoprire non solo il coraggio e i valori di questi partigiani che lottano contro l’Isis e contro la stretta autoritaria imposta da Erdogan, ma anche il loro amore per la danza, la musica, la letteratura e la filosofia. Tanto da ritrovarsi, nel folto di quelle lontane montagne, a rispondere a domande su «uno scrittore italiano condannato dalla Chiesa, che si chiama Giordano Bruno», di cui il leader del PKK Ocalan parla in un libro. L’autore presenterà il romanzo domenica 11 settembre al festival Con-Vivere, a Carrara.
Marco, che cosa ti ha colpito della storia di Filiz (“Avesta” era il suo nome di battaglia), tanto da decidere di scrivere un libro proprio su di lei e non su un’altra delle molte guerrigliere che conbattano nelle file del PKK curdo?
Avevo letto un’intervista su Foreign Policy, mi aveva colpito il suo volto, dolce e quasi intimidito dall’obiettivo, e la forza delle sue parole. Dopo qualche giorno è arrivata la notizia della sua morte. L’ho preso quasi come un segno, dovevo raccontare la sua storia. Nella scrittura non si deve razionalizzare tutto, bisogna lasciarsi trascinare dall’imponderabile. L’ho fatto, e ho scoperto una persona straordinaria, che davvero incarna la sostanza più profonda e intensa del popolo curdo e della sua lotta.
Andando in Kurdistan a parlare con le persone che l’avevano conosciuta che cosa hai scoperto di lei? Quali ragioni profonde la motivavano?
A un certo punto, nella propria adolescenza, Filiz, che diventerà Avesta, scopre di non essere quel che credeva. Prima ha visto gli orrori dei turchi, e lì ha scoperto di non essere turca; poi ha scoperto di essere curda, di appartenere a una cultura diversa, fatta di elementi che lei stessa non conosceva. La danza e la musica, ad esempio, sono elementi decisivi per lei. Ma anche il poter partecipare in quanto donna a delle riunioni, cosa che prima mica si immaginava. L’identità non è tanto il passato, quanto le possibilità di essere qualcosa di nuovo, le possibilità di creare: e una partigiana come Avesta èquesto che sceglie di fare, creare nuove possibilità di vita.
I libri, la cultura, la ricerca sono elementi che alimentano la vita in clandestinità di queste ragazze nonostante la durezza della quotidianità da guerrigliera?
Lo studio, la lettura e la discussione sono le attività che impegnano i guerriglieri per la maggior parte della loro vita quotidiana in montagna. Questo perché si tratta, per loro, di trasformare la propria mentalità, soprattutto. Salire in montagna ha un che di trasformazione radicale della vita. Dopo la salita in montagna si è persone nuove, si abbandona la propria vita precedente. Si studia per comprendere il mondo e se stessi. È così mi sono trovato a parlare, nel deserto iracheno, di Wallerstein, di Giordano Bruno, di Dostoevskij.
Nella loro lotta anche per l’emancipazione delle donne, oltre che per libertà e democrazia, leggi qualche analogia con le partigiane che hanno fatto la Resistenza, pur con tutte le differenze storiche?
Ci sono, certo. La partecipazione delle donne nella lotta di Liberazione è stata un momento decisivo per l’emancipazione di genere. Dopodiché i contesti sono molto diversi. La diversità sta soprattutto nel fatto che per i curdi legati al PKK la lotta non è solo contro i turchi per lo stato nazione (cosa che da quindici anni peraltro è stata abbandonata in nome del con federalismo democratico), ma anche all’interno della stessa società curda contro il potere dei clan. Il feudalesimo che è nel medesimo movimento società patriarcale. Emancipare la donna, o meglio emancipazione della donna, inteso come genitivo soggettivo.
I tuoi libri nascono da una potente e precisa fusione fra realtà e finzione, hai lavorato così anche per La guerriera dagli occhi verdi? L’impressione leggendo è che l’immaginazione e il racconto ti siano servite anche per tratteggiare più in profondità la realtà interiore della protagonista fra infanzia e realtà adulta.
Ho cercato di essere Fedele alla storia così come l’ho ricostruita parlando con i guerriglieri che hanno combattuto con Avesta e con la sua famiglia. Ma poi ci ho lavorato come per un romanzo, sia colmando alcuni buchi (pochi), sia drammatizzando la narrazione, i personaggi, le vicende. La costruzione è stata quindi molto diversa dai “reportage narrativi” del passato, quando raccoglievo le storie e cercavo di restituirle con gli strumenti letterari, ma sempre dall’esterno, con l’inserzione del testimone che sta sulla scena (il sottoscritto, intendo). In questo caso ho immaginato di entrare nella mente e nello sguardo di Avesta, per entrare nella sua anima, per vedere il mondo dal suo punto di vista, per farla vivere – prima ai miei occhi, poi agli occhi del lettore. E, in fondo, credo di aver messo in scena una tragedia contemporanea. Nel senso che nella vicenda di Avesta ho visto quei caratteri eterni proprio delle tragedie greche: il destino, la scelta del destino come vera libertà, la catena di sangue, nel rapporto che legava Avesta e fratello come non vedere quello tra Antigone e Polinice…
Le guerrigliere curde si trovano a combattere una triplice battaglia, contro la società patriarcale, contro l’Isis e il governo autoritario di Erdogan. A che punto è la loro lotta?
È una lotta durissima proprio perché il supporto internazionale non c’è. A parole piace a tutti la donna che combatte il barbaro dell’Isis. Ma nei fatti le considerazioni geopolitiche fanno sì che i curdi vengano lasciati a loro stessi, carne da macello come è da sempre. I curdi possono trovare aiuto solo in loro stessi.
In Italia oltre al tuo romanzo, è uscito un graphic novel di Zerocalcare che tocca in qualche modo la stroia delle guerrigliere curde, mentre Fancesca Tosarelli e Wu Ming 5 hanno dedicato loro una parte del loro libro reportage Ms Kalashnikov. Le guerrigliere curde sono entrate anche nell’immaginario letterario?
Non so, questi sono solo alcuni casi. Ma di certo le guerrigliere curde hanno tutte le caratteristiche per entrare nell’immaginario non solo letterario: a patto però che si rifugga da esotismo e orientalismo, e si comprenda che cosa significhi concretamente il fatto che un terzo delle Hpg, le unità militari del PKK, sono donne.
Banche ancora nel mirino. E la Borsa va giù

Eliminati i famigerati Npl, Non performing loans, cioè i crediti deteriorati, quelli ormai persi, il Monte dei Paschi secondo il presidente del Consiglio Matteo Renzi è pulito. Grazie all’operazione Atlante, il fondo privato che si è accollato quelle sofferenze che avevano determinato la bocciatura della Bce. «Abbiamo trovato la soluzione finale per Siena», ha detto in una intervista a Cnbc, cioè dovrebbe essere l’ultima volta che a Piazza Salimbeni si interviene e si ricapitalizza – 5 miliardi per la precisione – . Il presidente del Consiglio interviene per tranquillizzare sul Monte dei Paschi e in generale sulla salute delle banche italiane. «Penso che gli stress test abbiano mostrato che le banche italiane non sono il problema del sistema europeo. Questa è la vera novità», ha detto. «Negli ultimi 12 mesi ogni giorno si diceva che il problema erano le banche italiane e noi replicavamo che non era vero. Alla fine gli stress test mostrano la realtà: abbiamo la migliore banca europea, Intesa Sanpaolo, e quattro istituti su cinque sono in una buona situazione». Ma se il presidente del Consiglio si dimostra ottimista e continua la difesa dell’operato del suo governo dopo aver sferrato – sempre sulle banche – un attacco alla classe politica precedente domenica dalle colonne di Repubblica, gli investitori per il momento sono scettici. Oggi la Borsa di Milano – insieme alle altre europee – ha registrato una giornata decisamente no. Alle 16 Piazza Affari registrava un -2,1 %. L’effetto scatenante, secondo gli esperti, è l’“onda lunga” degli stress test dell’Eba, i cui risultati non hanno soddisfatto complessivamente. A zavorrare i listini infatti sono ancora una volta le banche (-2,4% l’indice Dj Stoxx di settore), con gli investitori innervositi anche dal taglio degli obiettivi di utile di Commerzbank (-8%). Anche istituti che pure avevano superato il test dell’autorità bancaria europea, come Unicredit, Ubi e Intesa San Paolo, oggi segnano una discesa. Oggi vanno male anche le telecomunicazioni (-1,2%), le materie prime (-1,2%) e l’energia (-1%), nonostante il petrolio sia sopra i 40 dollari al barile.
Stragi di Stato. Il depistaggio diventa reato nell’anniversario di Bologna
Le stragi che hanno segnato la storia recente del nostro Paese hanno tutte portato in dote un baluardo quasi insormontabile per chiunque sia stato incaricato di cercare i responsabili: le azioni di depistaggio. Servizi deviati, logge segrete, politici, militari e funzionari corrotti rispondendo agli interessi più disparati, di volta in volta hanno gettato sabbia negli ingranaggi investigativi e processuali sugli attentati terroristici a Bologna (Stazione centrale, 2 agosto 1980), Brescia (Piazza della Loggia, 28 maggio 1974), Milano (Piazza Fontana, 12 dicembre 1969) solo per citarne alcuni. Distruggendo, occultando, danneggiando o alterando prove e documenti, come solerti marionette della strategia della tensione hanno rallentato fino quasi a fermare il processo di ricostruzione della verità e di restituzione della giustizia alle vittime, ai sopravvissuti e ai loro familiari. Sapendo di rischiare poco o nulla per via di uno sconcertante vuoto normativo nell’ordinamento penale. Da oggi non è più così. “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, allo scopo di ostacolare o impedire indagini o processi, modifica il corpo del reato o la scena del crimine oppure mente o è reticente”, rischia il carcere da 3 a 8 anni. La sanzione sale fino a 12 anni quando l’azione è commessa in un processo per reati gravi tra cui la strage, l’attentato contro il presidente della Repubblica o la Costituzione, il traffico illegale di armi o di materiale nucleare, chimico o biologico e i reati associativi. Così cita la Legge 133/2016 che regolamenta il nuovo “delitto di frode in processo penale e depistaggio” e che per una coincidenza, o forse no, entra in vigore nel giorno del 36esimo anniversario della strage di Bologna. Approvata il 5 luglio scorso in via definitiva dalla Camera, la norma il cui primo firmatario è Paolo Bolognesi, attuale presidente dell’Associazione vittime della strage di Bologna, era attesa da decenni. Da quando per la prima volta il 2 agosto del 1993 Torquato Secci, primo presidente dell’associazione, ne fece richiesta pubblicamente dal palco della commemorazione.
Quella che non è certamente casuale è la frase scelta dall’associazione per il manifesto commemorativo di quest’anno: “Il Paese deve sapere chi, tramite Licio Gelli, fu tanto determinato contro la democrazia da finanziare una strage di 85 morti e 200 feriti”. Sta lì a ricordare che ancora oggi non è messa la parola fine sulla vicenda storica e processuale di uno degli attentati più cruenti e crudeli del secondo dopoguerra. Si conoscono i nomi degli esecutori materiali – gli ex Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini – tutti condannati in via definitiva, manca quello del mandante e con esso di conseguenza il motivo per cui fu pianificata la strage provocata da un ordigno contenuto in una valigia lasciata dai terroristi nella sala d’aspetto della seconda classe della stazione di Bologna. L’orologio, come tutti ricordiamo, segnava le 10:25.
Come ricostruisce Roberto Scardova in Alto tradimento. La guerra segreta agli italiani, da piazza Fontana alla strage della stazione di Bologna, Licio Gelli è stato la figura chiave dei depistaggi delle indagini sull’attentato del 2 agosto. Non solo, nel libro – firmato per Castelvecchi con Antonella Beccaria, Giorgio Gazzotti, Gigi Marcucci e Claudio Nunziata – vengono per la prima volta prodotti i documenti desecretati che provano il ruolo della loggia P2 nel finanziamento della strage. È la calligrafia di Gelli, ricorda Paolo Bolognesi nella prefazione, quella su un foglio intestato “Bologna” in cui compaiono «un numero di conto corrente di una banca svizzera», e una cifra: 13.970.000 dollari. Il documento fu sequestrato al capo della P2 nel 1982 «al momento del suo arresto a Ginevra». Alto tradimento offre una rilettura documentata di come in Italia, fra gli anni Settanta e Ottanta, strutture clandestine, sollecitate e coperte – depistaggi, appunto – da ambienti istituzionali italiani e internazionali, abbiano attuato uno spregiudicato attacco alla democrazia basato sulla “guerra non ortodossa”. Dalle fitte pagine, dense di fatti, nomi e date, emerge con chiarezza che il finanziamento “Bologna” «in favore di più persone» fu completato tramite operazioni eseguite su banche facenti capo a Umberto Ortolani e Roberto Calvi. Il presidente del Banco Ambrosiano in seguito attribuirà ai servizi segreti proprio un finanziamento di 15 milioni di dollari assicurato dal Pentagono che «avrebbe fatto esplodere il mondo». Questa leggerezza, che fu registrata in segreto da Flavio Carboni durante una loro conversazione, determinò la sua condanna a morte. Quanto a Gelli, le ammissioni che confermano il suo coinvolgimento in un progetto eversivo realizzato dopo la strage del 2 agosto, fatte in un tre diverse interviste nel 2011 (Il Tempo), nel 2013 (Il Fatto) e nel 2015, andata in onda su La7 tre giorni dopo la sua morte, il 18 dicembre 2015, rappresentano una utile chiave di lettura anche della destinazione di quel finanziamento. Resta aperta la domanda: chi furono i mandanti? I depistaggi orditi dal Venerabile, che ha sempre tentato di minimizzare le responsabilità di Fioravanti e dei suoi camerati, fino a oggi hanno tenuto al riparo i burattinai della strage di Bologna. Ben presto alle informazioni prodotte dal libro “Alto tradimento” se ne potrebbero aggiungere di nuove altrettanto importanti. Una questione ritenuta pregiudiziale da chi indaga sulle menti di Bologna è il deposito – atteso entro il prossimo autunno – delle motivazioni della sentenza della Corte di assise di appello di Milano che a luglio 2015 ha condannato all’ergastolo i due neofascisti di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, la fonte “Tritone” dei servizi segreti, per la strage di piazza della Loggia a Brescia. I magistrati sposano in questo la tesi di Bolognesi che per conto dell’associazione dei familiari delle vittime lo scorso anno ha depositato in procura un dettagliato dossier, frutto di un lavoro di ricerca e dell’analisi incrociata di migliaia di pagine di atti giudiziari di processi per fatti di strage e terrorismo dal 1974 a oggi.
Bologna, 2 agosto 1980: quando il terrorismo era italiano. Foto, fatti e testimonianze
Sono le 10:25 del 2 agosto 1980, la sala d’attesa è affollata. Intorno il caos della stazione ferroviaria di Bologna: il caldo, la fretta di partire, le valige, una in particolare abbandonata su un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest. Un clic, poi l’esplosione. 23 kg di esplosivo che travolgono tutto e tutti, i detriti e l’onda d’urto arrivano addirittura a colpire il treno Ancona-Chiasso fermo al binario 1 in attesa di ripartire. Muoiono 85 persone, in 200 rimangono feriti. Inizia così uno degli episodi più terribili che segnano la storia della democrazia italiana sul quale ancora permangono ombre.

Il 2 agosto 1980 ero una bambina di 9 anni e alle 8.20 mi trovavo alla Stazione di Bologna. Dovevo partire col treno per la mia prima vacanza da sola in montagna con la mia migliore amica, Simona.
E sì, era la prima volta che partivo senza i miei genitori e mi accompagnò mio papà alla Stazione di Bologna. Nell’atrio mi aspettava la mia amica con i suoi genitori. Guardammo l’orario del treno diretto a Vicenza, dove avremmo proseguito in pullman fino a Gallio, paesino di montagna vicino ad Asiago. Il treno quella mattina fu puntuale e ricordo ancora l’emozione di partire sola con in tasca le Big Babol, le gomme da masticare che profumavano di fragola. […] Verso l’ora di pranzo arrivammo alla casa in montagna. Mentre aspettavamo che il pranzo fosse pronto, il papà della mia amica accese la tv per guardare il telegiornale. Rimanemmo senza parole nel vedere le immagini in bianco e nero della nostra stazione squarciata, la nostra città…Poche ore prima eravamo anche noi lì sul marciapiede di un binario, nel caldo afoso di Bologna. Dobbiamo avvisare tutti che siamo arrivati! Che noi siamo salvi: «mamma non ti preoccupare – le dissi – noi siamo arrivati…». Io arrivai… molti altri no.
Francesca Cappellaro (fonte)

Erano circa le 10.50, ero con mio zio. Arrivati al portico di fronte alla stazione e coperti da una colonna che la nascondeva, c’era gente che ci passava davanti completamente coperta di polvere ,dai capelli alle scarpe, gente con macchie di sangue, gente che imprecava e bestemmiava. Come mi spostai e vidi ciò che la colonna copriva i brividi mi trapassarono il mio corpo. Brividi che riprovo ogni volta che penso a quei momenti, ogni volta che passo davanti a quella colonna, ogni volta che passo per la stazione, ogni volta che passo di fronte alla casa del mio compagno di scuola che quel giorno perse la mamma. Brividi che ogni 2 agosto trapassano il mio corpo.
Roberto Marzano (fonte)

La stazione dei treni.
uno, due, tre, dieci, venti, cinquanta, settantasei alla prima conta. Ottantacinque al definitivo. Centinaia i feriti. Ma la linea 30, segnata alle 10.30 in transito per viale Pietramellara, guidata dal babbo non sospettava nulla del genere e con puntualità girò a destra. La stazione dei treni non era più una stazione dei treni, era una cosa, una roba, senza senso o forma, polvere e macerie, gente ferita e grida, le ambulanze, le prime. La polizia.
Una bomba in stazione il due di agosto, chi ci avrebbe mai pensato. Mambro e Fioravanti, la p2, lo stato. Sicuramente lo stato lo sa. Non lo sanno gli autisti degli autobus tra cui il babbo, non lo sanno gli autisti dei taxi, i dipendenti della ferrovia, i lavoratori della Cigar, chi passava per caso, chi andava via, tornava, aspettava nella sala d’aspetto della seconda classe. Non lo so io nato nel 1985. Non lo sai tu. Non lo sanno i vigili del fuoco, i medici e le persone che da persone qualunque sono diventate testa e braccia di soccorsi improvvisati. Non lo sa ancora nemmeno l’autobus 37 con Agide Melloni e 16 ore di servizio come soccorritore.
Alberto Guidetti (fonte)



Bologna: 36 anni di paludi e trattative
Il 2 agosto del 1980 ero un bambino intento ad altro. La strage di Bologna è un racconto che mi è rimbalzato anni dopo con tutto il fumo che ammanta le stragi italiane: microscopici dettagli sul dilaniamento delle vittime, minuziosi particolari delle loro storie, centinaia di angolature fotografate e scritte, chili di audizioni nelle diverse commissioni parlamentari, lenzuola di tesi disparate e un’enorme bibliografia. Per noi che siamo nati a cavallo della strage della stazione, Bologna è una biblioteca sterminata. E ci si perde nelle biblioteche folte ma senza logica. E talvolta si perde la verità, quella che non ha interesse a sembrare convincente.
La verità convincente è il prodotto politico di un Paese passato per il terrore: un’ostinata ricerca di un risultato semplice, condivisibile e soddisfacente per l’opinione pubblica. Così anche per la strage alla stazione di bologna gli anni hanno impresso l’orma di una verità gustosissima e prêt-à-porter. E fa niente se Licio Gelli, Cossiga, gli avanzi di Gladio e le criminalità diversamente organizzate sono passate come un raffreddore. Mambro e Fioravanti, anche quest’anno, sono l’imene ricostruito di una storia che si fa fossile, se serve per confortare.
Scriveva Sciascia in uno dei suoi ultimi libri (A futura memoria, 1989, Bompiani): «Fra le cose che mi rimprovero come viltà, viltà personale, anche se si tratta di viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver preso le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati ingiustamente. Se fossero stati rampolli della sinistra da un pezzo mi sarei dato da fare per loro, avrei sottoscritto petizioni… ma ahimé, appartengono alla destra, e allora, anche se intuisco che qualcosa non funziona, nei processi a cui sono sottoposti, non mi sento abbastanza sollecitato a indagare più a fondo».
Tra terrorismo nero, coperture democristiane, internazionali anticomunisti, denti conficcati nel potere c’è il solito odore di trattative e paludi.
Chissà se impareremo a galleggiare, nelle paludi.
Buon martedì.









