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Migranti, 8000 sbarchi in una settimana. Ma 41 corpi senza vita sulle coste libiche

La nave Phoenix con i migranti giunta nel porto di Reggio Calabria

Continua la strage silenziosa dei migranti. Al di là delle bombe dell’Isis e degli attacchi dei lupi solitari più o meno malati di mente,  il Mediterraneo è ancora lo scenario di morti che avvengono lontano dal clamore dei media. Eppure chissà cosa c’è dietro quei 41 corpi scoperti ieri da alcuni volontari in una spiaggia della Libia, a Sabrata, nell’ovest della Libia. Erano in un gommone affondato davanti alle coste libiche, è stato detto. Ma come è affondata l’imbarcazione? C’entra la presenza nelle acque territoriali di Tripoli delle “guardie costiere libiche”? I 41 corpi in effetti sono un “numero eccezionalmente alto”, ha detto una fonte libica. La morte risale a quattro o cinque giorni fa. Per il momento i resti dei migranti sono stati trasferiti in un centri di medicina legale per il prelievo del Dna e poi saranno seppelliti.
In Libia la situazione non è delle più facili. Qualche giorno fa sono stati uccisi tre militari francesi in territorio libico e ieri il governo ha convocato l’ambasciatore francese per avere dei chiarimenti sulla presenza dell’intelligence francese sul suo territorio.
Comunque, l’instabilità che cova nel Paese, non impedisce ai  barconi di partire in direzione dell’Italia. Nell’ultima settimana sono circa 8mila i migranti soccorsi e sbarcati nei porti italiani. Ieri circa 2000 sono arrivati a Reggio Calabria, Vibo, Cagliari. La maggior parte uomini, ma un terzo sono donne e bambini. Per esempio a Reggio Calabria dal pattugliatore Vega sono scesi 152 minori. A Vibo la Polizia ha fermato due presunti scafisti che avrebbero portato un barcone fino al limite delle acque territoriali italiane. Nel vano motore dell’imbarcazione sono stati scoperti 16 corpi senza vita, probabilmente a causa della mancanza di ossigeno ma anche per le ustioni provocate dal contatto con il carburante. I due soggetti fermati e posti a disposizione della Procura della Repubblica non risultano avere precedenti penali in Italia. Dovranno rispondere di concorso in omicidio plurimo, oltre che di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Nella stessa mattinata di ieri anche uno sbarco record a Cagliari, 931 migranti, di cui 182 dei ragazzini. Anche in questo caso la polizia di Cagliari sta cercando di individuare gli scafisti. Mentre si cercano anche nuove strutture per l’accoglienza.

La dieta della discordia

Durante le poche settimane in cui è riuscito a sopravvivere, il piccolo Crown ha conosciuto il gusto di soli due alimenti: latte di soia e succo di mela. Quando i genitori lo portarono in ospedale ad Atlanta (Georgia, Usa) era ormai troppo tardi, aveva quasi due mesi e pesava meno di due chili. I medici non poterono far nulla. Jade Sanders e Lamont Thomas seguivano una dieta vegana, la forma più estrema di quella vegetariana che vieta l’uso di latticini e altri prodotti animali.
Dissero ai medici che fin dalla nascita avevano imposto al figlio al loro stesso regime alimentare. Il caso risale all’aprile 2004, tre anni dopo Jade e Lamont sono stati condannati all’ergastolo per l’omicidio di Crown. Sebbene vivessero vicino all’ospedale, il bambino non era mai stato visitato da un pediatra.
La sentenza fece molto scalpore anche perché sul banco degli imputati era finita insieme a loro, inevitabilmente, la “filosofia” vegana. E poco importava se fu lo stesso procuratore Chuck Boring a sottolineare che le sue accuse riguardavano solo il comportamento dei genitori: «Non ha alcuna importanza il fatto che fossero vegani o vegetariani. Il bambino è morto perché non lo nutrivano, hanno mentito sul fatto che fosse quotidianamente alimentato» disse Boring nel corso della sua arringa.
Nell’ultimo anno in Italia ci sono stati diversi casi di denutrizione infantile in ambiente familiare vegano seguiti da ricovero in ospedale pediatrico a Genova, Pisa, Belluno. Solo per citarne alcuni. Hanno tutti forti analogie con il dramma di Crown Thomas. Fortunatamente da noi l’epilogo è stato diverso grazie al tempismo e all’intervento medico.
L’ultimo è di pochi giorni fa a Milano quando un bimbo di poco più di un anno è stato ricoverato al Policlinico di San Donato per le conseguenze di una grave denutrizione. Qui è stato portato dopo un primo ricovero all’ospedale Fatebenefratelli durante il quale i medici avevano riscontrato una «gravissima malnutrizione e livelli di calcio quasi incompatibili con la vita». Pesava quanto un bimbo di tre mesi. Come sempre accade in queste situazioni gli investigatori della sezione di polizia specializzata contro i reati sui minori sono intervenuti per accertare se il bambino si è sentito male per colpa del regime alimentare cui è stato sottoposto, se sia mai stato seguito da un pediatra e, in caso affermativo, se il medico non si sia accorto di eventuali condotte anomale dei genitori. Secondo quanto riportano le agenzie dopo le prime cure la situazione clinica del bambino milanese è migliorata, nel frattempo, a inchiesta ancora in corso, si è scatenata la caccia mediatica alla dieta vegana. Ma è corretto puntarle il dito contro?
«Premesso che non sono vegana né vegetariana e che prescrivo una buona alimentazione mediterranea che include quindi anche le proteine animali, penso che la dieta vegana non sia responsabile del deficit di crescita di un bambino» osserva Renata Luongo, medico nutrizionista.

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Malati di mente, ex detenuti, isolati. Ecco chi sono i kamikaze del Daesh

A inizio 2016 il Centro europeo antiterrorismo dell’Europol (l’Ectc creato dopo gli attentanti di Parigi) ha diffuso un rapporto sul nuovo modus operandi del Daesh in Europa, frutto delle audizioni dei responsabili delle intelligence e delle polizie dei Paesi membri. Ad essere presi in esame sono i combattenti stranieri, che per l’Onu sarebbero 25.000 provenienti da 100 nazioni.

Nel caso dei foreign fighters, si legge nel dossier, «la componente religiosa e la radicalizzazione, nel reclutamento è sostituita da elementi sociali come la pressione dei pari e i modelli di ruolo»: coetanei che vivono la stessa condizione, motivandosi a vicenda, creandosi un personaggio quasi come in un video game tragico. Ci sono poi i legami sociali, come l’appartenenza a «comuni gruppi sociali, etnici, area geografica e lingua». Il tutto «può avvenire molto rapidamente» e l’età gioca un ruolo determinante: «I più giovani si trovano a essere più impressionabili e rapidamente radicalizzabili, rispetto ai candidati più anziani».

Per l’Ectc, in questo processo «possono svolgere un ruolo anche considerazioni personali», ma alla base di questa scelta c’è «anche la prospettiva romantica di essere parte di un’importante ed emozionante sviluppo», in quanto questi «kamikaze si vedono più come eroi che come martiri religiosi». Tanto da agire, «come dimostrano le riprese di Parigi, in maniera emotivamente distaccata». L’elemento nuovo emerso dalla ricerca è che «prima che entrassero a far parte del Daesh a una percentuale significativa di combattenti stranieri (il 20% secondo una fonte, anche maggiore secondo un’altra) sono stati diagnosticati problemi mentali». Mentre l’80% «ha precedenti penali che variano dai reati minori ai più gravi, che sembrano differire a seconda del Paese».

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Stragi e balbettii. Le notizie del giorno, caffè del 24 luglio 2016

La febbre dell’odio, titolo del manifesto, ha invaso il week end. Ora si si sa che il diciottenne Ali Sonboly non era “un soldato” dell’Isis, non ha agito in quanto figlio di iraniani sciiti che odiavano turchi e sunniti, ma ha stroncato lo stesso 9 vite, ha mandato in ospedale 27 persone, alcune tuttora tra la vita e la morte. Ora sappiamo che Ali era stato vittima di bullismo e che voleva vendicarsi: aveva studiato altre stragi che considerava analoghe (a cominciare da quella del nazista norvegese Anders Breivik -77 vittime- consumata pure il 22 luglio ma di 5 anni fa. Ora ci si interroga su questi killer (islamisti o no), sul “bullo debosciato di Nizza o l’assassino di Orlando, che odiava i gay perché la sua cultura reazionaria non gli permetteva di ammettere di esserlo…(sui) piccoli delinquenti di Parigi e Bruxelles hanno trovato nel radicalismo islamista uno sbocco al fallimento dell’integrazione in un mondo di consumo e bella vita in cui non erano riusciti ad entrare… (ma anche su) quell’Adam Lanza che, psichicamente disturbato, senza amici, spesso deriso, un giorno del dicembre 2012 entrò in una scuola del Connecticut e — con un’arma da guerra e non una semplice pistola — fece strage di venti bambini della prima elementare più sette adulti. E infine… (su) Andreas Lubitz, il copilota tedesco (non immigrato, non discendente d’immigrati) che, disturbato psichicamente e frustrato nella sua ambizione di diventare primo pilota, decise nel marzo del 2015 di suicidarsi portandosi con sé 150 passeggeri”. Le citazioni che ho scelto sono di Roberto Toscano, ex ambasciatore che scrive per Repubblica, persona seria e osservatore attento. Vi risparmio altri, e sgangherati, commenti.
80 morti al corteo della luce. A Kabul intanto, la minoranza Azara (afgani di fede sciita considerati dai sunniti al potere una etnia inferiore) manifestava ieri per la luce. Il governo aveva infatti deciso di fare economia e dunque, per prima cosa, di non portare una moderna rete elettrica nella valle abitata dagli Azara. Le strade di Kabul erano sbarrate, per impedire che la grande folla dei manifestanti potesse avvicinarsi ai palazzi del potere, quando due terroristi si sono fatto esplodere nella folla, provocando la strage rivendicata poi dall’Isis. In Afganistan i seguaci di Al Bagdadi sfidano per l’egemonia Al Qaeda e i Taliban. Gli Azara sono solo carne da macello, il debole governo di Kabul -sostenuto dai soldati americani- è l’ostaggio di queste stragi. Dei morti e dei feriti non si occupa nessuno tranne Emergency, che chiede sangue per curare per poter curare negli ospedali le ferite provocate dalle bombe.
Riuniti in Cina, ministri delle finanze e governatori dei 20 paesi più influenti fanno i conti con la crisi o, per meglio dire, con una crescita insufficiente a dare speranza alla classe di mezzo e lavoro ai giovani. L’anno prossimo l’economia della Cina resterà sotto il 7% di aumento del PIL con evidente tendenza al ribasso. Gli Stati Uniti ben sotto il 3. Eurozona e Regno Unito sotto il 2%. Italia e Giappone ancora inchiodati allo zero virgola. Intanto un centro studi italiano segnala che i prezzi sono fermi -non aumentano e questo vuol dire che non crescere la domanda- come non succedeva dal 1959. Bassa crescita, deflazione. Ci vorrebbe una nuova direzione del mondo che combatta le disuguaglianze (vero freno per crescita e consumi), che faccia il vuoto intorno ai califfi che scannano per tornare al medio evo, che bandisca la guerra e difenda ovunque libertà e diritti. Ieri un ministro di Erdogan ha accusato l’occidente di aver tramato con i golpisti di Gulen. La prova, ha detto il ministro, è che dopo il golpe nessuno capo di governo è ancora venuto in Turchia. Invece di ripetere le solite banalità europeiste ed annunciare in pompa magna che riceverà Merkel e Hollande a Ventotene, Matteo Renzi avrebbe dovuto rispondere a quel ministro turco: “e nessuno verrà ad Ankara e a Istanbul, nemmeno per sottoscrivere accordi commerciali, fino a quando tutte le libertà non saranno garantite ai cittadini turchi e ogni diritto non sarà rispettato”.

Hijab e sneakers : il girl power delle A-Wa

Si scrive A-Wa, si pronuncia Ay-Wa e in slang arabo significa “sì”. Ma soprattutto A-Wa è il nome del trio composto da tre sorelle ebree yemenite, Tair, Liron e Tagel Haim (rispettivamente 32, 30 e 26 anni), che con i loro ritmi arab folk e hip hop riempiono i club di Tel Aviv e fanno ballare migliaia di ragazzi nei vari festival del globo. Hijab e djellaba ricamati da vere regine del deserto, tute hip-hop con motivi optical e sneakers, si presentano così le A-Wa ai loro concerti. E ad ascoltarle ci sono folle altrettanto composite per stili, gusti estetici e provenienze. Hipster, famiglie con bambini, giovani, vecchi, polacchi, francesi, israeliani, marocchini, non ha molto importanza chi tu sia e da dove tu venga. L’unica cosa che conta è che ti piaccia la musica.
E il métissage che carattarizza le A-Wa ha conquistato anche i media internazionali. Magazine e quotidiani francesi come Le Monde hanno già pubblicato recensioni entusiastiche del primo singolo “Habib Galbi” (quasi 4milioni di visualizzazioni su YouTube), mentre, dall’altra parte dell’Oceano, Rolling Stones Usa le ha indicate fra i dieci artisti da conoscere e tenere d’occhio. Un ottimo risultato per essere solo il primo album. 12 tracce – oltre ad “Habib Galbi” che dà il nome all’intero disco e a due remix di P.A.F.F e Kore – che Tair, Liron e Tagel hanno recuperato dai canti della tradizione yemenita e contaminato con sonorità elettroniche, dance e ritmi hip hop. Un viaggio sonoro e culturale che presto farà tappa anche in Italia, all’Ariano Folkfestival, dove le A-Wa si esibiranno il 19 agosto nell’unica data italiana del loro tour europeo estivo realizzata in collaborazione con FramEvolution – World Music Management.

Che Tair, Liron e Tagel siano israeliane di origini yemenite e cantino in un dialetto arabo, è molto più di una scelta artistica. La loro identità è il frutto 50 anni di cambiamenti storici. Tra il 1949 e il 1950, infatti, dopo la nascita di Israele, ci fu una massiccia immigrazione di ebrei dai Paesi arabi. Più di 200mila persone provenienti dal Marocco, dall’Algeria, dalla Tunisia, dalla Libia, dall’Egitto, dal Libano, dall’Iraq, dalla Siria e dallo Yemen lasciarono le loro case per trasferirsi nel nuovo Stato. Di queste circa 50mila erano ebrei yemeniti arrivati in Palestina per via aerea grazie a un’operazione denominata Tappeto Volante. I loro antenati avevano vissuto nelle lande meridionali della penisola arabica per circa duemila anni, e molti di loro, provenendo da comunità poverissime, prima di quel momento non avevano mai visto un aeroplano.

Dallo Yemen a Tel Aviv. Ci raccontate qualcosa di voi e della vostra famiglia?
Tutto inizia nel 1949 quando i nostri nonni emigrarono dallo Yemen e si trasferirono in Israele. Per la precisione a Gedera, una città nella zona centrale del nuovo Stato. Ebbero dieci figli, uno dei quali era nostro padre. Noi invece siamo cresciute in un piccolo villaggio della Valle di Arava chiamato Shaharut, nel sud di Israele, non troppo lontano dal confine egiziano. Shaharut è un posto bellissimo, magico, vivevamo circondate da animali, cavalli, cammelli, polli, anatre. La nostra infanzia nel deserto è stata meravigliosa…

L’intervista alle A-Wa continua su Left in edicola dal 23 luglio

 

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L’Italia dimenticata dei treni locali

Alla stazione di Salerno i passeggeri aspettano nel sottopasso, al riparo dalla pioggia. Il treno per Cosenza proveniente da Napoli delle 13.12 è in ritardo di 60 minuti. L’Intercity precedente ne ha accumultati 90: un guasto alla linea elettrica della Napoli-Roma che ha provocato disagi sia per l’alta velocità che per i regionali. Quando arriva al binario il convoglio è già pieno; il capotreno fischia subito per ripartire e recuperare qualche secondo prezioso. I viaggiatori arrancano con le valigie, guardano dai finestrini per cercare qualche posto libero. «Non voglio stare nelle prime carrozze – dice una donna ad un’amica prima di salire – vado in quelle centrali, mi sento più al sicuro». Frasi dello stesso tenore le pronunciano prima un pensionato al telefono con il figlio, poi una mamma in viaggio per raggiungere la Calabria. «Meglio non in coda – dice -: se succede un tamponamento?». Le rassicurazioni, le spiegazioni e la certezza che gli oltre 16mila chilometri di binari italiani gestiti da Rete ferroviaria italiana siano tra i più sicuri d’Europa e del mondo, non bastano a rasserenare chi viaggia: le immagini della strage dei treni in Puglia del 12 luglio scorso fanno ancora paura. Le lamiere accartocciate, le 23 vittime dello scontro frontale e i 50 feriti, le storie di chi ha perso la vita mentre tornava a casa, andava a scuola o al lavoro corrono veloci sulle banchine delle stazioni italiane. Così anche in Sicilia, negli stessi giorni, una studentessa di filosofia diretta a Messina da Taormina chiede al capotreno: «Può succedere un incidente come quello in Puglia anche qui?». «No – risponde Michele Barresi, ferroviere e segretario dell’Orsa trasporti Messina -, in Sicilia siamo lenti ma sicuri». E lo conferma anche Rfi, ricordando i 10 miliardi di investimenti, dal 2000 ad oggi, per dotare la rete nazionale della tecnologia adatta: gli ormai famosi sistemi Ermts, Scmt e Ssc, dispositivi che riescono a bloccare la corsa di un convoglio quando le regole o i segnali non vengono rispettati.

Lavoratori sotto ricatto
La tragedia pugliese, lo scontro tra i due treni locali fra Andria e Corato, è avvenuta invece su una tratta privata, non gestita da Rfi ma data in concessione dallo Stato alla società Ferrotramviaria spa, che si occupa del trasporto pubblico del Nord Barese. «Parlare di errore umano è riduttivo», hanno più volte detto gli inquirenti con l’inchiesta della procura di Trani che ha iscritto nel registro degli indagati, per ora, 6 persone. Nel tratto della strage tra gli ulivi secolari la tecnologia ancora non è arrivata e i treni viaggiano con l’ormai famoso “blocco telefonico”, la comunicazione via telefono del via libera tra due capistazione sul binario unico. Un sistema vecchio di sessanta anni che viene utilizzato su circa 600 chilometri di binari italiani dati in gestione a imprese pubbliche o private locali.
«Un’arretratezza tecnologica frutto anche del ricatto occupazionale che spesso avviene nelle imprese private del trasporto ferroviario» accusa però Michele Formisano, segretario generale del sindacato Orsa. Insomma, secondo l’Orsa nelle aziende lontane dal colosso Ferrovie dello Stato le lotte dei lavoratori sono più difficili da portare avanti, quindi ne risente l’organizzazione del lavoro e ne paga le conseguenze anche chi su quei treni ci viaggia. «Succede che rappresentanti sindacali si dimettano dopo 48 ore dalla nomina» attacca Formisano. «In molte imprese o accetti le condizioni del lavoro così come sono oppure ti fanno capire di poterti sostituire con schiere di persone in cerca di lavoro. Con questo clima fare denunce e portare avanti battaglie sindacali è molto più complesso». Dal 2006 ad oggi i sindacati hanno chiesto, su tutte le tratte italiane, sistemi di sicurezza che controllino la marcia del treno e proteggano passeggeri e lavoratori: «Noi non facciamo distinzioni tra linee principali o secondarie – spiega Formisano – chiediamo la stessa sicurezza ovunque e in tutte le imprese: abbiamo scioperato dalla Lombardia alla Campania fino alla Puglia».

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«Un’escalation che spegne il sogno di democrazia». Parla Burhan Sönmez, scrittore, avvocato e attivista

Dopo il fallito colpo di Stato della notte fra il 15 e il 16 luglio «due poteri forti sono entrati in collisione: da una parte i militari che hanno partecipato al complotto, dall’altra il governo di Erdogan. Nessuno dei due è una forza democratica. Sono loro i responsabili di interventi repressivi sui curdi, gli alawiti, i socialisti democratici, le donne, la parte laica del Paese. E ora si fanno la guerra, spegnendo speranza di democrazia».
A parlare così è Burhan Sönmez, scrittore, avvocato e attivista dei diritti umani che Freedom for Torture curò e aiutò a trasferirsi in Inghilterra dopo essere finito nelle mani della polizia turca. Da alcuni anni è tornato a vivere a Istanbul, dove è stato uno dei protagonisti del movimento di Gezi Park. «I sostenitori di Erdogan dopo il tentato putsch non sono scesi in strada per la democrazia – racconta -. Lo considerano un’opportunità per espandere i loro progetti islamisti. Dal tentativo di colpo di Stato a oggi non ho sentito risuonare slogan per la democrazia, per la libertà e nemmeno per la tolleranza. Inneggiano a Erdogan o gridano “Allah Akbar”. Reclamano a gran voce: “vogliamo la pena di morte”. Minacciano gli immigrati siriani e i militanti di sinistra».

Erdogan sfrutta la situazione per legittimare il suo strapotere?

Senza dubbio. «Questo è un dono di dio, grazie a questo tentativo di golpe avremo la possibilità di ripulire l’intero esercito», ha detto Erdogan all’indomani. Spingerà l’acceleratore delle politiche anti democratiche. Non si lascerà scappare questa occasione.

Alcuni dicono che la parte dell’esercito che ha organizzato il putsch sia vicina all’islamista Gulen, che vive in esilio volontario negli Usa. L’esercito non è più fedele al secolarismo di Atatürk?
L’informazione in Turchia oggi è largamente manipolata dal governo. È ancora difficile tracciare un quadro preciso, nitido, di quel che è accaduto in questo tentativo di colpo di Stato militare. C’era poco spazio per la democrazia e la laicità in Turchia e ora ce ne sarà ancora di meno.

Chi è
Burhan Sönmez è un avvocato e scrittore turco, nato nel 1965, nel distretto di Haymana. Alcuni anni fa fu costretto all’esilio in Inghilterra e a Cambridge, per motivi politici. Rientrato in patria ha partecipato attivamente alle proteste di piazza Taksim. In Italia, è stato tradotto il suo romanzo Gli innocenti, (Del Vecchio editore) e il prossimo ottobre sarà ospite di Pordenonelegge, dove presenterà Istanbul Istanbul in uscita per Nottetempo

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La strategia del sommergibile. Caffè del 23 luglio 2016

Giorno di terrore a Monaco. Pare avesse 18 anni. Sparava dal tetto mirando prima ai bambini e ha fatto almeno 10 vittime. Gridava “sono tedesco”, qualcuno gli avrebbe risposto “fatti curare”. “Odio i turchi”, dunque è “razzista”, della “destra etremista”. No, ha urlato “Allah è grande” (dunque islamista?). Corriere e Stampa pubblicano la foto di un calvo barbuto e di una bella ragazza che puntano il mitra: poliziotti bavaresi. Repubblica mostra un gruppo di donne, le mani sulla testa, che si allontana dalla scena del massacro. “La Germania cambierà”, assicura Giovanni Di Lorenzo, direttore di Die Zeit, a cui ogni giornalista ricorre perché, come dice il nome, parla italiano, è italiano, anche se convinto che i tedeschi siano diversi, e dunque reagiranno alla tedesca. Fine partita per la Merkel, statista dorotea che tutto cercava di sopire, dall’allarme migranti alla sfida del dittatore e liberticida Erdogan? Sì, è possibile che tutto cambi, che una maggioranza di elettori leghi in un unico fascio il terrorismo, pianificato o estemporaneo, l’emigrazione e la lampante debolezza delle lite. C’è alternativa? Ci sarebbe stata, ci sarebbe, se le forze politiche maggiori, di destra e di sinistra, non avessero stolidamente rassicurato dove non c’era da rassicurare : sulle conseguenze della crisi economica e delle disuguaglianze, sul tonfo delle alleanze occidentali e la gravità della guerra civile in medio oriente. Il populismo consolatorio (di Merkel, Cameron, Renzi) nutre il populismo vendicativo. Ci colpiscono? Noi bavaresi, lepenisti, leghisti ci vendicheremo.
Dark Trump vola nei sondaggi. Ha descritto a tinte fosche un’America di pessimo umore. Ha calcato la mano sulla crisi del ceto medio, ha speculato sulla paura del musulmano, del messicano e del nero che spara sulla polizia. Con me, ha tuonato, law and order (non meno armi in giro, più reclusi in carcere e più esecuzioni capitali). Ma ha promesso aiuti agli ex operai bianchi ora camerieri, più lavoro per i giovani neri, diritti per “i nostri LGBT”, protezione per risparmi, imprese e commerci americani. E chi se ne importa dei trattati sul libero commercio, che fino ad oggi l’America ha imposto al mondo intero. E poi il comune nemico: le elites. Per definizione ingannatrici, incapaci, colpevoli di disprezzarci e di aver fatto morire tanti “nostri” figli. Fa parte delle elites, è stata scelta dalle elites Hillary Clinton. First lady e consigliera del presidente Clinton dal 1993, segretario di stato del presidente uscente. Rappresenta la continuità del potere: perciò è responsabile di ogni errore. Ma non sa incantare le platee con l’eloquenza del marito Bill, né ha il feeling dell’ultimo presidente Barak. Donna, per di più gelida e adusa al potere. Mentre i trumpiani, come tanti consumasti americani maschi e femmine, sognano donne procaci, coi tacchi a spillo, mogli (di miliardari) o etere per qualche centinaio di dollari. Fino a ieri la Clinton si esibiva a porte chiuse per le Corporation paganti (quali segreti, dietro?), fino a ieri confondeva tra mail di stato e private (qualearrogaqza!) , da segretario di stato ha lasciato morire l’ambasciatore e il personale americano in Libia (andrebbe “fucilata”, ha urlato un fascista a Cleveland). Fra un paio di giorni Bernie Sanders sarà sul palco accanto a lei a Philadelphia. Dio salvi Hillary! Dalle notizie che arrivano, da se stessa, da chi l’ha scelta.
Torino batte Roma 29 a 4, scrive il Corriere. E giù le foto, in stile concorso di bellezza con fascia tricolore, fra Chiara e Virginia sindache a 5 stelle. Sotto si racconta di Paola (Taverna, nome omen) che avrebbe sentenziato: “La Raggi? Prima cade meglio è”. Donna e rosicano. Voi amici giornalisti, voi lettori, voi parlamentari del politicamente corretto non vi accorgete di quanto siate conformisti e, in fondo, bugiardi? Avete spiato dalla serratura le performance del vecchio Silvio, frugato nelle lenzuola del giovane Matteo, mi avete insultato quando ho accennato alla dipendenza (politica e psicologica) di un presunto maschio alpha da una donna bella e determinata, ma ora scommettete sul disastro delle giovani sindache. E le raccontate che si spennano come galline. Per fortuna c’è la doppia preferenza, di genere!
Lotti versus Renzi. Alla festa dell’unità di Prato l’eminenza grigia del premier, quello che è stato mandato in Senato a contare le pecore (i senatori) e a sostituire in questo la Boschi, in più alte faccende -le riforme costituzionali- affaccendata, ha detto che il Pd sembra lontano dalla gente…Basta dividerci o ci porteranno via tutti”, Avrà voluto chiedere la testa dei vice, di Guerini e della Serracchiani? “Serve una guida vera”, fa eco il catto-renziano Tonini. Intanto il voto per il referendum slitta a fine novembre. Niente paura -interviene la solita Maria Teresa Meli- è “la strategia del sommergibile”, adottata dallo stratega supremo. Prevede “la scelta di restare in silenzio anche sull’Italicum”. Sperando che entro fine anno qualcosa cambi, che la ruota torni a girare, che il vento gonfi di nuovo le vele del renzismo. Purtroppo il debito pubblico è ripreso a salire, ora è al 135% del PIL. La ripresa non porta lavoro per i giovani né più consumi delceto medio, mentre bonus, sgravi e mance fanno crescere la montagna di miliardi di debiti su cui siano seduti. Irrigidendo – previsione assai facile- i nostri sorveglianti tedeschi. Ci tocca pensare al dopo Renzi. Anche se nessuno brilla.

Verona, appello contro la cittadinanza a Poroshenko

Il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha conferito la cittadinanza onoraria a Petro Poroshenko, capo dello Stato ucraino eletto con elezioni anticipate nel 2014, tra violenze di piazza e guerra civile nel Donbass. Poroshenko, 50 anni, oligarca e “re del cioccolato” con la sua Roshen, conta su una lunga carriera politica da trasformista: è stato deputato e ministro sia con governi filo-occidentali che con quelli filorussi. Candidato alla presidenza dell’Ucraina all’indomani del colpo di Stato del 2014 e la destituzione dell’allora presidente Viktor Janucovyc, viene eletto con il sostegno delle forze neo-naziste, alle quali – del resto – appartengono alcuni ministri dell’attuale governo.

La Kiev di Poroshenko opera nella sistematica repressione del dissenso e nella totale violazione dei diritti umani ai danni della componente russofona e delle minoranze. Su tutte, la popolazione russofona del Donbass, sottoposta alla costante repressione militare di Kiev che si è spinta fino a bombardamenti indiscriminati contro i civili. Pari repressione si è abbattuta, e si continua ad abbattere, sulle opposizioni: molti gli episodi di eliminazione fisica, incarcerazioni senza garanzie processuali ed emigrazioni coatte denunciate finora.

Il Battaglione "Azov", reparto militare ucraino istituito principalmente per contrastare la guerriglia dei separatisti filo-russi del Donbass nel 2014
Il Battaglione “Azov”, reparto militare ucraino istituito principalmente per contrastare la guerriglia dei separatisti filo-russi del Donbass nel 2014

Tra gli episodi di discriminazione razziale, la strage del 2 maggio 2014 a Odessa nella quale furono bruciati vivi molti civili dalle bande paramilitari filonaziste e filogovernative. A riguardo – documentano Onu e Amnesty International – le indagini condotte da Kiev «non soddisfano i requisiti della Convenzione europea sui diritti umani» e che, dopo due anni dalla tragedia, non sono stati trovati i colpevoli poiché godono della complicità della polizia e della protezione del governo di Kiev.

Un fatto che «offende il senso profondo della giustizia e del rispetto dei diritti umani universali», recita l’appello “Nessuna onorificenza per Poroshenko” diretto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e promosso dal coordinamento Ucraina Antifascista. «In una fase storica di sdoganamento del fascismo in Italia e, più in generale, di rigurgiti neo-nazisti in Europa, la battaglia contro l’iniziativa del sindaco di Verona assume un valore simbolico da un lato, e morale dall’altro: non possiamo con rassegnazione accettare che sia offesa la nostra identità nata dalla Resistenza».

Erdogan incombe, l’Albania sceglie l’Ue. Schlein: «Ora un futuro europeo»

epa04746459 Turkish President Recep Tayyip Erdogan (L) and Albanian Prime Minister Edi Rama (R) after their talks in Tirana, Albania, 13 may 2015. The Turkish President is in Tirana for a one-day official visit. EPA/STR

Dall’impasse all’unanimità. Dopo il rinvio al cardiopalma di ieri – “Albania nel caos” avevamo titolato – e una lunga notte di trattative, il Parlamento di Tirana ha approvato all’unanimità la riforma giudiziaria. Con 140 voti a favore su 140 seggi. Il premier socialista Edi Rama, perciò, resterà al suo posto. L’Albania è a un passo dall’Unione europea. Ma Erdogan non resta a guardare e fa sapere a Rama che nel suo Paese si nascondono oppositori del regime turco. A riguardo, abbiamo rivolto tre domande a Elly Schlein, eurodeputata italiana di Possibile e dell’S&D, che è anche vicepresidente della delegazione alla Commissione di stabilizzazione e associazione Ue-Albania.

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 01-07-2014 Strasburgo (Francia) Politica Prima sessione plenaria del Parlamento Europeo Nella foto Elly Schlein (Pd) Photo Roberto Monaldo / LaPresse 01-07-2014 Strasbourg (France) First Plenary Session of the European Parliament In the photo Elly Schlein
Elly Schlein

Questo voto arriva dopo oltre due anni di trattative, perché è un risultato importante per l’Albania?
Intanto perché è un risultato storico per i 26 anni della democrazia albanese. E poi perché questa riforma era considerata necessaria per l’apertura dei negoziati, come Ue abbiamo insistito sull’importanza di questa riforma per continuare il processo di adesione all’Ue dell’Albania. Perciò, questo voto è una finestra fondamentale, in vista del prossimo giudizio a novembre. Certo la riforma non è tutto, adesso è fondamentale garantire un sistema giudiziario: indipendente, imparziale, professionale. È una sfida moto lunga, ma questo è un passaggio fondamentale per il Paese delle Aquile, che dà ai cittadini la speranza di avere fiducia nelle istituzioni e nella giustizia.

Guardiamola dall’Unione. C’è chi vuol andare e c’è chi vuol restare… dopo Brexit, che significato assume questo voto?
L’Albania è un Paese pro-Europa, ed è anche un partner strategico dell’Italia. L’essere europeisti, anzi, è una delle cose che riesce a mettere d’accordo opposizione e maggioranza. L’Albania ha scelto un futuro europeo. È come se ci si accorgesse più da fuori che da dentro dei benefici che può portare stare dentro l’Ue. E che le sfide sono da affrontare in una scala ampia, altrimenti le perdiamo tutte: migratorie, fiscali, sociali, politiche. Certo, è evidente che l’Unione non ha prodotto le soluzioni e le risposte ai problemi quotidiani dei cittadini europei, e che le risposte fin qui date sono state insufficienti se non controproducenti. Ma bisogna fare attenzione, perché se l’Europa finora è rimasta incompiuta è proprio perché hanno prevalso i nazionalismi.

Tra Tirana e Ankara ci sono appena 1.500 km di distanza. E la Turchia di Erdogan ha scritto al premier albanese Rama per informarlo sulla presunta penetrazione degli uomini di Fethullah Gülen in Albania. Possiamo dire che, con questo voto, l’Albania ha preso le distanze da Erdogan?
Difficile dirlo. Ma l’Albania ha dimostrato che ha ben chiaro qual è il suo futuro. Ed è un futuro europeo. E ha avuto il supporto della popolazione andando in questa direzione. Direi che questo voto è il sigillo di un lavoro lungo e faticoso, che segna la volontà politica di superare le divisioni. Questa Albania è ben lontana dalla scena di repressione e di minaccia all’ordinamento democratico che vediamo oggi in Turchia.