Home Blog Pagina 1078

Le nuove mappe del turismo. Dopo gli attentati

Gli attacchi terroristici e i focolai di crisi internazionale mettono in ginocchio il turismo in molte zone del Mediterraneo. La Turchia, la Tunisia e tutto Maghreb sono disertati dai turisti. In Turchia anche mete consolidate e gettonatissime come Antalya o Bodrum sono abbandonate dal turismo internazionale. Ma anche la Francia è in crisi, soprattutto è in difficoltà la Costa Azzurra, mentre segnali di ripresa arrivano dalla Grecia. In questo quadro internazionale Spagna e Italia sono percepite come abbastanza sicure (aumentano del 30-35% le richieste su Spagna, Canarie, Baleari e anche sull’Italia) affermano gli operatori, costretti a scovare nuove rotte dopo la strage di Nizza e il caso di Rouen, dopo il tentato golpe in Turchia e e gli attacchi kamikaze, di “lupi solitari” e malati di mente che si sono registrati anche in Germania.
In Italia le mete più richieste sono la Puglia e la Sicilia che in molte località di mare segnano già il tutto esaurito. Offrendo molte possibilità per il turismo low budget. Curiosamente, se c’è un settore che non conosce crisi geopolitiche, è quello dei “giri del mondo”, con biglietti flessibili e itinerari modulabili. Le mete preferite sono Thailandia, Australia, Giappone. E soprattutto – spiega Matteo Pennacchi, fondatore della NomadCommunity – si viaggia con altre motivazioni: c’è il manager che fa il ‘carrier break’, il neo laureato, chi va a fare l’esperienza. L’Italia? Qualche settimana fa era al settimo posto nell’incoming, sono convinto che tornerà nella top five”.

Un messaggio Whatsapp estremista: due arresti per terrorismo a Savona

Arrestati a Savona due cittadini marocchini residenti in Italia da anni. Un terzo è stato denunciato. I tre hanno tra i 27 e i 44 anni e hanno dei precedenti penali per spaccio di droga, lesioni personali. Il provvedimento nasce da una indagine diretta dalla Procura distrettuale antiterrorismo di Genova. Tutto parte da una segnalazione fatta da una ragazza di Savona.
Le era arrivato su Whatsapp nel suo cellulare un messaggio da un contatto non presente nella sua rubrica e che proveniva da un numero del Marocco. Solo che l’immagine del profilo Whatsapp era quella di una ragazza con un mitra in mano e in posizione di tirare. Per questo motivo si è rivolta al Commissariato di sicurezza online della Polizia postale e comunicazione.
Sono scattate le indagini, è stato ricostruito che il cellulare della ragazza era stato prestato ad un marocchino che si trovava in una struttura di accoglienza e che le aveva detto di dover contattare delle persone in Marocco. Da qui si è risaliti a una fitta rete di contatti dai quali emergeva il sospetto di possibile attivismo dei tre indagati nel campo del proselitismo all’autoproclamato Stato Islamico. L’attività investigativa ha riguardato anche intercettazioni telefoniche e telematiche che hanno portato all’oscuramento di 6.635 siti e spazi virtuali.

Europa, i soldi per la sicurezza? Togliendoli alle banche, ad esempio

The Euro sculpture sits in front of the European Central Bank in Frankfurt, central Germany, Wednesday, April 28, 2010. Three weeks away from potential default, Greece saw its borrowing costs spiral higher once again Wednesday, a day after ratings agency Standard & Poor's downgraded the country's bonds to junk status. Stocks around the world tanked after the downgrade by S&P, which also lowered its rating on Portuguese bonds by two notches, indicating Greece's financial troubles are spreading to other eurozone countries. The interest rate gap, or spread, between Greek and benchmark German 10-year bonds spiked to 7.7 percentage points, meaning Greece would face rates of above 10 percent if it tried issuing bonds now. The higher the gap, the less confidence in Greece. (AP Photo/Michael Probst)

Un coordinamento della sicurezza europea con il ripensamento di uniformità delle indagini e scambio delle informazioni? Certo, si può fare. Si deve fare. Perché se il tema è essere contro la violenza, l’arroganza e l’illegalità allora siamo tutti schierati. E anche se vomitiamo ogni volta che qualcuno eccede nel provare a convincerci che la violenza sia una razza noi rimaniamo fermi sul rispetto delle regole e contro la violenza. Per le regole e contro la violenza, con la certezza che le statistiche delle nazionalità sarebbero ben diverse da quelle che credono in molti. Ma non è questo il punto.

Se il problema della sicurezza in Europa è un problema di regole, di leggi, di uomini e di fondi allora siamo di fronte a un problema meno problematico di quel che sembra: l’Europa che ha svuotato le tasche per salvare quattro banche rapaci disseminate in giro non si vede come non potrebbe fare lo stesso per garantire sicurezza. L’Europa s’è fatta Europa per questo: elaborare risposte complesse.

Chiunque non rispetti le regole venga punito con la certezza della pena e con la garanzia che non sia disumana e svilente: questo contratto, scevro di collera o vendetta, lo firmerebbero tutti, santi inclusi. Se si riuscisse a spostare la discussione dalle razze alle regole allora non ci sarebbe spazio per gli avvoltoi o per gli xenofobi: la sinistra ha l’occasione per riprendersi lo spazio della giustizia che sia sociale o giudiziaria. C’è in questo particolare periodo storico lo spiraglio per affermarsi giusti.

A cosa serve l’Europa? Ad affrontare le emergenza, continuano a dirci. Eccola l’occasione: Bruxelles ci dica che la sicurezza vince sul capitalismo e di colpo si smetta di vendere armi ai fiancheggiatori dell’Isis, si rompa con coraggio con Erdogan, si rinunci a un pozzo petrolio pur di non aprire brecce nella sicurezza, si smetta di depredare i Paesi arabi per non dare occasione di rivendicazioni e si arrestino i violenti (che siano islamici, italiani, senatori mafiosi o imprenditori rapaci). E vedrete che bel cortocircuito. E vedrete le contraddizioni. Sarebbe il tempo delle streghe.

Buon giovedì.

L’ostacolo per Hillary è sempre lo stesso: apparire umana

epa05424886 Democratic Presidential candidate Hillary Clinton (C) has her picture taken with Senate pages after a meeting with Senate Democrats in the US Capitol in Washington, DC, USA, 14 July 2016. Later in the day Secretary Clinton will hold a rally with US Senator from Virginia and rumored to be running mate Tim Kaine in Northern Virginia. EPA/SHAWN THEW

Chi può unire i democratici e convincere i sostenitori di Bernie Sanders a mettersi al lavoro per eleggere Hillary Clinton? E chi convincere gli americani che la donna che conoscono dagli anni 90 può essere una figura politica che si spende per loro (e che non è ossessionata dal potere)?

Dopo il primo giorno di convention nel quale i sostenitori del senatore del Vermont hanno interrotto con fischi chiunque nominasse l’ex first lady – a tratti, zittiti dai più, alcuni persino Bernie ed Elizabeth Warren – saranno bastati gli appelli dello stesso Sanders e di Michelle Obama a rompere quel muro che c’è tra i due schieramenti? E le parole chiare sui temi che sono cari alla sinistra democratica come il commercio internazionale, la sanità, le infrastrutture, la riforma della politica? Lo scopriremo stanotte.

Il compito di convincere la gente di Sanders è probabilmente quello della campagna, un lavoro interno e anche dal palco, sui punti programmatici. Magari accompagnato da parole ispirate come quelle dei Michelle Obama la scorsa notte. Il lavoro vero però spetta a Hillary: mostrare un lato umano, convincere che la sua non è bramosia di potere o un ritorno al passato degli anni 90, ma voglia di cambiamento. Magari moderato, ma nella direzione di una società più giusta. Saprà farlo? L’altra domanda è se e quanto i sandersiani siano in qualche modo controllabili e gestibili da Bernie. Chi mentre Sanders parlava piangeva, lo faceva perché capiva che era il momento di voltare pagina o per rabbia?

E saprà Hillary convincere gli americani? Qui le correranno in aiuto il marito Bill, che non sbaglia mai un discorso alle convention, delle quali è un habitué dal 1992 e che – schietto, diretto, spesso spiritoso – sa parlare anche e molto a quegli americani bianchi a cui piace Trump. Allo stesso modo, ma con argomenti razionali, può farlo il presidente Obama. Vedremo se il suo sarà un discorso ispirato. Come quello di Michelle, è l’ultimo importante da presidente.

Infine parleranno, e sarà un momento in cui nessuno si azzarderà a fischiare, le madri di diversi ragazzi uccisi dalla polizia. Che con Hillary hanno un rapporto fin dagli inizi della campagna delle primarie.

Per tutti lo sforzo sarà lo stesso: restituire l’immagine di un partito unito dietro alla candidata. Poi, domani notte, toccherà a lei. Cosa ci sarà di nuovo? Quanti dei temi della campagna Sanders entreranno di peso nel suo discorso di accettazione della nomination? Quanto saprà convincere gli americani che il voto che devono esprimere a novembre è per lei e non solo contro Trump? Sono tutti fattori decisivi: gli speaker della convention democratica sono ottimi, la platea appassionata e diversa e la aiuteranno comunque ad avere una spinta nelle intenzioni di voto. Ma la sfida è tutta sua. Saprà essere umana? Rendere l’idea che la possibilità che una donna diventi la persona più potente del mondo sia una svolta non solo simbolica? È difficile per una politica navigata che tutti conoscono e pochi adorano. Ma è il compito che le spetta a Philadelphia: alle elezioni presidenziali non bisogna solo dimostrare di essere un potenziale buon presidente, serve farsi eleggere.

Tornano i terroristi di al Shabaab a Mogadiscio: 13 morti

MOGADISHU, SOMALIA - JULY 26: African Union Mission in Somalia soldiers take security measurements after a bomb attack with bomb-laden vehicles over the United Nations, African Union Mission in Somalia (AMISOM) headquarters in Mogadishu, Somalia on July 26, 2016. It is reported that many people were killed and wounded in the attack. Nour Gelle Gedi / Anadolu Agency

In Somalia tornano a colpire i terroristi jihadisti di al Shabab: 13 i morti. L’organizzazione terroristica che si rifa a Al Qaeda dopo l’attacco in un albergo di Mogadiscio il 25 giugno scorso che è costato la vita a 35 persone, oggi ha preso di mira una zona che doveva essere in teoria la più sicura di tutta la capitale della Somalia.

Si è trattato di un doppio attentato suicida con due autobombe lungo la strada che porta all’aeroporto, vicino alla base Halane dove si trova la missione di pace dell’Ua, l’Unione africana, ma anche gli uffici Onu, Ong e ambasciate straniere. Durante l’attacco c’è stata anche la reazione da parte delle forze di sicurezza che hanno risposto ingaggiando un conflitto a fuoco.

L’attacco, è stato rivendicato dai terroristi attraverso il web. «I Mujahideen hanno preso di mira Halane, base delle forze straniere che occupano il Paese musulmano», ha detto in rete il portavoce degli al Shabaab, Abdulaziz Abu Muscab. Nonostante negli ultimi tempi siano stati costretti alla ritirata da molte città della Somalia, i terroristi che nascono, ricordiamo, come gruppo giovanile dall’Unione delle corti islamiche e che professano un ritorno alla Sharia, non cessano la guerriglia nei confronti del Governo federale di transizione. L’obiettivo è sempre quello di creare un governo islamico fondamentalista. L’attentato di oggi segue la strage di giugno nell’albergo al centro di Mogadiscio. In passato il nome degli al Shabaab è legato anche al sanguinoso attacco oltre i confini somali, a Garissa, in Kenia. Il 2 aprile 2015 quattro appartenenti ad Al Shabaab entrano nell’università della cittadina, prendono 700 studenti in ostaggio e, poi, fanno una strage: 148 morti e 79 feriti. Dopo una giornata di assedio, i quattro verranno uccisi – uno si farà saltare in aria.

Qui il reportage pubblicato su Left un anno dopo quella strage

Quanto siamo cresciuti in un secolo? Gli europei più degli americani

Che gli olandesi fossero degli spilungoni lo sapevamo. Che fossero i più alti del mondo, forse lo sospettavamo. Oggi una ricerca condotta da 800 scienziati in 179 Paesi lo conferma in maniera inequivoca. Non è una curiosità, ma uno studio di grande interesse sull’evoluzione del genere umano nell’era dell’industrializzazione e del miglioramento della dieta.

Lo studio classifica 1472 ricerche precedenti che hanno misurato l’altezza di più di 18,6 milioni di persone per stimare l’altezza media per i nati tra il 1896 e il 1996 in 200 paesi. Le aree del pianeta dove gli umani sono cresciuti di più sono l’Europa, il Medio Oriente e parti dell’Asia. Ma il salto in alto più grande lo hanno le donne della Corea del Sud e gli uomini iraniani, che sono cresciuti rispettivamente 20,2 e 16,5 centimetri. Sono cresciuti poco gli asiatici del Sud e e gli africani subsahariani.

Le persone più alte del mondo sono gli uomini olandesi (182,5 centimetri) e le donne lettoni, le più basse le donne guatemalteche e gli uomini di Timor Est, intorno al metro e 40.

Due cose: dal 1970 in poi, quando la popolazione degli Stati Uniti era quella più alta, gli americani del Nord hanno non crescono più. Anzi, con il peggioramento degli standard nutrizionali degli anni 80 e 90 l’altezza è leggermente diminuita. Una spiegazione ulteriore di questo rallentamento della crescita media sono i flussi migratori dai Paesi centroamericani.

L’altro aspetto, del quale gli scienziati dell’Imperial college di Londra si sono detti sorpresi, è il fatto che il divario tra i più bassi e più alti in ciascun Paese tende a rimanere invariato attorno ai 19-20 centimetri.

L’altezza dipende e influenza la salute. O meglio: gli standard nutrizionali e l’ambiente circostante, oltre al patrimonio genetico, determinano quanto cresceremo. In alcuni Paesi africani martoriati dalla guerra, ad esempio, come il Ruanda e la Sierra Leone, l’altezza media è più bassa oggi di 40 anni fa. Si tratta di un trend che vale anche per altri Paesi, gli anni 80 segnano per molte aree del mondo il punto in cui in molti Paesi si è cresciuti di più.

Attentato in una chiesa in Normandia. Morti due assalitori e il prete. L’Isis rivendica. Le notizie che arrivano

In this grab made from video, police officers speak to a driver as they close off a road during a hostage situation in Normandy, France, Tuesday, July 26, 2016. Two attackers seized hostages in a church near the Normandy city of Rouen on Tuesday, killing one hostage by slitting their throat before being killed by police, a security official said. The identities of the attackers and motive for the attack are unclear, according to the official, who was not authorized to be publicly named. (BFM via AP)

Ore di paure in Francia. Ancora, a soli dodici giorni dalla strage di Nizza. La prima rete a dare la notizia è stata Francetv info: «due squilibrati» hanno fatto irruzione in una chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, vicino Rouen, in Normandia, prendendo in ostaggio il prete, due suore e due fedeli. Una terza suora è invece riuscita a scappare.

I due uomini hanno fatto irruzione sul posto verso le 9.45 di mattina, armati – stando a quanto riferisce invece France3 nella sua edizione regionale, Haute-Normandie di «armi bianche». Gli assalitori sono stati uccisi dalla polizia, intervenuta immediatamente sul posto. Il prete è però stato ucciso e una suora e uno dei due fedeli sono in condizioni critiche.

Sia il Presidente francese Francois Hollande che il Ministro degli interni Bernard Cazeneuve si sono recati subito sul posto. Il premier Manuel Valls, commentando l’accaduto su twitter, ha espresso «orrore per il barbaro attacco». Attacco subito ricondotto alla matrice del terrorismo islamico, anche perché – come ha riportato per primo  Le Point – alcuni testimoni avrebbero sentito, al momento dell’assalto, i due gridare «Daesh». Uno di loro, inoltre, indossava la chachia, tipico copricapo musulmano di lana.

Al momento le identità dei due assalitori non sono state rivelate, anche se uno dei due sarebbe noto alla polizia francese e già agli arresti domiciliari. Ma i dubbi sono durati poco e lo Stato islamico, attraverso la propria agenzia Amaq, ha rivendicato l’attentato definendo “soldati” i due assalitori. Così la dichiarazione di Hollande, che è particolarmente colpito anche perché è nato a Rouen, non lontano dal luogo dell’attacco, è durissima: «Sappiamo che il Daesh ci ha dichiarato guerra e dobbiamo vincere questa guerra. Tutti i francesi sono stati colpiti da questa tragedia, dobbiamo restare uniti, essere un blocco unico, nessuno ci deve toccare».

Alcune chiese cattoliche erano già da tempo nel mirino dei terroristi: nell’aprile del 2015 fu arrestato a Parigi un’algerino di 24 anni, Sid Hamed Ghlam, per l’omicidio di un’istruttrice di fitness. L’arresto dell’algerino è quindi avvenuto per ragioni fortuite, non legate al terrorismo, ma in seguito la polizia ha rinvenuto nella sua abitazione una lista con alcune chiese da colpire nella zona a sud di Parigi, insieme ad un arsenale militare.

Le madri dei ragazzi neri uccisi, Bernie e Bill per la prima donna presidente

Sybrina Fulton, Geneva Reed-Veal, Lucy McBath, Gwen Carr, Cleopatra Pendleton, Maria Hamilton, Lezley McSpadden and Wanda Johnson from Mothers of the Movement speak during the second day of the Democratic National Convention in Philadelphia , Tuesday, July 26, 2016. (AP Photo/J. Scott Applewhite)

«Sono qui come parte di un movimento al quale non avrei mai voluto unirmi». «Hillary non solo ha scelto di parlare con noi, condividere la nostra rabbia e dolore, ma ci ha invitato a essere parte della soluzione del problema. E questo è quel che faremo». Tre donne diverse, ma tutte afroamericane, parlano, altre sei rimangono in silenzio sul palco. Sono le madri di Sandra Bland, Jordan Davis e Trayvon Martin, una morta in cella dopo un posto di blocco, uno ammazzato da un vigilante, un altro «perché ascoltava la musica troppo alta». Ore di urla, tifo, entusiasmo e poi dieci minuti di silenzio e applausi timidi. La convention di Philadelphia ha ascoltato Geneva Reed Veal, Lucy McBath, Sybrina Fulton con le lacrime agli occhi. Difficile non farsele venire: forti, coraggiose, capaci di parlare per invitare a a esprimere un voto. Hillary Clinton ha un debito enorme con queste donne, che ricordano quanto le vite dei neri siano importati come quelle di tutti gli altri, come cercare vendetta sulla polizia sia sbagliato e come per risolvere il problema siano necessarie politiche, idee e impegno. E che per farlo, alla Casa Bianca serve una donna. Sono loro la cosa migliore di Philadelphia fino a oggi, perché chiedono soluzioni a una tragedia che è capitata loro, non cercano voti, visibilità, successo.


«Un anno fa, nel peggiore degli incubi ho guardato la bara di mia figlia andarsene per sempre»

Il discorso delle tre madri, assieme al roll call, la chiamata delle delegazioni, in fondo alla quale (che il Vermont è in fondo alla lista) Bernie Sanders ha chiesto di assegnare tutti i voti delel delegazioni a Clinton e il discorso di Bill, sono i momenti clou della seconda giornata della convention democratica. Sanders, come aveva fatto proprio Hillary con Obama otto anni fa, ha preso la parola dalla platea e ceduto i suoi delegati a Clinton. Un segnale di unità del partito dopo un giorno di fischi e rumoreggiamento dell’arena. Non tutti saranno contenti e alcuni delegati continueranno a urlare “Bernie, Bernie” (come hanno fatto in sala stampa, gridando Walkout, usciamo), ma è significativo che tutti i capi delegazioni degli Stati della campagna di Sanders fossero accanto allo speaker della loro delegazione e facessero il tifo per Clinton. Se lo sforzo di Sanders – che pure ha annunciato che tornerà in Senato da indipendente, quale era fino alla partecipazione alle primarie – pagherà, lo vedremo. Membri mportanti del suo staff sono passati a lavorare per Hillary per cercare di portare a casa voti giovani e della sinistra.

«Chiedo di assegnare tutti i delegati a Hillary  Clinton»
Infine Bill e la nomination storica. Già, perché anche se lo sapevamo tutti da tempi, ieri, per la prima volta nella storia, c’è una donna che potrebbe diventare presidente degli Stati Uniti. È un fatto simbolico, certo, ma alla signora di 102 anni che ha urlato nel microfono i voti del suo Stato per Hillary, deve essere sembrato qualcosa di più.

Bill ha parlato di sua moglie, cercando di presentarla al pubblico americano per l’ennesima volta. Piccoli particolari, una storia di impegno lunga due generazioni. Bill ha parlato troppo a lungo, ma come sa fare «Mi si è avvicinata, “se continui a guardarmi, almeno presentiamoci, sono Hillary Rodham Clinton” …credeteci o no, io, si, proprio io sono rimasto senza parole». Bill ha fatto ridere, raccontato la sua storia d’amore e insistito sul suo impegno per diritti civili, sulla sua storia normale, sulla tenacia di una figura lontana dall’idea di politica potente, ricca, dura. L’idea trasmessa è: Hillary non è brava a parlare, è brava a ottenere risultati e i repubblicani la presentano come un mostro perché la temono. Bill non ha convinto nessuno, ma ha fatto un servizio alla moglie: non ha parlato di sè, della sua presidenza, ma ha fatto quello che fanno le first ladies potenziali: presentare il candidato da un punto di vista diverso. È la prima volta che a farlo è un maschio ed ha un lungo elenco da fare, vita vissuta, battaglie politiche, vita da Segretario di Stato. Bill non avrà reso Hillary simpatica, che non lo è, ma ha fatto quello che lei ad oggi non ha saputo fare, umanizzarla.

«Quelli di noi che hanno alle spalle più ieri che domani, pensano a figli e nipoti, eleggetela per loro»

Il trionfo per Bernie, il volo di Michelle, le preoccupazioni di Hillary

July 25, 2016 - Philadelphia, Pennsylvania, U.S.- Senator BERNIE SANDERS waves as he takes the stage for the keynote address during the opening day of the Democratic National Convention at the Wells Fargo Center. (Credit Image: © Richard Ellis via ZUMA Wire)

Una serata complicata con due momenti epici che faranno dimenticare le contestazioni e i buuuh. O almeno così sperano gli strateghi democratici e della campagna Clinton. Certo è che il livello del discorso e di partecipazione della convention democratica è più alto che non a Cleveland, all’incoronazione di Donald Trump. E certo che, nonostante quello di Bernie Sanders sia stato un trionfo raro da vedere in uno di questi coreografici appuntamenti quadriennali, il discorso più alto, forte, ben costruito e destinato a essere un’arma elettorale lo ha fatto Michelle Obama.

Andiamo con ordine. Dall’inizio della convention e in maniera un po’ ossessiva, i delegati e sostenitori di Bernie Sanders hanno reso la gestione della convention democratica cominciata ieri complicata. Ogni volta che veniva nominata Hillary dal palco, una parte della platea rumoreggiava. Anche quando parlavano sostenitori del senatore socialista o figure nobili del partito, come Clarence Clyburn, rappresentante e storica figura del movimento per i diritti civili. Il brusio di fondo era tale da far esplodere Sarah Silverman, l’attrice comica sostenitrice di Sanders, sul podio per dire «Ora si vota Clinton»: «Devo dire una cosa ai “Bernie o niente”, vi state mettendo in ridicolo».

Le contestazioni

La stessa campagna del senatore aveva mandato un sms e una mail nella quale chiedeva di non contestare. Non ha funzionato se non durante i discorsi di Michelel Obama ed Elizabet Warren e, poi, naturalmente di Bernie, che ha dovuto aspettare tre minuti di ovazioni prima di poter cominciare a parlare. In questo caso era tutta la sala ad essere in piedi a scandire il suo nome. I suoi spesso piangevano.

Bene, cosa hanno detto? Michelle ha fatto il discorso perfetto: ha attaccat Trump senza nominarlo e promosso Hillary parlando della straordinarietà di vedere le sue figlie giocare con il cane in una casa (la Casa Bianca) «costruita con il lavoro degli schiavi». Un discorso forte, duro, razionale e appassionato, che ricorda le difficoltà della presidenza, l’importanza di avere una visione complessa delle cose e spiega: «la realtà complessa non si sintetizza in 140 caratteri di un tweet, le decisoni non si prendono d’istinto (lo strumento di comunicazione preferito di Trump)». E l’importanza di avere una donna, per la prima volta, a svolgere un lavoro che «determinerà il futuro delle mie figlie e di quelle di tutti». Alcuni passaggi verranno ripassati per giorni in Tv: «Quando qualcuno fa il bullo, noi non lo imitiamo, quando volano bassi, noi voliamo più in alto». Un gancio a TheDonald senza chiamarlo per nome.

Mi sveglio ogni mattina in una casa costruita da schiavi

Così come la entrata trionfale di Sanders, che ha saputo dare argomenti all’idea che Hillary è la persona da portare alla presidenza: salario minimo, aumento della copertura sanitaria, riforma dell’immigrazione, infrastrutture sono nel programam di Hillary – anche grazie a me, sottintende il senatore – e se non vince lei, ce li dimentichiamo e consegnamo l’America all’1%. Il suo discorso somigliava molto a quello dei comizi delle primarie con l’aggiunta di un appello alla non smobilitazione. Su due o tre cose, Sanders si farà sentire dall’eventuale presidente Clinton: il TTP, il trattato commerciale con l’Asia del Pacifico, la riforma dei meccanismi di finanziamento della politica tra queste. No TTP era uno degli slogan scanditi dai sostenitori della sinistra del partito.

Peseranno più le divisioni generate da primarie contese o il tentativo di ricomporre il clima interno? Lo vedremo oggi, ma probebilmente il discorso di Sanders è un passaggio di testimone importante. La campagna Clinton ha concesso molto anche in termini simbolici e la convention è più una convention di partito che non di un candidato, una forza e anche una debolezza per la candidata. Troppe figure importanti: oggi parlano il presidente e il vice, Bill: figure che rubano la scena, e poi diverse madri dei ragazzi uccisi dalla polizia. Oratori coi fiocchi, momenti simbolici ed emozionanti e poi, giovedì, la necessità per Hillary di trovare il discorso giusto che finalmente la metta in sintonia con quel Paese che proprio non sembra entusiasmarsi alla sua candidatura. Per adesso, oltre a un pezzo di pregiudizi, è stato anche demerito suo: manca l’isipirazione, l’idea, lo slancio verso qualcosa. Le servirebbe uno speechwriter d’eccezione.

Abbiamo bisogno di leadership che ci unisca, non che insulta e divide

Sulla spalla di Hillary. Caffè del 26 luglio 2016

Attacco alla Germania, Kamikaze in nome dell’Isis, La Germania ha paura. Eccovi, a raffica, i titoli dei tre quotidiani più letti. Paura che ha trovato ieri un motivo in più: il siriano, con pulsioni suicide cui era stata respinta la richiesta d’asilo, era entrato a far parte dell’esercito del nemico, dello “Stato Islamico”, dell’anti mondializzazione radicale, che vuole distruggere ogni forma di civiltà, spegnere la musica, cancellare il sorriso dal volto dei bambini. Che restino solo obbedienza a dio e al califfo, paura, vendetta su chi ancora ama qualcuno. La paura si mescola con la politica: è Angela Merkel che li ha lasciati entrare in Germania, quanti di quei profughi erano (e sono) potenziali terroristi, perché se gli si nega l’asilo non li si caccia subito? Sia detto: l’aver ritrovato il nemico -il terrorismo islamico- è persino consolante, ci mette da una parte della trincea, consente di accusare i nostri generali presunti felloni. La strage di Monaco ad opera di un diciottenne forse vittima di bullismo, aiutato e forse ispirato da un sedicenne,non sembrava invece avere un senso, lasciava l’angoscia nell’aria, non riusciva a trasformarla in rabbia, in dissenso e protesta. Daesh c’è per questo. Tra Siria e Iraq, vende petrolio, riscuote il pizzo, traffica in opere d’arte, consuma viagra e psicofarmaci per trasformare amputazioni, sangue e stupri nelle immagini di un videogioco. Oltre il recinto, catalizza la paura. Da quella paura succhia forza e nuove vite.

L’uccellino Bernie sulla spalla di Hillary. Se fossi stato a Philadelphia, avrei appoggiato anch’io Clinton e affrontato anch’io i fischi di delusione dei sanderistas, titolo del Manifesto. E avrei cercato di spiegare che sì, è vero, Hillary Clinton è un campione del passato, di una politica che portava il carro dove volevano i mercati, che si è mostrata sprezzante con chi stava in basso, che talvolta ha mentito e dissimulato. Una politica probabilmente, anzi certamente, inadeguata ai tempi che viviamo. E perciò che si dovrà riprendere il filo, a novembre, di una “rivoluzione” per ora solo annunciata. Ma la Clinton crede nell’uguaglianza tra uomo e donna, considera libertà e diritti individuali un limite (forse fastidioso ma) necessario allo strapotere di chi comanda, vede gli uomini simili, oltre il colore della loro pelle, l’etnia o le credenze religiose di ciascuno. Si può dire lo stesso di Donald Trump? No. È razzista e considera i messicani sub uomini. Le donne che sogna, mogli o puttane, somigliano alla bambola ad aria in cui un suo simile padano ha creduto di riconoscere la presidente della camera. Mente agli elettori (e gli promette la luna) come voleva che facessero le sue cavie, al tempo in cui conduceva uno show televisivo e li mandava a vendere bottiglie con dentro acqua del rubinetto. In politica estera si pretende realista: niente principi o valori, solo l’interesse americano. Ma sono proprio questi realisti che fanno le guerre.

Perderemo a novembre? É possibile. Quando leggo Matt Browne, intervistato dalla Stampa, che vuole “un patto tra progressisti per fermare i populisti”, che dà appuntamento a settembre in Canada, con Renzi e Trudeau, per costruire una nuova Terza Via, penso: “questi non hanno capito nulla”. Non si sono accorti che la guerra di Blair in Iraq ha evocato il nostro incubo d’oggi, il califfato. Non capiscono che il loro storytelling s’è rotto, che non avremo mai più un boom come quello degli anni 60 e che è illusione credere (e far credere) che questo potere finanziario ne abbia anche per i nostri figli, anche per il ceto medio. O che l’abbondanza torni a cacciare i fantasmi della guerra e del terrorismo. Al contrario, una nuova politica dovrebbe puntare sui consumi collettivi, scegliere cosa e come produrre, riconvertire l’economia, tassare rendite catastali e capitali finanziari, fare i conti ogni giorno con il rischio di guerre e attentati, ripudiare i dittatori e difendere dovunque libertà e diritti, dialogare con chi sta in basso, essere umili e trasparenti, aprire la casa del potere alla partecipazione popolare. Vasto programma, lo so. Ma non più utopista di quello esposto, per Repubblica, da Marc Lazar, il quale chiede, in sostanza, ai tradizionali politici europei di “aver coraggio”, di non vivere nell’emergenza ma di rifondare la loro politica, “contro i populismi” di destra e di sinistra. Caro Marc, costoro, Valls, Renzi, Sanchez, Schulz, sono i cani da guardia dell’emergenza. La loro politica è solo congiunturale perché l’assunto è che non si possano davvero cambiare le cose, che al massimo si possa ottimizzare -esporre bene sui tavoli di governo- i doni che i mercati concedono. Costretti a raccontar balle sulla ripresa, pronti a minimizzare ogni rischio, incapaci di dire a Erdogan quel che a Erdogan si dovrebbe.

La cornice della nostra vita sociale -scrive invece Mauro Magatti sul Corriere- “è ormai irrimediabilmente cambiata: dall’euforia della crescita illimitata siamo passati all’angoscia della recessione e della violenza”. L’articolo si intitola “Le sfide dopo la fine del neoliberismo” e testimonia che esistono ancora osservatori realisti. Magatti descrive l’alternativa della politica tra quanti pensano che occorra “gestire ancora più tecnicamente la cosa pubblica” e quanti invece ritengono che “il caos in cui ci troviamo sia la conseguenza della usurpazione del potere da parte delle tecnocrazie”. Sapete da che parte io stia, parte scomoda senza dubbio. Ma non più scomoda della poltrona di chi propone la quadratura del cerchio.

.