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Sandro Donati: «Intorno a me il muro di gomma e i delinquenti veri dello sport»

ANSA/KERIM OKTEN

«Allucinante, a contatto diretto con i delinquenti dello sport e il muro di gomma delle istituzioni che di fatto li fiancheggiano. Mi chiami pure». Il messaggio di Sandro Donati prima della lunga conversazione telefonica ci catapulta nel clima in cui vive da mesi l’allenatore e volto storico della lotta al doping. Da fine aprile 2015 Donati, che a giugno ha compiuto 69 anni, è salito ogni giorno a bordo di una bici per seguire gli allenamenti di Alex Schwazer. Quella del marciatore altoatesino olimpionico nei 50 km a Pechino 2008 e squalificato per doping prima di Londra 2012, poteva rappresentare una storia di riscatto, della possibilità di tornare a vincere giocando pulito, ma poi ha preso un’altra piega. Mister Donati, che con la sua denuncia ha contribuito a svelare il doping di Schwazer, diventa il suo allenatore. L’atleta le cui lacrime hanno fatto il giro del mondo vuole ritrovare se stesso e dimostrare di saper vincere senza barare.

Terminato il periodo di squalifica, a fine aprile dello scorso anno, i due intensificano la preparazione in vista delle Olimpiadi: l’8 maggio l’atleta vince i campionati mondiali e conquista il lasciapassare per Rio. Donati non immagina che quel nuovo inizio in realtà si trasformerà presto in un angosciante flashback. Cinque giorni dopo la vittoria, un secondo controllo voluto dalla Iaaf, la Federazione internazionale di atletica leggera, riscontra la presenza di testosterone, poco oltre la soglia consentita, in un campione raccolto il primo gennaio. «Tanti mesi fa diversi amici hanno detto “Sandro, ma sei sicuro che non ti faranno quello che ti fecero nel ’97 con Annamaria di Terlizzi?” e io ho risposto “Ma no, sono passati 19 anni, queste cose non le farebbero più”. Invece è accaduta una cosa ancora più professionale, più spietata, di livello più alto. E ha causato danni irreparabili». Diciannove anni fa l’ostacolista pugliese risultò positiva per eccesso di caffeina e poi negativa alle controanalisi: colpendo lei si voleva arrivare a Donati, che tre anni prima aveva sollevato con un dossier dettagliato il tappeto sotto il quale si nascondevano i nomi di atleti, medici e vertici del Coni protagonisti dello scandalo Epo. Ora l’incubo ritorna e il preparatore conferma: «Nonostante la mia esperienza ho potuto rivedere in faccia, beh, diciamo degli ambienti delinquenziali».

Facciamo un passo indietro, a Natale 2015. Alex e Sandro si separano per pochi giorni: «Dovevo mandarlo un po’ a casa dalla famiglia, a Vipiteno» dice l’allenatore. Il marciatore continua gli allenamenti da solo nei pressi di casa, sempre lo stesso percorso, lungo l’argine del fiume Isarco. A Capodanno arriva un controllo antidoping a sorpresa. Quel giorno il campione viene prelevato solo a Schwazer, in due volte perché inizialmente l’urina era insufficiente. Le analisi saranno effettuate cinque mesi dopo, a maggio, e i risultati comunicati a giugno «rendendo di fatto impossibile ogni tentativo di difesa prima dei Giochi olimpici» spiega Donati. Il quale ricostruisce con Left tutte le possibilità di alterazione del campione raccolto dagli ispettori: o qualcuno ha messo «un po’ di testosterone nella borraccia che Alex lasciava in auto sul luogo dell’allenamento », o la provetta «con un tappo di plastica flessibile e sopra un nastro adesivo» è stata alterata mentre Alex andava in bagno accompagnato da uno dei due ispettori presenti per “completare” la raccolta, o è stata manomessa già prima di arrivare a casa dell’atleta. L’esame del Dna potrebbe dare la certezza di una manipolazione, ma chiederlo con insistenza poteva significare allungare i tempi ed escludere definitivamente la partecipazione di Schwazer alle Olimpiadi.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 30 luglio

 

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L’America di Hillary, che per vincere deve spiegare di essere una brava nonna

Democratic presidential candidate Hillary Clinton reacts to confetti and balloons as she stands on stage during the final day of the Democratic National Convention in Philadelphia, Thursday, July 28, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)

«Di solito le persone su questo podio sono nuove per molti, si presentano a voi. Come sapete non è il mio caso. I miei titoli parlano solo quello che ho fatto. Non spiegano perché. La verità è che, in tutti questi anni di servizio pubblico, la parte ‘servizio’ mi è sempre venuta più facile che la parte ‘pubblica’. Capisco che qualcuno semplicemente non sappia cosa pensare di me. Fatemi dire: la mia famiglia non ha il suo nome su grandi palazzi (riferimento a Trump), la mia famiglia è una famiglia di costruttori di altro tipo: costruttori di un futuro migliore».

Ce l’ha fatta o no, Hillary Clinton a convincere gli americani del suo essere dedita alla loro causa? Quello qui sopra è forse uno dei passaggi cruciali del suo discorso: lo so, sembra che abbia passato la vita vicino al potere per bramosia, in realtà non è così, ma non sono brava a farlo capire. E anche stavolta ci è riuscita a metà. Il suo discorso non è brillante, emozionante come altri che l’hanno precedeuta e nemmeno un attacco feroce a Donald Trump come quello di Biden, il suo è stato come spesso gli accade, un discorso nel quale ha dimostrato di sapere come si governa, di avere competenza e dedizione pancia a terra e provato a dire che lo fa perché è una statista e non una che vuole potere. E che, come ha detto sua figlia Chelsea, è una madre attenta e affettuosa e una nonna che per passare due minuti con il nipote a fare smorfie lascerebbe qualsiasi riunione.

Il tema e il dubbio che restano, che Hillary piaccia o meno, è: abbiamo chiesto a Obama, Bush, Reagan, Carter, Kennedy (e Bernie Sanders) come siano come padri e nonni? Hanno dovuto convincerci anche di quello? Oppure i raggi X a cui è sottoposta l’ex Segretario di Stato sono anche dovuti al fatto che è una donna. E che una donna, se passa tanto tempo vicino al potere, ha qualcosa che non va? È la domanda alla quale gli americani risponderanno a novembre e che i repubblicani e Trump stanno facendo di tutto per insinuare nelle loro teste. Saranno le donne americane a dover rispondere innanzitutto, che una parte dei vecchi maschi bianchi americani ha già deciso.


Il discorso di accettazione di Hillary Clinton

«L’America ha la più dinamica e diversa società e i giovani più tolleranti e generosi che mai abbiamo avuto (e si, anche l’esercito più potente). Non vi fate dire che siamo deboli e che non abbiamo quel che ci serve. E soprattutto non credete a nessuno che vi dica: ci penso io, da solo. Sono parole che dovrebbero allarmare chiunque. Si dimentica le truppe, la polizia e i pompieri, i medici e le infermiere, i maestri e le maestre, le madri che hanno perso i figli, gli imprenditori. Gli americani non dicono Ci penso io, da solo, dicono noi ci pensiamo assieme. I nostri padri fondatori hanno fatto una rivoluzione e scritto una costituzione per dire essere sicuri l’America fosse un Paese dove mai, nessuno, da solo avesse tutto il potere».


Hillary è poi passata a un elenco di cose, aggiungendo: «È vero, sono una attenta ai particolari delle politiche, che si tratti della quantità di piombo nell’acqua di Flint, Michigan o il numero di cliniche per la cura elle malattie mentali in Iowa perché sono questioni importanti per tutti e dovrebbero esserlo anche per il presidente». Un attacco indiretto a Trump che come risposta ha solo detto, appunto, ci penso io, non mi fate spiegare come, che è ovvio che lo so. Il colpo migliore a Trump è però un altro: «Dice che vuole far tornare l’America grande, potrebbe cominciare col fare le sue cravatte in Wisconsin invece che in Cina, i mobili in Ohio invece che in India…»

Infine qualche attacco a Wall Street e slogan progressista: «Se credete che dobbiamo aumentare le paghe per tutti, unitevi a noi, se credete che Wall Street non possa mai più rovinare Main Street (la strada centrale del Paese), unitevi a noi, se pensate che tutti debbano avere accesso alle cure e le donne possano scegliere della loro salute, unitevi a noi…». E poi la promessa di un enorme investimento in infrastrutture che crei lavoro e cambi il Paese e quella di «lavorando assieme con Bernie Sanders» cancellare i debiti degli studenti indebitati, «che se Trump può fallire e non pagare i suoi, non si capisce perché famiglie debbano rimanere indebitate a vita per studiare». E poi anche un discorso sulle tasse ai ricchi e sugli accordi di commercio internazionale (il TTP e il TTIP) uno sulle armi da regolamentare e uno sui giovani americani e latinos discriminati: «Cambieremo il sistema di giustizia penale e ricostruiremo la fiducia tra giovani, comunità e poliziotti».

Un discorso equilibrato, non inseguendo Sanders, ma concedendo molte cose – comprese le tasse ai ricchi e alle imprese che delocalizzano – non un capolavoro. Hillary non poteva farlo: non è una retore, non è una che scalda il cuore e non intende provare a cambiare. Non ci è riuscita in 25 anni di carriera politica, non ci riuscirà di colpo. Probabilmente non vuole: Clinton è convinta di essere pronta a fare bene il lavoro che chiede di essere chiamata a fare così com’è. Dura, quadrata, preparata, antipatica. Proprio come una donna o un uomo possono essere.

Il lavoro del leader non è solo quello di piacere in una serata televisiva vista da 30 milioni di persone. Ma per farlo devi piacere ai milioni che ti guardano e che non votano necessariamente con il cervello – per anni molti americani bianchi hanno votato contro i loro interessi. Nei prossimi giorni vedremo se i sondaggi indicheranno che Hillary è riuscita a convincere gli americani. Di certo la candidata sembrava meno tesa, contratta che in altre occasioni. Se non lei ci dovrebero essere riusciti tutti coloro che hanno parlato prima di lei. Il partito democratico ha dato una prova di forza e di diversità impressionanti – compresa la prima transgender a parlare in diretta Tv da un palco così importante. Specie se paragonati a quelli messi in mostra a Cleveland dai repubblicani.

E se proprio non ci è riuscito nessun altro ci dovrebbe essere riuscito Khizr Khan, padre del capitano Humayun Khan, morto in un attacco suicida in Iraq, che tirando fuori dalla tasca la costituzione ha detto a Trump: «La hai mai letta se vuoi ti presto la mia? Cerca le parole Libertà. Sei mai stato al cimitero di Arlington? Ci vedrai le tombe di tutte le etnie, sessi, religioni. Non hai mai sacrificato niente e nessuno». Forte e convincente. Anche un padre musulmano dall’aria severa, così, avrà dato una mano a Hillary a diventare presidente degli Stati Uniti. Mancano tre mesi e qualche giorno al voto, un voto importante per i pericoli e le possibilità che presenta. Hillary non sarà un sogno di presidente, ma una cosa è certa: è pronta e come Obama, se eletta, avrà fatto la storia.

Esercitare memoria, mica commemorarla

Una'immagine d'archivio della strage del 29 luglio 1983 a Palermo nella quale persero la vita Rocco Chinnici e altre tre persone, i due carabinieri della scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. MIKE PALAZZOTTO/ANSA / KLD

«[…] sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. Nella sola Palermo c’è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani.
Il rifiuto della droga costituisce l’arma più potente dei giovani contro la mafia.
»

Sono le parole di Rocco Chinnici intervistato da Pippo Fava. Era il 1983 e Chinnici sarebbe morto da lì a poco, con una Fiat 126 imbottita da 75 chili di tritolo sotto casa sua. Il 29 luglio di trentatré anni fa moriva Chinnici e a rileggerlo oggi sembra che stia parlando oggi.

«La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. […] La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Se lei mi vuole chiedere come questo rapporto di complicità si concreti, con quali uomini del potere, con quali forme di alleanza criminale, non posso certo scendere nel dettaglio. Sarebbe come riferire della intenzione o della direzione di indagini.»

Io non so se capita anche a voi ma quando è l’anniversario di qualche vittima di mafia mi prende un sentimento di sconforto: se le analisi di qualche decennio fa sono plausibili anche rapportate al nostro presente significa che la strada da percorrere è lunghissima e che le loro idee sono rimaste sotto traccia. Bisognerebbe cambiare le commemorazioni, forse, smettendo di commemorare la memoria e iniziare ad esercitarla; così potremmo rispettarli, i morti.

Buon venerdì.

Una lode a Merkel. Il discorso di Hillary e le manovre in Rai. Caffè del 29 luglio 2016

“Sui profughi non cambio idea”, Corriere. “Guerra all’Isis, ma non chiudo le porte”, Repubblica. Angela Merkel ha detto quello che una statista non poteva non dire. Di questi tempi è cosa rara, e i due principali quotidiani le danno l’apertura. Ora, se l’Europa a guida tedesca volesse essere qualcosa di più di un mercato e di un’unione monetaria che drena denaro verso il centro e mette nei guai le periferie, Merkel dovrebbe rivedere l’accordo con Erdogan, fin quando Erdogan non cambi la sua politica di dura repressione e di violazione dei diritti e delle libertà, e dovrebbe dare un senso a questa frase troppo spesso ripetuta “guerra all’Isis”. Combattere l’Isis significa smettere ogni indulgenza nei confronti dell’Arabia Saudita (la cui dottrina ideologico-politica è troppo simile a quella di Al Bagdadi e di Al Zawairi), trovare un’intesa, un accordo parziale, con Iran e Russia, difendere i curdi, non appoggiare, né dal punto di vista politico né commerciale, nessun governo violi i principi la carta dell’Onu. Vedi l’Egitto. Infine costruire corridoi umanitari, non per accogliere “tutti” i richiedenti asilo, ma per impedire che costoro diventino schiavi di mercanti e terroristi.

Parla Gülen. “Erdogan è avvelenato dal potere”, dice. Ribadisce la sua estraneità al tentativo di colpo di stato di alcuni militari, afferma di volere una Turchia islamica ma che rispetti tutti i valori e i diritti per poter entrare a far parte dell’Unione Europea. Se si legge bene l’intervista dell’imam miliardario ai giornali europei, si capisce che sta parlando all’America: sono io, spiega, l’unica garanzia che che la Turchia non cambi le sue alleanze e non si butti nelle braccia della Russia e di Putin. Ma, questo è il punto, quale sarà la leadership a Washington, non tra anni ma alla fine dell’anno? International New York Times oggi parla della tensione “storica” tra la Clinton e Putin. Trump si è spinto fino a chiedere ai russi di rivelare i testi delle mail che Hillary aveva spostato dagli account del Dipartimento di stato a quelli suoi personali. Oggi giornalisti, fino a ieri incondizionatamente clintoniani e pronti a sfottere e sminuire Bernie Sanders, scrivono che la strada della Clinton è in salita. Perché dire – e far dire a Bill e Barak – «io sono la più brava» non basta. L’americano medio chiede e si chiede: «e a me di questa tua bravura, che ne viene?». «Costruiamo un Paese unito, giusto, tollerante», ha detto stanotte la candidata. Dovrà rispondere alla domanda: Come?

Si prendono pure il TG3, titola il Fatto. Si prendono, chi? Renzi e il gruppo di potere che sta a Palazzo Chigi. L’idea è che la “spazzolata” per i super stipendi al vertice della Rai, vertice recentemente e nella sua interezza nominato da Palazzo Chigi, serva per stringere le maglie e rendere ancora più governativo l’indirizzo di reti e telegiornali. Insomma, Berlinguer avrebbe mostrato qualche asprezza, si sarebbe impuntata a volte, non si sarebbe sempre unita al coro. Dunque, via Bianca (Berlinguer) e dentro Tonino (Di Bella) che è un navigatore di lungo corso. É questa la versione del Fatto. A me sembra che le nomine siano la pagliuzza e che la montagna sia invece il disinteresse del governo per una televisione pubblica: Renzi non ha preteso un piano industriale di risanamento e rilancio, ha scelto i capi e poi non li ha mai difesi, sceglierà nuovi direttori e li terrà sulla corda, pretende ossequio ma come prodotto derivato dell’incertezza e del disprezzo. La grande operazione con i media e sui media Renzi la vuole con i privati. Si capiva benissimo già dal testo della cosiddetta riforma (e dal modo con cui fu imposta). Il problema è che con i privati è più difficile, come mostra la rottura tra Bollorè e Berlusconi, mentre Murdoch è uno squalo globale e aspetta le elezioni in America.

Burocratici e provvisori. Ma Alfano ha firmato i formulari per le unioni civili

Un momento della manifestazione a Piazza del Popolo organizzata delle associazioni lgbt, la manifestazione, dopo l'approvazione al Senato del ddl Cirinnà, punta a richiedere più diritti per le coppie omosessuali. Roma, 5 marzo 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Che sono quindi realtà, pubblicato prima il decreto-ponte con la firma di Matteo Renzi sulla Gazzetta Ufficiale e pubblicato poi il formulario, con la firma di Angelino Alfano, sul sito del ministero. I formulari sono anche stati recapitati ai segretari dei comuni con apposita circolare, in cui si ricorda però, che tutto è provvisorio, in attesa dei decreti delegati definitivi che il ministero della Giustizia dovrà licenziare entro dicembre: il governo ha infatti sei mesi, dall’approvazione del 20 maggio 2016, per chiudere definitivamente la partita. Il Movimento Lgbt, però, può quindi respirare, e concentrarsi sul controllo dell’attività dei comuni e sulla prossima battaglia, soprattutto: sul matrimonio egualitario. Come detto da chi non ha applaudito per delle unioni civili senza adozione, quindi al ribasso, e però anche da chi della legge approvata dal Parlamento si è mostrato entusiasta, sempre.

Tipo Aurelio Mancuso, che oggi, festeggiando il formulario, su facebook scrive: «Rimane il grande dispiacere per le stepchild adoption, e personalmente penso che ora bisogni mirare direttamente a una vera riforma della legge sulle adozioni», ma «ora il testimone passa al nuovo movimento lgbt che dovrà impegnarsi per il matrimonio egualitario e le norme anti omofobia». Norme, quelle sull’omofobia, che sono ferme in parlamento da mille giorni. Il formulario pubblicato da Alfano, è molto burocratico, ma è pronto all’uso. Dà una serie di moduli e verbali da leggere e siglare, perché così saranno le unioni senza rito – un rito che vivrà di festeggiamenti e non di domande emozionanti. Ma insomma, le unioni civili ci sono, e questo conta.

Ecco il formulario sul sito del ministero.

Bernie appoggia Hillary. Il rischio di un voto depresso

Un partito intero che per una volta appariva unito, Bernie Sanders e Michelle Obama, Elizabeth Warren e Cory Booker, hanno cercato di cambiare la percezione che l’America ha del suo candidato presidente. Si è aperta così la convention democratica di Philadelphia. Perché – non c’è che fare – il mondo è cambiato durante la lunga corsa delle primarie

Una scia interminabile di sangue – in Oriente, in America e in Europa – sta creando angoscia e diffondendo paura. L’assassinio all’ingrosso diventa banale, la vita umana vale ogni giorno di meno. Libertà e diritti possono sembrare un lusso. E spuntano demagoghi che promettono alla borghesia inglese una anacronistica restaurazione dei fasti imperiali, alla Germania di tornare “uber alles”, agli operai a stelle e strisce dazi sulla delocalizzazione che cancellino la mondializzazione imposta – guarda un po’! – dal sistema finanziario americano.
Soffia un vento di destra. E spiega il silenzio complice intorno al colpo di stato di Erdogan, i sorrisi e le strette di mano al politicante, forse corrotto e certo golpista che aprirà i giochi olimpici in Brasile, l’indifferenza dinanzi ai 3mila migranti annegati nel Mediterraeno.

Michelle Obama ha parlato ai democratici dei figli che oggi scorrazzano nella Casa Bianca, costruita con il lavoro degli schiavi. Donald Trump parla dei messicani come umanoidi, esseri subumani, proprio come quel Candie, interpretato da Leonardo Di Caprio nel film Djiango, manipolava il cranio di un “negro” per dedurne l’inferiorità della razza. Non si può stringere la mano a un Candie e il dottor Schultz non gliela strinse, a costo della sua stessa vita Né si può accogliere Trump alla Casa Bianca.

A Philadelphia Bernie Sanders ha presentato la sua agenda – salario minimo, college gratuito, assistenza sanitaria per tutti – come se fosse quella della candidata democratica. E la platea lo ha applaudito, forse vergognandosi di quella Debbie Wasserman Schultz che si è dimessa da presidente del partito dopo che Wikileaks ha svelato le sue mail e le sue trame per screditare il senatore del Vermont e fargli perdere le primarie. Scrive Michael Moore che i millennials di Sanders, i liberal e le giovani lavoratrici precarie che lo hanno sostenuto con passione e con rabbia, alla fine voteranno Clinton il 7 novembre, ma il loro sarà “un voto depresso”, “Significa – spiega Moore – che l’elettore non porta con sé a votare altre 5 persone. Non svolge attività di volontariato nel mese precedente alle elezioni. Non parla in toni entusiastici quando gli/le chiedono perché voterà per Hillary. Un elettore depresso”. Come depresso – ne sappiamo qualcosa – era l’elettore italiano di sinistra dopo un anno di governo Monti, dopo che era stato inserito in Costituzione il pareggio di bilancio e che si erano riformate le pensioni scotennando gli “esodati”.

Michael Moore teme che Trump vincerà a novembre. Noi speriamo che abbia torto. Certo vediamo bene come la leadership dei partiti democratici e socialisti appaia oggi superata dalla storia. Racconta cose che la gente non capisce, si ostina a girare la testa verso il passato, promette una ripresa salvifica che non verrà, si affida a una gestione tecnocratica che deprime la partecipazione e non ferma la corruzione.

Un’altra sinistra è possibile solo se si avrà il coraggio di indicare con chiarezza la rotta. Walter Tocci, da dentro il Pd, invita con chiarezza a votare No al referendum costituzionale. Un piccololo segnale positivo.

L’editoriale di Corradino Mineo è tratto da Left in edicola dal 30 luglio

 

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Obama e la sfida di novembre: ancora speranza e ottimismo contro il cinismo di Trump

Alla convention democratica è stato il giorno di Barack Obama,  di gran lunga il miglior oratore in circolazione da otto anni a questa parte, che non si è smentito nemmeno nell’ultimo discorso da presidente ai democratici, ribadendo e ricordando cosa pensi della democrazia – un esercizio faticoso, il migliore che conosciamo – e della necessità americana di avere sempre avanti una frontiera da raggiungere. Un bel discorso, un attacco al populismo delle risposte facili di Trump e un appello all’importanza per l’America e gli americani di guardare al futuro uniti e in maniera positiva, a scegliere il “noi” al posto dell’io-io-io populista di Trump. E poi un elogio di Hillary che «nessuno, mai, è stato così preparato a fare questo lavoro, non io, non Joe, non Bill».

Il messaggio chiaro mandato da Obama è uno ed è una costante della sua presidenza: l’America, gli americani, vincono se guardano avanti con ottimismo, se mettono da parte il rancore, la rabbia, le divisioni che Donald Trump spaccia per cercare di prendere il suo posto.

Il cambiamento non è facile e non vinceremo le sfide i una presidenza e nemmeno nel corso di una vita, ma affrontarlo è quel che dobbiamo fare. E a novembre dobbiamo scegliere cosa siamo come popolo: le differenze tra repubblicani e democratici le abbiamo sempre avute, ma la settimana scorsa a Cleveland non abbiamo ascoltato idee repubblicane, quel che abbiamo sentito è una visione pessimistica del mondo e l’idea che occorra chiuderci in noi stessi. Non c’erano soluzioni serie, ma risentimento, rabbia, odio. E quella non è l’America che conosco: l’America che conosco ha speranze e ottimismo, nonostante i problemi, le fabbriche chiuse, le stragi terribili come quella di Orlando. Ho viaggiato nei 50 Stati e quello che ho visto in momenti di allegria e di lutto, è quel che c’è di bello in America, non quel che c’è di sbagliato.

Quel messaggio di speranza che lo fece trionfare otto anni fa, Obama lo consegna a Hillary Clinton, che ne ha un bisogno terribile perché la gente non vede in lei una figura pulita come è il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti. La sua figura è vista come quella di una che gioca alla politica, qualsiasi cosa dica, faccia, abbia fatto. Il generoso omaggio di Obama al suo carattere è l’ennesimo di una convention che cerca di venderla: ora tocca a lei saper spiegare non solo che è brava a fare il suo mestiere, ma che vuole diventare presidente per gli americani e no per se stessa.

Le parole più efficaci della convention, in termini elettorali sono forse quelle quelle di altre tre figure, piuttosto diverse da Obama e tra loro: il vicepresidente Joe Biden, l’ex sindaco di New York e miliardario padrone di un impero mediatico, Michael Bloomberg e le signora Christine Leinonen, madre di una delle 49 vittime della strage nel locale gay di Orlando, che ha introdotto il discorso di Obama. Parliamo prima del suo discorso breve e toccante. Circondata da due amici del figlio, ha ricordato di come, quando in travaglio, essendo una agente della polizia statale, le misero la pistola in custodia. Oggi, a leggi cambiate, non sarebbe più così. Suo figlio era un sostenitore di Hillary e lei ha scelto di fare un passaggio difficile come quello di parlare del suo dolore e fare campagna contro la diffusione delle armi.

Poi vengono gli attacchi a Trump. Quello di Michael Bloomberg è un appello razionale: l’ex sindaco di New York è un indipendente, ha anche votato repubblicano, ma è talmente spaventato dall’idea di una presidenza del miliardario palazzinaro che ha deciso di metterci la faccia. Ecco cosa ha detto di Trump:

Dato il mio background, ho spesso incoraggiato gli imprenditori a candidarsi, perché molti condividono il mio approccio pragmatico alla costruzione del consenso, ma non tutti. (…) non Donald Trump.

Nella sua carriera, Trump ha lasciato dietro di sé una serie ben documentata di fallimenti, migliaia di cause legali, azionisti arrabbiati,  imprenditori che si sono sentiti presi in giro, e clienti che si sentono derubati. Trump dice che vuole gestire il Paese come ha gestito la sua attività. Che dio ci aiuti!

Sono un New Yorker e so riconoscere una truffa quando la vedo! Trump dice che sarà lui a punire i produttori che si spostano verso il Messico o la Cina, ma i vestiti che vende sono realizzati all’estero nelle fabbriche che pagano bassi salari. Dice che vuole mettere gli americani di nuovo al lavoro (…) Dice che vuole deportare 11 milioni di persone senza documenti, ma sembra non aver avuto mai problemi ad assumerli!

Quanto a Biden, che si è auto-definito “middle class joe” («e a Washington non è un complimento, vuol dire che non sei sofisticato»), si è rivolto a quei bianchi, classe media spaventata e affascinata da Trump. Biden è la loro incarnazione, parla di sé, alza i toni, è truce, sarcastico, ricorda suo figlio morto pochi mesi fa e azzanna il miliardario newyorchese alla giugulare. Sul suo carattere e sulla politica estera.

 

 

Il suo cinismo, la sua mancanza di principi è sintetizzata dalla frase che lo ha reso famoso: “sei licenziato”. Pensate a quel che avete imparato da bambini, a prescindere da dove siete cresciuti. Ma come ci può essere piacere nel dire “sei licenziato”? (you’re fired era la battuta che Trump faceva in tutte le puntate del reality di cui era protagonista, ndr). Davvero Trump sta cercando di dirci che si occuperà della classe media? Ma fatemi il favore! Queste sono parole in libertà e insensate. Io so cos’è la classe media, so perché è forte e perché è unita. Questo qui non ha la più pallida idea di cosa sia la middle class. Non ha idea di cosa sia che rende grande l’America (lo slogan di Trump). A dire il vero, non ha alcuna idea, punto.

Ora, qualsiasi cosa si pensi dei democratici americani e dell’America – e vedremo il discorso di Hillary Clinton stanotte – c’è un fatto che salta agli occhi: con queste primarie e questa convention il partito di Obama guarda alla realtà e cerca di individuare delle risposte: salario minimo più alto, riforma dell’immigrazione e del sistema giudiziario e penale, investimenti in infrastrutture, progressiva legalizzazione della marijuana, ampliamento dell’accesso alla sanità. Dall’altra parte non c’è una ricetta, ma slogan e paure agitate. Le stesse paure che agitano in Europa i Salvini, i Le Pen, i nazisti ungheresi e gente come Nigel Farage. Che dall’altra parte non trovano idee, proposte, ma solo qualcuno che li insegue.

Cinema. I film in concorso a Venezia. E le novità di Locarno e Toronto

Venezia, festival del cinema

Ecco le più importanti novità del  festival del cinema di Venezia e le proposte del festival del cinema di Locarno (al via il 3 agosto) e del Toronto film festival

 

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 73  Al lido, dal al Lido dal 31 agosto al 10 settembre sono tre  i film italiani in concorso Piuma del giovane e talentuoso regista e scrittore pisano Roan Johnson, il documentario Spira Mirabilis di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti e Questi giorni di Giuseppe Piccioni. In gara insieme a grandi maestri come Wim Wenders, Emir Kusturica, François Ozon e Terrence Malick. E ancora il nuovo film dello stilista Tom Ford e del framcese  Denis Villeneuve. Fuori concorso saranno presentati il western  I magnifici 7,  remake di un film anni 60 diretto da Antoine Fuqua, ( che poi aprirà Toronto). Decimo film  per il regista Giuseppe Piccioni in Questi giorni racconta  la storia di un gruppo di ragazze di provincia, negli anni dell’università in cui si fanno scelte che cominciano a sembrare non più rinviabili. Nel cast Margherita Buy, Maria Roveran,  Filippo Timi, Alessandro Averone, Mina Djukic e molti altri. Tratto dal romanzo inedito Color betulla giovane di Marta Bertini, il film è prodotto da 11 marzo, Publispei, Rai Cinema e distribuito da Bim. Quanto a Piuma quarto film di Roan Johnson segue il suo filone più fortunato, quello di una storia di ragazzi, questa volta una giovanissima coppia che mentre sta preprando gli esami di maturità  si ritrova alle prese con una gravidanza inattesa e «con il mondo che inizia ad andare contromano».  A calarsi nei panni di Ferro è Luigi Fedele, mentre Cate è Blu Yoshimi. Prodotto da Palomar e Sky Cinema, con il contributo del Mibact il film è distribuito da Lucky Red. Infine Spira mirabilis è un film documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti immaginato come una sinfonia visiva sui quattro elementi,aria, acqua, fuoco e terra.

Il regista e stilista Tom Ford è atteso al varco della seconda prova. A Venezia presenta in concorso Nocturnal animals, interpretato da Jake Gyllenhaal, Amy Adams. Come il precedente film A Single Man, che regalò a Colin Firth una Coppa Volpi a Venezia è una storia che affronta il tema della perdita di un amore. Il film è un adattamento del romanzo di Austin Wright, Tony and Susan, ( pubblicato in Italia da Adelphi)  un thriller esistenziale  la cui sceneggiatura è stata scritta dallo stesso Ford.

Quanto a Frantz, sedicesimo film di François Ozon ( nel cast c’è l’astro nascente francese Pierre Niney) è stato scritto dal regista ed inizia in una cittadina tedesca poco dopo la Prima guerra mondiale. È la storia di Anna che si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Franz, ucciso in Francia. Finché un giorno Adrien, un misterioso ragazzo francese, porta dei fiori alla tomba e la sua presenza susciterà delle reazioni imprevedibili in un ambiente segnato dalla sconfitta tedesca innescando una storia imprevista.

-pardo-4-NEG-CopiaLOCARNO FILM FESTIVAL Su il sipario sulla 69esima edizione del festival di Locarno in piazza grande dal 3 al 13 agosto, con una edizione che il direttore artistico Carlo Chatrian ha voluto dedicare  a due grandi autori Abbas Kiarostami e Michael Cimino, entrambi «amici del Festival» e recentemente scomparsi. L’edizione  2016 della rassegna punta «a rinnovare la tradizione di una manifestazione votata alla scoperte cinematografiche». A partire dal film d’apertura, The Girl with All the Gifts del regista scozzese Colm McCarthy che ci porta in un futuro distopico che tuttavia mantiene solidi legami con temi d’attualità. Mentre il film di chiusura Mohenjo Daro di Ashutosh Gowariker promette un epico gran fonale con musiche e danze, com’è nella migliore tradizione cinematografica indiana. La storica rassegna cinematografica svizzera quest’ann festeggia Stefania Sandrelli e ai suoi 55 anni di carriera, avendo debuttato a soli 15 anni in Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi per poi intraprendere una ininterrotta carriera che l’ha portata a recitare al fianco di Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman, ma anche Robert De Niro e Gérard Depardieu e Jean-Louis Trintignant. Versatile e brillante Sandrelli riceverà il 5 agosto il Leopard Club Award 2016 in piazza Grande. «Stefania Sandrelli è una di quelle attrici che meglio hanno accompagnato la grande novità portata dal cinema a partire dagli anni Sessanta – spiega il direttore Carlo Chatrian-. Capace di giocare tra innocenza a malizia, non solo ha dato vita a personaggi indimenticabili, ma ha incarnato un modello di donna che senza rompere con il passato è perfettamente in grado di raccogliere le sfide della modernità. È tra le poche interpreti ad aver saputo cogliere nel segno sia quando andava a toccare le corde dell’immaginario popolare sia quando si è confrontata con l’universo rigoroso di autori come Bertolucci, Scola o de Oliveira».Come accennavamo, merito speciale di Locarno è l’essere sempre andato alla scoperta di cinematografie poco esplorate nei festival mainstream, avendo un occhio attento alla qualità del cinema d’autore da tutto il mondo. Ai film di cui sicuramente risentiremo parlare  in futuro è  dedicata la sezione Signs of Life che «presenta lo spartito del cinema che verrà. Otto prime mondiali sparpagliate e raccolte tra Siria, US, Serbia, Israele, Brasile, Paesi Bassi e Polonia, trainate dal sapere di un maestro come Júlio Bressane e dall’imprevedibilità di Fiona Tan. Tutte marchiate da una promessa: i confini della sperimentazione non finiscono mai. E poi ecco gli Open Doors Screenings 2016, piattaforma per i talenti del cinema contemporaneo del Bangladesh, Bhutan, Myanmar e Nepal. Nella sezion Open Doors anche una prima mondiale: si tratta di Hema Hema: Sing Me a Song While I Wait , quarto lungometraggio di Khyentse Norbu che sarà presentato a Locarno dal produttore britannico Jeremy Thomas (premio Oscar nel 1988 per L’ultimo imperatore) e dal giovane produttore butanese Pawo Choyning Dorji. Tra i protagonisti degli Open Doors Screenings anche  Mostofa Sarwar Farooki (pluripremiato regista bengalese), Midi Z e The Maw Naing (due fra le più ispirate giovani voci del Myanmar, il nepalese Min Bahadur Bham (al suo primo lungometraggio The Black Hen),  il nepalese Deepak Rauniyar  e altri giovani talenti dell’Asia meridionale. Ecco tutte le novità di Locarno sezione per sezione.

toronto-film-festival-placeholderTORONTO FILM FESTIVAL  Insieme a Cannes, a Locarno e Venezia, quella canadese è una delle rassegna cinematografiche più prestigiose e seguite.  Ques’anno si svolgerà dall’8 al 18 settembre. Ad inaugurare la kermesse sarà il film di Antoine Fuqua I magnifici sette, remake di un western anni Sessanta con attori come Denzel Washington e Ethan Hawke fra i protagonisti, insieme  Byung-hun Lee e Peter Sarsgaard. Atteso  il film di Oliver Stone biopic su Edward Snowden  e poi The Tennessee Kids, Jonathan Demme, Queen of Katwe della regista indiana Mira Nair, Frantz di François Ozon e da non perdere il film sul poeta Neruda di un regista originale e coraggioso come Pablo Larraín, già autore di Qui il programma completo di Toronto

Carceri italiane sempre più affollate. Ci sono anche 43 bambini

Aumenta il numero di detenuti all’interno delle carceri italiane: in un anno sono cresciuti di 1318 unità. Circa 20mila di questi potrebbero accedere a pene alternative, e crescono quelli in custodia cautelare, ancora in attesa di giudizio. Non siamo ai livelli critici del 2010, in cui si registrò un record di detenuti all’interno delle carceri, ma bilancio sullo status degli istituti di pena che emerge dall’ultimo rapporto di Antigone non è rassicurante.
La situazione era migliorata dopo la famosa sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del gennaio del 2013, in cui il nostro Paese venne condannato per la situazione critica di sovraffollamento delle carceri italiane. L’Italia, affrontò il problema, e, grazie alla collaborazione con la Corte di Strasburgo, riuscì a far diminuire i numeri dei carcerati e a migliorare le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari – grazie sopratutto al decreto «svuota carceri». Ma secondo Antigone la situazione sta progressivamente tornando ai livelli del 2010. Per una serie di motivi.

Aumentano le misure di custodia cautelare. Per Antigone l’aumento di persone nelle carceri è dovuto soprattutto all’intensificarsi delle misure di custodia cautelare previste dal nostro ordinamento penale: erano 17830 i detenuti in custodia cautelare nel giugno del 2015 contro i 18908 del 2016: l’aumento dei «presunti innocenti» è di 1078 persone in più su un totale di 1318 complessive. Un numero significativo.

Il numero delle persone in pena alternativa cresce, ma cresce troppo poco: nel 2010 il numero di costoro cresceva in proporzione a coloro che erano detenuti. Questo avvenne soprattutto per il decreto «svuotacarceri» del 2010, che permetteva di passare l’ultimo anno di pena ai domiciliari anziché in carcere – il periodo fu poi esteso a un anno e mezzo. Sono in totale più di 28mila le persone che «godono» di misure penali alternative alla galera, ma, secondo Antigone, altre 20mila persone potrebbero scontare una pena diversa dal carcere, in tutto il 56,2% dei condannati in via definitiva.

Crescono gli stranieri: erano 17207 nel 2015, sono 18166 nel 2016. I detenuti di origine straniera sono cresciuti il triplo dell’ultimo anno rispetto a quelli italiani: l’aumento è di , rispettivamente, 959 unità contro 359. é comunque bassa la percentuale degli stranieri tra gli ergastolani: sono solo 98 su un totale di 1673 persone.

Sono 21 i suicidi nei primi sei mesi del 2016. In tutto il 2015 se ne sono registrati 43.

Aumentano i detenuti per la violazione della legge sulle droghe. Nonostante la Consulta abbia dichiarato anticostituzionale la Fini-Giovanardi e depenalizzato il possesso di droghe, c’è stato un aumento di 629 persone detenute per violazione della stessa. Al giugno 2016 in detenzione per possesso di stupefacenti vi sono 18941. Antigone ritiene che, se passasse la legge sulla legalizzazione dell’intergruppo parlamentare guidato da Benedetto della Vedova, molte persone sarebbero scarcerate.

In carcere anche 43 bambini sotto i tre anni. Non hanno commesso alcun reato, sono lì con le loro mamme. Sono 39 le madri detenute nelle carceri italiane con figli a carico sotto i 3 anni.

Oltre il 50% dei detenuti fa uso di psicofarmaci perché soggetto a problemi psichiatrici. Secondo Antigone il sorgere di patologie mentali è dovuto alle condizioni materiali in cui vivono i contenuti, tra cui la pessima condizione delle celle, che non rispettano i minimi previsti dalla legge – si pensi che nel carcere di Verona Montorio non vi sono nemmeno i bagni. È poi carente il numero di operatori sanitari, come psichiatri e psicologi, per via dei costi, e le terapie farmacologiche vengono perché più facilmente gestibili – anche se, potenzialmente, molto più dannose. Inoltre c’è un uso intensivo dei “reparti psichiatrici”, aree nelle carceri in cui ospitare i detenuti affetti da tali patologie. L’uso di tali reparti è, sempre secondo Antigone, “indebito” e funzionerebbe da contenimento per detenuti problematici ma senza patologie diagnosticate.

Papamarxista. Caffè del 28 luglio 2016

Come proteggerci? Lupi solitari o soldati dell’Isis, animati da “furore rabbioso”, come pare lo chiamino in Germania, senza altri attributi ideologici, o preda di “follia islamica”? Come che sia, costoro sparano al supermercato, ammazzano vecchi e bambini sul lungo mare di Nizza, sgozzano in chiesa. Dove e quali sono le falle nella rete che dovrebbe proteggere i nostri diritti e le nostre libertà? Adel Kermishe aveva tentato per due volte di andare in Siria. Non ci si va per prendere il sole, ma per ammazzare e prepararsi a morire da kamikaze. Alla fine è stato arrestato, carcere preventivo, perché un’intenzione non è ancora reato. Il suo profilo è apparso quello di un giovane senza identità, déraciné dicono i francesi, con disagi mentali e pulsioni suicide. Allo scadere dei termini di carcerazione preventiva e davanti alla sua promessa di mettere la testa a partito e di lavorare cioè come aiuto psicologo per dare una mano a gente come lui, era stato mandato a casa ma con un braccialetto al polso che gli consentiva 4 ore di libertà, dalle 8 alle 12. In quelle 4 ore ha sgozzato padre Jacques. Pare che in carcere gli fosse stata trovata una sim che usava per tenere rapporti con gaglioffi suoi pari. Circostanza sottovalutata. Di certo si teneva in contatto con Abdel Malek, un coetaneo che viveva in Savoia, 600 chilometri più a sud. Costui era stato “attenzionato” da un servizio segreto straniero che, stavolta, aveva informato i francesi. Una foto segnaletica con su scritto: “quest’uomo vuole colpire in Francia”. Lo cercavano da due settimane. Abdel aveva detto alla madre “vado a trovare dei cugini a Nancy” e invece era corso a Saint Etienne du Rouvary, in alta Normandia. Aveva dormito a casa di Adel Kermishe, insieme avevano recitato e ripreso (con la telecamera di un telefonino) la professione del martire e se ne erano andati a fare un martire vero, padre Jacques. Da quel che sappiamo si evidenziano tre falle. Dei terroristi sospetti -in Francia li marcano con una S- vanno studiate, in primo luogo, le comunicazioni: uso del telefono, dei social network, ricerche in rete. Si può fare? Si fa: chiunque voglia vendervi qualunque cosa sa molto delle vostre consuetudini in rete. Ma si fa per vendere merci, non per difendere libertà e diritti. La seconda falla riguarda la collaborazione, carente, tra polizie e servizi segreti. La terza – che è la più difficile da riparare- sta nell’assenza di controllo sociale, controllo che scema quanto più la società è “liquida”. Di Adel, di Abdel, di Ali Sonboly -quello di Monaco- qualcuno sicuramente si era accorto, aveva capito o sospettato. Ma ha pensato che non fosse affar suo intervenire: “a me che importa?”.
È guerra ma non di religione. Parole dette da Bergoglio e riprese, nel titolo, da Repubblica. È un fatto che la lunga pace -70 anni, dal 1945 al 2015- sia ormai finita. O meglio, è un fatto che le guerre regionali (in Afganistan, poi nei Balcani, infine in Iraq), guerre che l’imperialismo pensava di controllare, siano ormai fuori controllo. Lo testimoniamo la guerra saudita (e di Al Qaeda) nello Yemen, i massacri quotidiani in Siria e in Iraq, che nessuno riesce a chiudere perché ognuno cerca di lucrare posizioni e opportunità per il dopo, e le scorrerie mortifere in Somalia, nel Sahara, nell’Africa sub sahariana. Sono guerre in cui si scambiano armi con petrolio, guerre per il controllo dell’acqua, conflitti che attuano la pulizia etnica per gettare le basi di stati più “omogenei”, guerre per l’egemonia sul medio oriente. Inoltre è in crisi il sistema di alleanze militari con cui l’Occidente ha dominato il medio oriente: lo dimostrano il ruolo che ha potuto svolgere Putin in Siria, e ancora di più la follia ondivaga e il colpo di stato di Erdogan in Turchia, nel paese, cioè, che muove il secondo esercito della Nato. Da tempo Bergoglio parla di “terza guerra mondiale a pezzi” e denuncia “interessi, commercio delle armi, controllo delle risorse”. Un gesuita che scimmiotta Marx -scrivono Libero e il Giornale-, quando critica l’imperialismo e vuole rompere il cordone tra chiesa cattolica e potere occidentale. C’è anche questo: Bergoglio sa che la chiesa di Costantino non può, oggi, che veder diminuire le vocazioni e il numero dei fedeli. Ma il Papa sa pure che persino le guerre di Maometto (e poi il massacro del suo “successore” Ali e l’inizio dello scisma tra sunniti e sciiti) furono guerre per il potere. Tanto più lo sono quelle di oggi. Ricorda come Bin Laden volesse riscattare i correligionari e connazionali sauditi dal giogo americano e che l’attentato alle Twin Towers serviva per dimostrare la praticabilità del suo progetto e per punire la monarchia saudita, colpendola negli interessi, mondializzati e prima di tutto americani. Bergoglio sa che Daesh vive del controllo di una parte della Siria e dell’Iraq. Se lo perdesse, scemerebbe il suo appeal ideologico e, col tempo, diminuirebbero anche gli attentati. Sa infine come il miglior regalo che si possa fare ai tagliagole wahhabiti e salafiti è di accusare l’Islam in quanto tale. Questo sì, li aiuterebbe a vincere le loro guerre e a moltiplicare le vocazioni al martirio.
Passo falso (?) di Trump sui russi. Il titolo è del Corriere, il punto interrogativo è mio. Per togliere la scena alla Convention di Philadelphia, il miliardario candidato si è rivolto al caro nemico Putin e gli ha chiesto di trovare e svelare al più presto il testo delle mail che Hillary ha spostato dagli account del ministero degli esteri e quelli suoi personali. Donald ha solo giocato di sponda: erano stati alcuni idioti clintoniani a evocare una manina russa dietro la pubblicazione (firmata wikileaks) delle loro trame per screditare Sanders e far vincere Hillary. Tuttavia questo appello diretto a un russo da parte di un candidato alla Casa Bianca non s’era mai visto prima. Non credo che sia un passo falso. L’americano medio non teme più che “ultracorpi” sovietici invadano il Midwest e ritiene che i pericoli per l’American Lifestyle vengano piuttosto dalle trame e dalle alleanze che le élite di Washington hanno imposto al paese. Obama ha cercato di chiudere, in modo ordinato e con onore, l’epoca del super imperialismo a stelle e strisce, ora Trump vuole andare oltre: facciamoci i fatti nostri, usiamo semmai la forza militare a tutela dei nostri interessi immediati. Punto. Trump a Washington, Erdogan che stringe con Putin un patto del mar nero, i russi in Siria, il canale della Manica più profondo. Viviamo già in un altro mondo. Hillary, Angela, François lo capiscono?
Il governo non c’è più. Il Fatto racconta così quello che l’amorevole Maria Teresa Meli aveva chiamato “strategia del sommergibile”, cioè l’immersione nel balbettio e nell’irrilevanza dell’ex fenomeno Renzi. Vi sembro ingiusto? “In questo lungo e caldo mese -scriveva Renzi a fine luglio del 2015- siamo stati impegnati su più fronti. Le due parole d’ordine sono sempre le stesse: riforme e crescita”. Spavaldo, aveva appena umiliato il Senato, imponendo la “riforma” della scuola. Saldo nei suoi stivali annunciava la ripresa economica. Un anno prima, nel luglio del 2014, Matteo usciva fresco, fresco dal 41% alle europee e stava per imporre al Senato, a colpi di canguro e in pieno agosto, la “riforma” di ben 47 articoli della costituzione. “Ora nessuno fermerà il cambiamento”, diceva trionfante. E oggi, dopo appena due anni? Napolitano (sic) scopre che il nostro sistema politico è tripolare -lo è da tre anni- e che l’italicum non va bene. Di referendum non si parla, se non facendo il verso al Fellini- Veltroni: non votate No, non interrompete (per favore) un’emozione (quella che provano i ministri entrando in auto blu a Palazzo Chigi. Sulla ripresa scende il silenzio. Dov’è la grinta, dove la mascella volitiva e l’entusiasmo dei clientes? Sic transit gloria mundi.