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Casca il mondo. Sventurato il Paese che in mancanza di eroi ha bisogno di nemici

Ci sarebbe da tenere la barra dritta comunque. Essere capaci di non perdere l’allenamento che ci permette di riconoscere i delitti, le persone, le cause e le giuste reazioni. Tenere la barra dritta io l’ho sempre immaginato come sinonimo del restare umani di Vik: riuscire a osservare il mondo senza farsi sformare.

Questi ultimi tragici giorni sono tutti una rincorsa alle risposte. E nessuno che pone domande. L’avete notato? Non abbiamo più il vocabolario per raccontare il presente senza usare la metafora della sfida: passeggeri contro capostazioni in Puglia, nord contro sud, bianchi contro neri, poliziotti contro civili in Usa, i soliti islamici contro il resto del mondo, noi europei contro gli islamici di tutto il mondo, turchi contro mamma li turchi, golpe più veloci del west con liste di proscrizioni tenute nel cassetto, ribellioni antidemocratiche contro presidenti inetti della democrazia, diritti nostri contro i diritti degli altri, libertà di alcuni contro libertà degli altri e poi razza contro razza, etnia contro etnia, Paese contro Paese.

C’è in atto una banalizzazione del male (e del bene) che viene servita a prezzo fisso: senza una contrapposizione sembra che non si riesca più a raccontare un evento e questa semplificazione secerne bile, offusca gli occhi, appiattisce le intelligenze e imbruttisce il mondo.

«Non ci avrete mai impauriti come volete voi» urlano i social dopo la mattanza di Nizza. Ma siamo sicuri che davvero sia la paura il fine del terrorismo? Siamo sicuri davvero che sia una foto in cui comunque continuiamo a berci l’aperitivo sul lungomare l’arma con cui rispondere? La vera vittoria avviene quando si sclerotizza il noi e il voi: Libero che oggi titola in prima pagina “Islamico di razza” è la certificazione che il colpo è andato a segno.

Sventurato il Paese che in mancanza di eroi ha bisogno di nemici.

Buon lunedì.

Ventimiglia, un campo di “accoglienza temporanea” al confine con la Francia

L’ingresso sembra quello del centro di Calais, giura chi è già andato a vederlo da fuori. Appena fuori città, a 5 chilometri dal centro, da oggi è in funzione un campo di «accoglienza temporanea» per 180 migranti uomini senza documenti. Mentre famiglie, donne e bambini continueranno a essere ospiti delle chiese presenti in città, per gli uomini senza documenti si aprono i cancelli della struttura collocata nella zona industriale vicino a Bevera, a ridosso dell’area ferroviaria del Parco Roja.

 

I primi cento trasferimenti sono cominciati tra venerdì e sabato, mentre il ministro dell’Interno Angelino Alfano annunciava di aver rafforzato i controlli sul confine di Stato a Ventimiglia dopo l’attentato di Nizza: «Abbiamo avuto notizia che fuggitivi potessero essersi diretti in Italia ma per ora non abbiamo riscontri concreti», ha reso noto la polizia.

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Il campo di “permanenza temporanea” – una categoria non presente nel quadro giuridico italiano – sarà gestito dalla Croce rossa e dalle forze dell’ordine, con la presenza dell’Unhcr e l’accesso ad alcune associazioni accreditate presso la Cri. Pr quanto tempo rimarrà aperta la struttura? «Non abbiamo idea. Sinceramente fino all’estate e poi vedremo», dice Fiammetta Cogliolo, addetta stampa della Croce Rossa Liguria.

Dopo lo shock dei migranti accampati sugli scogli di un anno fa e lo sgombero di settembre. Da mesi, a Ventimiglia, si susseguono le proteste dei migranti e lo stallo istituzionale. Adesso è giunta l’ora del controllo e del contenimento. Gli ospiti potranno stare nel centro fino a un massimo di 10 giorni, e riceveranno un cartellino identificativo con nome e codice a barre per consentire l’accesso al campo. Dove troveranno cibo, bagni e informazioni sui diritti e le possibilità per fare richiesta d’asilo in Italia. Per dieci giorni. E dopo, quando i cartellini non saranno più validi? Si dovrà decidere tra l’allontanamento (deportazione?) e la permanenza in Italia.

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«Vogliamo la libertà, oltrepassare il confine. Non cibo né servizi ma solidarietà e libertà», ripetono i migranti bloccati da mesi a Ventimiglia. Ogni giorno, da mesi, decine di persone provano ad attraversare il cnfine con la Francia, e ogni giorno vengono respinte. In centinaia sono disperse per i dintorni della città. Eppure lo scopo del campo di Roja, dichiarano ancra dalla Cri, è rendere «edotte le persone dei diritti e le procedure per le richieste d’asilo» in Italia. D’obbligo domandarsi: chi, bloccato a Ventimiglia dietro il confine con la Francia, vorrà chiedere asilo in Italia? Le prime venti persone sono già scappate. E sono almeno 500 i migranti in città che attendono di entrare in Francia nonostante il blocco imposto alla frontiera.

I tre poliziotti uccisi a Baton Rouge detteranno il tono della convention di Cleveland?

Mentre a Cleveland ci si prepara per la convention repubblicana più tesa da molti anni a questa parte e la polizia chiede al governatore di sospendere il Secondo emendamento – quello sulla possibilità di portare armi, che Kasich si rifiuta di sospendere – a Baton Rouge, dove giorni fa la polizia aveva ucciso Alton Sterling un ex soldato afroamericano ha ucciso tre poliziotti con l’intento di vendicare quelle morti.

La dinamica è semplice: la polizia viene chiamata perché è stato avvistato un uomo armato di fucile a ripetizione, all’arrivo della pattuglia, questi, il 29enne Gavin Long, ha aperto il fuoco e nella sparatoria che ne è sguita sono morti lui stesso, tre poliziotti e altri sono rimasti feriti.

Long era un ex militare che online aveva espresso più volte l’idea che le morti dei neri per mano della polizia andassero vendicate, che «Quando un fratello ammazza uno sbirro, quella si chiama giustizia», come dice in un video su YouTube  – ora oscurato. Long, che viveva a Kansas City è evidentemente partito per Baton Rouge per “fare giustizia” e, anche nel suo caso siamo di fronte a un caso nel quale le tensioni razziali di questi mesi, la possibilità di procurarsi armi facilmente e il disagio mentale si combinano incarnandosi, invece che in Batman, come nel cinema di Aurora,  nell’odio anti polizia. Long aveva servito in Iraq tra 2008 e 2009 ma non aveva partecipato ad azioni di guerra, era andato all’università dell’Alabama e, a quanto dice un cugino in forma anonima al Washington Post, non era unso esprimere quel tipo di rabbia manifestata online nelle conversazioni avute con lui.

In un video girato alle manifestazioni di Dallas dopo la morte dei poliziotti in quella città, dice ancora: «Se volete continuare a protestare fate pure, ma noi più duri, quelli veri, gli alfa, sappiamo cosa serve: guerra o soldi. Che è tutto quello di si preoccupano. Guadagni e sangue». L’uomo aveva anche pubblicato un libro sotto lo pseudonimo di Cosmo Setepenra dal titolo “La via di Cosmo”, una guida spirituale e olistica per gli afroamericani, nel quale parla di una rivelazione avuta mentre era sotto le armi.

Sia a Dallas che a Baton Rouge siamo di fronte a casi di singole persone che agiscono in proprio e guidate dalla follia. Ma siccome invece di uccidere compagni di scuola o persone X in strada, la loro azione ha all’apparenza una forma politica, il loro gesto è destinato ad avere effetti sulla politica.

Uno dei poliziotti uccisi, l’afroamericano Montrell Jackson aveva postato questo bel messaggio su Facebook dopo la morte di Alton Sterling nel quale parla della stanchezza del dover gestire situazioni come quella morte, soffre perché non si sente apprezzato per un lavoro che fa, scrive, per la città che ama e chiude dicendo: «Non fate infettare il vostro cuore dall’odio. Lavoro in queste strade perché ogni persona che protesta, familiare, poliziotto o chiunque altro se vuole un abbraccio o dire una preghiera sappia che sono a disposizione».

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La tensione di queste ore si riverserà su Cleveland, fuori e dentro la convention repubblicana che si apre oggi. In città da tre giorni si susseguono manifestazioni piccole e non violente, ma certo il clime è di quelli tesi. Trump proverà a sfruttare la situazione soffiando sulle eventuali paure dell’America bianca e probabilmente sperando che fuori, in città, ci siano scontri e disordini per imputarli a Clinton e ai suoi alleati. Tutti i sondaggi indicano preoccupazione per le relazioni razziali e l’elettorato bianco quello più suscettibile a farsi prendere dalla paura. E prometterà legge e ordine contro musulmani, immigrati e chi spara in strada. La sua unica speranza di vincere le elezioni è che la tensione salga e che le preoccupazioni per la violenza di questi giorni si depositino nella testa degli americani gli facciano scegliere la strada pericolosa di una Casa Bianca in mano a un inesperto, populista e destrorso miliardario.

Vite in trappola. La tutela maschile sulle donne in Arabia Saudita

In Arabia Saudita la vita di una donna è controllata, dalla nascita fino alla morte, da un uomo. Ogni donna saudita infatti ha un tutore che in genere è il padre, il marito o il fratello, ma in alcuni casi addirittura il figlio e che è in tutto e per tutto un guardiano che ha il potere di decidere su qualsiasi aspetto della vita della donna, anche su ciò che riguarda in modo cruciale il suo benessere o la sua salute. Questo sistema che rinchiude la vita di una donna all’interno dei confini della scatola che il tutore maschio ha scelto di disegnare per lei è il principale ostacolo per l’emancipazione femminile e il riconoscimento dei diritti delle donne in Arabia Saudita.

 

«Siamo costrette a vivere dentro ai bordi delle scatole che i nostri e i nostri mariti disegnano per noi»

 

 

Zahra, 25 anni, 7 aprile 2016

Per mappare la situazione e cercare di portare il tema all’attenzione dei governi Human Rights Watch ha realizzato un report intitolato “Boxed In: Women and Saudi Arabia’s Male Guardianship”, ovvero “Inscatolate: le donne e il sistema di tutela maschile dell’Arabia Saudita”. Il dumento esamina nel dettaglio le storie di molte donne i cui diritti sono negati quotidianamente a questa legge e mette in luce tutte le barriere formali e informali che in Arabia Saudita vengono messe in campo quando una donna deve prendere una qualsiasi decisione. Addirittura in alcuni casi la tutela maschile assume la forma del ricatto come ad esempio con la scusa della tutela vengono estorte ingenti somme di denaro a dipendenti di sesso femminile.

 

«Tutto questo può creare della confusione nel modo in cui consideri te stessa. Come fai a provare rispetto per te stessa e come fa la tua famiglia a dimostrarti rispetto, se lui è il tuo tutore legale per qualsiasi cosa?»

 

 

Hayat, 44 anni ex direttore scolastico, 7 dicembre 2015

«Le donne saudite sono ancora costrette a richiedere il permesso del loro tutore per viaggiare, lavorare o fare qualsiasi altra cosa. E questo di fatto è il perdurare di una grave violazione dei loro diritti umani, oltre che una barierra che impedisce al governo di potenziare la propria economia» spiega Sara Leah Whitson, direttrice dell’area mediorientale di Human Rights Watch. «Sarebbe nell’interesse del governo – continua Whitson – ascoltare le richieste di metà della popolazione per mettere fine alla schiavitù della tutela maschile».

Le limitazioni imposte dalla rigida tutela dell’uomo in Arabia Saudita sono comuni alle donne di tutte le classi sociali, dal ceto più alto a quello più basso la donna dovrà sempre ottenere il permesso del proprio tutore per viaggiare, lavorare, sposarsi e perfino per uscire dal carcere. Questo significa che se una donna ha scontato una pena in prigione al momento del rilascio è il suo tutore a dover dare l’approvazione perché torni in libertà. Se egli ritiene che, per esempio la donna abbia disonorato la famiglia e che non sia moralmente accettabile riprenderla di nuovo in casa, la prigioniera non viene rilasciata.

 

«È straordinario pensare a quanto siamo riuscite a ottenere nonostante tutte le restrizioni alle quali siamo sottoposte…Ora che molte più donne stanno lavorando, credo ci saranno dei cambiamenti. È inevitabile!»

 

 

Khadija, 42 anni

La questione non cambia quando bisogna affrontare situazioni più semplici e all’ordine del giorno: dal deposito in banca all’affitto di un appartamento è sempre necessario prima ottenere il consenso maschile, ma la stessa cosa accade anche quando si tratta di avere accesso alle cure mediche. Ogni possibilità di sopravvivenza e di carriera per una donna in Arabia Saudita è quindi una diretta conseguenza del buon senso e della “magnanimità”, se di questo si può parlare in una situazione così tragica, del proprio tutore. Non è raro inoltre che alcuni di essi accordino il loro consenso per viaggiare e lavorare, o comunque condurre una vita più emancipata, dietro il pagamento di consistenti somme di denaro.

Qualche timido cambiamento nel corso degli ultimi anni è stato fatto, basta pensare alle elezioni amministrative del dicembre 2015 alle quali hanno potuto partecipare anche le donne. Il merito di questo va a molte attiviste per i diritti umani hanno più volte fatto pressione sul governo saudita per ottenere la completa abolizione del sistema di tutela. Inoltre nel 2000 l’Arabia Saudita è entrata a far parte della Convenzione delle Nazioni Unite per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne il che legalmente obbliga il Paese a colmare il ritardo e abolire il sistema di tutela maschile.

 

«La tutela maschile è sempre un incubo. Non voglio sposarmi perché non voglio che un estraneo mi controlli…tecnicamente questa è schiavitù»

 

 

Tala, 20 anni

Nonostante però il governo avesse espresso la sua disponibilità per abolire la legge più volte, prima nel 2009 e poi nel 2013, i miglioramenti sono ancora minimi – insufficienti, incompleti e inefficaci – e l’abolizione è ancora un miraggio lontano. Soprattutto, fino a quando questo non avverrà, rimarrà un miraggio altrettanto lontano la realizzazione da parte del governo di Vision 2030, il piano di sviluppo per il futuro presentato per rilanciare l’economia del Paese, all’interno del quale le donne (esattamente la metà dell’intera popolazione) vengono definite come una “grande risorsa” le cui capacità dovranno essere sviluppate per il bene dell’economia e della società saudita. Il cambiamento quindi deve iniziare adesso e non può avvenire in modo graduale, come spiega chiaramente Hayat, 44enne saudita: «Non credo che tutto questo possa essere cambiato a piccoli passi. Deve succedere ora, subito. Abbiamo bisogno di un governo coraggioso che abolisca definitivamente la tutela maschile e realizzi maggior uguaglianza fra uomini e donne».

Viaggio nel cuore dell’Ungheria razzista

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Una nuvola di polvere si alza davanti al filo spinato e al reticolo di ferro alto tre metri che separa il confine tra l’Ungheria e la Serbia, mentre il pick-up anteguerra dei vigilantes della municipalità di Asotthalom sobbalza di continuo sulle buche dello sterrato, sul lato ungherese. Alla guida è Shandor, un uomo di 32 anni in tenuta paramilitare con una folta barba e i capelli lunghi raccolti in un codino. Con occhio truce scruta attentamente l’orizzonte serbo per scovare qualche ombra che si muove fra i cespugli. In paese è conosciuto come “cavallo pazzo” e fa parte della polizia locale anti-migranti della città: una squadra di 5 “buoni cittadini” formata nel maggio 2014 per volontà del sindaco di Asotthalom, László Torczai.
Il lavoro di Shandor consiste nell’acciuffare i migranti che dalla Serbia attraversano illegalmente il confine: «Di solito passano di qui, intorno alle 5 del mattino», dice indicando un punto della frontiera dove in corrispondenza di un fiumiciattolo il muro è più basso. «Tagliano il filo spinato e si danno alla macchia, ma prima o poi sono costretti a seguire un sentiero o ad addentrarsi in città: così li scovo, li immobilizzo e li ammanetto prima di consegnarli alla polizia».

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Il governo di Viktor Orbán ha predisposto la costruzione del muro anti-migranti a fine agosto 2015, in seguito al picco di arrivi che l’estate scorsa che colpito tutto il paese, e in particolar modo la cittadina frontaliera di Asotthalom, di 4.200 abitanti. In quel periodo d’intenso dibattito politico, i vigilantes della città hanno riscosso un successo mediatico tale da far schizzare alle stelle anche l’indice di popolarità del loro sindaco Toroczkai: una fama che gli è valsa la recente nomina a vicepresidente di Jobbik, il partito euro-scettico e ultra nazionalista dell’estrema destra ungherese.
«Il problema è che non esiste una guardia di frontiera dall’accordo di Schengen», spiega László Torczai seduto nel suo ufficio, «sono i poliziotti o i militari a pattugliare il confine e, oltre a non essere sufficientemente addestrati, sono pagati male e ruotano troppo frequentemente». Stando al sindaco i “suoi ragazzi”, invece, acciufferebbero un centinaio di migranti al giorno grazie alla collaborazione dei concittadini che, quando avvistano i migranti, non chiamano la polizia locale, bensì Shandor e i suoi colleghi. I vigilantes, secondo la legislazione, sarebbero dei civili; di fatto, hanno ricevuto un training dalla polizia per andare in giro armati. Sono inoltre ben equipaggiati grazie a fondi speciali predisposti dal ministero degli Interni e grazie a una campagna di crowdfunding promossa dallo stesso Torczai per il suo nuovo gruppo paramilitare.

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«Torczai è il tipico nazista ben travestito, ma non scordiamo che Jobbik è ancora pieno di negazionisti dell’Olocausto, di anti-semiti e persone che appartengono a movimenti per la supremazia della razza bianca», precisa l’analista Péter Krekó del think tank Political Capital Institute. A un anno dalla più grande crisi dei rifugiati che il Paese abbia mai affrontato, l’argomento migranti rimane la questione più scottante sul tavolo del governo. Nonostante l’Ungheria sia un Paese di transito e non una destinazione finale, e nonostante dalla costruzione del muro i transiti siano pressoché decimati, il partito governativo di centrodestra Fidesz ha tutto l’interesse a mantenere alto l’“allarme”.
Il 5 luglio, sull’onda della Brexit, la Fidesz del premier Orbán ha preparato la convocazione per un referendum il prossimo 2 ottobre con il pieno appoggio di Jobbik. Il quesito posto ai cittadini ungheresi sarà: «Volete che l’Ue decreti una riallocazione obbligatoria dei cittadini non Ungheresi in Ungheria, senza l’approvazione del Parlamento ungherese?».
Le destre temono che, se Germania e Austria dovessero chiudere le frontiere, molti richiedenti asilo in Ungheria – 1.800 per ogni 100mila abitanti nel 2015 secondo Eurostat, il tasso più alto del continente contro una media europea di 260 – verrebbero bloccati nel Paese dei magiari. Ma c’è di più.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 16 luglio

 

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È Deutsche Bank la bomba sotto la sedia del capitalismo

La fragile situazione del Monte dei Paschi di Siena tiene occupata gran parte della stampa italiana e non solo italiana. Ma mentre le preoccupazioni per il piccolo Istituto senese si ingrossano, molta poca attenzione viene dedicata al vero, gigantesco bubbone del sistema bancario mondiale: Deutsche Bank (DB). Nata nel 1870 per liberare i mercanti tedeschi dal predominio della finanza anglosassone, che lucrava sul commercio internazionale del nascente Secondo Reich, dopo quasi un secolo e mezzo di attività è divenuta una delle più grandi banche d’investimento del mondo, comparabile con Goldman Sachs o JP Morgan: 100mila dipendenti in 70 Paesi, oltre 1.600 miliardi di asset e interessi che spaziano in tutte le direzioni, dalle valute (è la banca leader nel “forex”) ai mutui, fino ai derivati. E come vedremo proprio i derivati rappresentano la vera incognita del colosso tedesco. DB accusa la crisi finanziaria globale del 2008 ma sembra uscirne abbastanza bene, nonostante fosse pesantemente esposta al crollo dei mutui subprime e una dei maggiori operatori nel mercato delle obbligazioni collateralizzate (Cdo). Anzi, come rivelerà un’inchiesta del Senato americano, DB continuò imperterrita a trattare debiti dubbi con i suoi Cdo anche negli anni successivi.

La storia di copertina di Left è in edicola dal 16 luglio

 

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Turchia, un colpo di Stato ne nasconde un altro

Un colpo di stato ne nasconde un altro. Ieri mattina erano stati arrestati 2800 militari, dei 260 morti la maggioranza sono uomini dell’esercito che nella notte avevano partecipato al tentativo di golpe, almeno uno è stato decapitato dalla folla davanti alle telecamere, cacciati o arrestati 3000 giudici, Erdogan ha puntato l’indice accusatore sul ricco imam Fhetullah Gülen e sugli Stati Uniti che lo ospitano, per alcune ore è stata tolta l’elettricità e sono stati impediti i voli in prossimità intorno alla base americana di Incirlik. Tutto fa pensare che Recepì Tajjip Erdogan voglia chiudere i conti con gli apparati dello stato che non l’hanno sostenuto in pieno o ne hanno moderato l’azione. Repubblica e Stampa annunciano la “vendetta” di Erdogan, il Corriere parla di un “braccio di ferro”. Con chi?
Uno scontro interno al regime. Di questo mi pare che si tratti: Erdogan non ha accusato le opposizione democratiche, le quali, semmai, prendendo le distanze dai militari lo hanno aiutato ad avere il sopravvento. Non ha denunciato un presunto spirito laicista, kemalista, sopravvissuto nelle forze armate e ostile al suo islamismo: al contrario il presidente continua a presentarsi con l’immagice di Ataturk dietro e a sbandierare la bandiera dell’unità e del nazionalismo. I suoi nemici di questo momento sono presto detti. Chi ha accusato il presidente e il suo entourage di corruzione: gli arresti dei giudici, dopo il bavaglio ai giornalisti, stanno a testimoniarlo. Chi (come Gülem) aveva scelto di puntare su un Islam turco, insieme mistico e disposto al confronto multiculturale, e non ha condiviso la strumentalità religiosa dell’aspirante sultano, prima protettore dei fratelli musulmani, poi ,addirittura alleato degli wahhabiti sauditi. Chi, nell’esercito, lo considerava ormai un pazzo instabile e perciò non affidabile: significativa la partecipazione al colpo di Stato del comandante della seconda armata, Adem Huduti, responsabile del confine con Iraq e Siria e dei bombardamenti a dei villaggi curdi, ma anche di alcuni comandanti della terza armata, che copre la regione del nord est, al confine russo. Erdogan ora chiede: “un unico stato”.
Il futuro è la democrazia, scrive sul Corriere Orhan Pamuk che si dice “molto dispiaciuto per il tentato colpo di stato militare” e “molto contento che i partiti di opposizione non l’abbiano sostenuto”. Ora Erdogan si è legato alla piccola -e piccolissima,cioè camerieri e venditori ambulanti,- borghesia che si ritrova nelle moschee, un ceto islamico e nazionalista, abituato a vincere nel voto democratico (grazie a Erdogan) e non disposto a delegare le scelte alla borghesia degli apparati, civili e militari, che è più abbiente e su cui plana il sospetto della corruzione. E l’altra Turchia, quella che negli ultimi anni si era ribellata contro Erdogan? “La societa turca -dice alla Stampa Yesim Ozsoy, attivista di Gezy Park- è spaventata dalla repressione e adesso si nasconde”. Non si schiera “né col presidente né coi soldati”. Sempre alla Stampa Al-Aswani, scrittore egiziano, sostiene anche i turchi “sono prigionieri di due fascismi”, uno politico l’altro militare. Tuttavia -osserva- mentre, dopo Mursi e i fratelli musulmani, al Cairo quasi tutti consentirono con il colpo di stato di Al Sisi, in Turchia una metà della popolazione è rimasta fuori dallo scontro e ora potrebbe farsi sentire. Tanto più che il presidente vincitore è impegnato su un altro fronte, ossessionato dalle coperture internazionali che sarebbero state date ai golpisti, si prepara a un braccio di ferro con gli americani e chiede l’estradizione di Gülem. È probabile che avremo una Turchia ancora più nazionalista, in politica estera, e sull’orlo della guerra civile, all’interno.
Mohamed Lahouaiej Bouhlel è un soldato dell’Isis. Dopo questa rivendicazione di paternità da parte del califfato, tutti dovrebbero convenire con quel che taluni osservatori -e io fra questi- scrivono da mesi. La dottrina wahhabita, nella interpretazione di Al Qaeda e ancora meglio in quella proposta del califfato, rappresenta una forma di anti mondializzazione radicale. Al progresso, alla libera circolazione delle merci e delle idee, al nesso pubblicità-libertà-diritti, i tagliagole vestiti di nero contrappongono l’obbedienza assoluta ad Allah e al califfo, il ritorno integrale ai costumi di un medio evo guerriero e patriarcale, la violenza purificatrice (che è distruttiva e auto distruttiva). Una ideologia che attrae soprattutto persone con forte disagio mentale, da Omar Baaten a Mohamed Bouhlel, le quali trovano nella storia familiare, nelle origine etniche, ma anche soltanto nelle memoria degli orrori imperialisti, la molla per dare un taglio alla vita di prima, per “rinascere” e proporsi come vendicatori. Tutto qui. Il disagio sociale, in genere, non è diretto, cioè non è stato vissuto nella propria vita particolare dal terrorista, ma è stato narrato e mitizzato. È diventato frustrazione storica, motivo di vergogna, ragione di odio per la propria comunità, il cui onore va riscattato con il sacrificio estremo: uccidere all’ingrosso e ammazzarsi.

Trump e partiti xenofobi facce della stessa medaglia

«Nel mercato del lavoro si concretizza il nesso tra inferiorizzazione dei migranti e amplificazione della retorica razzista», dice a Left il professor Mauro Ferrari, dell’università Ca’ Foscari. Che si tratti di nuovi schiavi in agricoltura, di donne centroafricane nel mercato della prostituzione, di collaboratrici familiari dei Paesi dell’est (le cosiddette “badanti”), in tutti questi casi e in altri ancora, i due temi, svalutazione del lavoro dei migranti e razzismo, si tengono. La marginalizzazione dei migranti consente ai detentori di quei segmenti del mercato del lavoro – italiani o stranieri che siano, consapevoli o meno che siano – di prosperare (alimentando lavoro nero e forme differenti di sfruttamento) e di mostrare come sia “tollerabile”, o meglio “funzionale”, che masse di diseredati popolino, in assenza di diritti, questi segmenti di territorio e di mercato del lavoro.

Professore, c’è un nesso con l’accentuarsi della crisi?
La crisi economica non ha fatto altro che accentuare queste dinamiche, con un aspetto di continuità rispetto al fenomeno del sottoproletariato e una differenza fondamentale rispetto al passato: oggi è dissolta la – vera o presunta – compattezza dello strato sociale che abitava le fabbriche. Al punto che gli attuali partiti xenofobi trovano ascolto in larga parte proprio tra coloro che in passato riuscivano a manifestare solidarietà internazionaliste, e che invece con sempre maggiore difficoltà riescono oggi a rappresentarsi come un corpo omogeneo. La globalizzazione, nel suo lato oscuro – delocalizzazione industriale, accorpamenti, trionfo del “finanzcapitalismo” -, ha provocato destabilizzazioni importanti, che ora cercano risposte in partiti o movimenti distanti dalle loro origini storiche, ma quanto mai affini al nesso fra crisi, precarietà (o instabilità, o insicurezza) e ricerca di risposte individuali.

Come è cambiato il razzismo in questi anni?
Lo straniero è utilizzato come elemento che porta confusione, instabilità, e quindi respinto con argomenti impropri sia sul piano storico-geografico che su quello antropologico. Nell’elaborazione antropologica classica sono due le modalità di relazione fra due gruppi di individui: da un lato la xenofobia (“vomitare” l’altro), che equivale all’eliminazione di uno o ambedue i gruppi, e dall’altra la xenofilia (“mangiare”, quindi “incorporare” l’altro), cioè viceversa all’assimilazione nel senso più pieno del termine. Tra queste due posizioni estreme è compresa buona parte delle politiche migratorie “modellizzate” nel loro agire normativo: alle due estreme la proposta assimilativa (un’unica identità nazionale), oppure il concepire il migrante come “ospite temporaneo” (da espellere appena possibile) e in posizione intermedia l’ipotesi comunitarista: la compresenza di molti gruppi definiti una-volta-per-tutte e l’assenza di strategie di interazione-integrazione, che rischia di rinforzare le chiusure reciproche. Esiste anche una forte differenza simbolica: nello scambio impari tra soggetti che definiscono le “culture” di altri soggetti, qualcuno “nomina” qualcun altro confermandone insieme l’estraneità e l’inferiorità. Pensiamo ad esempio all’utilizzo spesso inconsapevole del termine “etnia”. Dove sta la reciprocità di questa categoria? Spesso sostituisce la categoria del “razzismo”, ritenuto meno corretto.

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Quei maschi educati dai preti. Intervista al premio Strega Edoardo Albinati

Jerusalem, Israel - October 14, 2005: Monk walks through the Church of the Holy Sepulchre in Jerusalem, Israel.

«Valentino Zeichen era un amico nobile e gentile. Per i miei figli era diventato una specie di zio, un consigliere saggio e spiritoso. Dedicargli lo Strega non è stata l’occasione di un risarcimento, non ne aveva alcun bisogno. È solo che il pensiero di lui cancellava tutte le altre possibili dediche e ringraziamenti» dice Edoardo Albinati che ha ricevuto il premio a pochi giorni dalla scomparsa del poeta. La scuola cattolica (Rizzoli) è un libro che intreccia memoir e finzione, «un’opera mondo», uno zibaldone di oltre mille pagine in cui si passa dal racconto, a memorie di infanzia, a digressioni colte. Tenute insieme da un torrenziale io narrante che dalla scuola dai preti è uscito con un’allergia alle prediche e, al contempo, con la tendenza ad assumerne il tono. Essendone consapevole, il Nostro avverte il lettore quando lo attendono pagine di riflessione filosofico-antropologica, autorizzandolo a saltare pagine e interi capitoli. Così, con un pizzico di auto ironia, Albinati conduce il lettore ad avventurarsi in queste dense pagine in cui risuonano «molti altri autori, altri libri e interviste con persone che ne sapevano più di me», come ci dice lui stesso.

Il richiamo a Musil è forse quello più scoperto: «Come autorizzazione a tenere presso di sé la narrazione molto a lungo, forse persino più del dovuto» ammette. Come scelta del bildungsroman, aggiungiamo, come romanzo di formazione di cui sono protagonisti giovani alle prese con crisi adolescenziali rese più acute dall’ambiente religioso di soli maschi. Per lo più sono rampolli della borghesia romana, destinati a diventare nuova classe dirigente. Fra i banchi si sfidano in giochi feroci, disposti a tutto per essere ammirati, per primeggiare, nascondendo l’insicurezza. Ma in filigrana l’autore ci lascia intuire molto di più. «Questo è un libro che è cresciuto alle spalle del suo autore, quasi oltre le sue capacità stesse» commenta Edoardo Albinati, che fra le sue fonti cita filosofi della politica come Tocqueville e poi Pascal, «alcuni grandi romanzi e una quantità di studi di genere, sia femministi sia dedicati ai maschi, questi ultimi soprattutto dal mondo anglosassone». Italianissima e molto romana è invece la scuola cattolica, il San Leone Magno, che la voce narrante tratteggia senza infingimenti, senza nascondere la violenza visibile e invisibile che innerva i rapporti fra i docenti (non tutti preti, ma tutti cattolici) e i loro allievi fin dalla più tenera età, raccontando le contraddizioni, descrivendo minuziosamente il modo in cui quel tipo di insegnamento spinge i ragazzini a mettere in atto modelli imitativi, quasi in modo calligrafico, sviluppando un falso sé per usare una espressione che incontriamo all’inizio del libro.
«Di quel rapporto fra studenti maschi – dice oggi Albinati – mi colpisce la ricerca di tenerezza, di intimità, che era frustata dal timore di sembrare troppo teneri come se questo fosse un segno di debolezza o di omosessualità. Una repressione che diventava aggressività, volgarità, scherzo pesante fra i banchi. Poi quella richiesta di tenerezza era rivolta in maniera brusca ed esigente, perfino brutale, verso le donne ». Ne La scuola cattolica gli studenti sono presi da «un disperato bisogno di essere come gli altri, ma al tempo stesso di sopraffare, sono competitivi e imitativi. Quando poi si accendeva l’interesse nei confronti dell’altro sesso, quasi del tutto sconosciuto e alieno, emergeva una stortura nel modo di rapportarsi». Di fatto, più che il diverso da sé ad essere preponderante nella vita di questi ragazzi è la mamma. «Siamo un Paese dove tutto fanno le madri, dove persino il Figlio più famoso di tutti tempi si dice non avrebbe combinato nulla di buono se non fosse stato per sua Madre, santa donna», abbozza ironico l’io narrante nel libro.

«Era un tratto tipico dell’Italia di allora e in parte permane ancora oggi – chiosa lo scrittore romano -. La madre era una figura venerata. Aveva un posto intoccabile, talora per tutta la vita. E tanto più si ha il culto della madre, tanto più le altre donne non le saranno mai paragonabili». Culto della madre e obbedienza sono i due poli fra i quali si muove la loro vita. La Chiesa è rimasta l’ultima istituzione a chiedere l’obbedienza, nota sempre più smagato il ragazzino protagonista. Obbedienza a Dio, obbedienza ai valori non negoziabili che la scuola cattolica ha la missione di imporre, obbedienza ai preti anche se poi si scopre che hanno una doppia vita, non proprio da santi padri, obbedienza a quella sfilza di assurdità che propinano i testi sacri, obbedienza e venerazione dei santi fin quando il nostro sveglio protagonista scopre che Giovanna d’Arco era una schizofrenica. «L’educazione pretesca invece di rafforzarlo, non so perché, imbastardiva il nostro senso morale, lo annacquava», dice ad un certo punto nel libro, che non manca di episodi esilaranti. Come quando il bambino si aspetta che, ricevendo l’eucarestia, la presenza di Dio nella sua bocca si farà sentire. E che «se non si farà sentire, bisognerà sprofondare ancor più il viso tra le mani, alzare il livello, aumentare le dosi e l’intensità della preghiera…» perché «non è possibile che non avvenga nulla». Poco dopo aggiunge: «La stessa perplessa attesa mi coglie mentre mi masturbo. Dovrei provare qualcosa che non arriva, non arriva».

Fra i suoi compagni non tutti hanno l’ardire di una sana irriverenza. Qualcuno, più fragile, in quel contesto silenziosamente cede, qualcuno si perde, si rinchiude in se stesso, non tiene più nemmeno il rapporto sado-maso con i compagni. Fra loro Arbus appare il più strano, si muove come robot, scappa in un mondo astratto che lo tiene “al riparo” dalle emozioni. Qualcun altro si fa sempre più tenebroso e distante. Lo ritroveremo poi molti anni dopo vittima di un ribellismo suicida in un gruppuscolo terrorista. Il talento di Albinati sta nell’evocare in modo ellittico i nessi, nel suggerire, senza imporre una tesi, restituendoci la complessità delle dinamiche in quel microcosmo pretesco, apparentemente fuori tempo, incapsulato come una monade in anni, quelli dal 1962 al 1975, quando l’Italia scivolava negli anni di piombo; dopo la rivolta fallita del ’68, tanti si persero nella droga e nel terrorismo. Ma c’è anche l’agghiacciante strage del Circeo che balena a metà del romanzo…
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L’intervista con Albinati continua su Left in edicola dal 16 luglio

 

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Se nasci nero (e povero) nella suburbia d’America

Se nasci afroamericano nella Detroit della decadenza industriale è molto probabile che tu non riesca a trovare un lavoro. La forma della città è stata pensata a cerchi concentrici, tenuti assieme da arterie che si dirigono verso il centro. Con il progressivo svuotamento dell’area urbana, le connessioni sono saltate e i neri sono rimasti stretti tra il centro della città e la suburbia, dove ancora ci sono le fabbriche e le casette abitate dagli operai, soprattutto bianchi. Trasporti pubblici quasi non ce ne sono.
Se non hai una macchina, sei out, anche se trovi un lavoro. Se hai una vecchia auto scassata, invece, tendi a non allontanarti troppo: la possibilità di essere fermato da una pattuglia per un fanalino rotto o una cintura non allacciata sono altissime. Quelle di finire dentro perché perdi la pazienza non sono poche e neppure quelle di finire come Philando Castile, la cui morte in diretta l’hanno vista milioni di persone grazie alla immane presenza di spirito di Diamond Reynolds, che invece di farsi prendere dal panico ha voluto testimoniare cosa le stesse capitando. Castile era stato fermato alla guida della sua auto 31 volte e multato 63. A Ferguson, dove scoppiò la protesta di Black Lives Matter dopo l’uccisione di Mike Brown, i bilanci del comune sono stati gonfiati per anni dalla immane quantità di multe elevate ai danni degli afroamericani. Questi vengono fermati e controllati molte volte di più dei bianchi. E siccome nella testa dei poliziotti – stando alle statistiche, mediamente più bianchi delle comunità dove lavorano – un ragazzo maschio nero è un potenziale pericolo, succede più spesso che il ragazzo nero finisca male.
Su 569 morti ammazzati dalla polizia nel 2016, 137 sono neri. L’anno scorso 990 gli uccisi e 258 i neri. Gli afroamericani nel 2010 erano il 12,6% della popolazione, quindi, se i neri uccisi fossero in linea con la loro presenza nella società Usa, i morti sarebbero meno della metà. Ma il punto forse non è solo quanto si rischia di morire. Il punto è come si vive.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 16 luglio

 

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