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Cleveland, una serata nera per il partito repubblicano e Trump

Il partito contro la campagna, la necessità di dare un’impressione di unità del partito contro i partigiani del #NeverTrump, l’avanspettacolo contro lo spettacolo curato nei particolari che, pur nei suoi eccessi all’americana, mantiene una parvenza di serietà. Il primo giorno delle convention repubblicane del 2008 e del 2012 era saltato per ragioni legate al meteo (uragani in transito), sarebbe stato meglio per il partito che si appresta a nominare Trump che capitasse qualcosa di simile anche nel 2016.

La prima serata della convention di Cleveland è stata un mezzo disastro. Analizziamola per punti.

Il plagio di Melania

Era il discorso clou della serata e, come sempre, è un modo per introdurre al pubblico la potenziale futura first lady e, al contempo, fare in modo che questa dipinga un ritratto umano, intimo, del marito, potenziale presidente. Bene, il discorso di Melania Trump, era recitato, pessimo, freddo, noioso: gli aggettivi sbagliati e sempre gli stessi (meraviglioso, fantastico, grande e grandioso), nessuna storia da raccontare somigli davvero a quella di una vicenda di duro lavoro e sofferenza e la necessità di spiegare in maniera indiretta che “se pure sono un’immigrata diventata cittadina, so che diventare cittadino costa fatica”. Ma non è questo il punto: il punto è che un bel pezzo della biografia personale, dei toni del discorso, sono un plagio del discorso di Michelle Obama nel 2008 – come si nota nel confronto qui sotto. Ma cosa è successo? È possibile che il team Trump sia così improbabile o c’è un complotto in corso? La spiegazione migliore è che la squadra di Trump sia così inesperta di politica vera e così abituata ai reality da pensare che se un discorso funziona, tanto vale usarlo, che non ci saranno plotoni di esecuzione pronti ad aprire il fuoco su ogni errore, gaffe. Sono i maledetti media liberal in mano ai democratici? Ieri con un tweet, TheDonald ha accusato CNN di essere smaccatamente contro di lui e ha già bandito dai suoi comizi diversi altri media. Ma la verità è che tra vincere delle primarie portando a votare pezzi di società creduloni, arrabbiati e stanchi di come vano le cose e il gioco della politica per grandi c’è un abisso. Melania Trump, modella slovena che sul palco non era assolutamente in grado di fare la faccia credibile mentre parlava del grande Paese e del marito combattente pronto a lottare per il popolo, è precipitata in quell’abisso.

La rivolta fallita dei #NeverTrump (già, perché c’è chi si rivolta?)

Sono stati mesi a cercare un candidato alternativo. Senza trovarlo. La verità è che nessuno di credibile si azzarda a mettere la faccia in un’operazione che è destinata a fallire o a spaccare il partito repubblicano fino a correre il rischio di trovarsi il miliardario newyorchese che ha vinto le primarie a correre contro Clinton e l’eventuale candidato ufficiale. Per alcuni Trump non è abbastanza conservatore, mentre per altri non è credibile, serio, presentabile. Non è presidenziabile. Quelli più seri, anziani, preoccupati per il destino del Paese hanno già detto che non voteranno o voteranno Clinton. Poi c’è la rivolta dei conservatori e dei moderati, che ha due segni: quello di rifiutare un candidato che danneggia l’immagine sobria, austera del partito e quella di un candidato che con le sue sparate e la piattaforma di estrema destra presentata come programma elettorale rischia di alienare per molti anni una parte centrale dell’elettorato. Ci sono Stati dove i repubblicani eleggono senatori e deputati (e governatori) tendenzialmente moderati che temono seriamente che con Trump e i suoi toni perderanno eletti. Molti danno già il loro candidato presidente per sconfitto e allora puntano a indebolirlo per mostrare agli elettori che nel partito c’è gente diversa. In fondo i candidati presidente sconfitti durano una campagna elettorale, il partito e le maggioranze in Senato e alla Camera restano.

E così ben nove Stati hanno chiesto di votare un cambiamento delle regole della nomination per sperare in una conta quando avverrà la chiama Stato per Stato per scegliere il candidato. Come vedete nel video qui sotto ci sono stati momenti di tensione, con le delegazioni e molti delegati che chiamavano un voto a chiamata e non assembleare (con la presidenza che chiede “chi è favoravole dica Sì”). La presidenza ha deciso che non sarebbe andata così e sentito più Si che No venire dalla platea, impedendo una conta vera dei voti contrari a Trump. L’Iowa e il Colorado sono usciti dalla sala: il Colorado e l’Iowa sono stati in gioco a novembre. Che avrebbe vinto comunque, ma sarebbe stato più ostaggio del partito. A questo punto la nomination, con la chiamata degli Stati che attribuiscono i loro delegati a un candidato, e che di solito non vede diserzioni, rischia di essere un nuovo momento di tensione. Pessimo affare: la convention serve a dare un’immagine di compattezza, a celebrare i valori del partito, enunciarli e rafforzare l’immagine del candidato. Una convention divisa non aiuta.

Lo show anni 80 e la presenza ingombrante di TheDonald

Il candidato vice di Trump, Mike Pence, e Scott Baio (AP Photo/Paul Sancya)
Il candidato vice di Trump, Mike Pence, e Scott Baio (AP Photo/Paul Sancya)

Alzi la mano chi ha meno di 35 anni e che, fino a ieri, sapeva chi fossero Scott Baio e Kimberlin Brown, rispettivamente personaggi famosi (ma tutto sommato minori) in Happy Days e Beautiful. Le star portate sul palco suonano stanche, ricordo di quella Grande America promessa da Trump che non è mai esistita ma che se si è un bianco della suburbia si ama ricordare come tale (non era meglio per chiunque quando si avevano 30 anni in meno?). E così Spadino (così era Scott Baio in italiano) parla come un membro della comunità italoamericana di Staten Island: lavoratore, serio, cristiano e sanamente conservatore. Non estremo, ma impaurito per il mondo che cambia. Un’America stanca e superata, che sarà anche stata grande, che merita un posto a tavola anche domani ma che non può pretendere di fermare il tempo ai meravigliosi anni 80 del boom immobiliare e della Borsa e del trionfo nella Guerra fredda.

Le star, come l’apparizione alla Rocky Balboa tra il fumo e la musica di We Are The Champions dei Queen suonano come uno show Tv superato. Certo, ovunque nel mondo occidentale l’elettorato senior partecipa di più al voto, ma anche gli anziani guardano le serie Tv contemporanee. Qui sembrava di vedere un mix tra le trasmissioni estive del mattino di Rai 1 e Uomini e donne di Maria De Filippi in salsa politica. L’idea che il candidato si presenti la prima sera sul palco e introduca lui la moglie, anche, è fuori dalla prassi. Il fatto è che Trump non riesce ad aspettare il giorno dell’incoronazione: vuole e vorrà parlare, esserci. Questa non è la convention del partito che ha fatto di tutto per impedirgli di diventare il candidato e che lo ha frenato quando voleva imporre ospiti e tempi che avrebbero reso l’appuntamento di Cleveland peggiore di quel che è (o più divertente, ma non è questo il punto). Questa convention è la sua.

Le pantofole di Nancy e Ronald Reagan. Mai più senza

La convention della destra rabbiosa

I momenti efficaci, vincenti, della prima serata sono stati quelli nei quali gli speaker urlavano il loro risentimento dal palco. Attacchi virulenti contro Hillary Clinton, «che porta la responsabilità della morte di mio figlio e mi ha chiamata bugiarda», come ha detto Patricia Smith, madre di Sean, uno dei morti nell’attacco contro l’ambasciata americana di Bengasi. O come lo sceriffo Clarke Smith, ex democratico, afroamericano, che ha cominciato il suo discorso dicendo «Le vite blu contano (parafrasando Black Lives Matters)» e ricordando i poliziotti morti e dicendosi felice che «le viziose inchieste sui poliziotti a Baltimora sono state respinte e i miei colleghi di quella città assolti». Lui e poi Rudy Giuliani hanno promesso pugno duro contro il «collasso dell’ordine costituito che io chiamo anarchia (come ha detto Smith). L’ex sindaco di New York, l’uomo della tolleranza zero che ha ripulito la metropoli e reso possibile quel boom immobiliare che l’ha svuotata dei poveri, ha promesso che Trump farà per l’America quel che lui ha saputo fare a Manhattan. L’idea di fondo ripetuta in maniera ossessiva è quella del «Le cose vanno male e Donald le aggiusterà», «Noi contro di loro», dove loro sono i politici, la vecchia navigata e cinica Clinton, contro il non-politico Trump. Anche in questo caso è il candidato contro Washington, non il partito contro l’altro. Funzionerà questo populismo rabbioso e negativo che racconta che i terroristi stanno invadendo il Paese e fa parlare dal palco i fratelli di un poliziotto di frontiera ucciso da messicani che cercavano di passare il confine? Lo vedremo a novembre. Per ora tutti i passaggi suonano stonati. Ma è pur vero che con questo spettacolo mediocre e rumoroso diversi populisti hanno vinto le elezioni.

PS La risposta della campagna Clinton, che intanto lavora a rifinire i dettagli della convention di Philadelphia, è nervosa: 25 mail di risposta agli attacchi (e anche parlando d’altro) nella mail del cronista in una serata

Il fallimento delle élites. Caffè del 19 luglio 2016

Il mondo a Erdogan: fermati! Questo titolo, di Repubblica, riassume in sé i timori, le speranze, l’impotenza delle élites occidentali davanti a quel che sta succedendo a Istanbul. Fermati! Bisognava dirlo a Erdogan quando si è fatto protettore dei fratelli musulmani e poi ha stretto alleanza con gli wahhabiti. Fermati! Bisognava gridarlo quando il governo turco ha sostenuto l’Isis pur di liberarsi da Assad. Quando ha rotto la tregua con i curdi prendendo a bombardare le postazioni oltre confine dalle quali combattevano l’Isis poi i loro villaggi all’interno della Turchia. Fermatevi, siete pazzi, il vostro è il secondo esercito della Nato! Lo si sarebbe dovuto dire ai generali turchi, che quanti lacci hanno con l’alleanza atlantica, quando abbatterono un aereo russo. Fermatevi! Bisognava dirlo al governo e al partito del presidente quando in Turchia si è votato per due volte nel 2015 in mezzo alle stragi e agli attentati, usando attentati e stragi per vincere nelle urne con la strategia della tensione. Quando i giornalisti venivano arrestati e imputati di alto tradimento perché avevano portato prove dei rapporti con l’Isis, quando i giornali venivano chiusi e un avvocato difensore dei curdi ucciso per dare l’esempio. Giornali. Invece la Nato ha scelto Erdogan contro Putin. Invece Angela Merkel ha promesso ai turchi la libera circolazione e, domani, l’ingresso in Europa, a condizione che fermassero in Asia il viaggio verso Berlino dei profughi siriani.
Ora è tardi, ora Erdogan non sa che farsene dell’alleato titubante, non si aspetta più solidarietà dalla Nato, dagli Usa, dall’Unione Europea. Ora detta le sue condizioni. Cerca di contare sul futuro di Damasco e di Baghdad andando a Mosca in agosto per trattare direttamente con Putin. Ora è disposto persino a dialogare con il governo di Assad per sedersi al tavolo della spartizione del Medio Oriente. Ora si è liberato del comando della seconda e della terza armata, poste a presidio delle frontiere calde dove si giocano le sorti della guerra contro il califfo e della possibile nascita di uno stato curdo. Ora sta compiendo una brutale epurazione delle classi dirigenti turche e islamiche, con il sostegno della piccola e  piccolissima borghesia e del popolo delle moschee. Ora accusa gli americani di usare il presunto burattinaio Gülen per dire alla Turchia cosa debba e non debba fare. Ora risponde all’Europa che gli intima di non reintrodurre la pena di morte con la forza dei voti: “non mi opporrò se il Parlamento la volesse contro i golpisti!” Ora tutto è più difficile per l’Occidente.
Trovare prima un accordo con Mosca, favorire la nascita di uno stato curdo. Solo così Washington, Parigi, Berlino e Roma potrebbero vedere il bluff di Erdogan. Accettando una soluzione negoziale per l’Ucraina e ritirando le sanzioni. Poi offrendo a Putin e agli ayatollah di Teheran un tavolo negoziale per immaginare il futuro di Siria e Iraq dopo la cacciata (o l’uccisione) dell’ultimo soldato del califfo. E ventilando la nascita di una stato curdo plurinazionale, con una regione irachena, una siriana, l’altra turca autonome ma legate in una sola federazione . Senza poter usare l’antagonismo Mosca Washington, senza più in mano il ricatto migratorio, costretto a dialogare con i curdi, Erdogan dovrebbe gioco forza ridimensionarsi. Il fallito tentativo di pronunciamento militare, che egli ha definito “un regalo di Dio”, diventerebbe per lui un avviso di sfratto, il segno di un dissenso e di una sfiducia profonda fra la sua stessa gente. Le classi dirigenti di Istanbul e Ankara alzerebbero di nuovo la testa, la piccola borghesia e il popolo delle moschee capirebbero che il ritorno al boom economico non passa più per il nazionalismo e la demagogia del loro presidente. L’islam turco, più colto e tollerante, troverebbe parole contro i predicatori wahhabiti.
Ma l’Occidente è malato. L’America è alle prese con la demagogia di Trump che vorrebbe cacciare islamici e messicani, che difende il proliferare delle armi da guerra e poi chiede il pugno di ferro contro gli ex marine neri che usano quelle armi contro poliziotti che, a loro volta, troppo spesso sparano sugli afro americani. L’Europa finge di credere che la crisi ucraina sia responsabilità solo di Mosca e non anche del governo di Kiev, insediato da un colpo di stato e appoggiato da milizie fasciste. Londra nomina ministro degli esteri un uomo che ha definito “nazional socialista” l’Europa a guida tedesca e “un’infermiera sadica” la candidata democratica alla Casa Bianca. A Parigi Sarkozy gareggia con Le Pen nel dire ai francesi che il terrorismo e la follia si battono usando il “kächer – un prodotto stura lavandinii- contro la “racaille”, cioè gli immigrati magrebini di seconda e terza generazione.
Pare di cogliere una qualche «animosità contro il suffragio universale» -scrive oggi Paolo Mieli citando Luca Ricolfi- o meglio contro il popolo tout court da parte di una «élite che lo rispetta (il popolo) quando “fa la cosa giusta” ne prende commiato quando fa quella sbagliata». “Gli elettori sono diventati un insieme di essere umani che «benpensanti e governanti illuminati» considerano, sotto sotto, «cieco e abbindolabile, fino al punto di votare contro i propri interessi». Sicché il loro voto vale sì, ma fino a un certo punto”. “Queste acute notazioni di Ricolfi – conclude Mieli- ci inducono a riflettere meglio sui sentimenti di «attesa» che nella notte di venerdì scorso hanno paralizzato le cancellerie europee e quella statunitense. Gli eletti da un popolo che, secondo i «governanti illuminati» dell’Occidente, ha fatto la «scelta sbagliata» sono considerati dal consesso internazionale rimuovibili per via putschista”. Avrebbero preferito che i generali si liberassero di Erdogan, ma il colpo di mano è fallito e allora “i governi illuminati” tornano a sperare che il presidente turco si corregga da solo, tornano a fare scongiuri, a mettere la testa sotto la sabbia e a subire.

Caro Paolo Borsellino, la favola s’è rotta

PALERMO - SI RIAPRE IL CASO BORSELLINO - LE DICHIARAZIONI DI UN PENTITO POTREBBERO PORTARE ALLA REVISIONE DEL PROCESSO PER LA STRAGE DI VIA D AMELIO DEL 1992 - PAOLO BORSELLINO (Agenzia: EMMEVI) (NomeArchivio: BORS0w4y.JPG)

Caro Paolo,

anche oggi è il 19 luglio e un anno ancora è via d’Amelio, la bomba, la scorta, il dolore e i vostri tronchi anneriti per terra. Una commemorazione sciancata, qui da noi, il 19 luglio: ricordiamo tutti gli anni una storia che nessuno s’è preso la briga di raccontarci. Abbiamo i buoni, morti, e ci mancano i cattivi. Abbiamo un processo che si è riaperto dopo vent’anni come le ossa che sono state saldate male dopo una frattura e vanno spezzate di nuovo per sperare di guarirle, siamo pieni di gente che commemora anche se nessuno sa.

Caro Paolo,

quella menti raffinatissime si sono fatte Stato e i coglioncelli mafiosi al loro servizio sono stati beffati. Alla fine lo Stato s’è infiltrato nella mafia, mica il contrario, e ogni boss che muore è un’assicurazione sulla vita di quelli che rimangano.

Non sparano più, caro Paolo: un decreto costa meno del tritolo e fa pure meno rumore. La mafia è sparita dall’agenda della politica e un senatore arrestato sembra al massimo un inciampo che può capitare.

Caro Paolo,

il 19 luglio, alla tua commemorazione s’è fatto il deserto. Mica di gente, quella no, quella continua a cercarti con l’agenda rossa in mano ma i politici e le istituzioni sono spariti dal radar: in via d’Amelio ogni anno si racconta una favola rotta.

Una favola schifiata con i protagonisti che hanno dimenticato la parte, e balbettano qualcosa, come alla recita d’asilo provata male, e s’imbarazzano nascondendosi in quinta.
Una favola con i buoni che finiscono per la colpa di volere iniziare, i cattivi sott’aceto e un funerale lavato con il borotalco.
Una favola stuprata, che per quattro monete il gatto e la volpe si sono rivenduti il finale.
Una favola coperta con il lenzuolo bianco, un lenzuolo che figlia muffa mentre soffoca il sole.
Una favola che si arrotola nei processi, che si mescola e impunita ride. Come un disegno che non si capisce da che lato guardarlo.
Una favola che non si sono nemmeno presi la briga di raccontarci e già speravano che si fosse addormentata.
Una favola tutta rutti e sorrisi, rigurgiti e strette di mano.
Una favola che sta scritta nelle cose non dette, con il principe chiuso a chiave dentro il cesso, la principessa a forma di macchia sul muro e il cavallo bianco cucinato alla griglia.
Una favola dove non si capisce chi ha posato i fiori e chi ha posato le bombe.

Una favola rotta, appunto.

Buon martedì.

Doping, respinto il ricorso di Schwazer. Ma l’ipotesi Rio resta aperta

Alex Schwazer parla con i giornalisti a Vipiteno, (Bolzano), 13 Luglio 2016. ANSA/ ROBERTO TOMASI

Vipiteno, Roma, Losanna. Le ultime flebili speranze per di partecipare alle Olimpiadi di Rio si giocano tutte qui. In quello che ha assunto i tratti di un giallo sportivo con pochissimi precedenti. Una storia piena di elementi illogici, restrizioni (de facto) delle possibilità di difesa e di pesanti accuse di complotto. Ieri il Tribunale arbitrale sportivo (Tas) di Losanna ha respinto la richiesta di sospensiva promossa dai legali di Alex Schwazer. Lo stop cautelare per il presunto nuovo caso di doping quindi resta in vigore, ma servono nuovi approfondimenti e già nell’udienza della prossima settimana, tra il 26 e il 28 luglio, si entrerà nel merito con l’audizione dell’atleta altoatesino, del suo avvocato e dell’allenatore – e storico protagonista della lotta al doping – Sandro Donati.

Resta in piedi, dunque, la speranza di fare rotta su Rio e affrontare la gara dei 20 km il 12 agosto e quella dei 50 il 19. Così, per il marciatore, il preparatore e il legale Gerhard Brandstaetter continua lo sprint per ribattere (in tempi utili) all’accusa di una nuova positività a un test antidoping a sorpresa effettuato a gennaio 2016 con esito negativo e che, invece, rianalizzato a maggio, avrebbe riscontrato livelli di testosterone sopra la norma.

A Vipiteno, davanti ai giornalisti, la scorsa settimana Schwazer ha assicurato la propria estraneità, mentre il suo legale ha denunciato la quasi impossibilità di reagire giuridicamente alle accuse (che hanno comportato la sospensione del marciatore) in tempi così stretti, a qualche settimana dall’inizio delle Olimpiadi. Il ricorso contro la sospensione che la Federazione Internazionale ha comminato all’ex campione olimpico, era scattato dopo che il Tribunale nazionale antidoping di Roma si era dichiarato incompetente rispetto a decisioni della Federazione Internazionale. Ora, con la pronuncia di ieri sera, il Tas lascia aperta la possibilità che un’assoluzione di Schwazer gli consenta di partecipare ai Giochi .

Accanto alla testimonianza dell’atleta, le ombre pesanti di questo caso – che ha forti connessioni con lo scandalo del doping di Stato russo esploso nei giorni scorsi – le ha delineate con più chiarezza Sandro Donati. Giovedì scorso, dopo una notte passata in treno, il preparatore si è presentato a Roma, prima davanti alla Commissione parlamentare antimafia e poi dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, confermando senza mezzi termini l’esistenza di un complotto ai suoi danni orchestrato dai poteri contro cui, negli anni delle sue battaglie antidoping, si è scontrato.

Donati ha chiesto di «fare luce su tutto», denunciando minacce e facendo riemergere le nebbie del caso di Annamaria Di Terlizzi. Un caso gravissimo e forse dimenticato troppo in fretta. Quasi vent’anni fa, l’allora giovane ostacolista pugliese, allenata proprio da Donati, risultò positiva a un test antidoping nel quale si riscontrarono tracce di caffeina molto superiori alla norma. Un fulmine a ciel sereno per il preparatore atletico della Di Terlizzi, che già da anni era l’alfiere della lotta al doping nello sport.

Incredibilmente, però, arrivò il colpo di scena. Qualche settimana dopo, le controanalisi di rito – per la prima volta nella storia dei controlli antidoping – diedero un esito completamente diverso, evidenziando valori di caffeina bassissimi. Un’alterazione deliberata dei risultati del controllo antidoping che, qualora fosse riuscita, avrebbe screditato l’immagine di Sandro Donati proprio in quel periodo del 1997 in cui sulla stampa trapelava il dossier redatto tre anni prima con cui scuoteva i vertici del Coni, denunciando il sistema-doping dell’Epo. Una vera e propria inchiesta, quella di Donati, che conteneva nomi “grossi” e riferimenti precisi.

Nomi che poi, negli anni, la storia dell’antidoping imparò a conoscere molto bene. Nomi come quelli dei dottori Michele Ferrari e Carlo Santuccione, legati a sportivi (e ai loro coinvolgimenti in scandali di doping) come Lance Armstrong, Danilo Di Luca e Riccardo Riccò. Col passare del tempo, quei giorni pesanti del ’97, tornano alla mente come un profondo déjà-vu.

Per Donati, nell’intento di vendicarsi, alcuni destinatari delle sue denunce hanno «macellato un atleta innocente che in passato ha sbagliato, ma che è un campione immenso». Ora l’attesa è tutta concentrata sulle audizioni della prossima settimana e sulle prove testimoniali eventualmente ammesse. Schwazer confermerà la sua condotta “cristallina” e la sua voglia di volare a Rio, dove – conferma Donati – è in grado di vincere «la medaglia d’oro sia sui 20 chilometri che sui 50».

Doping di Stato russo, Putin minaccia uno “scisma olimpico”

epa05201380 (FILE) A file picture dated 28 February 2016 of Russia's Pavel Kulizhnikov in action during the men's 500m race of the ISU World Sprint Speed Skating Championships 2015 at Taereung Ice Rink in Seoul, South Korea. Russian speed skater Pavel Kulizhnikov has failed a doping test for Meldonium, his coach Dmitry Dorofeev revealed according to a report by the Guardian newspaper on 08 March 2017. EPA/JEON HEON-KYUN

Mentre si attendeva la pronuncia del Tas di Losanna sulla richiesta di sospensiva – poi negata – per Alex Schwazer, la giornata di ieri, lunedì 18 luglio, è stata contrassegnata dagli esiti del report di 103 pagine sul doping in Russia redatto da una commissione indipendente per conto dell’Agenzia mondiale antidoping, la Wada. Il docente di Diritto sportivo canadese Richard McLaren, che coordinava l’indagine, ha spiegato in conferenza stampa di aver pensato di chiedere l’esclusione dell’intera squadra russa dalle Olimpiadi di Rio che avranno inizio il 5 agosto. McLaren ha poi chiarito di non aver formulato la proposta, ma di aver raccomandato al Comitato olimpico internazionale, il Cio, di acquisire le informazioni contenute nel report e decidere.

La vicenda russa con quella dell’atleta italiano accusato di doping hanno alcuni punti in comune: a novembre 2015 Schwazer ha ricostruito davanti all’agenzia antidoping russa i casi di doping di cui era a conoscenza. Anche il ruolo nello squarciare il velo sulla situazione russa di Sandro Donati, allenatore di Schwazer e simbolo dell’antidoping in Italia e non solo, fa pensare a una ritorsioni nei confronti dell’atleta e del suo preparatore. Donati infatti si dice per niente meravigliato, dal momento che ha avuto modo di verificare la gran quantità di atleti di nazionalità russa con valori “anomali” elencati nel database che la procura di Bolzano ha sequestrato a un medico italiano coinvolto nell’inchiesta che riguarda anche Schwazer.

 

L’accusa per la Russia è pesante e riguarda anche la sfera politica della federazione, non soltanto i vertici nazionali dello sport. L’alterazione sistematica dei campioni positivi non sarebbe avvenuta soltanto ai Giochi invernali di Sochi del 2014 ma almeno da fine 2011, e addirittura i servizi segreti di Mosca hanno coperto i casi di doping agli ordini del ministro dello Sport russo Vitaly Mutko.

«Nell’ambito di un sistema di copertura dettato dallo Stato», il laboratorio accreditato di Mosca (poi l’accreditamento è stato revocato a novembre 2015) adoperato per falsificare l’esito degli esami copriva i casi di doping che coinvolgevano gli atleti russi: 508 episodi di positività falsificata su 312 atleti, compresi molti casi riguardanti atleti paralimpici, e 30 discipline coinvolte. Campioni di urine “puliti” venivano congelati e poi sostituiti a quelli “dopati” prelevati in concomitanza dei Giochi di Sochi. Agli atleti veniva anche somministrato un cocktail di tre steroidi – noto come Duchessa, dal nome di un drink russo – sciolto nel liquore, che veniva messo in bocca e poi sputato. I campioni venivano scambiati tramite un foro nel muro grazie alla complicità di un agente dei servizi russi sotto copertura.

I test falsificati per ciascuna disciplinadoping flow chartwada_disappearing_pos

Preziosa, ai fini della realizzazione del report, la collaborazione di Grigory Rodchenkov, ex direttore del laboratorio antidoping russo fuggito negli Stati Uniti dopo la morte in circostanze misteriose di due colleghi. A seguito della pubblicazione del report, la Wada ha invitato il Cio a negare la partecipazione degli atleti russi a Rio 2016 e fino a quando il Paese non dimostrerà di aver ottenuto un «cambiamento culturale» ha detto il portavoce Ben Nichols. Non si è fatta attendere la reazione del Cremlino, dal quale è arrivata un’aspra critica a quelle che Mosca definisce «un pericoloso ritorno di interferenze politiche nello sport».

Il presidente russo Vladimir Putin fa un riferimento esplicito al boicottaggio internazionale delle Olimpiadi di Mosca del 1980 per l’intervento delle truppe sovietiche in Afghanistan, e a quando «quattro anni dopo l’Urss per ritorsione rispose con il boicottaggio dei Giochi di Los Angeles». Putin assicura che i dirigenti pubblici sotto inchiesta verranno sospesi ma al tempo stesso paventato il rischio di una scissione del movimento olimpico. «Sì – aggiunge -, le forme di tali interferenze sono cambiate, ma l’obiettivo è lo stesso di prima: rendere lo sport uno strumento di pressione geopolitica».

Un primo segnale sulla fondatezza delle accuse e sull’entità del fenomeno è atteso a stretto giro. Il mese scorso l’Associazione internazionale delle federazioni di atletica ha bandito la squadra di atletica russa dai Giochi di Rio. Giovedì 21 luglio è atteso il verdetto del ricorso al Tribunale arbitrale dello sport di Losanna.

Calci, pugni e pietrate. Questa volta è toccato a Mohamed

Pochi giorni prima dell’aggressione sfociata in tragedia contro Emmanuel a Fermo, era toccato a due cittadini del Bangladesh insultati e picchiati da un gruppo di italiani a San Benedetto del Tronto. Questa volta è toccato a Mohamed, 19 anni, di nazionalità senegalese, che vive e lavora a Imperia in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato politico. Mohamed non ha riportato ferite gravi ma è ancora in stato di choc. Poteva andare peggio, certo. Ma, siamo convinti, vale la pena raccontare l’ennesima aggressione razzista nel nostro Paese.

Una pietra in testa lanciata dai cespugli del lungomare di Imperia, nel buio della notte. Mohamed, che sta rientrando dal ristorante dove fa il lavapiatti verso il centro in cui è ospite, lascia cadere la sua bicicletta per terra. Sta sanguinando. E gli aggressori, in sei, vengono allo scoperto. Calci e pugni, al volto e al torace: «Sei un negro di merda, vattene via dall’Italia». Le botte non si fermano fin quando un automobilista inchioda, scende dall’auto e mette in fuga gli aggressori.

«Era mezzanotte, avevo appena finito il turno di lavoro e con la mia bicicletta stavo andando a dormire presso l’alloggio assegnatomi dalla cooperativa Jobel, in via Argine Destro. All’altezza del passaggio a livello di lungomare Vespucci, sei giovani, italiani, mi hanno preso a pietrate. Mi sono fermato, sanguinavo. Ho chiesto per quale motivo mi avevano tirato le pietre. Poi si sono avvicinati e mi hanno aggredito urlando frasi razziste». Sono le parole con cui Mohamed ha raccontato ai carabinieri l’aggressione avvenuta la notte di martedì 12 luglio e riportata dal SecoloXIX solo domenica. Mentre i carabinieri di Imperia indagano – anche se non possono contare su alcuna videocamera di sorveglianza né su testimoni oculari a parte l’automobilista soccorritore – amici e datori di lavoro annunciano: «Vogliamo che gli aggressori, soggetti pericolosi per la nostra città, vengano individuati e puniti». Dalla cooperativa Jobel, il presidente Alessandro Giulla e la coordinatrice pedagogica Claudia Regina assicurano: «Mohamed non farebbe male a una mosca, lo conosciamo bene non ha provocato nessuno. È un ragazzo esile, tranquillo. Un ragazzo che, in una tranquilla notte d’estate, solo per il colore della pelle, è stato pestato da sei codardi».

Una dura condanna dell’episodio arriva dal sindaco di Imperia Carlo Capacci, che raggiunto da Left tiene a precisare: «La nostra non è una città razzista: si tratta di un evento isolato dettato anche dal clima di tensione che interessa tutto il Paese e in queste ultime settimane la nostra provincia, data la vicinanza con il confine francese. Sono certo che le indagini condotte dalle forze dell’ordine individueranno i colpevoli di questo deplorevole gesto. I sentimenti degli imperiesi nei confronti dei cittadini stranieri sono stati ben rappresentati dall’automobilista che ha soccorso Mohamed e che voglio ringraziare a nome di tutta la città».

Amianto alla Olivetti, condannato l’ingegner De Benedetti a 5 anni e 2 mesi

L'intervento del P.M. Laura Longo durante l'udienza del processo all'Olivetti per l'utilizzo di amianto, Ivrea (Torino), 11 gennaio 2016. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

L’ingegner Carlo De Benedetti è stato condannato a cinque anni e due mesi per le morti sospette da amianto di ex operai della Olivetti. Dal tribunale di Ivrea arriva un’altra sentenza storica di condanna contro gli imprenditori italiani per non aver tutelato la salute dei lavoratori dal rischio costituto dalle micidiali fibre di amianto, responsabili di gravi malattie tra cui il mesotelioma. Oggi la sentenza della giudice Elena Stoppini – che ha pronunciato 13 condanne – ha accolto quasi del tutto le richieste dei pm Laura Longo e Francesca Traverso. Nei confronti di De Benedetti la richiesta dei pm era infatti di 6 anni e 8 mesi per omicidio colposo e lesioni. I vertici dell’azienda piemontese, secondo l’accusa, non hanno preso quei provvedimenti necessari per garantire la salute dei lavoratori, compresa anche la bonifica dei luoghi di lavoro. Condannato anche il fratello di Carlo, Franco De Benedetti, sempre a cinque anni e due mesi, mentre per l’ex ministro Corrado Passera che fu amministratore delegato della Olivetti «per poco tempo e nell’ultimo periodo contestato dall’accusa» dice il suo avvocato, la condanna è stata di un anno e 11 mesi. Fra i tre assolti figura Roberto Colaninno, che era chiamato in causa per un solo caso di lesioni colpose. Due milioni gli indennizzi previsti alle parti civili, secondo quanto si ricava dal dispositivo della sentenza del giudice Stoppini. Le somme dovranno essere versate “in solido” dagli imputati condannati, a seconda delle singole posizioni, e da Telecom, chiamata in causa come responsabile civile. Persone fisiche da risarcire ma anche l’Inail, per la quale il totale della somma supera i 710 mila euro. Non solo. Le altre parti civili, fra cui enti territoriali, sindacati e associazioni, potranno rivalersi in sede giudizaria. Soddisfazione è stata espressa da Laura D’Amico, avvocato della Fiom Cgil: «Perché dopo un dibattimento molto duro e combattuto, soprattutto da parte delle difese, è emersa la verità ed è stata data giustizia alle vittime».
Ci saranno inoltre altri accertamenti sull’ingegnere Carlo De Benedetti relativi alle morti da amianto alla Olivetti, secondo quanto ha ordinato la giudice Elena Stoppini che, come avevano chiesto i pm, ha disposto la trasmissione degli atti in procura per tre decessi attribuiti a un tumore polmonare e non, come accaduto in un primo tempo, a un mesotelioma.
«Sono stato condannato per reati che non ho commesso», dice  De Benedetti che si definisce «stupito e molto amareggiato per la decisione del Tribunale di Ivrea di accogliere le richieste manifestamente infondate dell’accusa». L’imprenditore presenterà ricorso in appello. Intanto ha parlato dell’«ampia documentazione prodotta in dibattimento sull’articolato sistema di deleghe vigente in Olivetti e sul completo e complesso sistema di tutela della sicurezza e salute dei lavoratori, da me voluto e implementato fin dall’inizio della mia gestione». I servizi interni preposti alla sicurezza e alla salute dei lavoratori e alla manutenzione degli stabili – dice – «non mi hanno mai segnalato situazioni allarmanti o anche solamente anomale in quanto, come emerso in dibattimento, i ripetuti e costanti monitoraggi ambientali eseguiti in azienda hanno sempre riscontrato valori al di sotto delle soglie previste dalle normative all’epoca vigenti e in linea anche con quelle entrate in vigore successivamente». Il talco contaminato da fibre di amianto, continua De Benedetti, non è stato acquistato dall’azienda fin dalla metà degli anni 70.

Il nome Olivetti a Ivrea è chiaramente il simbolo di una storia che comincia con la fabbrica “ideale” di Adriano Olivetti. Una sentenza, quella di oggi, che “fa chiarezza” ma che in ogni caso «non cancella la storia della Olivetti e quello che l’azienda ha dato alla nostra città», ha detto il sindaco Carlo Della Pepa per il quale è giusto distinguere la fabbrica degli anni 60 da quella degli anni 80.
Il capitolo delle morti per amianto forse continuerà ad avere delle ripercussioni in sede giudiziaria. «Non solo perché le statistiche dicono che purtroppo le persone continueranno a ammalarsi e morire anche nei prossimi anni, non solo perché sicuramente le difese ricorreranno in appello, ma anche perché sono già in stato avanzato i lavori istruttori di processi per altre morti di amianto in Olivetti», dice Federico Bellono, segretario provinciale della Fiom Cgil. Riflettori accesi dunque su Ivrea e su quella storia industriale un tempo gloriosa e anche utopica e adesso, come dimostrano le condanne di primo grado, addirittura pericolosa per la vita dei dipendenti.

Trump pericoloso come Goldwater: lo spot di Hillary uguale ma 50 anni dopo

Lo stesso attore e lo stesso spot. Solo più breve che i tempi Tv e Web sono diversi. Nel giorno in cui si apre la convention repubblicana, la campagna Clinton lancia uno spot dal titolo “Confessioni di un repubblicano II”. La versione I era andata in onda nel 1964, quando Lyndon Johnson, che raccolse l’eredità di Kennedy e che fece approvare alcune tra le leggi migliori della storia americana – il civil rights act, Medicare e Medicaid, le assicurazioni sanitarie per anziani, poveri e bambini, la televisione e le radio pubbliche – distrusse il senatore dell’Arizona Barry Goldwater.

Goldwater, che è una delle prime figure considerate chiave per la rinascita conservatrice dei repubblicani, che dopo Johnson hanno conosciuto un trentennio e più di egemonia assoluta nella politica americana, vinse solo al Sud, che votava per la prima volta repubblicano per protestare contro le leggi sui diritti civili volute da Johnson, Eppure, alcuni dicono che lo sconfitto senatore dell’Arizona, fu il primo a porre le basi ideologiche e di policies che diedero il il tono al partito per gli anni successivi. Fatto sta che le sue posizioni radicali, all’epoca, si potevano dipingere come pericolose, non affidabili. E che Johnson mandò in giro uno spot in cui un repubblicano in difficoltà che si confessa dicendo: «Ho votato Eisenhower, mio padre e mio nonno erano repubblicani, ma questo non lo voto, perché non mi fido». Oggi, a 50 anni di distanza, lo stesso attore, prova a parlare ai bianchi d’America dicendo le stesse cose: «Se parliamo di Trump, ve lo dico, quell’uomo mi fa paura e siccome penso che non votare sia far decidere gli altri, voterò contro di lui». Ecco i video

Confession of a republican II (2016)

Confession of a republican (1964)

La memoria resistente: 80 anni dalla guerra civile spagnola

«La memoria è una corrente di pensiero continua, di una continuità che non ha nulla di artificiale, poiché non conserva del passato che ciò che ne è ancora vivo, o capace di vivere nella coscienza del gruppo», scrive Maurice Halbwachs, filosofo francese pioniere delle ricerche della sociologia della memoria. Sono passati ottanta anni dall’inizio della guerra civile spagnola (17 luglio 1936 – 1 aprile 1939) e molti sono i nodi storici che continuano a vivere nella coscienza civile spagnola.

La guerra simbolica e la desaparición

L’autoritarismo dei falangisti di Francisco Franco contro la repubblica del Fronte popolare, l’aristocrazia contro il ceto proletario e infine il primo scontro armato tra fascismo e antifascismo della storia. Questi alcuni dei riferimenti simbolici che disegnano il quadro di un avvenimento storico complesso che intreccia in maniera esemplare le ragioni nazionali ed internazionali alla base del secondo conflitto mondiale.

La Spagna della prima metà degli anni 30 vive una stagione di grande instabilità sociale, politica ed economica. Divisa tra un’aristocrazia reazionaria (urbana e possidente) e un ceto popolare influenzato dall’ideologia anarchica e sindacalista, il Paese vive una stagione di grande fragilità politico-istituzionale. Dopo il crollo della dittatura del generale Rivera nel gennaio del 1930 e quello della monarchia nell’agosto di quello stesso anno, la neonata repubblica spagnola subisce tra il 1932 e il 1934 un fallito colpo di stato militare e un’insurrezione anarchica. Mentre i ceti proletari si avvicinano al Fronte popolare (di stampo prevalentemente repubblicano) i reparti militari spagnoli e parte del ceto nobiliare sostengono la falange coloniale. Chiamati anche Africanisti, i falangisti sono i veterani delle guerre coloniali spagnole in Nord Africa. Comandati dal generale Francisco Franco, i contingenti sono animati da un fervente nazionalismo che, come sarà per buona parte dei fascismi europei, è caratterizzato da uno spiccato anti-modernismo, da un’opposizione ferma al comunismo e da un uso intimidatorio della violenza come strumento di controllo politico. É  dalla colonia di Melilla, piccola roccaforte sulla costa marocchina, che la falange parte il 18 luglio 1936 alla volta del continente repubblicano.

Le forze repubblicane, oggi ricordate come antifasciste, nei primi mesi della guerra riescono a resistere all’attacco dei falangisti. Il paese viene diviso in due, il Nord cade sotto il controllo delle forze del generalissimo Franco, mentre Madrid e il resto della Spagna restano – in un primo momento – sotto il controllo delle forze del Fronte popolare che accoglie disordinatamente comunisti, repubblicani, arditi, anarchici e il supporto delle Brigate Internazionali. Nell’autunno del 1938, i falangisti si spostano verso Madrid e di lì a qualche mese ottengono il controllo del paese. Francisco Franco lancia l’offensiva finale alla capitale all’inizio del 1939, la città di Madrid cade e il 1 aprile di quello stesso anno la guerra finisce. Inizia così la dittatura del generalissimo che si conclude alla sua morte, nel 1975.

I valori che oggi vengono riconosciuti come propri dell’antifascismo e che allora configurarono la resistenza – soprattutto popolare – alle forze nazionaliste di Franco riecheggiano nel ricordo delle forze della sinistra spagnola. Izquierda Unida e Podemos rilanciano oggi l’hastag #18deJulio e rivendicano come fondativo il sacrificio di coloro che si batterono per la difesa della democrazia.


Al ricordo che celebra la memoria, si unisce la condanna sempre viva delle violenze di quanto accaduto tra il luglio del 1936 e l’aprile del 1939. L’uso della violenza durante la guerra civile spagnola fu declinata in modi diversi e con brutale intensità. Ci fu la violenza anticlericale scagliata dai ceti popolari contro il clero e la borghesia cattolica delle campagne, ci fu la violenza politica che ha contrapposto le forze repubblicane a quelle falangiste e poi quella ideologica che ha visto opporsi le forze fasciste a quelle antifasciste, l’Italia e la Germania all’Unione Sovietica e le forze delle brigate internazionali (formate dai volontari di 52 paesi) a quelle militari. In ultimo, la violenza sommaria impiegata dalle forze vicine a Franco al consolidamento del suo regime. L’uso della desaparecion, l’impiego di fosse comuni e di esecuzioni sommarie della popolazione hanno lasciato una ferita profonda nella memoria sociale del Paese. Senza un riconoscimento formale e fattuale di quelle morti non può esserci elaborazione del lutto e della memoria. Per questo oggi, all’anniversario degli 80 anni della guerra civile spagnola, il peso di quelle morti – per lo più di regime – non può essere scisso dal ricordo e dalle celebrazioni di ciò che accadde in Spagna.

Mark in Nigeria faceva lo stilista. Ecco perché é dovuto fuggire

«Non avrei mai pensato che il mare fosse così grande», inizia così la storia di Mark, 23enne nigeriano. «In Nigeria – racconta – facevo lo stilista, ho studiato per diventare fashion designer e poi sono riuscito ad avviare una mia attività. Era un buon lavoro…» dice con un velo di tristezza e rimpianto nella voce.

Poi un giorno nell’ufficio di Mark sono arrivati degli uomini, «dicevano che dovevo aiutarli, che io avevo un lavoro, chiedevano denaro e mi minacciavano se non glielo consegnavo» racconta lo stilista nigeriano. «Hanno ammazzato mio padre, mia madre mi ha pregato di fuggire» e così Mark è partito alla volta dell’Italia, alla ricerca di un posto sicuro dove rifugiarsi e costruirsi una vita. Ma prima di arrivare in Italia, ci sono due passaggi obbligati da fare per chi arriva dall’Africa sub-sahariana come Mark: la Libia con i suoi trafficanti e il Mediterraneo, quella immensa voragine blu da attraversare a bordo di un minuscolo gommone. «Ora sono in Italia – sorride Mark – e fino a che potrà confezionare qui i miei vestiti, sarò felice come non mai».

Questa testimonianza fa parte del progetto #TuNonSaiChiSonoIo che racconta storie di migranti arrivati in Italia. Il progetto è frutto della collaborazione tra Agi e i giornalisti indipendenti di Next New Media. Qui puoi leggere la storia di Ibrahima.