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Bergoglio assolve tutte le religioni per salvare la sua

Da ieri mi chiedevo come avrebbero difeso le religioni, quelle importanti, quelle che hanno fatto la Storia per davvero, dai segni del tempo. Perché il tempo le ha segnate le religioni, le ha smascherate, e oggi ne mostra ancora le tragiche atrocità. Guardavo una delle tante trasmissioni televisive mattutine, il titolo era “L’ira della religione”, e cercavo di seguire il pensiero degli ospiti. Di vedere se aveva un inizio, uno svolgimento e una fine. E mi chiedevo come le avrebbero difese le loro religioni, il cristiano e il musulmano. A confronto entrambi. Ma niente, nessuna linea, nessuna coerenza, solo paura del tempo e dei segni. Il sotterfugio, la scappatoia è quella del dialogo interreligioso ma è poco durevole, perché poi la mano scappa sempre, e la religione dell’uno è sempre meglio di quella dell’altro. Eccolo il tempo e i suoi segni.

Poi questa mattina Bergoglio. Non ho nulla contro questo papa, che per me è un papa. Ne ho studiati tanti tantissimi, alcuni buoni altri cattivi. Di solito si alternano nei secoli, linea dura e linea morbida. Funziona. Questo è buono, è bravo. Nel senso che è un papa abile. Ha risposto alla mia domanda, perfettamente. Come difendo le religioni dai segni inesorabili del tempo? Le società si laicizzano, le fedi perdono pezzi, i riti appaiono ridicoli, il sapere su identità di appartenenza e religiosa corre veloce, il rischio di una liberazione da tutte le religioni per assurdo è pressante. E a ricordarci inesorabilmente il “frutto proibito delle religioni” ci si mette pure l’Isis con quella violenza assurda che ci riporta ai secoli dell’Alto Medioevo. Diamine che guaio.

E così come scappiamo? Come le salviamo queste strane ideologie che dicono che c’è un solo Dio, ma poi ognuno ha il suo, e che nel nome di quel Dio che non si vede ma è come scrive oggi Bagnasco, “vero ideale”, bisogna riempire il “proprio vuoto spirituale”?  Perché se il punto di partenza è questo: il vuoto di tutti, il vero ideale e il fanatismo, il punto di partenza è sempre lo stesso e Bergoglio deve disperatamente cercare di tenere botta.

L’eroe dei nostri giornali e dei nostri commentatori – anche oggi guardavo in silenzio la mia trasmissione mattutina – papa Bergoglio, ha risposto alla mia domanda. Come scappiamo? Come freghiamo il tempo che morde? «Siamo in guerra, guerra vera. Non di religione, no. Tutte le religioni vogliono la pace, la guerra la vogliono gli altri».

Capito? La guerra la vogliono e la fanno gli altri, le religioni non c’entrano niente. Non hanno responsabilità. Vogliono la pace tutte (a questo punto anche a uno storico di mediocri vedute si attorcina lo stomaco). La guerra la fanno gli uomini brutti e cattivi. E i commentatori gioiscono: non fa il gioco dell’Isis, non è una guerra di religione, bravo il papa a dire che le religioni non c’entrano nulla, se non ci fosse lui…. Fatto, religioni salve per oggi. Poi vediamo domani.

Strategia: per salvare la religione, la propria, occorre salvarle tutte perché smascherata una, smascherate tutte. I segni del tempo sono implacabili. E Bergoglio lo sa. E mentre lui sfonda, Bagnasco ricostruisce uguale nei secoli dei secoli: «Non si può dialogare solo in termini economici, politici, finanziari… Occorre un’Europa più umanistica, più cristiana… Proprio in una visione antropologica il cristianesimo riassume il meglio dell’esperienza umana universale». Sempre il meglio ovviamente.
Eppure il tempo corre, e i suoi segni sono inesorabili. Quel presunto “vuoto spirituale” da riempire con qualche Dio trasparente sembra sempre più ridicolo. E le religioni? Un problema. Sembrano sempre più un problema. Serio.

I dati allarmanti di un’altra crisi migrante: quella del Centro America

Tra il Centro America e il Messico corrono 1,149 km di confine che dividono l’oceano Pacifico dal mare dei Caraibi. Lungo quella lingua di terra, che ospita alcuni dei territori più poveri della regione, ogni anno si spostano circa 400.000 immigrati irregolari. Per scappare dalla violenza dei Maras – le bande criminali che controllano il triangolo centroamericano formato da Guatemala, El Salvador e Honduras – e dalla povertà endemica che fiacca l’economica della regione, centinaia di migliaia di donne, uomini e bambini sono costretti ad affidarsi ai trafficanti. Per entrare, poi, in Chiapas, nel sud del Messico dove la popolazione sopravvive con appena due dollari e mezzo al giorno.

Il corridoio che collega l’America Latina agli Stati Uniti, e che passa attraverso il Messico, rappresenta uno dei passaggi migratori tra i più battuti al mondo. Sono circa 1 milione e mezzo i sudamericani ad aver ormai abbandonato il triangolo del NTCA (Guatemala, El Salvador e Honduras), 12 milioni i messicani che vivono fuori dal proprio paese. Negli ultimi anni, secondo i dati raccolti nel rapporto pubblicato dall’International Crisis Group, organizzazione transnazionale che svolge attività di ricerca in campo di conflitti e violenze internazionali, l’emigrazione dal Messico ha subito un’inflessione mentre è aumentata l’immigrazione clandestina. Le ragioni sono molteplici, ma pesano soprattutto le deportazioni di massa verso il Messico operate dagli Stati Uniti che hanno fatto del paese di Zapata un territorio di transito e ora di stallo, dove gli immigrati attendono il ricongiungimento con i familiari già fuggiti altrove o l’approvazione della propria richiesta di asilo.

La lenta burocrazia e una legislazione insufficiente a provvedere alle richieste, ingolfano il sistema facendo crescere la paura e arricchendo le tasche delle bande criminali che provano a garantire la gestione del fenomeno migratorio. L’inasprimento delle misure di controllo potenziate dall’amministrazione Obama a seguito della crisi umanitaria scoppiata nel 2014, ha indebolito le garanzie di un accesso sicuro nei paesi destinatari di migrazione, senza però frenare il fenomeno. Le domande di asilo arrivate in Messico sono raddoppiate e così le approvazioni, ma non basta. I migranti sono troppi, continuano ad aumentare e molti di loro vengono respinti. Soltanto lo scorso anno, scrive il Guardian, il Messico ha deportato 165,000 centroamericani, mentre gli Stati Uniti ne hanno espulsi 75,000.

A chi cerca di sfuggire dalla regione più violenta del Pianeta – El Salvador, Honduras e Guatemala sono tre dei cinque paesi più pericolosi al mondo -, non resta che affidarsi alla clandestinità. Oltre ad essere estremamente rischiosa, l’immigrazione clandestina è per i sudamericani  (o forse sarebbe meglio dire, con una triste e facile generalizzazione, per i migranti di tutto il mondo) estremamente costosa. Per garantire il passaggio di confine, le gang di criminali che gestiscono il traffico insieme ad un nugolo di ufficiali di polizia corrotti, chiedono alla popolazione migrante cifre esorbitanti, ma necessarie per evitare estorsioni ulteriori, la detenzione nelle carceri o il rapimento. La protezione e l’incolumità si pagano a caro prezzo e così la speranza di un approdo sicuro. I migranti diventano quindi preda facile di trafficanti e contrabbandieri di ogni tipo. Intraprendono strade poco battute, pericolose e per chi viene catturato o deportato, il rischio è quello di entrare in un incubo molto peggiore di quello lasciato partendo. I più a rischio sono, inevitabilmente, le donne e i minori non accompagnati.

Considerata come la crisi migrante più grave dall’inizio degli anni Ottanta, il massiccio fenomeno che sta interessando il centro-sud del continente americano è causato da un’escalation di violenze e corruzione che ha reso pericoloso, quando non impossibile, il vivere quotidiano. Soprattutto ad alcune delle categorie sociali più fragili. In un lungo articolo pubblicato sul proprio sito, l’Unhcr raccoglie la testimonianza di una delle tante voci spezzate del Centro America: agente di polizia di una delle unità che si occupa della protezione dei testimoni di omicidi e rapimenti, Carolina (nome di fantasia), è stata costretta, sotto le minacce delle gang criminali locali, ad abbandonare El Salvador alla volta del Messico. Il viaggio, impervio e pericoloso, è costato a Carolina e suo figlio, oltre 2000 dollari americani consegnati nelle mani dei trafficanti e l’arrivo in Messico in un centro di detenzione per richiedenti asilo dove la sua richiesta di asilo è stata esaminata.

Le violenze e il racket guidano il fenomeno migratorio, mentre urge la reazione dei governi. La Costa Rica ha annunciato di voler offrire protezione temporanea a 200 tra quei rifugiati centroamericani in attesa di ricevere asilo negli Stati Uniti. La notizia arriva a margine del riconoscimento ufficiale da parte dell’amministrazione Obama della presenza, tra i migranti, di rifugiati. Una differenziazione scivolosa, su cui si è già trovata a cadere l’Europa nella gestione della crisi del Mediterraneo. Il governo statunitense ha poi annunciato di voler potenziare quegli strumenti che possano permettere, soprattutto ai minori, un più facile ricongiungimento con i genitori già residenti sul suolo americano.

Ma non basta. I governi locali devono garantire a coloro che lasciano il proprio paese l’opportunità di ricevere asilo e di un procedimento burocratico d’approvazione delle richieste che sia rapido ed efficiente. Oltre a ciò, è necessario provvedere all’introduzione di politiche che possano rafforzare la sicurezza economica e sociale nella regione. A lanciare questo duro monito è l’ICG che si rivolge direttamente ai governi di El Salvador, Honduras, Guatemala e Messico affinché mettano fine a quelle deportazioni forzate, ai quei rapimenti, minacce ed omicidi che sembrano essere ormai diventati fenomeni cronici a un’insicurezza sociale profonda.

Obama infiamma la convention democratica, ecco il video

President Obama gives his acceptance speech at the  Democratic National Convention in Charlotte, N.C., on Thursday

Dopo l’appassionato discorso di Michelle ora è la volta del presidente Barack Obama, che infiamma la convention democratica a Filadelfia chiedendo agli elettori di non disruggere il lavoro fatto fin qui, di continuare la sua eredità votando per Hillary Clinton alle alezioni di novembre. Obama ha sostenuto con calore la Clinton parlando di lei come la persona più qualificata nella corsa per la Casa Bianca. In un lungo intervento, alla «visione pessimistica» emersa dalla convention repubblicana, ha contrapposto un nuovo «ottimismo per il futuro dell’America». «Abbiamo superato la peggiore recessione degli ultimi 80 anni», ha detto Obama, «abbiamo fatto sì che la copertura sanitaria non sia un privilegio per pochi, ma un diritto di tutti», «abbiamo riportato le truppe a casa». E poi ha attaccato frontalmente il demagogo repubblicano Donald Trump che, dice l’attuale presidente Usa, «sa offrire solo slogan e paura». Il tycoon via twitter non ha perso occasione per attaccare la visione obamiana che, a suo dire, sarebbe una rappresentazione ottimistica degli Stati Uniti, che non considera «i milioni di persone meravigliose che vivono in condizioni di povertà, violenza e disperazione”. (Ipse dixit l’uomo che si fece da solo e in modo assai spregiudicato).

In una atmosfera di festa (ma alcuni sostenitori di Sanders giravano con il nastro adesivo sulla bocca per dire di essere stati silenziati) Obama ha ripercorso le tappe della sua presidenza, ricordandone i punti più alti, i successi, sottolineando con forza e orgoglio di essere pronto a «passare il testimone» per darlo a chi può portare avanti quella speranza, (hope), e quel cambiamento, (change), che sono state le parole chieve della sua vittoria nel 2008.

Poi l’abbraccio con Hillary Clinton, salita a sorpresa sul palco. L’America è «più forte» di quando «abbiamo iniziato», ha detto Obama «Vi chiedo di fare per Hillary quello che avete fatto per me otto anni fa», «per dire no al cinismo e respingere la paura».

Guarda il video originale del discorso di Obama

Gli Agnelli che scappano nella penombra

JOHN ELKANN

Il tradimento dell’anno non è Higuain alla Juventus, anche se la prosopopea del calcio ha risonanza popolare, ma la fuga degli Agnelli dall’Italia. La famiglia (tra le più abbeverate dallo Stato) ha deciso che è giunta l’ora di smettere di fingere spostando con la leggerezza di una gita fuori porta la propria cassaforte (la holding Exor) in Olanda come era già successo per Fca, Chn e Ferrari.

Il vaffanculo all’Italia ha una sintassi pomposa: secondo il comunicato aziendale l’operazione serve per costruire  “una struttura societaria più semplice, che risponda meglio al crescente profilo internazionale della società e dei suoi business”. Se ci fossero i sottotitoli sarebbe “perché dovremmo accanirci su un Paese in declino e fiscalmente asfissiante quando in giro per il mondo ci sono posti favolosi?”. Una cosa così.

Eppure il carrozzone Fiat sbriciolato fuori dai confini nazionali ha anche un preciso significato politico poichè dimostra chiaramente che si può essere rivenduti come benefattori anche senza benefare un emerito niente: “Abbiamo fatto scelte difficili per poter continuare a produrre in Italia” disse tre anni fa il compitissimo Jhon Elkann. E poi aggiunse l’anno seguente di essere “contento perché Fiat è ancora più italiana e ha le forze che rendono la componente italiana del gruppo ancora più forte” fino al 25 luglio del 2014 quando in coppia come Renzi disse “Siamo molto orgogliosi di essere qua e di farle vedere come Fca avrà una presenza sempre più forte in Italia”.

La Fiat, per intendersi, è il giocattolo del rapacissimo Marchionne che minacciò i propri dipendenti in occasione del referendum tra lavoratori (“se non si raggiunge il 51% spostiamo tutto fuori dall’Italia” disse sornione; la Fiat (in tutti i suoi derivati) è il predellino sopra cui lo stesso Renzi ci ha insegnato che Marchionne, secondo lui, ha fatto per l’Italia più dei sindacati. Viene da riderne ancora oggi, a ripensarci.

Non fa sorridere certo la fine della storia: gli Agnelli se ne sono partiti con il loro fagotto. Troppo difficile stare in un Paese in cui la ripresa è lo slogan di quattro paninari assurti al governo, devono aver pensato, meglio fare gli italiani sulla pelle degli altri. Tanto non ci smentisce nessuno, si saranno detti, anzi: ci celebrano.

Bene. Avanti così.

Buon giovedì.

Legge sulla musica dal vivo. Salva lavoro e arte

Quante volte a un musicista è stata rivolta la terribile domanda: «Ma tu che lavoro fai?». Come se fare il musicista non fosse un lavoro. Inutile spiegare la fatica di ore di studio a casa ogni giorno, le infinite prove, i viaggi, e anche il tempo speso per la formazione iniziale, le scuole, i conservatori. E come se non bastasse, se non lavora 120 giorni all’anno, niente contributi. Per chi fa musica e non è dipendente di una fondazione, non è un orchestrale o un corista in un teatro, welfare, maternità, malattie, sono diritti negati.

«Qui c’è tutto un sistema da cambiare. Il musicista deve essere riconosciuto da un punto di vista culturale e professionale», dice a Left Ada Montellanico. Oggi l’artista e combattiva presidente Midj, l’associazione italiana musicisti jazz, sarà una delle numerose voci che diranno la loro durante l’incontro (ore 15) nella sede del Pd a Roma, in via Sant’Andrea delle Fratte. C’è da discutere di una legge che i musicisti attendono da tanto tempo, troppo. La legge quadro sullo spettacolo dal vivo. Se ne parla da molti anni, ma a parte qualche intervento qua e là – che risulta a onor del vero un palliativo – (il bonus dei 500 euro ai diciottenni o l’incremento dell’insegnamento della musica nella Buona scuola, ma solo per la primaria), non si è fatto in pratica nulla per un settore che sarebbe tutto da sviluppare.

Come scrivono i deputati del Pd che hanno presentato l’11 luglio una proposta di legge delega al governo “per la disciplina delle attività musicali contemporanee popolari dal vivo” (qui il testo), il 78 per cento degli italiani non ha assistito a un concerto nel 2015, così come un italiano su due non va al cinema e tre su quattro non vanno a teatro. I deputati stessi riconoscono nella premessa della proposta di legge che l’Italia è un fanalino di coda nella fruizione della cultura in Europa. Non scrivono però – e il governo Renzi non si discosta dagli altri precedenti – che gli investimenti dello Stato nella cultura sono anch’essi fanalino di coda in Europa. Comunque, la proposta di legge cerca di mettere una pezza, almeno in questo settore, prevedendo anche una copertura finanziaria di 50 milioni. Forse chiamare l’intero comparto “attività musicali contemporanee popolari dal vivo” rischia di limitare la potenzialità e il valore della musica.

Anche il Midj ha elaborato una proposta di legge (qui). “Noi puntiamo a valorizzare il jazz come musica d’arte”, dice Montellanico. Il che non significa che sia un genere elitario. Solo che quell’aggettivo “popolare”, come scritto nella proposta del Pd, in Italia può essere inteso in senso riduttivo, quasi a indicare una categoria inferiore rispetto alla musica classica o lirica. “Il jazz ha uno status al pari della musica classica, è stato anche riconosciuto dal Miur. Dunque non si capisce perché non debba esserci un riconoscimento culturale e professionale dei musicisti oltre che della musica jazz in generale”, continua la presidente Midj. Della legge si parlerà anche il 3 settembre durante gli Stati generali del jazz italiano in quello scenario unico che è la manifestazione il Jazz italiano per L’Aquila. “Quella della legge è una grande opportunità per alzare il livello mentale. La musica è arte, che a differenza di altre come la pittura, è  aggregativa, ha un grande valore di socializzazione e integrazione, un concerto è un vissuto collettivo. E tutto questo è prezioso, oggi”, sottolinea Ada Montellanico.

Che la musica serva “quale leva culturale fondamentale per il Paese” lo sostiene anche Assomusica, l’associazione dei produttori e organizzatori di spettacoli di musica dal vivo che ha lanciato un appello proprio per chiedere una legge quadro sulla musica. Hanno risposto tra i maggiori nomi della musica e della canzone italiana, migliaia di firme in pochissimi giorni. Assomusica afferma che non “è più rinviabile una legge che dia agli artisti, agli operatori e alle associazioni tutti gli strumenti normativi per generare creatività e ricchezza: dal tax credit per gli investimenti, alla semplificazione dei processi amministrativi, ai finanziamenti agevolati per ammodernare le attrezzature”. In tanti, insomma, si sono impegnati in questi ultimi anni a lanciare proposte. Per esempio, Arci Real, la rete Arci Live che secondo la Siae nel 2014 ha realizzato 15mila spettacoli dal vivo, chiede, come dice il coordinatore nazionale Lorenzo Siviero in un suo intervento di qualche mese fa, “di favorire la formazione dei musicisti”, ma anche di tutte quelle figure tecniche e organizzative che stanno dietro la riuscita di uno spettacolo dal vivo. Professionalità che non vengono riconosciute.

La proposta di legge del Pd (tra i firmatari oltre a Rampi, Bonaccorsi, Pini, Arlotti e molti altri) è una delega al governo per disciplinare il settore. Anche in questo caso si parla di valorizzazione di un patrimonio culturale, di promozione e sostegno, di semplificazione, di promozione degli emergenti e dei giovani. E si fa cenno alla necessità di superare quelle norme per quanto riguarda la pubblica sicurezza che risalgono al Testo unico del 1931. Anche questo un segno del passato da cui liberarsi se si vuole veramente che la musica, il linguaggio universale per eccellenza, possa svilupparsi e organizzarsi nel nostro Paese che ha un patrimonio grandissimo, quanto a musicisti, a ricerca musicale e a storia, ma che si trova disperso in mille rivoli. E soprattutto non riconosciuto.

La neverending story dei due saloni del libro è finalmente arrivata alla fine

Nasce una nuova fiera del libro a Milano, per volontà dell’Associazione italiana degli editori (Aie) che ha dato vita a nuova società con la Fiera di Milano per promuovere la lettura. Con 17 sì, 7 no tra i cui ci sarebbero Feltrinelli, Marcos y Marcos  e 8 astenuti il Consiglio generale dell’Aie ha preso oggi questa decisione, annunciando in conferenza stampa di voler «recedere dalla fondazione del libro di Torino». Che Milano, dove hanno sede molte case editrici, abbia un salone tutto suo, pare ragionevole. Magari – come auspicauto da Aie – più attento agli altri lavori della filiera del libro. Ma perché volerla fare  proprio a maggio in contrapposizione alla kermesse torinese?

«L’amministrazione e la Fondazione di Torino decida di fare quello che vuole. Noi iniziamo un percorso nuovo». ha ribadito il presidente Motta. mentre da parte sua la Fondazione torinese annuncia che la trentesima edizione del Salone del libro si farà al Lingotto a maggio, dal dal 18 al 22 maggio 2017.

In un Paese come l’Italia dove si legge pochissimo, rispetto alla media europea, se c’è una cosa che funziona sono proprio i festival e le manifestazioni come il Salone che invitano ad incontrare gli autori, a conoscere il loro lavoro anche attraverso le loro parole. Dunque cui prodest porre fine a una kermesse come quella torinese che ha una storia trentennale e che nell’ultima edizione ha dimostrato di sapersi rinnovare superando scandali e badando a contenere i costi? Milano fa la guerra a Torino ma nel frattempo si perde di vista che il Sud è la zona di Italia dove in assoluto si legge meno e – fatta eccezione per i presidi del libro attivati da Laterza – poco o nulla è stato fatto sul territorio per promuovere capillarmente la lettura. Come dimostra, dati alla mano, il libro di Giovanni Solimine Senza sapere (Laterza).

«Apprendiamo con rammarico la decisione presa dal Consiglio dell Associazione Editori – con una risicata maggioranza a favore dello spostamento a Milano del salone del Libro», commentano con una nota Sandro Ferri  e Sandra Ozzola di Edizioni E/O. «Questa decisione rivela la subalternità dell’associazione alle strategie dei grandi gruppi editoriali milanesi ed è stata presa senza un’ampia consultazione e tempestiva informazione degli iscritti», stigamatizzano i due editori che decidono di uscire dall’Associazione italiana editori (Aie) insieme ad altri 12 editori ( Fra loro Iperborea, 66thand2nd , Minimum Fax, Sur ADD, Voland, Edizioni Clichy e molti altri)

. «Non sono state certamente le frettolose consultazioni e le polemiche campaniliste di questi giorni a cambiare questo dato di fatto. Nel giro di poco meno di un mese ci ritroviamo a sorpresa senza il Salone del Libro di Torino che per trent’anni ha funzionato come una valida esperienza, soprattutto dal punto di vista degli editori indipendenti e dell’incontro tra autori, professionali del libro e lettori».  E poi l’affondo: «Per noi è evidente che a Milano non ci saranno le necessarie garanzie per un’equa rappresentazione dell’editoria indipendente e per un valido progetto culturale. Sono sotto gli occhi di tutti le conseguenze dei processi di concentrazione editoriale e distributiva portati avanti dai grandi gruppi editoriali. Il rischio della riduzione degli spazi espressivi e commerciali, attraverso la concentrazione in poche mani di distribuzione, librerie e case editrici, si arricchisce oggi di un altro preoccupante tassello. A partire da oggi anche il Salone del Libro, che aveva garantito in questi anni buona visibilità e attenzione all’editoria indipendente e agli editori più piccoli, finisce nelle stesse mani che già controllano la maggior parte del mercato». L’Aie, che già adesso, concludono Ferri e Ozzola «non annovera tra i suoi soci importanti editori indipendenti di cultura, perde così un’occasione per una politica di maggiore equità ed equilibrio capace di rappresentare i diversi interessi del mondo editoriale.  Per questo motivo usciamo dall’Associazione e continueremo in altre sedi e forme la nostra battaglia per il pluralismo culturale».

«Quello che mi chiedo io è era proprio necessaria, questa guerra?», si domandava l’editrice di Voland Daniela Di Sora, già qualche giorno su facebook. «Proprio adesso che sembrava che il mondo del libro si stesse, finalmente e con fatica, un po’ riprendendo? Ed è proprio necessario rinunciare a un patrimonio culturale come quello del Salone di Torino? Scegliere per un eventuale, futuro Salone di Milano una data coincidente? E se a Milano si parla di un progetto di fiera itinerante, come sembra, la prima tappa non poteva continuare a essere Torino? E comunque – ricorda Daniela Di Sora – che non sia la prima volta che Milano cerca di spostare la fiera, è cosa nota, già il sindaco Pillitteri voleva trasferirla. E il 29 febbraio del 2000 il Corriere della Sera già titolava “Torino, fatti più in là. Milano vuole la Fiera del libro”. Storia vecchia, dunque. Ma a Milano ci sono già Book City, Book Pride e la Milanesiana: non bastano? E, a dirla tutta, se proprio la volevano, non potevano idearsela loro, trenta anni fa?»

Online, intanto, si mobilitano gruppi di cittadini torinesi, affezionati alla manifestazione, lanciando una petizione con un messaggio battagliero e un hastag #SalvaSalTo : « Da più  di 25 anni , ogni anno, si tiene a Torino il Salone Internazionale del Libro. Da qualche anno i milanesi stanno provando a portarcelo via con metodi subdoli (es.: fiere e manifestazioni inerenti al mondo dei libri, nello stesso periodo), come hanno già fatto con altre cose. Diciamo NO a questo “furto”! Il SalTO (Salone Internazionale del Libro) rimane a TORINO! Coraggio gente!»

E  nasce una pagina facebook #IoRestoATorino. E non per campanilismo, ma per l’appassionato lavoro di direttori come Ernesto Ferrero che al Salone è riuscito a creare negli anni un’atmosfera positiva, di ascolto, di passione per la letteratura, per la conoscenza e il sapere, che in Italia n non ha eguali.

27 agosto: Giuseppe Laterza interviene nel dibattito con un’intervista su Left,  criticando la decisione dell’Aie e chiedendo di organizzare anche con il Ministero e con tutti i soggetti che operano sul campo, un vero programma di incentivo alla lettura, «materia eminentemente pubblica, dice l’editore di Laterza che non può essere gestita solo da privati. Qui l’ampia intervista di Left

 aggiornamento 8 settembre 2016: A circolo dei lettori di Torino si tiene la prima riunione degli editori che , dopo la decisione dell’Aie, hanno lasciato l’associazione nazionale editori. Fonderanno una loro associazione a sostegno del Salone del libro di Torino, oltre a darsi forme di auto organizzazione.

Il 12 settembre si pronuncia il ministro dei Beni culturali Franceschini: «Rischiamo una colossale figuraccia internazionale. Il solo modo per uscirne è creare un unico grande Salone, da tenersi in contemporanea a Milano e Torino. E chi dirà di no, senza proposte alternative, se ne assumerà la responsabilità».

15 settembre.  Le Edizioni e/o  di Sandro Ferri e Sandra Ozzola che per  primi avevano deciso di lasciare l’Aie, dando avvio alla diaspora di autori piccoli e medi, attraverso il loro ufficio stampa, rispondono alla proposta del ministro, facendosi portavoce della richiesta di 70 editori usciti dall’Aie: «Abbiamo apprezzato l’intervento del ministro Franceschini per cercare di conciliare le posizioni del Salone di Torino e di Fabbrica del Libro spa, società privata di cui è azionista l’Aie, che intende creare una manifestazione fieristica a Rho in date contemporanee o molto vicine a quelle fissate da tempo da Torino. Tuttavia, le interviste di Federico Motta, presidente dell’AIE, su illibraio.it e l’intervista di Corrado Peraboni, AD della Fabbrica del Libro, su La Stampa, indicano che secondo Aie e Fabbrica del Libro l’unico accordo possibile consiste nel rendere marginale l’evento di Torino», scrivono Ester Hueting e Giulio Passerini di Edizioni e/o. «Tra l’altro viene messo l’accento sulla valenza prettamente commerciale della fiera di Rho e quindi è lecito supporre che lo smantellamento del Salone di Torino comporterebbe la perdita di un patrimonio culturale accumulato in quasi trent’anni di storia. Un patrimonio nazionale che appartiene innanzitutto ai lettori, dunque agli italiani. Ricordiamo che 600 personalità della cultura di tutto il mondo hanno firmato un appello in difesa di questa eccellenza. In attesa di conoscere gli esiti dell’incontro di martedì 20 settembre al ministero per trarre le debite conclusioni, i 70 editori (numero in crescita) che fanno parte dell’associazione firmataria chiedono che si parta al più presto con un progetto forte di Salone a Torino, raccogliendo l’eredità delle precedenti 29 edizioni, che lo hanno portato a essere la terza manifestazione europea in ordine di importanza dopo Francoforte e Londra. Crediamo che ci siano le condizioni per correggere e sanare gli errori del passato che hanno contribuito a generare l’odierna situazione, e quindi per creare un Salone pubblico di interesse pubblico con una gestione efficiente e trasparente e un’organizzazione condivisa con editori, librai, bibliotecari e tutti coloro che hanno a cuore la promozione della lettura. Siamo pronti a partecipare a questo progetto nell’ambito della Fondazione per il Libro».

26 settembre 2016  Massimo Bray ha sciolto la riserva e accetta l’incarico di presidente della Fpndazione  La  30esima edizione del Salone del libro di Torino, nel 2017, si farà dal 18-22 maggio, ( circa un mese dopo la fiera milanese).  Tra una ventina di giorni la presentazione del progetto culturale.  «La Fondazione per il libro, come riporta Repubblica.it, gestirà direttamente gli incassi, mentre per la gestione si pensa a un bando».

Ciò che accadrà a Milano si saprà con la  conferenza stampa del 5 ottobre in cui verrà presentata la nuova Fiera del libro che si terrà  a Rho-Pero dal 19 al 23 aprile 2017.  Intanto il 28 settembre, a Bologna l’Aie incontra i piccoli editori «per discutere di quanto accaduto in questi mesi di tensioni e incomprensioni e parlare del nuovo progetto»

Un fiume di armi in Siria dai Balcani. È illegale, ma non conta

Se c’è una cosa che serve per fare la guerra, questa sono le armi. E in Siria, di armi, ne circolano a bizzeffe. L’esercito siriano ha i suoi rifornimenti russi mentre è noto che gli americani e altri europei cercando di sostenere – in maniera meno coordinata e ampia di quanto non faccia Mosca con Assad – le forze ribelli che ritengono affidabili. Poi c’è il fiume di mitra, bazooka, missili che parte dai Balcani. Come racconta un ampio report dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp), negli ultimi tre anni il flusso di strumenti di guerra partito da Serbia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Bulgaria, Romania, Repubblica ceca e diretto in Medio Oriente è cresciuto in maniera costante. Dal 2012 a oggi il valore dell’export verso quella regione del mondo è pari a un miliardo e 200milioni di dollari e, visto che non si tratta di navi e aerei, le armi sono tante. Il report investigativo che ha impegnato un anno di lavoro, ha identificato 68 voli cargo sospetti, 50 dei quali trasportavano certamente armi.

 

Planes_Map_ENGLISH_hires_1106La mappa i voli, i luoghi di partenza e di destinazione. La larghezza delle frecce indica il numero di voli

 

I voli erano diretti in Arabia Saudita, Turchia, Giordania e trasportavano armi di costruzione – o concezione originaria – russo-sovietica. Si tratta di un particolare importante perché i Paesi dove i voli sono atterrati hanno eserciti che si riforniscono in Occidente – la vicenda dei voli italiani verso l’Arabia Saudita in guerra, cosa vietata dalle nostre leggi, è nota. Non a caso le autorità serbe in passato avevano bloccato una vendita proprio perché consci del fatto che l’esercito di Riad non usa quel tipo di armi e munizioni che stava cercando di comprare. Le spedizioni giunte in Medio Oriente sono quindi dirette ai ribelli siriani di vario ordine e grado per interposta persona. Con l’aggravante che ciascun Paese che funge da intermediario decide e può decidere a chi distribuire o meno il carico che riceve. Che poi questo sia vietato dai trattati internazionali non conta: i Paesi esportatori, si legge nel lavoro di Occrp «prendono per buoni i certificati che garantiscono che le armi non verranno ri-esportate e garantiscono su chi sarà l’utilizzatore finale».

La maggior parte dell’export è diretto in Arabia Saudita, in un caso almeno, ha detto l’ex ambasciatore Usa in Siria, Ford, c’è stata un’offerta croata agli americani, con la Cia che ha coordinato il passaggio di mano. Tutti gli attori in gioco, dunque, partecipano a fornire armi alle forze in campo, in dispregio del fatto che tutte o quasi gli eserciti che combattono in Siria stiano violando regole e convenzioni internazionali su guerra e diritti umani.

In questa brutta partita chi si comporta peggio sono i Sauditi e i Paesi esportatori, vogliosi di far crescere la loro industria degli armamenti. Come dice il premier serbo Vucic nel video qui sotto: «Noi rispettiamo le leggi e siamo vogliosi di esportare tutto quel che produciamo. Sfortunatamente nel mondo si combattono molte guerre». Che poi, come succede sempre in questi casi ed è capitato in passato, ad esempio in Afghanistan, le armi destinate a chi combatte contro Assad e l’Isis finiscano anche nelle mani degli uomini del Califfato sembra non essere una preoccupazione. Non dei paesi balcanici, non a sauditi e turchi, che per anni con Daesh hanno flirtato.

 

L’Isis colpisce il Rojava, almeno 44 morti. A che punto è la situazione in Siria

epa03416240 A handout picture released by Syrian Arab News Agency (SANA) shows a Syrian man inspecting damaged buildings at the site where a car bomb exploded in Qamishli, Syria, 30 September 2012. A car bomb targeting a government security building in the northern Syrian city of Qamishli on 30 September killed eight people, opposition activists said. The opposition Syrian Observatory for Human Rights reported that 15 others were injured. All those killed in the attack were members of the security forces, added the watchdog. EPA/SANA HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

L’Isis torna a colpire, questa volta al confine tra la Siria e la Turchia. Il bersaglio dell’attacco è la città siriana di Qamishli, nel Rojava, abitata in maggioranza da curdi. Un camion bomba è esploso nei pressi di un quartiere che ospita istituzioni dell’amministrazione autonoma curda – tra cui gli organismi di Interno e Difesa – e un centro di reclutamento. L’Isis rivendica l’attentato. Il bilancio provvisorio è di 44 morti e oltre 150 feriti.

Lo scontro per il controllo del territorio siriano si concentra nel nord-est della Siria, al confine con la Turchia, dove i curdi mettono a dura prova il controllo dell’Isis sul territorio. Ma lo Stato islamico non vuole mollare la presa, e reagisce in maniera scellerata: la città era già stata oggetto di un attentato suicida in aprile, che ha provocato la morte di sei membri della sicurezza curda. A luglio è toccato ad Hasaka, vicino all’Iraq, dove in seguito a un attentato sono morte 17 persone.
Entrambe le città si trovano nella provincia di Al-Hasaka, controllata in maggioranza dalle unità di difesa del popolo curdo, l’Ypg, che, al pari dei peshmerga in Iraq, sono l’unica forza territoriale in grado di contrastare militarmente l’egemonia di Daesh in Siria.

Sono state proprio alcune sue divisioni a rimuovere, a giugno del 2015, la bandiera nera dello Stato islamico da Kobane. L’Ypg è considerato ufficiosamente il braccio armato del Partito dell’unione democratica, il Pyd, ramo siriano del Pkk. Nell’ultimo anno le forze curde hanno riguadagnato terreno nel nord-est della Siria, attaccando numerose roccaforti di Daesh. Soltanto la settimana scorsa, l’Ypg ha annunciato di aver ucciso dozzine di militanti dello Stato islamico nella periferia a nord di Raqqa, città simbolo del Califfato guidato da Al-Baghdadi.

Intanto a sud del confine turco, l’Ypg prova, con il sostegno della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, a liberare la città di Menbji, controllata da Daesh. Un cambio di strategia importante: fino a oggi gli Stati Uniti avevano promesso alla Turchia che le forze ribelli non avrebbero abbandonato la linea di confine. Sebbene gli americani abbiano assicurato al governo di Erdogan che una volta liberata la città sarà riconsegnata alla popolazione locale, la spinta verso Sud dei curdi indebolisce il già fragile equilibrio di forze internazionali in Siria.

L’intensificarsi degli scontri dei giorni scorsi ha interessato anche la zona attorno alla città di Aleppo e i territori al confine con la Giordania. La seconda città più popolosa della Siria è stata teatro di duri scontri nelle ultime settimane, e centinaia di persone hanno perso la vita. A quanto pare le forze governative siriane stanno però avendo la meglio: secondo la tv di Stato la città è circondata dall’esercito, che ne controlla buona parte, mentre i ribelli sono quasi sconfitti, asserragliati nella parte orientale. La metropoli è divisa in due dal 2012, con la parte ovest in mano al governo, e la parte est ai ribelli e alla «sezione» siriana di Al-Qaeda, Al-Nusra.

Continua anche il braccio di ferro tra Washington e Mosca sul futuro del Paese mediorientale: i raid dell’aviazione russa dello scorso 16 giugno hanno colpito alcune basi di reclutamento per ribelli controllate dagli americani. Nello stesso giorno ad Aleppo una serie di pesanti bombardamenti ha violato le 48 ore di cessate il fuoco imposto dalla Russia. Rimane irrisolto, dunque, l’empasse tra le due superpotenze per la pace in Siria. Il principale motivo di disaccordo è dovuto soprattutto al ruolo dei ribelli nella regione, in particolare di Al-Nusra, «terroristi» secondo Mosca, fronte ampio di espressione anche di un’opposizione moderata, secondo gli Stati Uniti. È sopratutto a causa di Al-Nusra che il cessate il fuoco rimane debole e poco efficace, essendo l’organizzazione impegnata in una serie di ostilità grazie all’alleanza con altri gruppi ribelli.

Ma «l’accordo è vicino» ha dichiarato il segretario di Stato americano John Kerry a margine di un incontro con il suo omologo russo, Sergey Lavrov. Le due forze in campo in Siria dal 2012 hanno ribadito il loro impegno per un negoziato di pace e hanno deciso di elaborare una strategia di intelligence coordinata per agire sui gruppi armati siriani vicini ad al-Qaeda. La soluzione del rebus diplomatico siriano è ancora lontana. E non è chiaro che effetto avrà sulla popolazione civile.

Terrorismo, in Francia non tutti soffiano sul fuoco della guerra

French riot police guards the street to access the church where an hostage taking left a priest dead in Saint-Etienne-du-Rouvray, Normandy, France, Tuesday, July 26, 2016. Two attackers invaded a church Tuesday during morning Mass near the Normandy city of Rouen, killing an 84-year-old priest by slitting his throat and taking hostages before being shot and killed by police, French officials said. (AP Photo/Francois Mori)

La destra chiede una nuova Guantanamo francese (il deputato Georges Fenech) per rinchiudere i jihadisti che tornano dalla Siria, il presidente Hollande parla di «una guerra che dobbiamo vincere». Ma in Francia si raccolgono anche idee e proposte per impedire la “facile” strada del terrore causato dal terrorismo. Non tutti soffiano sul fuoco della guerra di civiltà o della guerra di religione. Lo scrive molto chiaramente oggi su Libération il numero due della storica testata della sinistra francese, Johan Hufnagel: «La guerra che conduce l’Isis non è una guerra contro la Francia, è una guerra contro la libertà».

Nessuna guerra contro la Francia, contro la Costituzione, non c’è nessuna linea Maginot. Il vero nemico, sottolinea il vice direttore di Libération, è «l’impazienza, l’irresponsabilità di far credere che si può regolare tutto sacrificando lo Stato di diritto». Il messaggio è rivolto a quei politici che pur di vincere le primarie o le politiche presidenziali soffiano sul vento della guerra di civiltà, come fa abitualmente Marine Le Pen, ma che può diventare un atteggiamento “comodo” di cui si può appropriare anche la sinistra al governo. Hollande dal canto non vuole adottare nuove misure di sicurezza, lo stato di emergenza dopo Nizza è stato prorogato di altri tre mesi e sono anche stati aumentati i poteri dell’antiterrorismo.

Secondo il giornalista di Libération – il quotidiano che, ricordiamo, ha denunciato le falle nella sicurezza a Nizza – la battaglia da condurre, magari in diversi piani quinquennali, è questa: «Dare più risorse umane ai servizi di intelligence, renderli più efficienti, lottare contro l’immaginario di Daesh, condurre delle azioni concrete contro le reti di finanziamento occulte dei terroristi». Così la Francia cerca di reagire. Ma sempre su due binari diversi. Marion-Maréchal Le Pen, la deputata francese del Front national (Fn) e nipote della leader del partito, Marine, annuncia addirittura di arruolarsi nella riserva militare, e parla di «guerra identitaria».

Marc Augé sottolinea come l’uccisione del parroco di Rouen significhi un ritorno al passato contro cui dobbiamo opporci. «I terroristi abbandonano gli obiettivi che sono in qualche modo eredità del XVIII secolo, dell’Illuminismo. E vanno a colpire le origini cristiane dell’Europa. Identificano la cultura europea con la cristianità. E non possiamo farci trascinare su questo piano» dice l’antropologo in una intervista a Lettera43.it. Lo studioso dei “non luoghi” che ha “letto” con profondità nei suo libri (vedi l’articolo su Left del 4 giugno) il disagio delle periferie delle metropoli, sostiene che sul piano simbolico i terroristi «vogliono farci fare un salto indietro nel passato, vogliono riportarci alle crociate».

Cadere in una simile trappola, sarebbe un atteggiamento anti storico. Da combattere con le armi del pensiero oltre che della prevenzione, per stroncare quell’“immaginario” che seduce giovani e adolescenti “con problemi” come i protagonisti degli ultimi attacchi in Europa.

Medagliati e dopati. Storia dei successi olimpici col trucco

A una manciata di giorni dall’inizio dei Giochi di Rio, la nazionale russa di atletica è sotto i riflettori con l’accusa di “doping di Stato”. In Italia tiene banco la vicenda “misteriosa” che coinvolge il marciatore Alex Schwazer (il quale saprà se può partecipare alle Olimpiadi un gorno prima dell’inaugurazione del 5 agosto) e il suo allenatore, il simbolo della lotta al doping Sandro Donati, a cui Left in edicola sabato 30 luglio dedica la copertina. Abbiamo provato a ricostruire la storia recente dei Giochi olimpici attraverso il suo lato oscuro: le squalifiche per doping arrivate dopo vittorie e record.

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La copertina di Left in edicola sabato 30 luglio


Primo squalificato

Alle Olimpiadi di Roma del 1960, il ciclista danese Knud Enemark Jensen cade durante la 100 chilometri a squadre ed entra in coma. All’inizio si pensa a un malore causato dalla calura estiva – quel giorno a Roma fanno 42 gradi – ma l’autopsia chiarirà che il ciclista danese aveva fatto uso di sostanze dopanti. Qualche anno dopo la tragedia, nel 1967, il Comitato olimpico (Cio) decide di istituire una commissione medica e di iniziare i controlli antidoping nei successivi giochi, quelli invernali ed estivi del 1968.
E proprio a Città del Messico il Cio applica la prima squalifica per doping. Con lo svedese Hans LilJenwall che sarà ricordato negli annali come il primo atleta nella storia dei Giochi olimpici ad essere escluso per uso di sostanze illegali. Gareggiava nel pentathlon e fu trovato con una quantità eccessiva di alcol nel corpo. Lui si giustificò dicendo che aveva bevuto due birre per stemperare la tensione, ma dovette comunque restituire la medaglia. La squalifica di LilJenwall valse il bronzo alla squadra atletica della Svezia.

Roma 1960. La fiaccola olimpica passa per piazza Venezia. Archivio Storico ANSA
Roma 1960. La fiaccola olimpica passa per piazza Venezia. Archivio Storico ANSA

Ori placcati

Nelle competizioni olimpiche di Monaco del 1972 e di Montreal 1976 i primi ori revocati a chi trasgredisce alle regole del fair play e viola le leggi sportive. A Monaco, a perdere l’oro è soltanto il nuotatore statunitense Richard De Mont, buttato giù dal podio della 400 metri stile libero. A Montreal invece le medaglie d’oro truffate sono due, quella del bulgaro Valentin Hristov e quella del polacco Zbigniew Kaczmarek, entrambi campioni nel sollevamento pesi.

A Mosca 1980 i giochi più “puliti”, a Los Angeles 1984 nessun oro revocato, e poi Seul 1988, dove gli ori dopati sono tre. I più celebri, Ben Johnson e Mitko Grablev. Oro olimpico nei 100 metri, Johnson risulta positivo all’uso di steroidi. Il nuotatore giamaicano naturalizzato canadese perde la medaglia d’oro e si vede cancellati i record realizzati nella finale di Seul e nel mondiale del 1987. Prova a rientrare nel 1993, ma questa volta è radiato a vita, perché nuovamente positivo alle sostanze dopanti. Insieme a lui quell’anno, si vedono ritirato l’oro anche i due sollevatori di peso bulgari, Mitko Grablev e Angel Guenchev. Positivo all’uso di steroidi anabolizzanti – forme chimicamente modificate di testosterone -, Guenchev finì in carcere per un’aggressione carnale pochi mesi dopo la squalifica. Secondo uno studio segreto condotto a Mosca nel 1972, l’aumento dell’aggressività è considerabile come uno degli effetti paradossi dell’uso di sostanze dopanti, all’epoca troppo spesso imposte senza il consenso degli atleti. Quanto accaduto al sollevatore bulgaro, dunque, non era altro che un esempio di quel doping di stato segnalato nello studio russo. Dopo la caduta del muro, fu fatta luce sull’impiego di programmi statali di somministrazione forzata di sostanze dopanti. La Germania dell’Est, che aveva sbalordito il pubblico olimpico con le sue prestazioni sportive, fu la nazione più coinvolta. L’accusa, fondata, era d’aver gestito l’organizzazione del doping a livello statale – e per circa vent’anni.

Germania Est Olimpiadi
La squadra della Germania dell’Est alle Olimpiadi di Monaco del 1972

Sydney 2000

La stella (cadente) dell’atletica statunitense, Marion Jones perde in Australia tre ori e due bronzi. Dal podio olimpico alla sbarra: l’atleta statunitense fu al centro di uno scandalo giudiziario che coinvolse la californiana Belco. La casa farmaceutica fu accusata di aver fornito steroidi anabolizzanti agli atleti. Tra le lacrime la Jones confessò d’aver fatto uso di doping e restituì le sue medaglie vedendosi cancellati tutti i record conquistati. Completano il quadro dei sei ori revocati nella competizione olimpica australiana, il ginnasta Andreea Raducan (Romania), il wrestler tedesco Alexander Leipold, la sollevatrice di pesi bulgara, Isabella Dragneva, e i due connazionali della Jones, Antonio Pettigrew e Jerome Young. Entrambi corridori.

Atene 2004

Mai così tanti gli ori ritirati: Adrian Annus (Ungheria), tiro al martello. Ludger Beerbaum, per la stella della storia dell’equitazione tedesca, quello di Atene fu l’ultimo oro. Yuri Bilonog (Ucraina), atletica. Crystal Cox (Stati Uniti), atletica. Robert Fazekas (Ungheria), atletica. Tyler Hamilton (Stati Uniti), ciclismo. Irina Korzhanenko (Russia), campionessa europea nel 2002 perde l’oro nell’atletica ad Atene. Cian O’Connor (Irlanda), equitazione, riscatta l’oro revocato nel 2004 con un bronzo a Londra 2012.

Pechino 2008 e Londra 2012

Ori disciplinati, soli 3 ritiri.Rashid Ramzi (Bahrain) a Pechino perde l’oro nell’atletica, ma a fare storia è la contestazione dell’argento all’italiano Davide Rebellin. Il ciclista è stato assolto nel maggio del 2015, perché il fatto non sussiste. Asli Cakir-Alptekin (Turchia) e Nadzeya Ostapchuk (Belarus) sono invece i due ori revocati per doping a Londra.

Breve storia del doping italiano

Nella storia delle olimpiche squalifiche per doping, l’Italia non brilla, ma comunque imbroglia. Dei quattro sportivi esonerati, soltanto il ciclista Davide Remellin si è mai avvicinato al podio. Giampolo Urlando, il primo squalificato nella storia delle prestazioni olimpiche italiane, conclude la sua esperienza a Los Angeles nel 1984 con un quarto posto e una squalifica per uso di testosterone. Dal lancio del martello al salto in alto sempre con un quarto posto e un’esclusione per doping: Antonella Bevilacqua perde i risultati ottenuti ad Atlanta nel 1996 per aver fatto uso di efedrina – sostanza simile all’anfetamina.
La storia del doping italiano ha quattro attori, ma un solo protagonista: Alex Schwazer.Classe 1984, il marciatore trentino sale sul primo podio a 19 anni. Nel 2005 conquista infatti l’oro ai Campionati Italiani e il bronzo ai mondiali di Helsinki. Mentre l’Italia soffre l’esclusione di Remellin, alle Olimpiadi di Pechino del 2008 Schwazer si conferma per la straordinaria promessa che è: conquista l’oro e il record olimpico. Dopo il volo, un tragico atterraggio: in un controllo pre-olimpico del 30 luglio 2012 il marciatore viene trovato positivo all’uso degli anabolizzanti, perde Londra e la sua carriera si spezza.

Il recupero professionale e personale di Alex è affidato al lavoro dell’allenatore Sandro Donati, volto storico dell’antidoping italiano. Schwazer recupera subito e rientra l’8 maggio scorso. Vince i Mondiali di Roma e gli si aprono le porta a Rio 2016. Un duro allenamento, una prestazione strabiliante e ancora una caduta. A maggio di quest’anno, la Iaaf lo esclude nuovamente dalle Olimpiadi. Un secondo controllo su un campione raccolto a gennaioha dato esito positivo, escludendo Schwazer. Ma l’atleta e il suo allenatore fanno ricorso e mettono sotto accusa le opacità di un mondo, quello dell’antidoping mondiale, viziato da conflitti di troppi interessi. Il 4 agosto Schwazer  sarà a Rio, in una camera d’albergo, ad attendere il pronunciamento del Tribunale arbitrale sportivo: il sui destino olimpico e sportivo è appeso a un filo sottilissimo.