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La Nigeria che rischia la carestia

Non c’è pace per la Nigeria. Su quell’unica strada che collega le due principali città dello stato del Borno, raccolto nel nordest del Paese, giovedì  28 luglio un convoglio umanitario dell’Unicef è stato colpito da un assalitore. Andava verso Maiduguri – la capitale – di ritorno da Buma, dove gli operatori avevano appena fornito assistenza sanitaria alla popolazione in disperato bisogno. Il percorso battuto dal convoglio attraversa una regione stremata dalla guerra e dalla gravissima crisi umanitaria che questa ha prodotto nel paese a sud del Niger. Un operatore è rimasto ferito, mentre l’Unicef ha deciso di sospendere gli spostamenti nella regione.

 

Del continente africano, la Nigeria è il grande gigante. Nell’arco degli ultimi due decenni l’economia ha raggiunto livelli di crescita sorprendenti – nel paese del Borno, una delle regioni più violente del Pianeta, il reddito medio è di oltre 5000 dollari l’anno – e il numero dei suoi abitanti, soprattutto quelli più piccoli, è aumentato in maniera impressionante. La Nigeria è il paese con la più vasta popolazione minorile: sono 88 milioni i minori e 30 milioni i bambini e le bambine al di sotto dei 5 anni.
Da grandi numeri, però, grandi criticità. Nel paese centroafricano a detenere le redini della promettente economia è soltanto un 20%, mentre i due terzi della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta. Un gigante che porta sulle sue spalle il peso di una gravissima crisi umanitaria e di un conflitto che ha esasperato le già critiche condizioni di vita dei suoi abitanti. Il 90% della popolazione che in Nigeria vive al di sotto della soglia minima di povertà, risiede nel nord est del Paese, quella che del 2014 è sotto il giogo terroristico dalle milizie jihadiste di Boko Haram. Attacchi come quello della scorsa settimana nel Borno sono diventati sempre più frequenti. Per detenere il controllo sulla regione, le milizie saccheggiano, violentano e attaccano quei pochi rifornimenti in grado di alleviare le mortificanti condizioni di vita della popolazione. E’ una guerra disperata e votata alla disperazione, uno degli strumenti, assieme al terrore, usati dalle milizie per imporre il proprio controllo sulla regione. Gli attacchi hanno, infatti spesso come unico obiettivo i civili, costringerli a spostarsi e privarli delle risorse (acqua, cibo, servizi sanitari). In Nigeria i profughi sono oltre 2 milioni e buona parte degli approvvigionamenti vengono dalle agenzie umanitarie che sono continuamente minacciate da Boko Haram con l’intento di costringerle ad abbandonare il territorio.

La decisione delle Nazioni Unite di sospendere gli spostamenti dei propri operatori nelle aeree ad alto rischio del paese rischia, per questo, di paralizzare ulteriormente il delicato equilibrio di forze in campo in Nigeria e di fare il gioco di Boko Haram. L’Unicef, ha però risposto all’attacco annunciando di voler potenziare il proprio impegno sul territorio. «Non possiamo lasciare che questo spregevole attacco impedisca a chiunque di noi di raggiungere quell’oltre due milioni di persone che hanno bisogno di una assistenza sanitaria immediata». Ha dichiarato Jean Gough, portavoce di Unicef Nigeria. L’agenzia, fondo umanitario dell’Onu per l’infanzia, ha richiesto quest’anno 55 milioni di dollari per implementare il proprio lavoro di emergenza. Fino ad ora 23 milioni sono già arrivati e l’Unicef è riuscita a raggiungere oltre due milioni di persone e a fornire servizi di assistenza a oltre 56,000 di quei bambini che in Nigeria sono vittime della malnutrizione.

In totale le potenziali piccole vittime della malnutrizione sono 244mila e uno su cinque rischia la vita. La crisi alimentare che sta colpendo la regione centroafricana potrebbe essere la più devastante degli ultimi dieci anni. Le responsabilità sono sicuramente dei terroristi, ma anche delle autorità governative. Se lo scontro armato tra milizie ed esercito rallenta lo spostamento degli approvvigionamenti e i continui attacchi terroristici complicano il già difficile monitoraggio del numero di persone bisognose di assistenza, il controllo delle forze governative sugli aiuti umanitari e sulle comunicazioni aggrava ancora di più la già critica situazione nigeriana. Nella forbice tra il tentativo di controllo dell’una e l’altra forza, finisce una popolazione sempre più bisognosa d’aiuto e fiaccata da una crisi alimentare che rischia di trasformarsi in carestia, avendo così effetti devastanti ed irreversibili sul territorio e la sua popolazione.

Gli Usa bombardano Sirte. L’Italia prepara la campagna aerea

Fighters from the pro-government forces loyal to Libya's Government of National Unity (GNA) use a tank on July 2, 2016 to hit Islamic State (IS) group targets in Sirte during an operation to recapture the coastal city from the jihadists. Fighters allied to the Government of National Accord took control of a residential area called the "700 housing units" near Ibn Sina hospital and the city's Ouagadougou conference centre, the GNA's forces said on social media. / AFP / MAHMUD TURKIA (Photo credit should read MAHMUD TURKIA/AFP/Getty Images)

Gli Stati Uniti hanno bombardato postazioni dell’Isis a Sirte, in Libia. Il Pentagono ha dato conferma dei raid. Si tratta del primo coinvolgimento diretto degli Usa nella guerra delle forze libiche contro l’Isis. Il presidente Obama ha risposto con le armi alla richiesta che veniva dal governo libico. “Altri bombardamenti continueranno a prendere di mira l’Isis a Sirte” per consentire al governo di unità libico di “compiere un’avanzata decisiva e strategica”, ha detto il portavoce del Pentagono Peter Cook.
In un messaggio video il premier libico Fayez Serraj aveva annunciato di aver richiesto il supporto aereo alla coalizione di nazioni guidata dagli Stati Uniti, affermando che “i raid avranno una durata limitata” e che le prime operazioni avrebbero già “inflitto pesanti perdite” tra le fila dei jihadisti dell’Isis.

La Farnesina plaude alle “operazioni aeree avviate oggi dagli Stati Uniti su alcuni obiettivi di Daesh a Sirte”. “Le valuta positivamente”. Lo si legge in una nota in cui si dice che l’obiettivo di questo intervento militare sarebbe “contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia”. L’Italia, ricorda il ministero degli Esteri, sostiene il governo guidato dal premier Fayez al Serraj e “lo incoraggia dalla sua formazione a realizzare le iniziative necessarie per ridare stabilità e pace al popolo libico”. E ancora: l’Italia “apprezza quindi gli sforzi che il governo di unità nazionale e le forze a lui fedeli stanno conducendo per sconfiggere il terrorismo, in particolare l’operazione Bunyan al Marsous per liberare la città di Sirte da Daesh”. Dunque, se dopo aver chiesto agli Usa il governo libico chiede direttamente all’Italia, gli aerei partiranno da basi italiane come quella di Sigonella e quella di Birgi, mentre è ancora invia di definizione il via libera da Aviano. Questo secondo gli accordi firmati con il governo di Serraj che definisce modi e termini dell’ingaggio di alleati. Ci prepariamo alla campagna di Libia, dunque, con aerei e droni, in una situazione locale assai complessa, instabile, potenzialmente esplosiva. Anche se la nota della Fornesina maschera l’impresa parlando di aiuti umanitari. Così recita la nota del ninistero degli Esteri: “Il sostegno italiano a questa operazione si è concretizzato in forme diverse nel corso degli ultimi mesi, in particolare attraverso importanti operazioni umanitarie per la cura dei combattenti feriti e a beneficio delle strutture sanitarie del Paese”.

Olimpiadi, Schwazer vola a Rio: «Dimostrerò che sono pulito»

Alex Schwazer, winner of Iaaf World Race Walking Team Championships 50 km, Rome, 08 May 2016. ANSA / Giancarlo Colombo - Fidal - Press Office +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

Sabato prossimo Alex Schwazer volerà verso Rio de Janeiro, dove si attende il verdetto del Tribunale arbitrale sportivo (Tas) sulla sua partecipazione ai giochi. Il marciatore non ci sta a rinunciare alle Olimpiadi e fa sapere che prenderà il volo il 6 agosto assieme al suo allenatore Sandro Donati. «Non posso pensare che tutto il lavoro svolto negli ultimi mesi, tutti i controlli a cui mi sono sottoposto, non siano serviti a nulla» ha scritto questa mattina l’atleta sulla sua pagina facebook.

Che la tensione sia palpabile lo conferma a Left anche Donati, che approfondisce sul settimanale in edicola tutti i dubbi sul campione di urina raccolto il primo gennaio e trovato positivo al testosterone sintetico. Il tecnico originario di Monteporzio Catone ha spiegato tutti i suoi dubbi su un eventuale manomissione dei campione, sugli interessi e poteri forti che non vogliono Schwazer ai Giochi. E sul fatto che l’esito delle analisi sui stato reso noto soltanto a giugno, dopo che l’atleta altoatesino vincendo la 50 km di marcia ai mondiali a squadre di Roma dell’8 maggio, con tempi di tutto rispetto, aveva conquistato la partecipazione a Rio 2016.

Ventiquattr’ore dopo l’inaugurazione dei Giochi, l’atleta partirà per il Brasile, determinato a mettere la parola fine su quella che doveva essere la sua occasione di riscatto e invece si è trasformata in un incubo. «Su richiesta della Iaaf, l’8 agosto avrò un’udienza davanti al Tribunale Arbitrale dello Sport e spero di ottenere in un paio di giorni il giudizio che decide definitivamente se potrò o meno partecipare alle Olimpiadi. Non so cosa pensare perché la confusione di queste settimane è stata tanta e devo dire che è veramente dura mantenere un equilibrio che permetta di affrontare un’Olimpiade in questa situazione. Sempre che possa affrontarla da atleta» ha dichairato il marciatore altoatesino.

Schwazer ha confermato la sua intenzione di argomentare davanti al Tas la propria innocenza «mostrando l’assoluta linearità di tutti i controlli ematici ed ormonali a cui mi sono sottoposto». Il 12 agosto è in calendario la 20 km maschile e una settimana dopo, venerdì 19, la 50 km: se Schwazer potrà gareggiare sapremo già su chi saranno puntati i riflettori olimpici.

Il nostro approfondimento su Left in edicola dal 30 luglio

 

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Spagna a bocce ferme. Rajoy non molla, ma il suo governo sembra una missione impossibile

epa05010484 Little figures of Catalonian traditional Christmas crib called 'caganer' (the defecator) picturing Spanish political leaders (L-R): Albert Rivera of Ciudadanos party; Socialist Party's leader Pedro Sanchez, a traditional Catalonian farmer holding a Spanish flag, Spanish Prime Minister, Mariano Rajoy and Podemos' leader, Pablo Iglesias during the launching by its manufacturer caganer.com in Torroella de Montgri, Girona, Catalonia, northeastern Spain, 04 November 2015. The 'caganer' is a traditional figure of the Catalonian nativity scenes for at least two centuries. EPA/ROBIN TOWNSEND

In Spagna tutti vogliono evitare le terze elezioni in un anno, ma nessuno vuole Rajoy. Tranne Rajoy (e Ciudadanos). Il leader dei popolari prosegue nel tentativo di formare un governo, seppur di minoranza.

Dopo il voto di giugno (il secondo a soli sei mesi da quello altrettanto infruttuoso di dicembre 2015), ha accettato l’investitura di re Felipe VI pur non avendo i numeri per governare. Tutti vogliono evitare le terze elezioni in un anno, ma nessuno (fuorché i popolari) vuole Mariano Rajoy al timone. Al momento il premier nominato può contare su 137 seggi dei 350 totali e sulla non contrarietà di Ciudadanos (32 seggi) e Coalicion Canaria (1 seggio), che si asterranno in caso di fiducia.

Tolto il deciso quanto ovvio No di Unidos Podemos (Podemos+Iu), l’unica forza politica che può ancora tenere in piedi il progetti di Rajoy è il Psoe, quantomeno con un’astensione (quindi un appoggio esterno) che consenta un governo di minoranza. Ma il leader del Partito socialista, Pedro Sanchez, sembra deciso a non cedere: «Vogliamo cambiare il governo di Rajoy e questo è il motivo per cui voteremo “no” alla fiducia».

L’Europa intanto toglie il piede dall’acceleratore dell’austerity: la Commissione ha annullato le sanzioni per Spagna e Portogallo (anche se tocca ancora aspettare l’ok del Consiglio) e ha elaborato nuove richieste di correzione dei conti pubblici: il debito della Spagna dovrà rientrare sotto il del 3% del Pil dal 2018. Intanto, le elezioni in Galizia (terra dello stesso Rajoy, nato a Santiago de Compostela) e Paesi Baschi (il 25 settembre) sono dietro la porta. E la Spagna è senza governo da otto mesi.

Muraro: «Il Pd sui rifiuti polemizza con se stesso»

La visita della sindaca di Roma, Virginia Raggi, nel quartiere di Tor Bella Monaca per verificare l'emergenza topi e rifiuti, Roma, 11 luglio 2016. ANSA/CLAUDIO PERI

«Ma quale conflitto di interessi!». L’assessora Paola Muraro, blindata da Raggi, risponde in perfetto “grillese” al Pd. Anche perché resistere alle pressioni pur fortissime, pesanti come i trecentomila chili di rifiuti che ogni giorno rimangono sulle strade, non è poi così complicato, potendo ricordare, ad ogni appunto su Ama e sulla “monnezza”, che la polemica cavalcata dai dem «il Pd la sta facendo con se stesso, perché loro, e del centrodestra di Alemanno, è stata la fallimentare gestione di Ama negli ultimi vent’anni». Ha imparato subito la lingua dei 5 stelle, la tecnica Muraro: «Quello che in qualsiasi azienda, in qualsiasi amministrazione sarebbe considerato un valore aggiunto, cioè competenza ed esperienza», scrive in un post pubblicato sul blog di Grillo, «viene usato dai vecchi partiti come fossero elementi negativi, perché tremano davanti alla volontà politica di sistemare i danni che loro stessi hanno causato».

Usa il blog Muraro, non per entrare nei dettagli del suo piano (del piano che dovrebbe avere per tener fede alla promessa di pulire Roma entro il 20 agosto), ma per rispondere alla più insidiose delle accuse mosse in queste ore dalla stampa e dal Pd: quella del suo conflitto di interessi, con Ama e le aziende che per Ama lavorano, per via della sua attività di consulente – svolta per Ama, ancora, e per alcune aziende che per Ama lavorano negli ultimi dodici anni. È argomento molto usato dai dem, quello suggerito da un articolo di Sergio Rizzo comparso sul Corriere: il giornalista ha sommato 12 anni di consulenze arrivando alla cifra tonda di un milione di euro di compensi. Per status e tweet indignati il numero è perfetto.

Muraro risponde così: «Hanno scritto anche del milione di euro per le mie consulenze in 12 (dodici) anni (dal 2004 al 2016). Mi faccio i conti in tasca: corrisponde a una media di 90.880 euro l’anno al lordo di tasse, previdenza, assicurazioni e spese per lo svolgimento dell’incarico». «Vi sembra una cifra folle?», chiede retorica, «folle è la strumentalizzazione che ne fanno!». E risponde, Muraro, pure all’altra accusa che le è piombata addosso proprio stamattina, con la lettura dei giornali. Repubblica infatti documenta il fatto che Muraro, consulente di Ama, è stata anche consulente di altre società, che di Ama hanno poi vinto gli appalti.

Qui Muraro la butta in angolo e punta al principio: «Lavorare in qualità di consulente è legittimo. Sono un’esperta in materia di rifiuti e sostenibilità ambientale e ho prestato le mie competenze per numerose aziende». Punto. Non una riga sull’altra domanda – assai legittima – di queste ore: come si è arrivati al nome di Muraro per l’assessorato? Niente colloqui online, né sondaggi, infatti, sono stati fatti per formare la giunta: in periodi di burrasca, il tema rispunta. Ma per Muraro, invece, «sta ai romani, oltre alle speculazioni dei media e agli anatemi delle opposizioni, comprendere chi è la causa della fase di pre-emergenza che attraversa Roma», e parla di «un vero e proprio golpe dei rifiuti», tentato da chi vuole che nulla cambi.

Monte dei Paschi, dopo i guru della finanza, i dipendenti: «Basta sacrifici»

Il presidio Fisac CGIL davanti la sede della Banca MPS dove si svolge l'assemblea degli azionisti a Siena, 18 Luglio 2013. ANSA/FABIO DI PIETRO

Nella partita che vede di fronte il Monte dei Paschi e la Bce non ci sono solo gli azionisti e gli obbligazionisti a rischiare. Ci sono anche loro, i dipendenti della terza banca d’Italia, la più antica del mondo, fondata nel 1472. Sono 25mila, l’equivalente degli addetti ormai di una grande industria. Oggi l’istituto senese pare avviato verso un futuro più roseo rispetto alla scorsa settimana. Intanto il titolo in Borsa registra, al contrario delle altre banche, una impennata + 4,32. È la risposta a quanto è avvenuto negli ultimi giorni. Nonostante la bocciatura nello stress test, comunque si assiste ad un utile netto nel semestre di 302 milioni ma soprattutto è stato deciso il piano di vendita delle sofferenze pari a 10 miliardi di euro e soprattutto il fondamentale aumento di capitale di 5 miliardi.

Ma oggi si fanno vivi i sindacati che lanciano un allarme. Più che giustificato, perché tra gli obiettivi dell’immediato, ci sarà l’applicazione del nuovo piano industriale alla fine di settembre. «Abbiamo già fatto in passato la nostra parte per favorire il risanamento dell’azienda, con pesanti sacrifici occupazionali, normativi e salariali», adesso, sottolineano Cgil, Cisl e Uil in una nota unitaria, «è ora che si mettano in campo politiche aziendali in grado di tutelare i livelli occupazioni». Inutile dire che il timore è legato al fatto che i dipendenti paghino ulteriormente la situazione di crisi. Oltre ad aver visto azzerato in molti casi il proprio Tfr che avevano investito in azioni Mps, i lavoratori della banca senese non vogliono sentir parlare di ulteriori sacrifici che vengono visti legati al passato e quindi come «eccezionali e irripetibili». Quindi chiedono all’amministratore delegato Fabrizio Viola, con il quale hanno avuto un incontro la sera stessa dello stress test, di voltare pagina. Come?

Valorizzando le professionalità interne, invertendo la tendenza generale ad assumere dirigenti dall’esterno, ridurre le differenze salariali con il chiaro riferimento ai super stipendi dei top manager.
Molti sono i passaggi dell’attuale gestione che in passato hanno suscitato attriti. Per esempio il fatto che l’azienda avesse annullato unilateralmente il contratto integrativo; soltanto pochi mesi fa è stato raggiunto un accordo. Ma anche sul processo di esternalizzazione di un migliaio di dipendenti – in alcuni casi finita in tribunale – c’è stato conflitto. Insomma, la questione Monte dei Paschi, oltre ai guru della finanza e della politica, interessa – e direttamente – anche ai lavoratori. Che a questo punto vogliono contare di più, essere informati e negoziare le possibili negative “ricadute” della crisi Mps.

E se fosse Harry Potter a sconfiggere Donald Trump?

Più che un’ipotesi di fantasia si tratta di un fatto scientifico. I dati di un recente studio infatti sembrano suggerire che i fan di Harry Potter sono molto meno inclini a sostenere il bullo Donald Trump nella sua corsa alla Casa Bianca. Diana Mutz ricercatrice della Annenberg School for Communication alla University of Pennsylvania, tra il 2014 e il 2016 infatti ha somministrato oltre 2000 questionari, chiesto ad altrettanti cittadini americani se avevano letto la saga della Rowling o visto i film che ne erano stati tratti e di indicare, in una scala da 1 a 100, la loro posizione su temi come: pena di morte, uso di tecniche di tortura come il waterboarding per interrogare prigionieri sospettati di terrorismo, discriminazioni nei confronti di musulmani o omosessuali e, ovviamente, sulle politiche proposte da the Donald, da poco nominato ufficialmente il candidato repubblicano in corsa per la Casa Bianca.
Stando alle risposte raccolte sembra proprio che esista una correlazione fra leggere o vedere i film di Harry Potter e manifestare un forte dissenso nei confronti di Trump. Addirittura, per molti degli intervistati, Donald non è altro che una brutta copia di Lord Voldemort, il cattivissimo antagonista del maghetto di Hogwarts. E J.K. Rowling e gli utenti twitter che hanno lanciato l’hashtag #voldetrump sembrano essere perfettamente in linea con il campione studiato da Diana Mutz.

Ad un primo sguardo il paragone tra i due personaggi potrebbe sembrare un modo dei democratici per prendere in giro un avversario politico, in realtà l’analogia Trump-Voldemort sembra così calzante da essere diventata bipartisan ed aver convinto in egual misura entrambi gli schieramenti politici. «Gli stessi sostenitori di Donald Trump – spiega Diana Mutz – hanno acquistato un poster che raffigura il loro candidato di fronte alla una bandiera americana con una citazione del Signore Oscuro (Voldermort ndr) che dice: “Non esistono il bene e il male, esiste solo il potere e quelli che sono troppo deboli per esercitarlo”». Un errore di valutazione che secondo Mutz ha però un fondamento reale che rafforza la tesi #Voldetrump: «Anche Trump come Voldemort si mostra come un uomo forte capace di sottomettere gli altri al suo volere, siano essi il governo cinese o i terroristi di Isis». E non serve ribadire come il lessico utilizzato nei comizi dal candidato repubblicano sia proprio quello del bullo attacca brighe con smanie di potere: “gli darei un pugno”, “mi fate schifo”, “potrei sparare a una persona nella folla e nessuno mi direbbe nulla”.
I dati raccolti nella ricerca di Mutz dimostrano inoltre che in genere i lettori di Harry Potter: tendono a dare dei punteggi bassissimi alle politiche di Trump rispetto agli altri elettori, hanno posizioni molto più aperte e tolleranti nei confronti di musulmani e omosessuali, non sono per nulla d’accordo con le affermazioni di the Donald contro migranti, messicani e donne. Soprattutto i fan dell’eroe nato dalla penna di J.K. Rowling si dimostrano più disposti ad opporsi a politiche punitive come appunto dimostrano le risposte date dagli intervistati sul tema della tortura nelle carceri e violenze di carattere fisico contro i terroristi o presunti tali.
Harry Potter insomma, oltre ad essere un best-seller e campione di incassi al cinema, sarebbe un manifesto di umanità e libertà. Un romanzo di formazione che si trasforma in un manuale di cittadinanza per grandi e piccini ed educa ad una società integrata e cosmopolita nella quale le differenze non vengono stigmatizzate. Lo stesso Potter e molti dei suoi compagni di avventure infatti sono dei meticci. “Babbani mezzosangue” in gergo potteriano, mezzi maghi e mezzi umani, che nell’arco dell’epopea inventata da Rowling si trovano a combattere contro politici del mondo della magia fedeli a Voldemort e ossessionati dal mito della purezza della razza e della forza, proprio come Donald Trump.

Per comprendere a pieno l’influenza culturale e la portata potenzialmente rivoluzionaria di Harry Potter in questa tornata elettorale basta guardare ai numeri. Secondo l’editore inglese della serie di romanzi le vendite in tutto il mondo ammontano a circa 450 milioni di copie. Soprattutto: a nove anni dalla fine della saga il maghetto di Hogwarts continua ad essere un fenomeno letterario e ad accendere entusiasmi. E, stando ai dati forniti dalla catena di librerie Barnes and Noble, Harry Potter and the Cursed Child, il sequel della saga che sarà in libreria a settembre, ha già battuto i record negli Stati Uniti di prevendite e prenotazioni. Non è da meno la versione cinematografica prodotta dalla Warner Bros. La serie di film è una delle più remunerative nella storia di Hollywood, si parla di quasi 8 miliardi di dollari di incasso, dei quali 2,3 ricavati dalla vendita dei biglietti nei soli Stati Uniti.
Proprio per questo visto che, come spiega Diana Mutz, la visione politica proposta da Trump è radicalmente opposta ai valori proposti nella serie di Harry Potter, «la moltitudine di fan del maghetto potrebbero giocare un ruolo non indifferente nell’influenzare la risposta degli Americani a Trump».

#TuNonSaiChiSonoIo: Michelina partita dall’Eritrea oggi è volontaria al Baobab

A Roma ci è arrivata da sola quando aveva appena 17 anni. E ora che abita nella Capitale da ormai 38 anni, Michelina racconta di quando è partita dall’Eritrea nella speranza di arrivare in Italia e trovare un lavoro. Qui da noi, al di là del mare, l’aspettava un parente. «Io sono una di quelle che ce l’ha fatta, sono stata fortunata non ho mai dovuto dormire in strada». Non come i ragazzi del Baobab di via Cupa a Roma, accampati lungo il marciapiede in attesa di trovare di nuovo un posto dove stare, che lei aiuta come volontaria proprio perché sa bene cosa significa essere migranti, arrivare qui da lontano, sentirsi stranieri e spaventati. Proprio perché lei è stata fortunata, lo ripete spesso Michelina che la sua Eritrea l’ha lasciata negli anni 70, nel pieno della guerra d’indipendenza dall’Etiopia quando insieme alla sua famiglia di partigiani passava le notti a nascondersi sulle montagne per fuggire alle rappresaglie. 

La storia di Michelina fa parte del progetto #TuNonSaiChiSonoIo, storie di migranti raccolte da Agi e dai giornalisti di Next New Media. Su Left trovate anche le testimonianze di Ibrahima e Mark

Autobomba a Kabul: quattro vittime. Stavolta la firma è dei talebani

KABUL, Aug. 1, 2016 (Xinhua) -- Afghan security force members stand guard near the site of an attack in Kabul, capital of Afghanistan, Aug. 1, 2016. Scores were feared killed and injured after a powerful truck bombing and ensuing gunfire rocked a foreign guesthouse in eastern Kabul in the early hours on Monday, sources and witnesses said. (Xinhua/Rahmat Alizadah) .****Authorized by ytfs* (Credit Image: © Rahmat Alizadah/Xinhua via ZUMA Wire)

Dopo una settimana dall’attentato rivendicato dall’Isis che è costato la vita a 80 persone, Kabul è di nuovo scossa da un altro attacco. Stavolta sono i talebani a lasciare la firma. Un camion bomba è esploso attorno alle 1:30 locali all’ingresso del Northgate Hotel di Kabul, una struttura con sorveglianza armata dove alloggiano ‘contractor’ stranieri, civili e militari, situato nel quartiere Pul-e-Chakri, poco distante dall’aeroporto. L’obiettivo dei terroristi era quelo di colpire quindi una base militare straniera
L’attacco è stato portato avanti sia con l’autobomba che da singoli terroristi, quattro uomini armati, ne è scaturito un conflitto a fuoco durante il quale sono morti tre attentatori. I militari sono intervenuti uccidendo tre degli attentatori: uno è morto in seguito ad un’esplosione, altri due sono stati uccisi nello scontro a fuoco con le forze di sicurezza. Nell’operazione è morto anche un agente di polizia. Finora non si hanno conferme di vittime civili nonostante i talebani abbiano parlato di “decine di vittime”.
Una settimana fa, il 23 luglio, durante la “marcia della luce”, una manifestazione pacifica della minoranza Hazara che protestava per avere la linea elettrica nel proprio territorio, vi era stato l’attentato rivendicato dall’Isis, il più sanguinoso dal 2001, con 80 vittime. Era la prima volta che l’Isis colpiva nella capitale dell’Afghanistan.

Il dio denaro e il terrorismo. Caffè, 1 agosto 2016

Hillary accusa Mosca: mi spia. Così il Corriere della Sera. Sarà vero, non lo sarà? Non è qui il punto. La verità è che la campagna dei democratici ha due colori. Da una parte il partito si è spostato “a sinistra”, ora chiede il salario minimo a 15 dollari l’ora, il college alla portata di ogni ragazzo americano, la copertura sanitaria per tutti. Dall’altra la Convention traboccava di valori “patriottici”, dei colori della bandiera, di slogan sull’America che riecheggiano quelli da sempre al centro delle convention repubblicane. Ed ecco la logica di tale dualismo: Trump è inaffidabile, è anti americano, votate Hillary, con il programma di Sanders e la retorica dei Bush. Il richiamo alla guerra fredda -che oggi non si gioca più sulle note della paura di extra terresti comunisti che clonano gli americani (“L’invasione degli ultracorpi”, film di Don Siegel del 1956) ma, naturalmente, su quella di hacker di Putin che violano segreti a stelle e strisce- serve a questo, a etichettare Trump come anti americano e a vendere il prodotto Clinton: dietro la sua freddezza, i nostri vailori, da difendere a ogni costo
L’abbraccio contro il terrore. Titolo della Stampa con sotto la foto di “un imam in una chiesa di Roma”. In 23mila in Italia si sono presentati alla messa domenicale, davanti a immagini che raffigurano santi e persino dio (e che sono rigorosamente vietate dall’islam) per rimuovere un’altra immagine, quella dei “sedicenti” musulmani, Adel e Abdel, che in chiesa hanno sgozzato padre Jacques. Pochi, tanti? L’importante è che si stia aprendo un confronto: può l’Islam integralista -che prevale nel mondo musulmano grazie anche ai finanziamenti dell’Arabia Saudita- accettare che in suo nome si attacchino le chiese e si uccidano un prete che dice messa? La risposta prevalente è no. Anche per quell’Islam, fondamentalista e estremista, merita la morte “solo” l’apostata, l’islamico (o assimilato) che tradisce la sua fede. Non i fedeli di religioni monoteiste, che in quanto tali vanno ignorati e tollerati. Ma si tratta solo dell’avvia di una riflessione. In futuro chi crede in Allah dovrà alzare la sua voce contro il massacro degli Yazidi (assimilati ai musulmani, ma colpevoli di rappresentare il pavone, simbolo pagano), i curdi, gli sciiti. Dovrà condannare la pratica di mettere a morte gli omosessuali e di lapidare le donne “infedeli”. E dovrà farlo, non per provare qualcosa a noi cristiani o a noi occidentali, ma per sé, per la pace e il riscatto dell’islam. Noi possiamo aiutarli affermando i valori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre i948 e non votata dall’Arabia Saudita. Distinguendo valori e lascito di sangue dell’imperialismo.
L’Islam non è terrorista. Repubblica apre con le parole del papa. Di ritorno da Cracovia, Bergoglio ha detto alcune cose interessanti. “In quasi tutte le religioni c’è il fondamentalismo e può arrivare a uccidere con le parole o con il coltello”. Vero: basterebbe ricordarsi dei cristiani fondamentalisti che in America, in questi anni -non nei secoli bui della conquista coloniale o dell’inquisizione- hanno ucciso nel nome del dio in croce medici o infermiere che praticavano l’interruzione di gravidanza. Bergoglio però va oltre: “A me non piace – dice- parlare di violenza islamica. Tutti i giorni sfoglio i giornali e vedo violenze. In Italia, uno uccide la fidanzata, l’altro la suocera… e questi sono cattolici battezzati, sono cattolici violenti. Se parlo di violenza islamica devo parlare anche di violenza cattolica”. Qui si potrebbe obiettare al pontefice che quei violenti cattolici non ammazzano nel nome di Cristo. Potrebbe rispondere – e non saprei dargli torto- che per gli islamici stradisti potremmo al massimo parlare di terrorismo nel nome di Allah ma non di terrorismo islamico. Poi però il papa aggiunge: “Il terrorismo cresce quando non c’è un’altra opzione. Ora dico qualcosa che può essere pericoloso… Ma quando si mette al centro dell’economia mondiale il dio denaro e non l’uomo e la donna, questo è già un primo terrorismo. Hai cacciato via la meraviglia del creato e hai messo al centro il denaro. Questo è un primo terrorismo”. Il messaggio è inequivocabile: bisogna riscattare la mondializzazione dalle guerre imperialiste e dal messaggio consumista. Altrimenti non ci salveremo dalla barbarie. Lo dice da prete, qual’è.
Renzi, il signor quindiciballe. Oggi il Fatto Quotidiano fa l’esegesi delle bugie disseminate dal premier nell’intervista a Repubblica. Ne ho scritto e non ci torno. Segnalo un’intervista a Gianni Cuperlo, il quale parla del Pd come di “un partito quasi estinto, un comitato elettorale permanente al servizio di potentati locali”. Per colpa di Renzi: “Non puoi dire che la crisi è alle spalle o che il Jobs Act è la cosa più di sinistra fatta negli ultimi anni La Cgil ha raccolto 3 milioni di firme su tre referendum: è la prima volta nella sua storia. Quando spieghi che per i lavoratori Marchionne ha fatto più di tutti i sindacati, ti metti in urto con la parte del Paese che dovresti rappresentare”. Infine, con una certa crudeltà, Cuperlo ritorce contro il premier il suo maldestro tentativo di scaricare le colpe per la bassa crescita, le sofferenze bancarie e la subalternità all’Europa, sul duo Monti – Letta: la politica economica di Renzi, dice, “è stata troppo in continuità con quelle di Monti e Letta. Certe idee potevano valere 10 o 15 anni fa. Non si può pensare du rieditare” le opere di Blair o Bill Clinton. Persino Hillary ha proposto politiche espansive, il salario orario minimo a 15 dolla- ri, un piano di infrastrutture per creare lavoro che non ha eguali dai tempi di Eisenhower”. Cuperlo conclude “Non mi addormento la sera pensando a Renzi, ma a come ricostruire una nuova sinistra, dentro e fuori il Pd”. Per cominciare, votiamo No al referendum?