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Due anni dopo, lo spettro della Concordia non lascia il Giglio

IItalian cruise liner Costa Concordia on its final voyage in the Ligurian Sea in front of Genoa's port, Italy, 27 July 2014. The Costa Concordia is on its way to Genoa, where dismantling operations are predicted to last two years. The cruise liner was made floating again on 14 July, 30 months after the cruise ship hit a reef and partly capsized off the island of Giglio on 13 January 2012 after being steered too close to the shore, seeing thirty-two of the 4,229 people onboard killed. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Lo scorso maggio i mezzi navali Micoperi 30 e la Osv Remas attraccavano a Giglio Porto. La missione dei due equipaggi era portare a Punta Gabbianara sommozzatori e mezzi specializzati, in modo da avviare l’ultima delicatissima fase di bonifica del sito in cui si è inchinatala Concordia e riportare i fondali allo stato precedente, come richiesto dalla normativa ambientale. A spese di Costa, o meglio delle sue assicurazioni. I tecnici della Micoperi Spa, l’azienda ravennate eccellenza italiana che raccoglie commesse in tutto il mondo, erano pronti. Con l’ausilio di un macchinario denominato “sorbona” avrebbero aspirato gli ultimi detriti e i sedimenti presenti là dove l’enorme nave da crociera si era incagliata il 13 gennaio 2012, la notte del disastro in cui persero la vita 32 persone.
Per completare il lavoro iniziato a gennaio 2015, l’azienda che si è aggiudicata la gara per ripulire il fondale potrebbe però aver causato un danno “collaterale” di dimensioni significative all’ecosistema. Sarebbe l’ennesimo schiaffo per il piccolo centro dalla grande vocazione ecologica e da sempre meta di turismo internazionale. A Cala Cupa, una delle aree sottomarine di maggior pregio di tutto l’Arcipelago Toscano, tra le gorgonie e i coralli c’è un cavo di acciaio di 10 centimetri di spessore. E appoggia proprio sulle rocce dove cresce il “falso corallo nero” (il cui nome scientifico è Gerardia savaglia), tutelato dalla direttiva Habitat del ’92 e dalla Convenzione di Barcelona per la protezione del Mar Mediterraneo. È una specie rara, che si sviluppa nel coralligeno, oggetto di studi da parte dell’Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e presente in alcune aree marine protette.

Davanti a Cala Cupa, a nord di Giglio Porto, il delicato ecosistema dei fondali è messo a rischio dal cavo di ormeggio di una nave impegnata nella bonifica di Punta Gabbianara. Il cavo posato dalla nave Micoperi 30, del diametro di 10 centimetri, striscia sulla roccia, come risulta evidente dalla foto subacquea inviata a Left dal diver Gianni Vettore, che per primo ha lanciato l’allarme.
Davanti a Cala Cupa, a nord di Giglio Porto, il delicato ecosistema dei fondali è messo a rischio dal cavo di ormeggio di una nave impegnata nella bonifica di Punta Gabbianara. Il cavo posato dalla nave Micoperi 30, del diametro di 10 centimetri, striscia sulla roccia, come risulta evidente dalla foto subacquea inviata a Left dal diver Gianni Vettore, che per primo ha lanciato l’allarme.

Come chiarisce l’Agenzia per la protezione ambientale della Toscana (Arpat) in una relazione di poco successiva al naufragio, il punto in cui si è verificato l’incidente rappresenta una zona estremamente vulnerabile, con fondali “caratterizzati da specie ad elevato interesse ecologico e biologico”, quali il coralligeno e la Poseidonia oceanica. Il cavo di acciaio che sta sollevando grandi preoccupazioni tra gli addetti ai lavori ha lo scopo di ormeggiare la Micoperi 30, un “pontone” impegnato nelle operazioni di pulizia del fondale di Punta Gabbianara. «Quel cavo non dovrebbe essere lì» dice a Left Gianni Vettore, titolare dell’International diving, che da più di 10 anni si occupa di immersioni nell’isola. A fine maggio si è imbattuto per caso in questo “danno collaterale”. «Così lo hanno chiamato quando ho sollevato il problema. Il responsabile della Micoperi (Davide Barizza, ndr) aveva detto che avrebbero fatto qualcosa, ma finora è rimasto tutto come prima. Anziché appoggiare il cavo sulla roccia, avrebbero dovuto sollevarlo e farlo passare in corrispondenza all’area di Cala Cupa senza “incocciare” sulla roccia 30 metri sotto la superfice. Invece adesso ha già iniziato a strappare il coralligeno. È una zona importantissima, tutelata dalle norme dell’Unione Europea. Trovo assurdo che dopo che ho sollevato il caso alle varie autorità non si sia mosso nulla, se non ventilare l’ipotesi di chiudere l’area». Il rischio è che, area chiusa o meno, il danno aumenti di giorno di giorno. Secondo i sommozzatori che vivono sull’isola, la colonia di coralligeno che ricopre l’area ha impiegato almeno 10-12 anni a svilupparsi nel tratto di mare di Cala Cupa. Se venisse estirpata o strappata in parte per un errore o un calcolo sbagliato, sarebbe una perdita quasi certamente irreversibile. Nonostante i numerosi tentativi di conoscere la loro posizione sulla questione, Ispra e Cibm (il Centro interuniversitario di Biologia marina ed ecologia applicata che, su mandato di Costa, invia i report quindicinali sullo stato di avanzamento del cantiere all’Osservatorio di monitoraggio) non hanno fornito un parere sul paventato rischio ambientale causato dall’ormeggio della Micoperi 30 a Cala Cupa.

Il sindaco del Giglio, Sergio Ortelli, ci consiglia di parlare con i membri dell’Osservatorio di monitoraggio (Arpat e Ispra, in primis). «Non è la prima volta che la Micoperi 30 arriva nell’isola» aggiunge, «l’avrà autorizzata la Capitaneria». La Capitaneria però non ha rilasciato dichiarazioni in merito. Dal canto suo, la presidente dell’Osservatorio di monitoraggio, Maria Sargentini, assicura la massima attenzione sulla questione e spiega che «esistono due ordini di problemi: il primo riguarda la sicurezza delle attività di diving, il secondo è di carattere ambientale». Sargentini conferma che «la Capitaneria sta provvedendo a chiudere l’area ai sub» per garantirne la sicurezza e sul fronte ambientale conferma che il rischio causato dal cavo di ormeggio che striscia sulla roccia è stato segnalato all’Osservatorio il 23 giugno. Ma aggiunge: «Micoperi ha circostanziato l’impossibilità tecnica di porre misure di rimedio come lo spostamento dell’ormeggio in un altro sito. Al momento insomma non ci sono alternative. Il massimo rischio sul coralligeno è dato dall’eventualità che il cavo possa andare in bando (cioè non sia completamente teso, ndr). Le indicazioni che abbiamo dato sono proprio di evitare che questo succeda, tenendo il cavo sollevato in modo che non strofini sulla roccia dove è presente il coralligeno». Per quanto il personale della Micoperi 30 si impegni a tenere teso il cavo, però, «il problema è che la riuscita di questo rimedio dipende dalle correnti» riprende la presidente dell’Osservatorio, garantendo che sarà rimosso appena termineranno le operazioni di pulizia in quell’area.

Resta solo da vigilare e sperare che intanto non si verifichino eventi inattesi. Un altro danno ai fondali sarebbe la conferma di un’impressione ricorrente per molti abitanti del Giglio: che il fantasma della Concordia non si sia ancora allontanato dall’isola. Certo, sulla terraferma i problemi più sentiti non sono quelli strettamente ambientali, ma quelli economici. «L’anno scorso c’è stata una piccola ripresa, segno che la crisi sta finendo» racconta Aldo Baffigi, titolare di un altro diving, «ma quest’anno, almeno per ora, la stagione turistica non è decollata. Rispetto ai primi tempi dopo il naufragio le cose vanno meglio, all’inizio noi di Campese abbiamo sofferto di più. Nel 2012, l’estate dopo l’incidente, una comitiva di turisti ha disdetto in massa, nonostante la nave fosse dall’altra parte dell’isola». A Giglio Porto, come testimoniato dalle migliaia di fotografie scattate dai turisti “mordi e fuggi” e diffuse sui social media, almeno si andava a vedere il relitto della nave. La località di Giglio Campese invece era meta del turismo affezionato e di chi voleva davvero visitare l’isola. «La comunità del Giglio non ha mai sofferto come in questi quattro anni», commenta il sindaco Ortelli. «Il turismo fidelizzato ha cambiato aria, spaventato dalle ipotetiche conseguenze dell’incidente, mentre paradossalmente il nostro mare in questi anni è stato il più monitorato ed è risultato il più pulito. Adesso che la fase critica sembra superata, ci vorranno almeno altri quattro anni per ricostruire il rapporto con il “nostro” turismo».
Sono passati due anni dalla partenza della Costa dall’isola (salpata da Giglio Porto alla volta di Genova il 23 luglio 2014) e 4 anni e mezzo dal terribile 13 gennaio 2012. Si sperava di poter voltare pagina prima dell’estate, ma il cantiere ha accumulato ritardi tecnici e la data inizialmente prevista per la sua conclusione (marzo 2016) è già passata. «Vorremmo andare avanti» riprende il sindaco, «ma sopportiamo questa condizione con spirito di responsabilità. Anche perché i tecnici stanno lavorando per restituirci il fondale nelle condizioni migliori. Magari non saranno quelle precedenti al naufragio, ma prima o poi la natura farà il resto».

La presidente Sargentini ammette che Micoperi è in ritardo, ma sembra rassegnata al dato di fatto, per via dei problemi tecnici di questi mesi. «La conclusione era prevista per marzo. Ora la stanno spostando a fine anno. Era prevedibile che una cosa del genere potesse succedere», è il suo commento. «Speravo che questa fase diciamo “invasiva” si chiudesse il prima possibile, magari entro giugno, però il lavoro fatto finora è stato molto accurato, sia da parte della Micoperi che da parte del Consorzio Cibm di Livorno, che tra l’altro ha presentato un progetto per il reinsediamento della Poseidonia che mi sembra vada nella giusta direzione».
Quest’estate, come le precedenti, sarà quindi segnata dalla presenza di cantiere, tecnici e sommozzatori al lavoro per la bonifica. La fase appena iniziata riguarda la rimozione dei sedimenti dal fondale: materiali di vario tipo, come il calcestruzzo fuoriuscito dai grout bags (i materassi di cemento su cui è stata adagiata la Concordia prima di raddrizzarla) e le polveri di granito che derivano dalla perforazione del fondale causata dall’incagliamento e dalle operazioni di raddrizzamento. Il timore è che la data di conclusione lavori continui ad allontanarsi e che il ripristino definitivo dei fondali tanto amati dai sub di mezzo mondo resti per altri anni soltanto una chimera.

L’articolo è stato pubblicato sul numero 28 di Left

«Venite a cercare noi»: PokemonGo per sensibilizzare sulla Siria

«Veniteci a prendere». La pagina Facebook della RFS, Le forze rivoluzionarie della Siria hanno pensato di utilizzare il fenomeno PokemonGo per far parlare di Siria. Con una serie di scatti postati sulla pagina Facebook del gruppo si ricorda la sorte dei bambini di Idlib (o almeno la pagina sostiene che le foto siano state scattate i quella città), che ritatti con un disegno di Pokemon in mano, scrivono appunto, veniteci a cercare. In questi giorni è in corso l’offensiva contro Manbij, un bastione dell’isis e l’Unicef stima che nell’area siano intrappolati 35mila bambini. Nelle ultime settimane sono state uccise decine di bambini nella zona, a circa 150 chilometri da Idlib.

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A usare PokemonGo è stato anche Saif Aldeen Tahhan, che ha postato immagini “ambientate” nel gioco collegate a immagini di oggetti che in questi anni abbiamo tristemente imparato a collegare ai rifugiati siriani. «Il mondo parla molto di questo gioco, mi sono detto, perché non usarlo per mostrare il nostro dolore?», Ha detto Tahhan ad Al Arabiya.

Rio, Olimpiadi senza i campioni russi dell’atletica leggera

epa05431676 A man walks in front of the Russian Olympic Committee headquarters and Russian Athletics Federation office in Moscow, Russia, 19 July 2016. A World Anti-Doping Agency (Wada) Executive Committee meeting was held in Toronto, Canada on 18 July 2016 to discuss the McLaren Investigation Report which stated Russia operated a state-sponsored doping programme for four years across the 'vast majority' of summer and winter Olympic sports. EPA/YURI KOCHETKOV

Sarebbe stata la sua quarta partecipazione alle Olimpiadi e lei, Elena Gadžievna Isinbaeva, voleva assolutamente vincere il suo terzo oro olimpico. La campionessa russa di salto con l’asta, la prima donna a varcare il muro dei 5 metri sulla scia del mitico Bubka, figura anche lei tra i 68 atleti dello squadrone di atletica leggera della federazione russa, costretti a rimanere a casa. Il  Tribunale arbitrale dello sport (Tas) di Losanna oggi ha respinto il ricorso presentato dagli atleti dopo la sospensione della federazione russa dell’atetica leggera decisa dalla Iaaf (Federazione internazionale dell’atletica leggera) dopo il primo rapporto dell’agenzia mondiale antidoping Wada il 13 novembre scorso. La sentenza del Tas è chiara: se c’è una federazione sospesa gli atleti «non sono eleggibili per le competizioni sotto egida Iaaf». La sentenza del tribunale svizzero conferma quindi la decisione della federazione mondiale. A questo punto la palla passa al Comitato olimpico che deve decidere a giorni se escludere l’intero squadrone russo e non solo i campioni dell’atletica.
A Rio quindi, per il momento, andranno soltanto due atlete russe, che potranno partecipare o come indipendenti o sotto la bandiera russa. Si tratta di Yulia Stepanova, una ottocentista  squalificata in precedenza per doping e che ha collaborato con la giustizia sportiva contribuendo a far emergere il bubbone dello sport russo “dopato”. L’altra è Darya Klishina, atleta di salto in lungo, che dall’autunno 2013 si allena e vive in Florida negli Stati Uniti.

Yelena Isibnaeva, ai Campionati del mondo del 2013 - Ansa (Photo by Takashi Okui)
Elena Isinbaeva, ai Campionati del mondo del 2013 – Ansa
(Photo by Takashi Okui)

«È il funerale dell’atletica» ha detto Isinbaeva, dopo il verdetto del Tas. Le gare dell’atletica leggera senza i forti atleti russi in effetti possono sembrare impoverite, perché da sempre i campioni di Mosca hanno vivacizzato con la loro presenza tante edizioni delle olimpiadi. Ma d’altra parte i report della commissione indipendente che ha agito per conto di Wada non lasciano adito a dubbi. Oltre cento pagine di dati che hanno portato il coordinatore dell’indagine, il docente di diritto sportivo canadese Richard McLaren a invitare il Cio a escludere dalle gare l’intera squadra russa, non solo quella dell’atletica leggera. Sono 508 episodi di positività falsificata su 312 atleti in 30 discipline con molti casi che coinvolgono anche atleti paraolimpici. Il racconto del “doping di Stato” – perché i servizi segreti hanno coperto i casi di atleti dopati – è dettagliato: dalle fiale di urine sostituite attraverso fori attraverso un muro, al micidiale cocktail “Duchessa” costituito da tre steroidi, ingerito e subito dopo sputato.

Il ministro dello Sport russo chiamato in causa in prima persona, Vitaly Mutko, non ha risparmiato accuse indirizzate ai vertici della giustizia sportiva internazionale. «Purtroppo, è stato stabilito un precedente importante con la responsabilità collettiva. La federazione mondiale di atletica leggera è completamente corrotta, tutto è cominciato con loro, le persone nominate nel primo rapporto della commissione indipendente continuano a lavorare», ha detto promettendo di riflettere sulle prossime mosse anche se la conclusione è una sola: «Una decisione politicizzata e senza fondamento giuridico». Che il doping di Stato nasconda un fermento politico non ci sono dubbi. E d’altra parte per Putin in questo momento storico – con la crisi della Turchia e il Medio oriente ancora funestato dall’Isis –  l’esclusione della Russia alle Olimpiadi rappresenta anche una sconfitta politica. Vedremo se ad agire in futuro sarà solo la giustizia sportiva oppure se a dettare le sue regole sarà anche la diplomazia delle segrete stanze.

Albania nel caos. L’Ue si allontana, Erdogan si avvicina

aggiornamento di venerdì 22 luglio, ore 8.50
Dall’impasse all’unanimità. È stata una lunga notte quella del Parlamento albanese che, alla fine, ha votato con 140 voti a favore su 140 seggi la riforma giudiziaria. Il premier resterà al suo posto, l’Albania è a un passo dall’Unione europea. Ma Erdogan è sempre alle porte. 

 

Il Parlamento di Tirana non ha votato per la riforma della giustizia albanese. ‬Dopo settimane di trattative, l’ultimo ostacolo per l’adesione all’Unione europea resta lì. L’Albania, infatti, non ha un sistema giudiziario indipendente e imparziale, perciò la riforma del sistema giudiziario è stata inserita da Bruxelles tra le condizioni necessarie per l’ingresso dell’Albania nell’Ue. Al fianco dell’Europa anche gli Stati Uniti, che giocano in questa partita il ruolo di osservatori internazionali.

La riforma comandata da Ue e Usa è sostenuta, secondo alcuni sondaggi, dal 91-95% degli albanesi. Si tratta di una riforma molto invasiva per il sistema costituzionale albanese: la modifica di un terzo della Carta e di altri quaranta testi normativi. Poi, è previsto anche l’esame delle credenziali degli oltre 800 giudici e procuratori albanesi, per escludere tutti quelli accusati di corruzione o conflitto d’interessi.

Fino a questa mattina, sembrava raggiunto l’accordo tra il centrosinistra al governo con il premier Edi Rama e l’opposizione di centrodestra guidata da Lulzim Basha. Un accordo ampio che si rende necessario dal momento in cui per avere la maggioranza costituzionale serovono 94 voti sui 140 voti del Parlamento. Ma alla fine, il presidente del Parlamento albanese ha dovuto temporaneamente rinviare il voto. Ilir Meta, che è alleato di governo di Edi Rama, ha detto di non poter procedere in un tale clima di minacce e annunciato le dimissioni in caso di fallimento dell’accordo. L’ambasciatore statunitense a Tirana Donald Lu e l’omologa europea Romana Vlahutin fanno sapere che «i leader politici in Albania temono la riforma e non sono disposti ad alcun accordo».

«Se non passa la riforma della giustizia si torna alle urne», ha già minacciato l’ex sindaco di Tirana e ora capo del governo Rama. Intanto, i negoziati tra i capi dei tre maggiori partiti: Partito socialista, Partito democratico e Movimento socialista per l’integrazione proseguono. L’aria a Tirana si fa incandescente, e il vicino turco Erdogan, proprio oggi, ha inviato a Rama una lettera ufficiale sulla penetrazione degli uomini di Fethullah Gülen nelle strutture nascoste, finanziarie, sociali e politiche in Albania.

Strage di Nizza, Libération: «Il governo ha mentito, solo una pattuglia a ingresso Promenade»

Mazzi di fiori a Promenade Des an gleis a Nizza sul luogo della strage 15 luglio 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«La polizia nazionale, il 14 luglio, era assente dalla Promenade des anglais». Il quotidiano francese Libération, punto di riferimento della sinistra d’oltralpe, punta il dito contro il governo ed il ministero degli Interni, in merito alla tragica vicenda della strage di Nizza della scorsa settimana, che ha causato 84 morti e decine di feriti. Nella prima pagina di giovedì 21 luglio, la testata parigina sostiene senza mezzi termini che la versione ufficiale dei fatti sia piena di falle e menzogne: «contrariamente a quanto sostenuto dai vertici dello stato, il dispositivo di sicurezza sulla Promenade della sera del 14 luglio, era, in realtà molto più leggero». Secondo il giornale, numerose «testimonianze» e «fotografie», dimostrano chiaramente come, a guardia della zona pedonale della Promenade, nel punto in cui Mohamed Lahouaiej Bouhel é entrato con il camion, vi fossero solamente agenti della polizia municipale e non della polizia nazionale, «contrariamente a quanto riferito dal ministero dell’Interno e dalla polizia». Versione in totale contraddizione con quella rilasciata dalla polizia nazionale, che in un comunicato ha sostenuto che «i punti più critici del perimetro sono stati affidati alla pattuglie della polizia nazionale rafforzati da altre della municipale», e che «il camion è entrato passando dal marciapiede». Secondo la ricostruzione di Libération, gli agenti nazionali hanno invece lasciato il posto alle 20.30, lasciando a guardia del luogo solamente una pattuglia con due vigili urbani «non sufficientemente armati e addestrati per sventare l’attacco».

Il primo a sollevare polemiche in merito alla gestione dell’anniversario della Rivoluzione francese era stato il Presidente della regione Alpi-Nizza-Costa Azzurra ed ex sindaco di Nizza, Christian Estrosi, del centrodestra – «mi piacerebbe capire come un camion sia riuscito a sfondare una zona pedonale» ha detto all’indomani della strage» – dando luogo ad uno scambio reciproco di accuse tra amministrazione cittadina e governo. Duro anche lo scontro all’interno dell’amministrazione e del consiglio cittadino, con il sindaco di destra Philippe Pradal che ha dichiarato di voler sporgere denuncia contro lo stato, e i socialisti, all’opposizione, che lo incolpano a loro volta di non aver annullato l’evento vista la scarsità di personale di sicurezza disponibile.

In questo mare di polemiche e incertezze il Ministro dell’interno Bernanrd Cazeneuve ha ordinato all’Ispettorato generale della polizia nazionale “una valutazione tecnica del dispositivo di sicurezza“, che consentirà di stabilire «la realtà del dispositivo in un momento in cui continuano le polemiche inutili».

Intanto cinque sospetti, quattro uomini e una donna, sono stati fermati a Nizza, e sono attualmente sotto indagine per terrorismo. Sono stati trasferiti nella palazzo di giustizia di Parigi e tra qualche giorno compariranno per la prima volta davanti ad un giudice. Un sesto fermato è stato rilasciato la scorsa notte.

L’Isis, intanto, si complimenta per il gesto di Mohammed Bouhlel, e in un video, due jihadisti che si esprimono in francese decapitano alcuni prigionieri prigionieri, in un gesto barbaro accompagnato da riferimenti a quanto avvenuto il 14 luglio. Secondo i servizi segreti francesi, la componente francofona all’interno dello Stato islamico è molto ampia.

Migranti, strage di donne nel Mediterraneo

Ventidue corpi trovati sul fondo di un’imbarcazione. 21 donne, un solo uomo. A raccontare i dettagli dell’ultima tragica strage a largo del Mediterraneo, è Jens Pagotto, capo missione di MSF per le operazioni di ricerca e soccorso. Quando la nave Aquarius, gestita in collaborazione da Medici senza frontiere (MSF) e SOS Mediterranéé, si è avvicinata all’imbarcazione per soccorre i migranti sopravvissuti, ha trovato i corpi delle donne e dell’unico uomo scomparso in una pozza di acqua marina e carburante. Una morte orribile e ancora da capire come si legge nella nota rilasciata dall’organizzazione francese questa mattina, a conclusione delle operazioni di salvataggio.

209 le persone sopravvissute (177 uomini e 32 donne) e trasferite sulla nave dei soccorsi. Tra di loro, 50 minori di cui 45 non accompagnati. «I sopravvissuti hanno passato diverse ore a bordo con i cadaveri. Molti di loro sono troppo traumatizzati per riuscire a raccontare quanto accaduto» continua Pagotto. I migranti a bordo dell’imbarcazione soccorsa a largo delle coste libiche, provengono quasi tutti dall’Africa orientale e si aggiungono alle oltre 2000 persone soccorse da mercoledì nelle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo.

Secondo i dati ufficiali dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) le 22 vittime di oggi si aggiungono, invece, alle 2954 persone scomparse in mare dall’inizio del 2016. «Questa perdita di vite non era necessaria ed è il risultato di una risposta globale insufficiente e inadeguata a questa crisi» Alle dure parole di Pagotto contro le politiche di respingimento dell’Unione Europea fa eco la decisione di MSF di rinunciare ai fondi europei. Il 17 giugno, l’organizzazione internazionale indipendente, ha annunciato, a livello internazionale, di non voler ricevere fondi dell’UE e dei suoi stati membri. La decisione, si legge sul sito, è stata presa in opposizione alle dannose politiche adottate in contrasto alla crisi migrante. In Italia MSF riceve e riceverà fondi raccolti attraverso donazioni di privati – individui, fondazioni, imprese. A livello internazionale, invece, i fondi che derivano da organi istituzionali saranno funzionali al finanziamento di programmi specifici.

Intano a Pozzallo è arrivata la nave Bourbon Argos di MSF. A bordo, le 628 persone soccorse la scorsa settimana al largo di Sabratah, in Libia. Le donne sono 101, 13 i bambini. Kim Clausen, coordinatore MSF delle operazioni, racconta che quando i soccorritori si sono avvicinati alle imbarcazioni, i gommoni erano sgonfi, piegati su di un lato, e privi di carburante. I migranti erano senza acqua, senza alcuna protezione di salvataggio e con pochissimo cibo a disposizione.

Una strage appena sfiorata che insieme a quanto accaduto oggi al largo del Mediterraneo centrale, racconta di una crisi drammatica che non accenna a fermarsi e di una politica di respingimento che è corresponsabile nell’aver lasciato i migranti alla mercé del mare e dei trafficanti, con il rischio, sempre crescente, di lasciarceli morire.

Il golpista. Tutto quello che trovate sul Left #30 in edicola dal 23 luglio

La strage di Nizza, il colpo di Stato in Turchia, ex soldati di colore che ammazzano poliziotti bianchi in America. Il mondo corre (non si sa verso dove) e noi di Left proviamo a capire, ad analizzare, a cercare la possibilità positiva che deve pur esserci, nascosta da qualche parte dietro la serie degli eventi che si succedono così rapidamente. De Pascale, De Giovannangeli, Burhan Sommez, intervistato dalla nostra Simona Maggiorelli, Marina Pupella raccontano le diverse facce di quella realtà. Marco Di Branco, a pagina 28, offre al lettore il contesto, propone un profilo storico per comprendere la Turchia di ieri e quella di oggi. Vauro, disegna un vero e proprio editoriale: dal golpista Erdogan alla follia del terrorismo in nome di Allah.
In primo piano, la Francia colpita per la terza volta al cuore in appena un anno e mezzo. Chi sono i terroristi? Se ne può fare un identikit? E che rapporti si sono intrecciati tra la minaccia del terrorismo islamico e le reazioni, spesso conflittuali, della politica francese?
Intanto cominciamo con il dire che la fabbrica del terrore d’Oltralpe ha già compiuto 21 anni: è del giugno 1995 il primo attentato di matrice islamica. Allora venne colpita la metropolitana di Parigi e i responsabili facevano parte del Gruppo islamico armato.
Gerardo Adinolfi torna sul terribile scontro frontale tra Andria e Corato e racconta “L’Italia dimenticata dei treni locali”, a pagina 40.
Sulla politica italiana? Left propone un confronto vivace tra due fondatori di Sinistra italiana, Sergio Cofferati e Nicola Fratoianni: trovate i loro pareri a pagina 10.

Il passato che ritorna. Caffè del 21 luglio 2016

Prigionieri del passato. Ieri, a scrutinio segreto, il Senato ha negato l’uso di certe intercettazioni tra Berlusconi e le olgettive. Ieri il presidente emerito Napolitano ha detto al Foglio che bisogna cambiare la legge elettorale, eliminare il turno di ballottaggio e firmare “un nuovo patto per l’Italia” fra destra e sinistra. Ieri ricorreva il quindicesimo anniversario dell’assassinio di Carlo Giuliani durante i moti contro il G8 di Genova, che si conclusero con l’umiliazione e la tortura di centinaia di manifestanti all’interno della scuola Diaz e poi rinchiusi nella caserma Bolzaneto. Cosa hanno in comune questi tre eventi? Mostrano come in Italia il passato non muoia, ma restiamo a lungo prigionieri di errori, bugie e omissioni.
12o sì, 130 no! I gruppi parlamentari ufficialmente a favore dell’uso in giudizio di quelle intercettazioni -che riguardano telefonate già note perché interamente trascritte dai giornali- e cioè Pd, M5S e SI, contano insieme oltre 150 senatori. In 30 si sono dunque distratti: non è un’opinione. Complotto dei 5 stelle, per gettarne la colpa sul Pd? Come dice al Corriere la “renziana” Puglisi la quale -per errore, sostiene- è tra coloro che hanno chiesto che quel voto fosse segreto? Mah! Certo -lo ricorda Gianluigi Pellegrino per Repubblica,- all’epoca dei fatti Berlusconi era deputato e dunque a giudicare sull’uso delle intercettazioni avrebbe dovuto essere la Camera, dove la maggioranza è assai ampia e il giochetto segreto non sarebbe stato possibile. Dunque una manina istituzionale pro Silvio si è mossa. Ma il punto è un altro: quelle telefonate, della primavera 2012, testimoniano come il premier di allora fosse evidentemente ricattato dalle signorine che animavano le sue “cene eleganti”. Già due anni prima, il 27 maggio 2010, Karima El Mahroug era stata fermata e rilasciata dopo la telefonata dall’estero in cui Berlusconi la definiva “nipote di Mubarak”. Ancora prima, tra Natale e Capodanno del 2008-2009 Berlusconi si era chiuso a Villa Certosa (con altre ragazze in fiore) e il suo ministro del tesoro (Tremonti) non riusciva a parlargli del timore -che condivideva con molti suoi colleghi- che l’economia mondiale stesse precipitando senza riparo. Le sue consuetudini private -comprensibili, per un uomo malato e ferito- non consentivano ca Berlusconi di guidare l’Italia. Questo, opposizione e maggioranza avrebbero dovuto ammettere con coraggio, senza nascondersi dietro le toghe, né aspettare che lo spread salisse alle stelle e che Napolitano apparecchiasse il colpo di palazzo che ha portato al governo Monti
Ohibò, il sistema politico è tripolare. Chi l’avrebbe mai detto? Per fortuna se ne è accorto il presidente emerito che si è fatto intervistare dal Foglio e ha ammonito Renzi a non “puntare a tutti i costi sul ballottaggio, che rischia, nel contesto attuale, di lasciare la direzione del paese a una forza politica di troppo ristretta legittimazione nel voto del primo turno”. Nelle elezioni politiche del 2013 le coalizioni riunite intorno a Bersani e a Berlusconi superarono d’un soffio i 10 milioni di voti, il Movimento 5 stelle di voti ne ottenne quasi 9 milioni. Per esorcizzare quell’evidente distribuzione tripolare dei degli elettori, iniziò il baccano sulle indispensabili riforme costituzionali ed elettorali. Napolitano chiese a Letta di guidare un governo appoggiato dalla destra e daalls sinistra, che pure avevano giurato di non governare insieme. Per questo vide poi la luce il Patto del Nazareno. Fu eliminato il Senato. trasformandolo in un dopo lavoro per consiglieri regionali. Fu varata una legge -la migliore al mondo, diceva Renzi- che grazie al premio di maggioranza combinato con il ballottaggio avrebbe dato un solo vincitore, padrone per 5 anni dell’unica camera rimasta. Però ora Napolitano e molti consiglieri di Renzi si sono accorti che al ballottaggio vincerebbero i 5 Stelle. Anche questo lo si sapeva, bastava guardare all’esperienza dei comuni, dove di solito al secondo turno prevale l’outsider e secondi e terzi tendono a coalizzarsi contro il favorito. Dunque ora bisogna cambiare la legge elettorale per salvare l’essenziale delle riforme. E costruire- dice il presidente emerito- “un nuovo patto per l’Italia”, un’alleanza destra – sinistra per tener fuori l’antipolitica grillina da Palazzo Chigi. Prigionieri del passato! Perché nei tempi moderni l’alleanza fra destra e sinistra fa piuttosto il gioco del terzo incomodo. Come si è visto in Gran Bretagna dove Cameron e Corbyn erano entrambi per il Remain e ha infatti vinto il Leave. E prigionieri delle menzogne dette, perché un tale tardivo contrordine svelerebbe la strumentalità di tutte le riforme fin qui imposte.
Genova 2001, tutto ebbe inizio allora. Berlusconi era il premier in Italia, il G8 pretendeva di poter regolare la globalizzazione e di saper imporre al mondo una democrazia della maggioranza, che tenesse fuori solo antagonisti e ribelli. Poi vennero le guerre perdute dalla “comunità internazionale” in Afganistan e in Iraq, poi venne la crisi del 2007-2008, la perdita di peso del ceto medio e la crescita delle disuguaglianze, vennero Occupy Wall Street e gli indignati, poi Podemos e i 5 Stelle. Oggi sapienti e professori non parlano più di un bipolarismo destra-sinistra, moderato da un centro fluttuante, ma di una frattura tra chi sta in alto e chi in basso, parlano dell’anti politica che si gonfia di consensi e fustiga le edite. Noi invece abbiamo rimosso. Non abbiamo mai detto chiaramente che il governo di allora coprì a Genova una vera e propria “macelleria italiana”, e cioè l’uso della tortura, della menzogna, dell’esibizione di prove false, ad opera delle forze di sicurezza. Persino la legge contro la tortura, che l’Europa sollecita da anni, è stata insabbiata in Senato perché l’attuale ministro dell’interno -nel 2001 giovane deputato del partito del premier- non ne vuole sentir parlare.
E fuori d’Italia? Erdogan vara lo Stato d’emergenza: potrà mettere in carcere o far sparire chi vuole senza render conto a nessuno. E accusa gli Stati Uniti -un paese straniero, dice- di aver appoggiato il pronunciamento militare che voleva destituirlo. A Kiev è stato ucciso Pavel Sheremet, un giornalista vero -come ricorda Franco Vetturini del Corriere- che aveva aspramente criticato in Bielorussia il dittatore Lukashenko, in Russia Putin, e in Ucraina “Poroshenko, la corruzione dilagante, il potere di nuovo in crescita degli oligarchi”. Un uomo che si rifiutava di rimuovere, di dimenticare e venire a patti. Per questo doveva morire. Ed è penoso il balletto di Mosca e Kiev che si accusano a vicenda di averlo ucciso. Tanto chi l’ha ammazzato, certo, non ha lasciato prove

Ai Weiwei tappezza Palazzo Strozzi di gommoni, in omaggio ai migranti

Ai Weiwei

La facciata di Palazzo Strozzi sarà ricoperta con ventidue grandi gommoni di salvataggio arancioni ancorati alle finestre. L’artista cinese L’artista cinese Ai Weiwei ha scelto un colore solare, invece del grigio dei gommoni, una tonalità radiosa che rimanda alla possibilità di un nuovo inizio. S’intitola Reframe (Nuova cornice) la sua installazione che è stata presentata oggi a Firenze e che sarà inaugurata il 23 settembre, insieme ad una ampia restrospettiva dedicata all’artista cinese, intitolata Ai Weiwei libero e che ripercorre la sua lunga storia di lotta per i diritti umani e per la libertà di espressione.  Una battaglia portata avanti anche attraverso mostre e perfomances in giro per il mondo da Kassel aVenezia, da New York a Londra a Monaco.  Con immagini choc, ma anche talora in maniera evocativa, come quella volta che invase la Tate Modern di  Londra con 100 milioni di semi di girasole in porcellana, che erano stati precedentemente dipinti a mano uno alla volta da 1600 lavoratori abitanti di un villaggio cinese specializzato nella lavorazione della porcellana (che Ai Weiwei aveva ingaggiato e pagato per fare quel lavoro). O come quando nel 2009  a Monaco presentò So Sorry in cui si mostravano le scuse di governi, industrie e compagnie transnazionali che avevano provocato danni irreparabili alla popolazione.

Dopo la recente mostra in Austria, Ai Weiwei continua dunque  il suo appassionato percorso in omaggio a migranti e rifugiati, che aveva cominciato mesi fa andando di persona sull’isola greca di Lesbo.  L’espulsione, la migrazione, l’esilio sono i temi che da sempre accompagnano il suo lavoro. Anche a partire dall’esperienza personale che, negli anni, lo ha portato a cercare rifugio all’estero. Una ricerca di libertà che è stata drammaticamente interrotta quando nel 2011 l’artista è stato fermato, picchiato fin quasi a causarne la morte, sequestrato e rinchiuso in un luogo segreto e tenuto in isolamento dalle forze dell’ordine cinesi, senza mai aver subito un processo. Le accuse, mai supportate da prove, erano di evasione fiscale. Con le sue opere, performance e interventi su un blog (che aveva milioni di contatti e che è stato chiuso) Ai Weiwei negli anni ha denunciato le violazioni dei diritti umani, anche in Cina. Documentando  il dramma del terremoto in Sichuan e denunciando la lentezza dei soccorsi dal governo centrale. Cosa non gradita da Pechino. Che ha poi ha accusato l’artista di avere posizioni anti cinesi e di attaccare il governo.

La restrospettiva fiorentina, prevista dal 23 settembre 2016 al 22 gennaio 2017   parte dalla faccita dello storico palazzo fiorentino poi le opere di Ai Weiwei saranno disseminate all’interno, «coinvolgendo tutto lo spazio: la facciata del palazzo, il cortile, il Piano Nobile e la Strozzina, che per la prima volta sarà utilizzato come un luogo espositivo unitario, permettendo all’artista di confrontarsi con un contesto ricco di sollecitazioni storiche e spunti architettonici», dicee  il curatore Arturo Galansino.

In attesa della mostra di settembre è stato presentato  il rendering dell’ installazione dell’artista che coinvolgerà due facciate dell’edificio rinascimentale « creando una nuova cornice – dice il curatore – un nuovo punto di vista, in un forte contrasto visivo e culturale, su uno dei simboli della storia dell’arte occidentale. Ai Weiwei vuole scuotere le coscienze per ricordare la tragedia vissuta da coloro che intraprendono un viaggio disumano verso le coste europee in fuga dalle distruzioni e dalle guerre».

Il golpe di Erdogan: stato di emergenza e altri arresti senza processo

Arrestati migliaia di dipendenti pubblici, soprattutto professori, e giornalisti. In manette anche due giudici della Corte costituzionale. Continuano le epurazioni in Turchia. “Non abbiamo ancora finito” ha  annunciato in diretta tv alla nazione Recep Tayyip Erdoğan imponendo tre mesi di stato di emergenza. Dopo il fallito putsch della notte fra il 15 e il 16 luglio circa 60mila persone sono messi “sotto inchiesta”.  Come è noto non ci sono stati arresti solo fra i militari ma anche nella società civile. Chiusi siti di informazione online, ritirate le licenze a radio e tv considerate vicine all’islamista Fethullah Gülen, che Erdoğan accusa di essere il deus ex machina del tentato golpe.

Ciò che colpisce maggiormente è che siano stati sospesi decine di migliaia d’insegnanti e chieste le dimissioni di 1.500 docenti universitari. Segno evidente che il presidente turco vuole approfittare della situazione per controllare in modo che cosa si insegna nelle università e i modi di trasmissione del sapere.

Al contempo il presidente turco ha messo le mani sulla giustizia, destituendo centinaia di giudici e arrestatando 113 esponenti del sistema giudiziario, compresi due esponenti della Corte costituzionale. Tutto questo in modo sommario, senza processi, istituendo un tribunale speciale, violando democrazia e giustizia. Se il ricorso alla tortura e la violazione di diritti  umani nelle carceri turche sono state denunciate anche in passato da molte associazioni internazionali impegnate in questo campo nell’ultima settimana c’è stata una escalation della violenza. A denunciarlo è  l’avvocato e scrittore turco Burhan Sönmez su Left in uscita sabato 23 luglio: le immagini che documentano la nuova ondata di arresti, mostrano anche evidenti segni di violenza su chi è finito in manette.

Nell’intervista rilascita ieri ad Al Jazeera,  Erdoğan ha annunciato il ripristino della pena di morte (“Il popolo la vuole, se il Parlamento mi presenterà la proposta firmerò”), ha detto mentre entrano in vigore misure eccezionali per imporre l’ordine. Provvedimenti che fanno pensare all’Iran di Khomeynī ( basta leggere il libro testimonianza di Shirin Ebadi, Finché non saperemo libero, per cogliere molte inquietanti analogie). Nonostante a parole Erdogan dica di voler rimanere in uno stato democratico.

Attivisti di piazza Taksim e lo stesso Sönmez, avvocato e scrittore laico, che partecipò alla oceanica manifestazione in difesa di Gezi Park ( luogo simbolo della rivolta giovanile per la democrazia) parlano di ronde per le strade  per intimidire e impedire ogni forma di protesta che ora implicherebbe mettere a rischio  la propria vita. “Restate nelle piazze, la piazza è vostra”, ha detto ai suoi sostenitori nazionalisti Erdoğan anche questa notte via sms. L’opposizione in Turchia è isolata e rischia di essere annichilita.

Ultim’ora : Assieme alla proclamazione dello stato d’emergenza, «la Turchia sospenderà la Convenzione europea sui diritti umani» ha annunciato il vicepremier e portavoce del governo Numan Kurtulmus.