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Verona, appello contro la cittadinanza a Poroshenko

Il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha conferito la cittadinanza onoraria a Petro Poroshenko, capo dello Stato ucraino eletto con elezioni anticipate nel 2014, tra violenze di piazza e guerra civile nel Donbass. Poroshenko, 50 anni, oligarca e “re del cioccolato” con la sua Roshen, conta su una lunga carriera politica da trasformista: è stato deputato e ministro sia con governi filo-occidentali che con quelli filorussi. Candidato alla presidenza dell’Ucraina all’indomani del colpo di Stato del 2014 e la destituzione dell’allora presidente Viktor Janucovyc, viene eletto con il sostegno delle forze neo-naziste, alle quali – del resto – appartengono alcuni ministri dell’attuale governo.

La Kiev di Poroshenko opera nella sistematica repressione del dissenso e nella totale violazione dei diritti umani ai danni della componente russofona e delle minoranze. Su tutte, la popolazione russofona del Donbass, sottoposta alla costante repressione militare di Kiev che si è spinta fino a bombardamenti indiscriminati contro i civili. Pari repressione si è abbattuta, e si continua ad abbattere, sulle opposizioni: molti gli episodi di eliminazione fisica, incarcerazioni senza garanzie processuali ed emigrazioni coatte denunciate finora.

Il Battaglione "Azov", reparto militare ucraino istituito principalmente per contrastare la guerriglia dei separatisti filo-russi del Donbass nel 2014
Il Battaglione “Azov”, reparto militare ucraino istituito principalmente per contrastare la guerriglia dei separatisti filo-russi del Donbass nel 2014

Tra gli episodi di discriminazione razziale, la strage del 2 maggio 2014 a Odessa nella quale furono bruciati vivi molti civili dalle bande paramilitari filonaziste e filogovernative. A riguardo – documentano Onu e Amnesty International – le indagini condotte da Kiev «non soddisfano i requisiti della Convenzione europea sui diritti umani» e che, dopo due anni dalla tragedia, non sono stati trovati i colpevoli poiché godono della complicità della polizia e della protezione del governo di Kiev.

Un fatto che «offende il senso profondo della giustizia e del rispetto dei diritti umani universali», recita l’appello “Nessuna onorificenza per Poroshenko” diretto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e promosso dal coordinamento Ucraina Antifascista. «In una fase storica di sdoganamento del fascismo in Italia e, più in generale, di rigurgiti neo-nazisti in Europa, la battaglia contro l’iniziativa del sindaco di Verona assume un valore simbolico da un lato, e morale dall’altro: non possiamo con rassegnazione accettare che sia offesa la nostra identità nata dalla Resistenza».

Erdogan incombe, l’Albania sceglie l’Ue. Schlein: «Ora un futuro europeo»

epa04746459 Turkish President Recep Tayyip Erdogan (L) and Albanian Prime Minister Edi Rama (R) after their talks in Tirana, Albania, 13 may 2015. The Turkish President is in Tirana for a one-day official visit. EPA/STR

Dall’impasse all’unanimità. Dopo il rinvio al cardiopalma di ieri – “Albania nel caos” avevamo titolato – e una lunga notte di trattative, il Parlamento di Tirana ha approvato all’unanimità la riforma giudiziaria. Con 140 voti a favore su 140 seggi. Il premier socialista Edi Rama, perciò, resterà al suo posto. L’Albania è a un passo dall’Unione europea. Ma Erdogan non resta a guardare e fa sapere a Rama che nel suo Paese si nascondono oppositori del regime turco. A riguardo, abbiamo rivolto tre domande a Elly Schlein, eurodeputata italiana di Possibile e dell’S&D, che è anche vicepresidente della delegazione alla Commissione di stabilizzazione e associazione Ue-Albania.

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 01-07-2014 Strasburgo (Francia) Politica Prima sessione plenaria del Parlamento Europeo Nella foto Elly Schlein (Pd) Photo Roberto Monaldo / LaPresse 01-07-2014 Strasbourg (France) First Plenary Session of the European Parliament In the photo Elly Schlein
Elly Schlein

Questo voto arriva dopo oltre due anni di trattative, perché è un risultato importante per l’Albania?
Intanto perché è un risultato storico per i 26 anni della democrazia albanese. E poi perché questa riforma era considerata necessaria per l’apertura dei negoziati, come Ue abbiamo insistito sull’importanza di questa riforma per continuare il processo di adesione all’Ue dell’Albania. Perciò, questo voto è una finestra fondamentale, in vista del prossimo giudizio a novembre. Certo la riforma non è tutto, adesso è fondamentale garantire un sistema giudiziario: indipendente, imparziale, professionale. È una sfida moto lunga, ma questo è un passaggio fondamentale per il Paese delle Aquile, che dà ai cittadini la speranza di avere fiducia nelle istituzioni e nella giustizia.

Guardiamola dall’Unione. C’è chi vuol andare e c’è chi vuol restare… dopo Brexit, che significato assume questo voto?
L’Albania è un Paese pro-Europa, ed è anche un partner strategico dell’Italia. L’essere europeisti, anzi, è una delle cose che riesce a mettere d’accordo opposizione e maggioranza. L’Albania ha scelto un futuro europeo. È come se ci si accorgesse più da fuori che da dentro dei benefici che può portare stare dentro l’Ue. E che le sfide sono da affrontare in una scala ampia, altrimenti le perdiamo tutte: migratorie, fiscali, sociali, politiche. Certo, è evidente che l’Unione non ha prodotto le soluzioni e le risposte ai problemi quotidiani dei cittadini europei, e che le risposte fin qui date sono state insufficienti se non controproducenti. Ma bisogna fare attenzione, perché se l’Europa finora è rimasta incompiuta è proprio perché hanno prevalso i nazionalismi.

Tra Tirana e Ankara ci sono appena 1.500 km di distanza. E la Turchia di Erdogan ha scritto al premier albanese Rama per informarlo sulla presunta penetrazione degli uomini di Fethullah Gülen in Albania. Possiamo dire che, con questo voto, l’Albania ha preso le distanze da Erdogan?
Difficile dirlo. Ma l’Albania ha dimostrato che ha ben chiaro qual è il suo futuro. Ed è un futuro europeo. E ha avuto il supporto della popolazione andando in questa direzione. Direi che questo voto è il sigillo di un lavoro lungo e faticoso, che segna la volontà politica di superare le divisioni. Questa Albania è ben lontana dalla scena di repressione e di minaccia all’ordinamento democratico che vediamo oggi in Turchia.

Comuni pronti (o quasi) a celebrare le unioni civili. E ora è vietato obiettare

Le prime unioni civili in Italia si celebrano a Ferragosto. L’ok, ieri, del Consiglio di Stato al decreto ponte che rende operativo il ddl Cirinnà, apre alla trascrizione delle unioni omosessuali nei registri dello Stato civile. Ora che non ci sono più ostacoli formali alla piena operatività della legge, tocca al governo sbrigarsi. È al Viminale che spetta infatti l’onere di varare, entro cinque giorni, il provvedimento sulle formule da inserire nei registri comunali e che sono necessarie al riconoscimento effettivo delle unioni. Ad esortare Alfano è stato Franco Frattini, il presidente della Sezione Atti normativi del Consiglio di Stato.

 

A margine del parere consultivo di ieri, Frattini in conferenza stampa ha poi sottolineato l’urgenza di sottoporre al parere del garante della privacy l’impianto delle norme approvate entro il 5 dicembre, giorno in cui scade il termine per l’entrata in vigore dei decreti. «Una cosa è un registro disposto con un provvedimento d’urgenza, altra è disciplinare un’intera situazione – ha detto Frattini – da qui il consiglio a compiere un monitoraggio sul funzionamento del decreto e il suggerimento a produrre circolari informative»

Città arcobaleno

Mentre il ddl Cirrinnà prosegue il suo iter attuativo, i comuni e i cittadini si preparano a a registrare le prime unioni. Agli uffici comunali di Milano, nella sola giornata di ieri, sono arrivate 79 richieste di prenotazione per l’iscrizione nei registri. 36 a Bologna, 20 a Torino e poi una decina a Verona, Fiumicino e Pesaro.

L’entusiasmo tra i cittadini è grande e le città si preparano ad accoglierlo. A Verona il leghista Tosi offre il balcone di Romeo e Giulietta, mentre Viareggio propone celebrazioni in spiaggia. Pronte anche Vicenza, Venezia e Palermo, mentre arrancano Napoli e Roma. Una netta opposizione viene invece da Novara dove il sindaco leghista, Alessandro Canelli, dice di avere «cose più urgenti da fare».

Nessuna obiezione

Se la politica e la società civile hanno accolto con entusiasmo la decisione del Consiglio di Stato, le associazioni interne e vicine al mondo omosessuale ci vanno più caute. «Le liste d’attesa istituite in questi giorni in diversi comuni d’Italia e che vedono decine di coppie pronte a celebrare la propria unione, testimoniano la necessità di corrispondere quanto prima a quelle istanze, che sono diritti sanciti da una legge già in vigore. In questo senso è auspicabile che il termine ipotetico del prossimo ferragosto possa dimostrarsi certo», ha dichiarato Gabriele Piazzoni, segretario generale dell’Arcigay. In conclusione del suo comunicato l’Arcigay aggiunge di aver accolto con «sollievo» la decisione da parte del Consiglio di Stato di derubricare a forma estranea alla legge, il ricorso all’obiezione di coscienza da parte dei sindaci.

Il tema dell’obiezione era stato sollevato a Rovigo la scorsa settimana. Il sindaco Massimo Bergamini in un lungo post su Facebook ha fatto appello all’obiezione di coscienza per opporsi alla celebrazione delle unioni civili previste dalla legge entrata in vigore a fine febbraio. Puntuale, Mario Adinolfi ha offerto il proprio sostegno al primo cittadino leghista, mentre l’Arcigay ha organizzato un flash mob sotto le finestre degli uffici del sindaco.

A stroncare definitivamente la campagna mediatica – un vero e proprio tentativo di boicotaggio – portata avanti dai sindaci obiettori in opposizione alla piena attuazione del ddl Cirinnà, è stato il Consiglio di Stato. «Il provvedimento non parla di sindaci ma di Ufficiali di Stato Civile, quindi una platea molto ampia» chiarisce Frattini. Nessuna scusa dunque per fermare l’approdo delle unioni arcobaleno nei Comuni italiani: le trascrizioni possono essere delegate dai sindaci «ad altre figure che rivestono altra qualifica». Vietato obiettare.

Il futuro in comune. A Messina un focus sul municipalismo

Il 23 luglio l’Orto botanico Pietro Castelli di Messina ospita, dalle 19,30 alle 22,30, “Movimenti in comune”: tre ore di confronto e dibattito sul municipalismo inteso come “grande salto” dei movimenti verso l’impegno anche istituzionale. E sono gli enti locali, in particolare le città, i luoghi in cui questi salti approdano, prendendo vita e forma. L’evento promosso da Cambiamo Messina dal basso e supportato da European alternatives, vuole mettere intorno a un tavolo esperienze con radici, percorsi e rappresentanze diverse, ma con una base comune: la costruzione di piattaforme cittadine innovative oltre i partiti tradizionali che, pur non prive di contraddizioni hanno aperto nuovi spazi di cambiamento che hanno al centro processi partecipativi. Autonomia, dunque, dei movimenti e delle stesse istituzioni, dai vincoli amministrativi e dalle politiche di austerità imposte dai governi nazionali e dell’Unione europea.
Così in Spagna con i progetti giunti e condotti nelle Madrid della sindaca Manuela Carmena e nella Barcelona di Ada Colau, A Coruña e Saragoza. Così anche in Italia: dalla Napoli di Luigi De Magistris alla Cinquefrondi (Rc) di Michele Conia, dalla Messina di Renato Accorinti alla Marghera di Gianfranco Bettin. In queste municipalità, la cosiddetta “cittadinanza attiva” è riuscita a trasformare l’iniziativa dal basso in esperienze di governo. E così anche a Birmingham e Bristol nel Regno Unito, in Germania con il governo del Land Turingia, a Grenoble, nei governi regionali dell’Attica e delle Isole Ionie in Grecia, oltre alle polacche Wadowice e Slupsk.

locandina-programma

Alla chiamata di “Cambiamo Messina dal basso” hanno risposto, tra gli altri, Marea Atlántica dal Comune di A Coruña, Barcelona en Comú dalla capitale catalana, Coalizione Civica di Bologna, l’Asilo di Napoli, la comunità e confraternite Elleniche in Italia; e ancora i sindaci di Messina Renato Accorinti, Michele Conia di Cinquefrondi (Rc), Giuseppe Cannistrà di Monforte San Giorgio (Me). E intellettuali del territorio come il professor Tonino Perna e il sociologo Pier Paolo Zampieri.
Quali potenzialità e quali limiti ha il municipalismo? Left raccoglierà riflessioni, racconti e spunti di una complessità che, nel solco del municipalismo, tenta un nuovo modo di fare politica, attraverso processi collettivi che hanno sì dimensioni locali ma ambizioni e programmi universali.

La piccola America “Legge&Ordine” di Donald Trump

L’America è al collasso, il numero degli omicidi è in aumento, i nostri poliziotti in pericoli e torme di terroristi si aggirano per le nostre città. La colpa è di Obama e con Hillary Clinton tutto rimarrà uguale.

«Né io né nessuno in questa sala ha mai visto o conosciuto un’America più pericolosa. Questo presidente ha abbandonato le inner cities americane». Il discorso apocalittico di accettazione della nomination da parte di Donald Trump è privo di ricette precise per come risolvere la situazione catastrofica che lo stesso candidato repubblicano dipinge. La ricetta è una e una sola: «Io e solo io posso rimettere le cose a posto, far tornare l’America grande». Perché? Perché vi amo, conosco il sistema come nessun altro e solo io sono in gradi di cambiarlo e aggiustarlo, perché sono la vostra voce e perché non firmerò mai e poi mai un accordo commerciale sbagliato.

Trump scommete sulla paura generate in questi giorni dalla morte dei poliziotti a Dallas e Baton Rouge e dalle proteste degli afroamericani, come all’inizio e durante la sua campagna per le primarie ha scommesso sulla paura degli immigrati e del terrorismo. L’America deve chiudersi in se stessa, venire a patti con dittatori e personaggi scomodi, lasciare che gli alleati della Nato se la cavino da soli e gettare nel cesso i trattati commerciali che hanno portato le fabriche in Cina e Messico. Il programma è questo. Più, naturalmente, un taglio delle tasse per i più ricchi accompagnato da tagli alla spesa equivalenti. Il campione di scacchi Kasparov, fuggito negli Usa dalla Russia di Putin, twitta: «Ho ascoltato questo discorso molte volte, non suona bene nemmeno in russo».

Ecco, se c’è uno specifico nel programma di Trump è quello su spesa e tasse. Per il resto non sappiamo nulla. Se non che l’America che dipinge non è il faro sulla collina pieno di speranza descritto da Ronald Reagan, convinto di essere migliore dell’Impero del male sovietico e, quindi, destinato a vincere. Il reaganismo è morto con Trump e il movimento isolazionista, conservatore che lo sostiene. A tornare è la versione precedente del conservatorismo Usa, quello di Nixon e degli anni in cui, la maggioranza silenziosa, spaventata dai movimenti di protesta, dalle Pantere nere, dalla rivoluzione sessuale, delusa e depressa dal Vietnam, in fuga dalle città troppo violente e in preda a un’epidemia di droga scelsero di voltare le spalle al progressismo degli anni ’60. Come scrive Megan McCain, figlia del senatore candidato del 2008, «Il partito di cui ero parte è morto»

 

Cosa altro è il suo «La prima cosa che farò è riportare sicurezza: costruiremo un muro alla frontiera per fermare gli immigrati, le gangs e la loro violenza e il fiume di droga che si riversa sulle nostre comunità», se non un vecchio disco fascistoide proveniente da un’altra era geologica? Che infatti è piaciuto molto all’ex Gran capo del Ku Klux Klan David Duke (che si potrebbe candidare alla Camera)

Oggi gli Usa non sono in preda a una crisi simile, ma assistono come tutto il resto del mondo a trasformazioni epocali, che ne ridimensionano il potere assoluto avuto dal 1989 al 2001 – e perso anche grazie alle catastrofiche avventure dell’ultimo presidente repubblicano in Iraq e Afghanistan. E, a differenza per dire dell’Europa, hanno risposto al cambiamento reagendo piuttosto bene. Certo, negli anni di Obama la Cina non è scomparsa e neppure la minaccia del terrorismo. Ma non è aumentato il crimine, i flussi migratori si sono ridimensionati e i posti di lavoro aumentati.

Ma numeri e realtà non sono il forte di Donald Trump, che promette Legge&Ordine, e dipinge Hilary Clinton come la marionetta dei poteri forti che come Segretario di Stato ha lasciato un’eredità di «Morte, distruzione, morte e debolezza» e tutti i media e le corporation sono con lei perché vuole lasciare le cose come stanno.

Trump ha fatto un discorso per i suoi. Del resto in una intervista rilasciata al New York Times ha detto: «Quel che rimane da questa convention è l’aver constatato che piaccio alla gente». È vero, c’è un pezzo d’America bianca, non giovane e spaventata dal cambiamento che adora il miliardario newyorchese, le sue parole forti, le sua sparate. Ma per il resto l’America del 2016 non sembra un Paese terrorizzato e in reda a una crisi epocale tale da affidarsi a uno sceriffo platinato come Trump. Se c’è una parte del discorso che il candidato repubblicano fa che potrebbe funzionare con l’elettorato moderato è proprio quella per cui Clinton non cambierà le cose mente lui, il non politico che conosce il business, è pronto a trasformare l’America e farla tornare grande. L’outsider tutto promesse e niente piani definiti contro il sistema immobile è l’unica chiave possibile per TheDonald. Se riuscirà a convincere gli americani saranno dolori per tutti. Hillary avrà bisogno, per fermarlo, dell’entusiasmo della sinistra e i suoi lo hanno capito. Lo slogan del mattino, della campagna Clinton è: l’unico ostacolo tra Trump e la Casa Bianca siamo tutti noi.

Nizza, l’attentatore non era solo. Un complice aveva contatti con l’Italia

Un francese tiene in amno una copia del Nice-Matin il quotidiano principale a Nizza 15 luglio 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Non si è trattato di una radicalizzazione lampo né dell’atto di un lupo solitario. Stando alle parole del procuratore della Repubblica di Parigi, Francois Molins, la sera del 14 luglio Mohamed Lahouaiej Bouhlel ha messo in moto il tir che ha ucciso 84 persone sulle Promenade des Anglais, a Nizza, dopo aver progettato l’attentato per mesi e con la complicità di cinque persone.

Boulhel aveva conservato un articolo sul captagon, la “droga dei jihadisti”, e sul suo telefono c’erano alcune riprese dei fuochi d’artificio del 14 luglio 2015, con frequenti «zoomate sulla folla» ha specificato Molins. Il procuratore ha evidenziato che mancano riscontri sui legami dell’attentatore con l’Isis ma ha confermato che per portare a termine il suo disegno Bouhlel è stato «sostenuto nella preparazione e nell’attuazione» da altre persone. E come per il franco-tunisino di 31 anni, anche nel caso dei presunti complici, tutti attualmente in stato di fermo e accusati di associazione per delinquere con finalità terroristica, si tratta di persone finora sconosciute ai servizi segreti a all’antiterrorismo.

Tre di loro – un franco-tunisino di 21 anni nato a Nizza; un tunisino di 37 anni nato a Sousse e un franco-tunisino 40enne nato anche in Tunisia – sono accusati di complicità diretta nella strage con finalità di terrorismo. I messaggi ritrovati sui loro cellulari e su quello di Bouhlel suggeriscono che sapevano del progetto stragistra. Una coppia di albanesi, invece, è accusata di aver fornito la calibro 7.65 con cui l’attentatore ha sparato. Ma l’arma gli sarebbe stata consegnata da uno dei tre franco-tunisini, il 21enne Ramzie Arefa.

Alle 17 del 14 luglio Boulhel ha inviato un messaggio vocale a uno dei sospettati in cui faceva riferimento a un’azione da compiere «il mese prossimo», mentre in altri messaggio e in particolare in un sms inviato alle 22,27, poco prima dell’attacco, in un scriveva: “Volevo dirti che la pistola mi hai portato ieri è molto buona”, chiedendo di procurarne altre, a quanto pare per un attacco successivo. Ma sui dettagli di questa eventualità, ha detto il procuratore, sono in corso ulteriori indagini.

Dall’analisi del telefono dell’attentatore è emerso il ruolo di un altro dei presunti compici, Mohamed Walid G. (1.278 telefonate tra i due lo scorso anno), con cui Boulhel il 10 gennaio 2015 aveva condiviso via sms la soddisfazione per la strage di Charlie Hebdo: “Io non sono Charlie … Sono contento, hanno portato i soldati di Allah per finire il lavoro”. Ritrovate anche foto dei due scattate l’11 e il 13 luglio a bordo del camion utilizzato nell’attacco. E il procuratore di Parigi ha dichiarato che dopo il massacro Walid ha fatto riprese con il suo smartphone sulla Promenade del Anglais.

L’altro presunto complice, Choukri Chafroud, lo scorso aprile ha condiviso su facebook con l’autore materiale della strage un massaggio in cui si parlava di “caricare un camion con 2.000 tonnellate di ferro” e “tagliare i freni”. Due giorni prima dell’attacco, invece, i due erano a bordo del camion sulla Promenade del Anglais. Proprio Choukri, che non ha precedenti penali, fino allo scorso anno lavorava come bracciante e operaio edile in provincia di Bari, a Gravina di Puglia, tornandoci anche poche settimane prima dell’attentato e mantenendo contatti costanti con cittadini albanesi e tunisini residenti in Italia. Le procure di Roma e di Bari si sono subito attivate e sono state perquisite sia la sua vecchia abitazione sia quella in cui è stato ospite durante il suo recente soggiorno in Puglia.

Benvenuti a “Risiko tremila”

I gendarmi innalzati a Presidenti e poi buttati giù, quando più che inservibili erano diventati testimoni scomodi. Generali con un ego ipertrofico, e fame di denaro oltre che di potere, che cercano legittimità non dal libero pronunciamento dei popoli (che è ben altra cosa dal rito falsato di elezioni taroccate) ma dalle avide cancellerie occidentali  o dalle munifiche petromonarchie del Golfo. Benvenuti a “Risiko Tremila”: dove al posto dei carri armati ci sono le figure di “Faraoni”, “Califfi”, “Sultani”, “Rais” che dalla polvere finiscono sull’altare e dall’altare precipitano in galera o sulla forca o con una pallottola in testa. Cambiano le carte ma non i mazzieri. Che sono sempre gli stessi. I mazzieri che decidono chi sale e chi scende ad Ankara, come al Cairo, a Tripoli come in Mali, e l’elenco potrebbe proseguire a lungo, hanno sedi reperibili, stanze ovattate dalle quali muovono le pedine di questo “Risiko Tremila”: la Casa Bianca, l’Eliseo, Downing Street…

Se esistesse una sorta di “album Panini” dei dittatori inventati tali e poi abbattuti, le pagine dovrebbero essere davvero tante per contenere figurine e storie che hanno marchiato, e insanguinato, decenni di storia. Pensiamo solo a Saddam Hussein, a Hosni Mubarak, a Muammar Gheddafi, ed oggi a Bashar al-Assad, a Recep Tayyp Erdogan, ad Abdel Fattah al-Sisi. Ognuno, naturalmente, ha caratteristiche peculiari, legate al particolare momento storico-politico in cui hanno operato, e alla specificità dei Paesi che hanno scalato, e spesso ridotto a un cumulo di macerie o a stati di polizia dove la tortura è la normalità e l’eliminazione di ogni oppositore – sia esso un politico, un blogger laico, un attivista dei diritti umani, un giornalista indipendente – è il modus operandi per perpetuare il proprio dominio.

Storie diverse, dicevamo, ma, a ben vedere c’è un filo nero che le unisce: nessuno di costoro sarebbe diventato un dittatore-presidente se non avesse avuto il sostegno, politico e militare, dell’Occidente “libero e democratico”. Niente, davvero niente, delle discese ardite e delle risalite di dittatori nel grande Medio Oriente, si è determinato al di fuori o contro le determinazioni delle grandi potenze neocoloniali. L’investitura, e l’archiviazione spesso violenta, di “Sultani”, “Colonnelli”, Rais e “Califfi”, è parte del neocolonialismo occidentale che non ha mai smesso di funzionare, rimodulando, ma neppure tanto, gli strumenti dell’agire ma non i fini. Che restano gli stessi di sempre: usare dittatori senza scrupoli spacciandoli per il “male minore”, come “argini al terrorismo”, ma la cui funzione era e resta quella di garantire gli interessi economici e le mire geopolitiche dei “soliti noti”. In nome della guerra al terrorismo, vero o presunto, tutto si giustifica: stati d’emergenza di durata trentennale, minoranze asfaltate (e non è una metafora ma la tragica realtà, come ben sanno i curdi sottoposti alla cura-Erdogan), oppositori che spariscono nelle prigioni del regime per essere ritrovati, neanche tutti, cadaveri segnati da torture bestiali (Giulio Regeni docet). 

Ricordo ancora un passaggio di una conversazione avuta alcuni anni fa con il premio Nobel per la pace egiziano Mohammed El Baradei. Anche allora – si era nel vivo di una difficile transizione sfiorita nella controrivoluzione militare di al-Sisi – l’Egitto era alle prese con la minaccia terroristica, specie nel Sinai.  «Ma la lotta al terrorismo – ebbe a rimarcare El Baradei – non giustifica la riduzione degli spazi, già angusti, di democrazia, non legittima il ricorso alla legge marziale. La sicurezza non può essere il pretesto per conculcare le libertà di un popolo. Il vero antidoto agli estremismi è la democrazia». E aggiunse: «Giustizia sociale e stato di diritto sono le due facce della stessa battaglia di libertà».  Per aver pensato, detto e praticato, queste convinzioni, Mohammed El Baradei è costretto da anni a vivere in esilio a Vienna…

La storia di copertina su Left in edicola dal 23 luglio

 

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Il suicidio della politica “realista” che baratta libertà e diritti

Il mondo sta franando sotto i nostri piedi, l’equilibrio che, bene o male, aveva garantito 70 anni di pace e di libertà forse si sta rompendo. Ma facciamo fatica ad accorgercene. Mi viene in mente il titolo a tutta pagina del Corriere della Sera quel 28 giugno del 1914: “Il passaggio agli articoli sui provvedimenti tributari approvato alla Camera”. Quel giorno a Sarajevo un serbo bosniaco di 19 anni, Gavrilo Princip, avrebbe ucciso Francesco Ferdinando, arciduca d’Austria. Fu il pretesto per scatenare la Grande guerra, peraltro preparata da una lunga crisi degli Imperi e da accordi più o meno segreti tra le potenze europee. Eppure la nostra attenzione era concentrata, un secolo fa, sul “passaggio agli articoli” della legge tributaria, come oggi può esserlo sul compromesso tra Italicum e Mattarellum proposto dal senatore Fornaro.

Il primo sintomo della rottura dell’equilibrio è nella contrapposizione tra masse ed élite. Basta gridare contro politici, alti magistrati, banchieri e giornalisti per strappare l’applauso. Un popolo di cittadini, probi e meno probi, ritiene che la corruzione e la cura dei propri interessi a scapito di quelli collettivi sia la caratteristica peculiare di chiunque stia “in alto”. Naturalmente, gravissime sono le colpe delle élite. Perché esse si mostrano sempre più autoreferenziali. Perché si trasformano in vestali di un pensiero unico che non contempla alternative e ridicolizza ogni idea (o aspirazione) di cambiare l’ordine delle cose. Perché parte di tali élite grida più forte del popolo arrabbiato e sbandiera assurde ricette, razziste e nazionaliste.

Il secondo sintomo presenta una tendenziale rottura tra globalizzazione delle merci e mondializzazione di diritti e libertà. La pubblicità prima, poi la fabbrica dei sogni (il cinema), la televisione e infine internet, presentavano i due termini – libera circolazione di merci e capitali, crescita dei diritti e delle libertà – come indissolubili. Ora invece l’anti mondializzazione islamica, il disagio mentale estremo che trova comode isole nei social network, il timore di perdere il proprio status sociale e la paura di essere circondati da un mondo più povero e ostile, tutto ciò sembra suggerire che sia meglio rinunciare a qualche dirittio e a talune libertà. La stessa democrazia appare un lusso e ormai ci si chiede come difendere Londra e Bruxelles dal voto propolare pro Brexit, l’America da una possibile vittoria di Trump e la Turchia dal suo presidente democraticamente eletto.

In più stanno crollando le alleanze strategiche e militari che avevano garantito 70 anni du pace nel recinto dell’Occidente. Qui i fatti di Turchia appaiono nela loro gravità. Prima Erdogan ha provato a usare l’Isis per mettere le mani sulla Siria e regolare il problema curdo, a costo di sfidare gli Stati Uniti e di rischiare uno scontro militare con la Russia. Ora accusa gli americani di voler comandare in Turchia usando Gülen e i militari golpisti, ora corre da Putin e ricatta l’Europa con i migranti. Ma la Turchia ha il secondo esercito dell’alleanza atlantica, sono in Turchia le basi che permettono agli Usa di vigilare sul Siraq, mentre i rapporti Nato-Russia sono tesi per via del confronto in Ucraina e delle sanzioni economiche. La Nato entra nella crisi.

Una politica alternativa potrebbe e dovrebbe pretendere il rispetto dei diritti e delle libertà in tutto il mondo, anche da parte di chi è stato democraticamente eletto. Dovrebbe offrire un negoziato serio a Mosca e Teheran per eliminare Daesh, mettere in riga Ankara e Riad, favorire la nascita di una federazione curda multinazionale tra Iraq, Siria e Turchia. Dovrebbe!

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 23 luglio

 

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Trump e l’isolazionismo. Caffè del 22 luglio 2016

Attacchiamoci alle buone notizie, per un giorno, per qualche ora. È quel che fanno -e si capisce- Corriere e Repubblica. “Unioni, cade lìultima barriera. Le prime entro agosto”, dice Repubblica. Lo ha deciso il Condiglio di Stato. In più aggirando il rischio della “obiezione di coscienza”: il sindaco che non volesse celebrare le unioni civili, dovrebbe nominare un delegato. Il consiglio stato ha anche dato torto alla regione Lombardia del presidente Maroni: non potrà più far pagare le coppie che ricorrano alla fecondazione eterologa. “Banche, l’apertura di Draghi”, invece titola il Corriere. Il presidente della BCE ha detto “sì a un paracadute pubblico in casi eccezionali”. Sembra un invito piuttosto esplicito a non ostacolare il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena. Draghi chiede però all’Italia di “sciogliere il nodo delle sofferenze”, cioè di trovare un modo per far pagare i debitori, anche i vecchi non solo chi contrare ora il prestito. In modo che le banche possano piazzare sul mercato i loro crediti deteriorati non proprio a prezzi stracciati Qui Federico Fubini obietta: “limitare l’impatto dei pignoramento rapidi ai soli casi futuri per il governo (italiano) è stata una scelta politica: si privilegiano i debitori esistenti sui loro creditori. Deve aver contato qualcosa il fatto che fra i debitori ci sono molti più elettori che tra i creditori”.

Trump: mi prenderò l’America, è invece il titolo della Stampa. Scrive Maurizio Molinari: «Borders», «laws» e «land»: i termini che più ricorrono nel linguaggio del popolo di Donald J. Trump sono «confini», «leggi» e «terra» perché descrivono le priorità di un’America che tende a chiudersi rispetto al mondo in ebollizione al fine di dare sicurezza ad un ceto medio indebolito”. Si spiegherebbero così le battute sulla Nato, Putin ed Erdogan. “Non interverrei in via automatica in difesa dei paesi baltici, se la Russia li attaccasse”. (Se vogliono il nostro aiuto militare, che paghino.) “Penso che io e Putin andremo d’accordo”. “Non farò pressioni contro le epurazioni di avversari politici e contro le restrizioni di libertà in Turchia o in altri paesi autoritari”. “La scommessa di Trump – conclude Molinari- è sulla creazione di barriere capaci di assicurare al- l’America una sorta di dorato isolamento, consentendo al ceto medio bianco flagellato dall’impoverimento di risollevare consumi e tenore di vita.È una scommessa politica che tende a far coincidere isolazionismo e promesse di benessere per i più poveri con il risultato di «strappare il tema della giustizia sociale ai democratici». Ho scritto più volte che Barak Obama ha avuto il ruolo di “esecutore testamentario” della ex superpotenza, correggendo gli errori più clamorosi, abituando gli americani a non considerarsi più i padroni-regolatori del mondo. Qui siamo molto oltre: isolazionismo e illusione di poter restare ricchi, anzi di poter diventare più ricchi, chiudendosi e rinunciando a imporre la mondializzazione dei commerci e della finanza. Gli crederà una maggioranza di americani? Molti capiscono che le sue sono balle infiocchettate, ma non trovano in Hillary un’alternativa.
Referendum, basta barbarie, ha detto Pietro Grasso e il Fatto gli ha dedicato il titolo di testa. Attacco a Matteo Renzi (e alla nervosissima Boschi alla quale è scappato che con i No crescerebbe il rischio terrorismo) e invito a non esagerare rivolto anche al No. “il referendum non è mica il giudizio universale. Dopo la vita continua”. Certo, ha ragione il presidente del Senato. Bisognerebbe aggiungere in che modo si pensi che la vita continuerà dopo. Battuto Renzi, secondo me si aprirebbe la strada per vere riforme, più semplici e d efficaci, senza la pretese di modificare ben 47 articoli della costituzione, si favorirebbe un ritorno della politica, e sarebbe persino possibile cercare un confronto in Parlamento tra Pd, Movimento 5 Stelle e destra, non per governare, ma per decidere poche regole comuni che evitino l’imbarbarimento attuale. Francamente non vedo possibilità positive che non passino per una sconfitta della politica che il premier ha imposto al parlamento e al paese. Intanto segnalo che Massimo Franco, Corriere, interpreta la sortita di Grasso come una difesa del bicameralismo. Folli, Repubblica, chiede invece a Renzi di fare lui la mossa del cavallo i cambiando la legge elettorale, gettando alle ortiche l’Italicum (premio di maggioranza che rende il candidato prevalente al ballottaggio padrone della legislatura per 5 anni9, in favore del doppio turno alla francese (al ballottaggio la scelta del deputato da eleggere si riduce ai primi due o tre) o del Mattarellum (turno unico, vince uno solo, più una quota da redistribuire (in proporzioni da vedere) tra vincitori e vinti). Sono ballon d’essai. Vedremo.

Ma che ci fa ancora il nostro ambasciatore in Turchia?

Ma cosa altro deve succedere perché l’Italia abbia un sussulto in politica estera che non sia la firma paciosa di Renzi che brancola in qualche lingua semicomprensibile? Abbiamo avuto un timido vagito nel caso di Giulio Regeni (effimero, uno starnuto) e poi per il resto l’Italia è una Paese che ha limitato la politica estera all’imbarazzante elemosina di uno sguardo fugace dall’Europa.

Mentre la Turchia annega nella melma di Erdogan e del colpo di Stato più utile del West qui ormai sembra che la difesa dei diritti sia stata definitivamente appaltata a associazioni, Ong e qualche lurido buonista. Il governo? Il governo no, il governo, questo governo, ha scambiato la politica per l’annuncio, la dichiarazione per l’unica azione possibile per non disturbare gli equilibri esistenti: probabilmente dalle parti del Consiglio dei Ministri considerano il nostro ambasciatore ad Ankara il menù fisso per fingere cortesia.

Ma esattamente cosa deve succedere ancora per richiamare il nostro ambasciatore in Turchia? Erdogan deve fucilare gli oppositori gli scomodi in pubblica piazza? Deve uccidere per sbaglio uno studente italiano scambiandolo per un golpista?

Qualcuno mi spieghi. Davvero.

Buon venerdì.