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Il futuro di istanbul e quello della Nato

Chissà se lo farà. Molto probabilmente no. Ma che non ci abbia mai pensato, che magari non se lo sia mai sognato di notte, a questo non potrei mai crederci. Mi ci giocherei la mano destra. Dal canto mio, ebbene sì, I have a dream. O meglio, I would like to have a dream. Per puro spirito facinoroso, se volete; o per smodato, irrepresso desiderio di avventura, per seguire fino in fondo sulle orme di Chateubriand e di Loti le mie fantasie orientaliste. Vorrei un sogno magari in quel magico technicolor anni Cinquanta: ve lo ricordate, Topkapi con Melina Mercuri? Vorrei vedere ancora, come l’ho sempre immaginata e non l’ho mai vista, la magica città sfolgorante sul Bosforo signora dell’intera ecumène, com’è stata o comunque si è illusa di essere stata almeno due volte, con Giustiniano prima e con Solimano poi. Del resto, l’aveva ben detto Napoleone: l’unica città davvero degna di diventare capitale del mondo è Costantinopoli.
E un sogno del genere deve aver illuminato spesso le notti di Recep Tayyip Erdogan, che pure il suo palazzo – più o meno kitsch di quello di Ceausescu a Bucarest? – se l’è fatto costruire nella “moderna”, “europea” Ankara, non troppo distante dal mausoleo alla Albert Speer dedicato al padre della patria Mustafa Kemal Ataturk. Ankara è l’antitesi di Istanbul, l’immagine non della sua sconfitta ma della ribellione ad essa come fatto di civiltà, come scelta di cultura. Reinsediare la capitale a Istanbul significherebbe negare in blocco un secolo di politica turca “laica”, i fondamenti kemalisti stessi di essa: sarebbe insomma davvero un gesto “neo-ottomano”. È arduo credere che il presidente abbia mai sul serio pensato qualcosa del genere (il vagheggiamento è altra cosa); è praticamente improponibile che proverà mai a farlo, anche per le difficoltà logistiche, economiche e diplomatiche (al di là delle politiche e culturali) che ciò comporterebbe.

Ankara va stretta al sultano
Tuttavia, ad Erdogan Ankara è sempre andata stretta. Sono molti i suoi sostenitori che rimpiangono il tempo in cui egli era sindaco della città del Bosforo: e se qualcuno si fosse illuso di averlo una volta per tutte cacciato di là, come ai tempi delle manifestazioni del Parco Gezi, ormai si sarà definitivamente ricreduto. Governo e palazzo del “sultano” stanno ancora ad Ankara, magari (forse) perfino ci resteranno: ma il cuore di Recep Tayyip è lì, sul Corno d’Oro, nella città di cui è stato sindaco e la cui composizione etnoculturale è riuscito in pochi anni a mutare radicalmente in modo da mettere la schiera dei borghesi e degli intellettuali kemalisti dei quartieri del centro in minoranza numerica rispetto ai suoi fans, i contadini inurbati dalla Cappadocia e stipati nei nuovi quartieri periferici. Gente semplice, che dell’Akp apprezza soprattutto il rinnovato fervore musulmano. Il giorno che la capitale turca tornasse sul Bosforo, potremmo davvero dire che la rivoluzione laica di Mustafa Kemal ha concluso il suo ciclo. Sarebbero un gesto e un passo davvero epocali, paragonabili forse solo alla “rivoluzione islamica” iraniana dell’imam Rukhullah Khomeini, ma dal significato ancora più intenso e sconvolgente. E dalle conseguenze più profonde di quanto ancora non ci s’immagini.

 

Il cuore di Recep Tayyip è nella città di cui è stato sindaco e la cui composizione etnoculturale è riuscito a mutare, in modo da mettere i kemalisti del centro in minoranza

 

Fantastoria? Può darsi: fatto è che nelle ore immediatamente successive al golpe, Erdogan a Istanbul c’era davvero, nonostante i militari ribelli agissero anche nella capitale. Era lì, nella città imperiale, che si giocavano sul serio le sorti della nazione turca. Il nodo del suo passato, la freccia del suo futuro.
Il golpe militare del 15 luglio, che secondo l’assetto schizofrenico del mondo turco dopo la prima guerra mondiale ha dovuto agire contemporaneamente sui due fronti di Istanbul e di Ankara, era forse stato architettato da tempo. Eppure si è presentato confuso, incerto, piuttosto estraneo alle inveterate e abilissime consuetudini golpiste dell’esercito turco, presidio tanto efficiente quanto inflessibile della rivoluzione “laica” kemalista. Anche l’altissimo numero delle vittime è prova di questa incertezza, non del contrario. Erdogan, che è orgoglioso di essere il comandante in capo dell’esercito, non se ne è però mai fidato e gli ha costantemente preferito e contrapposto la polizia: i fatti della notte tra il 15 e il 16 gli hanno dato ragione. Ma, dinanzi allo spettacolo delle forze degli insorti caratterizzate da tanta labilità, qualcuno si è pur chiesto se non era per caso tutta una sceneggiata, una combine; e se insomma il presidente il golpe non se l’è fatto da solo – magari con la complicità involontaria di alcuni antierdoganisti ingannati da una falsa congiura orchestrata dai servizi governativi – per potersi poi prendere l’impunito piacere e lo sconfinato vantaggio di reprimerlo duramente spazzando via in un colpo solo e una volta per tutte gli avversari, i sospetti e gli incerti.

 

L’agenzia iraniana Fars sostiene che sarebbero stati i russi a informarne il presidente turco prevenendo in tal modo la sua cattura da parte di un commando

 

L’ipotesi sarebbe convincente, in via teorica: ma non ve ne sono prove, e gli stessi indizi scarseggiano. Mille j’accuse non valgono un’evidenza testimoniale o documentaria; e queste ultime mancano. La stessa violenza con la quale si sono svolti i fatti, con centinaia di morti, provoca molti dubbi sul fatto che si sia tratto di una messinscena sia pur attuata da militari in buona fede vittime di una provocazione.
Voci più consistenti – a parte le prove raccolte in seguito agli interrogatori dei capi ribelli, e che fuori della Turchia sono state valutate con uno scetticismo sistematico forse imprudente – sostengono invece che il golpe era autentico, e che il fatto che non sia stato segnalato tempestivamente dai servizi turchi è la prova che era ben architettato e che le complicità nei suoi confronti erano molto diffuse: sino a far pensare non che i servizi siano poi così scadenti, bensì che infiltrazioni “kemaliste” o “güleniste” abbiano inquinato anche ambienti del ministero degli Interni, dei servizi segreti nazionali, del controspionaggio militare. Stando a queste fonti – verificare le quali è difficile – i militari ribelli sarebbero stati instigati da ambienti vicini al Pentagono (non alla presidenza Usa), ma la cosa sarebbe fallita in seguito a un intervento del Mossad avviato all’insaputa degli americani dalla base di Konia. Una scelta conseguente, quella dei servizi israeliani, rispetto ai recenti passi diplomatici distensivi compiuti insieme da Ankara e da Gerusalemme?

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Manovre d’agosto. Caffè del 6 agosto 2016

Via libera al referendum. Repubblica anticipa la decisione della Cassazione che arriverà lunedì. Da allora il governo avrà 60 giorni per deliberare la data del voto. E dopo un minimo di 50 e un massimo di 70 giorni da quella delibera, si voterà. Dunque? In teoria si può votare a ottobre o molto più in là, a dicembre. Dipende dal governo, che sembra orientato -dice Repubblica- a fissare la data tra il 13 e il 20 novembre. L’idea -di Padoan certo, non se se anche di Renzi- sarebbe di portarsi avanti con i lavori parlamentari sulla finanziaria -ora si chiama legge di stabilità- in modo che un voto popolare contro il governo non ne blocchi l’approvazione, mettendo a rischio i conti dello stato. Vedremo, per ora sono congetture.
Chiara la posizione della minoranza Pd: è per il se senza sì e senza ma. Questo testo (magnifico) è di Elle Kappaa la signora dei nostri vignettisti. Gotor sente “un buon profumo di Ulivo” nel documento per il No di Tocc. Chissà perché, allora, non ha votato No al testo della riforma Boschi (come me e Tocci) o perché non dice almeno ora che voterà No al referendum. “La nostra scelta sarà No – spiega a Repubblica Roberto Speranza- se Renzi non cambia la legge elettorale”. E ricorda di essersi dimesso da capogruppo del Pd alla Camera contro quella legge. Il povero Folli non comprende il nesso e avverte: “l’errore più grave sarebbe cambiare le regole della legge elettorale solo per consentire al ceto politico di proteggersi meglio”. Insomma, l’Italicum era la legge perfetta. Ricordate Renzi? “Mai più inciucio, uno solo vince”. Ma se quell’uno rischia di essere il 5 Stelle, allora, non va più bene.
La minoranza Pd non vuole rompere con il sue segretario. Questa è la verità. Perciò si accontenta -parlo di Bersani, di Speranza, Gotor, forse di Cuperlo- e pensa che alla fine, senza l’Italicum, la riforma costituzionale perderebbe la sua capacità di trasformare il nostro sistema parlamentare in un premieranno assoluto. Senza che “uno solo” vinca, che resterebbe del lavoro costituente di Boschi, Finocchiaro, Chiti? Solo il massacro di 47 articoli della Carta, cui si dovrà porre rimedio, in un futuro prossimo, con nuove semplici riforme costituzionali: abolire l’inutile Senato e rivedere le norme sull’elezione del presidente della Repubblica, conservando la sua autonomia e il suo ruolo di garante. È così: si può immaginare di correggere, poi, la deforma senza la necessità di umiliare,ora, il riformatore. È però un modo di ragionare contorto e politicista, che renderà questi parlamentari del Pd ancora subalterni al loro segretario. Il quale si prepara a usarli contro i 5 stelle (e come ambasciatori presso Berlusconi) per varare una legge “che consenta al ceto politico di proteggersi meglio”. Se non riusciranno, loro il fallimento. Se vincesse il sì, di Renzi il merito.
Preso il boss jiadista dei barconi, titolo della Stampa. Letteralmente ineccepibile, perché questo tunisino era un mercante sfruttatore di migranti e dai suoi profili in rete appare anche simpatizzante del Daesh. Ma il Gip per due volte ha negato l’arresto per terrorismo: mancano le prove. Lo hanno arrestato per commercio di uomini, e tanto basta. Italia in guerra? Altan relativizza: “voglio giocare anch’io in Libia”, dice un nostro generale; “tu fai l’inutile raccattapalle”, gli risponde l’omologo americano. E il Milan cinese? Giannelli disegna un mini Berlusconi che porta le statuette dei giocatori rossoneri a un signorone cinese sdraiato a prendere il sole. Il quale, naturalmente, pensa che sia un “Vù Comprà!”

È tempo di self-jihad. Identikit del terrorista 2.0

AUA. Allah U Akbar. Dio è grande. Tu no. E sei morto.
Quando accendi la tv e chiedi che attentato è oggi. Quando segui la scia di sangue carsica che si rialza e si inabissa da una città all’altra. Quando pensi che c’è bisogno di una lista aggiornata della morte al minuto, non più mese per mese, settimana per settimana, giorno per giorno. Quando non è una catena ad anelli, ma comincia a sembrare una matrioska di bombe una nell’altra. Di vuoti che esplodono insieme, i loro nei nostri. Quando pensi che il 30 giugno l’attentato all’aereoporto Ataturk, Turchia ricordava quello all’aereoporto di Bruxelles, 22 marzo. Quando pensi di poter tracciare almeno un lineamento comune dell’identikit di chi uccide, l’autore del prossimo attentato lo contraddice. Seguirà la stessa coreografia di immagini rosse e nere teletrasmesse e dopo qualche ora i nomi di chi voleva condannare tutti all’arcadia ultraterrena wahabita, in un’Europa che abbiamo costruito peccatrice e imperfetta, che amiamo viva e dolorosa così com’è. Spegni la tv. Tu hai il dito sul telecomando, loro sullo smartphone e sul grilletto.
Questo ultimo terrorismo lo chiamano molecolare, perché non ha bisogno di cellule per agire. Né di una rete o un’organizzazione. È quindi terrorismo degli idioti, idiotes, di cittadini privati. Di narcisi ossessivi o di depressi in cura, tutti però attenti a fare testamento selfie prima di uccidere e morire come Omar Marteen ad Orlando l’11 giugno scorso prima della più grande strage americana. È un’immagine che li ipnotizza da uno schermo dove è in onda una televendita religiosa del paradiso in diretta dalla Siria. Radicalizzati, poi radicali e poi ridicoli, si scattano la fototessera da quello stesso schermo, immagine che vedremo noi dopo, quando la loro faccia da sconosciuti diventerà quella degli assassini del giorno. Non serve una granata o un tank. Basta un coltello, un’ascia, un tir e una faccia per dire che venderai ai bambini dei gelati prima di stenderli sotto le tue ruote e le lenzuola bianche. Basta il fare spavaldo davanti alla morte che non hai mai avuto davanti alla vita. Dei veri hadith del profeta, l’internazionale jihadista istantanea sa poco. Questo è morte e islam for dummies, come quasi tutto ultimamente.
Alla chiamata di furbi, sani e vivi convertitori via web che prima corteggiavano i pazzi di dio, ora ammiccano anche i pazzi e basta. Prima rispondevano gli incattiviti diventati cattivi, ora quelli che diresti folli. Non serve nemmeno un contatto diretto a convincerli. Basta quello passivo che si è verificato essere altrettanto efficace e irreversibile. L’Is e i suoi profeti perdono territorio reale sul campo ma acquistano quello immaginario. Arrivano alla testa globale dei diseredati. Sterminatori fragili, distorti, disillusi in un’utopia buia, utili idioti per la camarilla islamica che fa a meno anche di reduci addestrati, foreign fighters di ritorno dalla Siriaq. Bastano i moribondi, i senza causa che ne hanno appena trovata una e non c’è intelligence che tenga se basta un minuto a convincerti.
Charlie, rien ne va plus. Dopo il Bataclan si disse adesso basta. Difenderemo democrazia, champagne, Parigi, il rock. Ora si dice non sarà facile. La Francia ha pagato con 236 morti dal primo gennaio 2015 al 28 luglio 2016: dal 7 gennaio quando il commando fa fuoco nella redazione di Charlie, 12 matite morte; dall’8 e 9 con Coulibaly che uccide 4 persone nel supermercato Hyper Cascher; fino al 13 novembre del Bataclan. Un concerto requiem di 130 morti.
L’ultima vittima di Francia e di luglio è una tunica inginocchiata sull’altare alle 9 del mattino. L’86enne padre Jacques era già in pensione ma tornava da due fedeli e 3 suore per dire messa in assenza di altri preti in quel pezzo di Normandia. Sono stati uccisi dalle teste di cuoio quelli che tentano di filmare l’esecuzione ma non ci riescono, entrando tra le colonne e la croce con una finta cintura esplosiva, una pistola inceppata e un coltello. Adel Kermiche su Telegram mandava messaggi audio a 200 amici: “prendi un coltello, vai in una chiesa, fai una carneficina. Tagli due o tre teste”. Mentre entrava nella chiesa a Saint Etienne du Rouvray, con i suoi 19 anni e la foto profilo di Al Bagdadi, era accompagnato dal coetaneo doppiamente segnalato ai servizi francesi, Abdel Malik Petitjean. Abdel è poi apparso in un video dell’agenzia stampa dell’IS, Amaq: “colpite gli occidentali, svegliatevi” dice.
Svegliatevi. Ma nell’Europa dei sonnambuli tutti stanno dormendo sonni diversi. I due attentatori non sono cecchini, sono smanettoni. Non soldati, sono depressi clinici. Kermiche ha problemi psichiatrici. È libero dal 22 marzo con il braccialetto elettronico. Nel 2015 tenta di raggiungere la Siria e viene fermato. Vuole fare il percorso inverso dei migranti: Bulgaria, Turchia, Siria. Adel comincia a blaterare di nemici dell’islam dopo Hebdo: lo dicono gli amici solo dopo. La conversione di Adel è avvenuta in cella, in una prigione francese sovraffollata come le chat room del web, come è accaduto ai fratelli Kouachi. La guerra non è dentro né in casa, ma di casa, perché questi sono figli di Francia. I Kouachi come Adel avevano la S degli schedati delle fiche francesi. S della Surete de l’Etat, minaccia alla sicurezza dello Stato, che hanno in diecimila e 500 sulla schiena. La foto di Adel Kermiche il giorno dopo è imbarazzante: gli occhi spauriti, un cappello con su scritto Algeria. Sembra un profugo, sembra spaurito, sembra chiunque di noi. Non gli è servita filiera o madrassa per convincersi al martirio: ma uno schermo, il web, una solitudine troppo rumorosa.
Il giorno dopo si prega insieme nelle chiese e nelle moschee, ma non c’è concilio laico né per domani, né per oggi né per i morti del giorno prima. È il 14 luglio, il giorno dei liberi.
È festa. È Nizza. Balla Europa. E muori. Il giorno della rivoluzione non solo francese infatti muoiono turisti italiani, russi, americani per un figlio adottivo last minute del Daesh: 31 anni, cinque minuti, 84 morti, un sopralluogo prima dell’assalto lungo la Promenade des Anglais, l’ultimo selfie sul luogo che sarà del delitto in cui sorride. Poi il video di un cellulare che riprende l’ennesima agonia social, la vendetta del dio folle in streaming. Era un autista anche nella vita reale prima di diventare chauffer della morte di Allah, Mohamed Lahouaiej Bouhlel.

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Il pilota che disse il cielo è sereno su Hiroshima

hiroshima bomba atomica 6 agosto 1945

Fu il texano Claude Robert Eatherly (1918-1978), pilota e meteorologo, a dare il via libera allo sgancio della prima bomba atomica della storia, “little boy”, che colpì Hiroshima il 6 agosto 1945. Earthely aveva solo 27 anni, ma era già un esperto nel suo settore. Quel giorno agì sulla base di considerazioni pratiche e razionali: il cielo era sgombro e non c’erano perturbazioni in arrivo su Hiroshima. Le conseguenze furono devastanti: la bomba provocò la morte immediata di 70mila persone. Altrettante morirono poi a causa delle radiazioni e delle ustioni. Tre giorni dopo un’altra bomba, detta “fat men”, fu sganciata su Nagasaki: 39mila persone furono disintegrate e altre 25mila morirono in modo atroce nei giorni successivi. Ma sappiamo anche che effetti devastanti quelle due bombe ebbero sulle generazioni successive.

«Alla fine della guerra i piloti venivano celebrati e acclamati in patria come “eroi sorridenti”, come portatori di pace. Tutti godevano di questa gloria, ma non Eatherly, che rinunciò a trarre vantaggio da tale popolarità, si chiuse nel riserbo e dedicò tutta la sua vita successiva al tentativo di venire a capo della propria colpa e di renderne consapevoli gli altri», scrive Michaela Latini, curatrice del libro L’ultima vittima di Hiroshima,  (Mimesis), un importante volume che raccoglie l’epistolario fra il filosofo Günther Anders e Claude Eatherly.
«Nella testa del pilota l’ombra lunga del ricordo dell’azione di Hiroshima non si lascia accantonare facilmente: le furie scatenate dal suo gesto e i fantasmi dei corpi in fiamme nell’isola bombardata iniziarono ad affollare il suo sonno», prosegue la germanista dell’Università di Cassino.

Eatherly cade in depressione e tenta più volte il suicidio. «Il matrimonio con l’attrice italo americana Concetta Margetti entra in crisi e gli viene interdetta la frequentazione dei figli.  E compie gesti autodistruttivi e anti sociali: viola un domicilio privato, falsifica un assegno per pochi dollari, «cerca in ogni modo di distruggere l’immagine epica che la società occidentale si è fatta di lui per poter continuare a giustificare se stessa». Ed è proprio questo l’aspetto che colpisce il filosofo Günther Anders che nel 1959 scrive a una lettera a Eatherly, che poi diventerà un ampio e toccante carteggio, di cui Mimesis pubblica la traduzione italiana.
«Il caso di Claude Eatherly non è solo un caso di ingiustizia enorme e prolungata ai danni di una persona ma è anche simbolico della pazzia suicida dei nostri tempi», ha scritto i filosofo Bertrand Russell nell’introduzione alla prima edizione  uscita nel 1961. Perché la  decisione di Eatherly fu giudicata folle e lui ostracizzato ,«punito», scriveva Russell perché aveva aveva fatto una cosa inaccettabile per l’America: pentirsi di aver collaborato al bombardamento.

Il caso Eatherly diventa la cartina di tornasole di una cultura americana malata, svela gli inquietanti contorni di una ideologia che ha bisogno di un nemico esterno e di una missione da compiere per cementificare l’unità nazionale. Un’ideologia religiosa e guerrafondaia che rende ciechi, non permette di vedere che le bombe atomiche colpiscono anche chi le usa. «C’è un effetto boomerang dei mezzi distruzione di massa, non di natura fisica, ma psichica», scrive Robert Jungk nella prefazione all’edizione tedesca di questo epistolario pubblicato da Mimesis «La violenza distruttiva delle armi atomiche – aggiunge Jungk – impone a chi le ha usate un carico psichico che non sono in grado di elaborare consciamente e inconsciamente». È proprio quel devastante effetto boomerang che gli americani cercarono di negare stigmatizzando la decisione di Claude Eatherly di lasciare l’esercito e di rifiutare gli onori. Quel gesto fu letto come un pericoloso attacco alla nazione.

Black Lives Matter paralizza l’Inghilterra. «Questa è una crisi sociale e culturale»

Black Lives Matter anche in Inghilterra. La colonna inglese del movimento americano ormai diventato globale, ha organizzato questa mattina una serie di proteste coordinate, in tre diverse città. Nel Paese di Brexit che chiude le frontiere, gli attivisti bloccano le strade per dire no al razzismo. Londra, Nottingham, Birmingham sono rimaste paralizzate dal traffico seguito a una serie di blocchi organizzati dai manifestanti antirazzisti. Impedito l’accesso in auto all’aeroporto di Heathrow, il principale scalo inglese. Bloccato anche il centro di Nottingham, dove i manifestanti hanno creato un cordone umano per fermare i trasporti verso l’aeroporto della capitale. Paralizzato anche il centro cittadino di Birmingham.

 

Black Lives Matter UK (BlmUK) è un fenomeno globale declinato su scala nazionale. Nel lanciare le proteste di oggi, gli attivisti che fanno capo alla rete antirazzista inglese, hanno invocato lo shutdown – che in inglese significa arresto, paralisi. Fermare tutto per denunciare una brutalità diventata sistemica e ricordare le sue vittime, nere. Le manifestazioni di questa mattina coincidono, infatti, con il quinto anniversario dell’omicidio di Mark Duggan, il giovane ucciso dalla polizia a Tottenham nel 2011, durante un fermo. Il ricordo delle vittime come strumento per denunciare quello che gli attivisti considerano un uso endemico e sistematico della sopraffazione fisica e psicologica ai danni delle categorie più deboli. È per questo che nel video-lancio dell’iniziativa di questo 5 agosto, i manifestanti parlano anche di migranti. Anche quelle sono per BlmUK vittime di una violenza di sistema, che amplifica le disuguaglianze ed esaspera le tensioni. «Siamo sconvolti per le 3.000 morti nel Mediterraneo di quest’anno e sicuramente dopo Brexit sappiamo che i crimini d’odio sono cresciuti del 57%. Abbiamo ascoltato persone raccontare di abusi e aggressioni nelle strade» dicono gli attivisti. Una stortura che da eccezione rischia di farsi norma e per frenarla, i manifestanti fermano simbolicamente le strade.

Fuori dall’aeroporto di Heathrow i supporters di BlmUK hanno urlato “This is a crisis” – questa è una crisi. Sociale e culturale. Seguendo i passi degli omologhi Usa, il movimento inglese si è formato in risposta agli arresti e gli omicidi compiuti dalle forze di polizia. Anche in Inghilterra, l’ingiustizia è prevalentemente black. Tra la comunità nera inglese gli arresti sono infatti più frequenti e la disoccupazione e l’esclusione sociale è più alta che in qualsiasi altra. Le azioni di protesta di questa mattina, che hanno provocato disagi importanti alla circolazione cittadina e l’arresto di 10 attivisti, provano quindi a richiamare l’attenzione sopita dell’opinione pubblica nazionale sulle criticità sociali del presente: crimini d’odio, il razzismo, la marginalizzazione, le disuguaglianze, le violenze. Intanto questa sera alle 6.30 (ora locale) il movimento si riunisce di nuovo a Londra, per continuare la sua giornata di mobilitazione.

La memoria di Hiroshima e Nagasaki nelle opere di Yumi Karasumaro al MamBo

Il 6 agosto 1945 una bomba atomica fu sganciata dagli americani sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo fu colpita Nagasaki. Le due città vennero quasi completamente distrutte e decine di migliaia di persone persero la vita. Moltissimi morirono poi per gli effetti delle ferite e delle radiazioni e molti sopravvissero patendo gravissime e irreversibili menomazioni. Su quel devastante crimine contro l’umanità riflette la pittrice giapponese, Yumi Karasumaru al MAMbo di Bologna, con una serie di opere che evocano l’esplosione, ma soprattutto i volti e le storie delle persone che persero la vita o subirono danni fisici e psichici irreparabili dalle esplosioni atomiche. Con la mostra Series Atomic nel 2015  presentata a Hiroshima, Kyoto e Tokyo, l’artista giapponese ricrea le immagini d’epoca, che lei stessa ha rintracciato sui giornali di allora, nei filmati o in raccolte private, riferite a episodi di guerra, a scene di distruzione, a eventi politici, ma anche a vicende personali intrecciate a quella tragedia collettiva.

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Con un raffinato stile pittorico, il visitato avvicina in modo soft lo spettatore, realizzando immagini dai colori luminosi e gentili, ma senza negare o tentare di occultare la drammaticità di quelle testimonianze visive, che anzi risulta ancor più toccante in queste elaborazioni.

In occasione dell’inaugurazione, sabato 6 agosto (alle 18, ingresso libero),Yumi Karasumaru fa una performance in forma di reading dal titolo Facing Histories in Hiroshima. In questa azione performativa Karasumaru combina le modalità espressive del teatro giapponese con quelle occidentali. Poi  inviterà il pubblico a partecipare alla cerimonia delle lanterne galleggianti Il sole di Hiroshima, organizzata da Nipponica nel Parco del Cavaticcio, accanto al Museo. Con la musica dal vivo di Enrico Serotti, la cerimonia si svolgerà così come avviene tradizionalmente a Hiroshima, con le lanterne di carta colorata, contenenti messaggi e desideri che saranno affidate all’acqua.

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L’aspetto interessante di questa mostra è la riflessione che Yumi Karasumaru sviluppa a partire da quella immane tragedia; le sue opere invitano ad interrogarsi su ciò che distrugge l’umano profondamente, non solo in termini fisici. A uccidere secondo Yumi Karasumaru, è anche un modello di società basata su un modello antropologico povero di umanità, in cui conta solo l’utile, il denaro, perdendo di vista ciò che più ci contraddistingue, gli affetti, la fantasia, il nostro mondo interiore. Per questo una sezione della mostra è intitolata Modern Crime ed è dedicata agli aspetti negativi dell’omologazione globale e della sudditanza al mercato privo di regole, di cui  ormai sembra soffrire l’intero Occidente. Una forma di super capitalismo che, secondo Karasumaru, porta alla perdita dell’identità personale e collettiva e con essa alla perdita della libertà.

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La mostra del MAMBo, curata da Uliana Zanetti, è promossa dal Comune di Bologna, resterà aperta fino a domenica 16 ottobre. In occasione della chiusura l’artista realizzerà un altro evento dal vivo. All’esposizione si accompagna un catalogo in edizione limitata di 500 copie con firma autografa dell’artista.

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Le offerte raccolte durante la cerimonia delle lanterne saranno inviate all’Associazione Giapponese Watanoha Smile, che si occupa del recupero psicologico dei bambini vittime dello tsunami giapponese del 2011 e all’Associazione Abio Bologna, che assiste i bambini ricoverati all’Ospedali Maggiore del capoluogo emiliano.

Mandato d’arresto per Hebe de Bonafini, madre di Plaza de Mayo. La persecuzione politica di Macri continua

«Se vogliono prendermi, che vengano a prendermi». Ma quando la Policía Federal argentina si è presentata a Plaza de Mayo per arrestare Hebe de Bonafini, un cordone umano glielo ha impedito. Il 4 agosto – di giovedì, giorno della tradizionale marcia del giovedì – la magistratura federale argentina ha emesso un ordine di cattura nei confronti di Hebe de Bonafini, presidente dell’associazione Madres de Plaza de Mayo. L’accusa è di appropriazione indebita di denaro pubblico per mezzo di progetti sociali.

Si fa scuro il cielo sopra l‘Argentina del Presidente Mauricio Macri. L’ordine è stato emesso dal giudice federale Marcelo de Martínez de Giorgi dopo che Bonafini si è rifiutata di comparire a due udienze per trattare il caso di appropriazione indebita di fondi pubblici per mezzo di progetti sociali di costruzione di case popolari, Sueños Compartidos: «La mia vita già non vale molto, ho 90 anni. Non ho paura delle conseguenze, nessuna paura delle conseguenze. Per me l’importante è la vita e l’onore dei miei figli e dei 30mila (riferendosi ai desaparecidos della dittatura argentina)».

Prima di Hebe è toccato a Milagro Sala, la leader indigena a capo di Tupac Amaru, l’organizzazione di 70mila iscritti, in maggior parte indigeni, nata per fronteggiare la crisi del 2000 e che, con il lavoro cooperativo ha costruito – durante i governi Kirchner – oltre 4mila case popolari con il lavoro di 150 cooperative. È stata accusata prima di istigazione a delinquere e attività sovversive e poi per frode nei confronti dell’amministrazione pubblica e uso improprio di fondi pubblici (per le cooperative di autocostruzione). Arrestata il 16 gennaio, a pochissimi giorni dall’elezione di Macri al governo, Milagro è ancora in carcere. Senza contare i licenziamenti a tre zeri del Presidente: su tutti, quello del giornalista uruguaiano Victor Hugo Morales (diventato famoso in tutto il mondo per la telecronaca del 2 a 0 di Maradona ai mondiali del 1986), licenziato da un’emittente privata argentina dopo 30 anni di carriera, che ha denunciato: «il motivo è politico».

La repressione targata Mauricio Macri continua, mentre si fa sempre più spaventoso il ritorno alla persecuzione politica nel Paese, l’Argentina, che ha ancora vivo il ricordo della dittatura di Videla. Quella iniziata il 24 marzo 1976, quando il generale José Rogelio Villareal disse a Isabel Martínez de Perón: «Signora, le Forze armate hanno preso il controllo politico del Paese. Lei è in arresto». Cominciò tutto anche allora con un arresto, nella Buenos Aires di Videla dove ogni cinque ore si commetteva un assassinio politico, e ogni tre esplodeva una bomba.

Addio, Grande Lebowski. Scomparso l’attore David Huddleston

«La vostra rivoluzione è finita signor Lebowski, gli sbandati hanno perso». L’incontro tra il Drugo e il grande Lebwoski è forse una delle scene più celebri del film cult dei fratelli Coen. Un film che ha segnato l’immaginario cinematografico e culturale (chi non ha mai bevuto un White Russian?) degli ultimi vent’anni e che oggi saluta il suo protagonista. Il Grande gigante gentile Lebowski, David Huddleston, è morto. A dare la notizia sua moglie, Sarah Koeppe. L’attore aveva 85 anni e una lunga malattia ad accompagnarlo.

Caratterista dalla carriera trentennale, l’attore americano amava i personaggi burrascosi e carismatici. Proprio come Lebowski. Nel film con Jeff Bridges protagonista, David Huddleston compare poco, ma senza ombra di dubbio nei momenti più memorabili. Con il tono serio e duro, l’attore americano smascherava una straordinaria ironia e un altrettanto grande talento.

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David Huddleston in una scena del film cult

Era nato nel 1930 in Virginia e aveva iniziato la sua carriera come ingegnere meccanico dell’aviazione americana. Poi, l’approdo sorprendente all’American Academy of Dramatic Arts e l’inizio della sua carriera. David Huddleston è stato Santa Claus nell’omonimo film di natale del 1985 dopo aver recitato a fianco di John Wayne ed essere stato uno dei protagonisti di Mezzogiorno di Fuoco di Mel Brooks.

In Italia è conosciuto per aver recitato al fianco di Bud Spencer e Terence Hill, ma soprattutto come il ricco magnate di Joel ed Ethan Coen. “Lo riconoscevano come il grande Lebowski anche se non sapevano una parola d’inglese», ha ricordato la moglie.

Il problema è che Renzi vuol fare sempre “All in”. Il Caffè del 5 agosto

Rai e riforme, il Pd si divide. Così titola Repubblica. Rai, innanzitutto: Miguel Gotor e Federico Fornaro si sono dimessi dalla vigilanza denunciando l’occupazione del servizio pubblico per ordine del loro segretario Pd Matteo Renzi nonché premier. Neppure Bersani ha dubbi e definisce “patetica” la “politica che cerca di garantirsi lo storytelling con l’informazione. Repubblica titola nelle pagine interne “Pd nel caos” e biasima le scelte di viale Mazzini anche se – spiega- Bianca Berlinguer andrà a condurre una striscia quotidiana, curata da Santoro, dalle 18.30 alle 19, dal lunedì al venerdì. Disagio anche fra i fedeli di Renzi che ora accusano Campo Dall’Orto di essere un incapace (ci vuole modo nel servire il padrone, per dio!). La Federazione della Stampa e persino il sindacato Rai bocciano il blitz di viale Mazzini: “occupazione di posti e pura lottizzazione”. Nessun piano, nessuna idea, la carretta dove vuole il padrone.

10 parlamentari PD per il no
. Non solo Tocci ma anche Corsini, Nerina Dirindin, Franco Monaco. Luigi Manconi, Massimo Mucchetti. Poi c’è Felice Casson, che non ha firmato il documento dei 10 ma ha aderito al Comitato nazionale per il No. Altri si aggiungeranno quando cadrà l’ultima speme della minoranza, e cioè l’illusione di poter cambiare la legge elettorale prima del voto referendario. Il problema, dice Fornaro, è che Renzi vuol fare sempre “All in”. È ormai in molti gli voltano le spalle.

Stanno provando di nuovo a farmi cadere. Confida il premier, dal Brasile, a Tommaso Ciriaco. A Maria Teresa Meli rivela, invece, di sperare in Berlusconi: «Non farà una campagna sparata per il No». Insomma incassa il colpo e prende tempo. Ripete che lui con le nomine Rai non c’entra, anche se nessuno gli crede, spiega ai suoi accoliti che se prevalesse il No lascerebbe Palazzo Chigi ma non la direzione del Pd. E da quello scranno sbarrerebbe la strada a ogni tentativo di formare un nuovo governo. Apriti cielo, diluvio universale, elezioni inevitabili, non si sa con quale legge, conti dello Stato che vanno in vacca. Renzi 2 la vendetta!

Via ai Giochi (anche dentro il Pd)

Italian Premier Matteo Renzi (c) poses for a selfie with Giovanni Malagò (r), President of the Italian National Olympic Committee (CONI), and former athlet swimmer Massimiliano Rosolino during the team welcome ceremony for the Italian team at Olympic Park Village prior to the Rio 2016 Olympic Games in Rio de Janeiro, Brazil, 04 August 2016. ANSA / CIRO FUSCO

Matteo Renzi è con la famiglia a Rio per l’apertura dei Giochi olimpici. Da lì, tra selfie e strette di mano con gli atleti, dice «sospendiamo per due settimane le polemiche», e suggerisce di restare concentrati solo sul medagliere. Al suo fianco c’è Malagò, del Coni, e il premier pensa soprattutto alle polemiche sulla candidatura olimpica (con la sindaca Virginia Raggi che non ha mandato nessuno a Rio), ma l’appello è suonato nel partito democratico come l’augurio di una tregua estiva. Non che Renzi stia male, eh, nella polemica. Ma siccome il momento è d’oro per le beghe del Movimento 5 stelle alla prova del governo romano, pensa palazzo Chigi, sarebbe un peccato toglierli le castagne dal fuoco con l’ennesima polemica interna ai dem. Polemica che però c’è, e quasi spiace per il premier, perché anche far finta di nulla è faticoso. Due sono i fronti che alcuni colleghi poco olimpici hanno aperto con una certa forza: referendum e Rai.

Sulla Rai, come noto, fanno discutere le nomine dei nuovi direttori dei Tg, in particolare la rimozione di Bianca Berlinguer dal Tg3, con l’arrivo di Luca Mazzà, già vicedirettore di rete, un conclamato renziano (polemizzò con Giannini per la linea di Ballarò, puntualmente chiuso). Non calma la minoranza il fatto che Berlinguer pare abbia conquistato, dopo giorni di trattative, una striscia quotidiana nella fascia preserale e un serale da febbraio: Federico Fornaro e Miguel Gotor – bersaniani – si dimettono comunque dalla commissione vigilanza Rai. Un gesto plateale. Con una nota durissima che si aggiunge alle parole di Speranza che ha evocato l’editto berlusconiano: «È del tutto evidente», scrivono i due, «che le nomine dei nuovi direttori generali rispondono a una logica di normalizzazione dell’informazione pubblica, alla vigilia di importanti scadenze politiche e istituzionali e nulla hanno a che vedere con il progetto di una “nuova Rai” promesso dal Pd e dall’attuale governo e oggi platealmente disatteso».

Ed è proprio il referendum costituzionale – l’«importante scadenza politica e istituzionale» – l’altro fronte, aperto in questo caso da senatori e deputati assai meno pesanti (senza la copertura politica di Bersani, per capirci): in dieci però hanno seguito Walter Tocci e dichiarato il loro no alla riforma costituzionale, al referendum di ottobre (o di novembre, vedremo). I firmatari sono Corsini, Dirindin, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ricchiuti, Tocci, al Senato, e Bossa, Capodicasa e Monaco alla Camera. Nel partito democratico, sia chiaro, prevale ancora la mozione del “nì” su cui sono assestati per il momento – e senza grandi speranze di repentini slanci – Gianni Cuperlo, Speranza & co. Il freno a mano tirato di quel gruppo ve lo raccontiamo nel prossimo numero di Left, e non è quindi ancora grande il problema di Renzi. Anche perché pure la Cgil deve ancora fare la sua scelta. Le diverse anime interne al sindacato si stanno confrontando: per metà settembre dovrebbe arrivare un verdetto e Susanna Camusso potrà smettere di nicchiare. E così alla fine Renzi i Giochi può seguirli tranquillo, come desiderato, ma il ritorno sarà duro anche se la linea sarà quella di tenere dentro tutti, non minacciare cacciate, non alimentare – se possibile – almeno fino allo sprint finale.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 6 agosto

 

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