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Genova 2001, Agnoletto: «Carlo senza giustizia, noi senza un movimento antiliberista»

Vittorio Agnoletto, nel libro “L’eclisse della democrazia” lei ha denunciato la volontà, da parte del mondo politico italiano, di bloccare l’inchiesta della procura di Genova relativa alle violenze alla Diaz e alla caserma Bolzaneto. È cambiato qualcosa rispetto ad allora?

Quanto è avvenuto in questi ultimi anni conferma quello che noi avevamo scritto in occasione del decennale di Genova. Le sentenze, per quanto riguarda la Diaz e Bolzaneto, ricostruiscono quanto avvenuto, che è assolutamente sovrapponibile con quello che già allora il movimento ed io avevamo dichiarato. Oggi abbiamo una verità giudiziaria e processuale che si sovrappone alla verità storica e a quello che noi dicevamo allora. Nonostante questa verità, nessuno dei massimi responsabili di quanto accaduto ha pagato. Molti reati sono stati prescritti e anche i condannati non hanno fatto un solo giorno di detenzione. Su Bolzaneto e Diaz manca giustizia. I magistrati che hanno condotto l’inchiesta sono stati isolati dal sistema politico che ha spinto perché quelle indagini non andassero avanti.
Ma prima di tutto non possiamo dimenticare che manca la verità sulla morte di Carlo. Quel processo non si è voluto realizzare.

Come legge la sentenza della Corte Europea del 2015, che condanna l’Italia per l’assenza del reato di tortura? Ieri il via libera alla legge è saltato di nuovo.

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ribadisce che, nonostante l’Italia abbia firmato, nel 1984, la Convenzione sulla tortura, ad oggi, non c’è una legge. La cosa è grave, perché negli altri Paesi che hanno firmato la Convenzione la legge c’è. É inaccettabile l’opposizione dei vertici della Polizia e dei carabinieri alla sua approvazione, oltre che incomprensibile: chi ha motivo per opporsi ad una legge che sanziona chi pratica la tortura? A meno che si ritenga che chi lavora nella sicurezza dello Stato si collochi al di sopra delle leggi e quindi possa praticare anche la tortura. Questo sarebbe assolutamente anti-costituzionale. I magistrati che hanno condotto i processi di Genova già allora avevano indicato la gravità dell’assenza di questa legge.
Inoltre, non si è riusciti ad ottenere i codici di riconoscimento sulle divise di polizia e carabinieri: nessuno dei poliziotti che ha praticato violenze alla scuola Diaz è stato condannato proprio perché avevano il volto coperto, e quindi le vittime non hanno potuto riconoscerli. Se ci fossero stati dei codici di riconoscimento, come negli altri paesi europei, ogni poliziotto avrebbe risposto delle proprie azioni. Anche qui la richiesta è semplice: che la legge sia uguale per tutti. Il sistema politico italiano, rinunciando a questi due provvedimenti, ha dimostrato la propria subalternità ai vertici delle forze dell’ordine.

Quali erano le finalità politiche del movimento di Genova? E quanto ha influito la violenza di quei giorni nel raggiungimento di quegli obiettivi?

Susan George, all’epoca presidente di Attac France, il 16 luglio del 2001, aprendo il social forum di Genova, disse: «Questo è il primo movimento in Europa che non chiede nulla per se stesso, ma che lotta per migliorare il futuro di tutta l’umanità». Non era un movimento che rivendicava qualcosa verso questo o quel governo, ma voleva interpretare la condizione del 90% dell’umanità. La battaglia per i «beni comuni» comincia proprio in quegli anni e il primo bene che il movimento ha individuato è stata l’acqua. Poi c’è stato il grande tema della lotta contro l’industria militare che trae grandi profitti dalla produzione di conflitti grazie alla vendita delle armi.
É stato il movimento che ha posto la questione della Tobin Tax, la tassa sulle transizioni finanziarie e speculative, enunciando con chiarezza che se la finanza avesse dominato l’economia, avremmo avuto in tutto il mondo una grave crisi sociale ed economica. Come poi è stato. Quel movimento, poi, si opponeva alle politiche di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale nel sud del mondo, che hanno distrutto lo stato sociale. Quei programmi sono gli stessi che hanno ridotto la Grecia nelle condizioni economiche in cui è oggi.

Si dice che il movimento sia stato distrutto dalla repressione di Genova. Tuttavia, durante la guerra in Iraq sono scese in piazza milioni di persone, e il referendum del 2011 è stato vinto con le parole d’ordine di quegli anni. È davvero tramontato dunque?

Nel 2000-2001 il Forum sociale mondiale che nasce a Porto Alegre realizza forum in Africa, in Asia, in Europa e in America Latina. I poteri forti hanno avuto paura del consenso e della crescita di questo movimento, che otteneva consensi anche in settori molto diversi fra loro, non solo dentro la sinistra. In Italia, all’epoca anche Famiglia cristiana, settimanale sicuramente non interno al movimento, ha verificato, attraverso diverse inchieste, l’enorme consenso trasversale che raccoglievano i temi vicini al movimento.
Viene quindi deciso di reprimerlo duramente: prima a Praga, in occasione di un vertice internazionale, poi a Napoli, con un governo di centro-sinistra, nel marzo 2001, e infine a Genova, dove si raggiunge l’apice. L’obiettivo è distruggere materialmente il movimento, criminalizzarlo e screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica. C’è addirittura chi chiede che il Genoa social forum sia dichiarato associazione sovversiva, per fortuna i magistrati si rifiutano di compiere una simile follia. I media tentano di addebitare al movimento le violenze di Genova e tentano di sovrapporre il movimento e i Black bloc. Nonostante fosse stato ampiamente dimostrato che questi erano per noi degli avversari.
Il movimento è stato vittima delle forze dell’ordine, alla Diaz e a Bolzaneto. È stato vittima, nel corteo delle Tute bianche, di quella che i magistrati hanno definito: una carica «inutile e ingiustificata». Nonostante la repressione il movimento in Italia rimane forte fino al 15 febbraio del 2003, quando tre milioni di persone scendono in piazza a Roma contro la guerra in Iraq. Da lì è cominciata la sua fase calante.

Per quali ragioni?

Le ragioni sono tante: di fronte ai processi abbiamo dovuto spostare tempo e risorse per difenderci nelle aule dei tribunali, distogliendo l’attenzione da quelli che erano i grandi temi del movimento. Inoltre, la criminalizzazione ha spaventato quei settori dell’associazionismo, prevalentemente cattolico, che avevano aderito al Genoa social forum, molto composito al suo interno. Tali realtà non erano abituate a subire la repressione e molti si sono ritirati.
Però le idee allora seminate non sono scomparse, hanno lavorato sotto traccia: la vittoria nel referendum del 2011 in difesa dell’acqua pubblica trova le sue radici nel movimento di Genova. Nonostante ciò quel movimento ha perso forza ed efficacia. Noi non siamo stati capaci di far comprendere con parole semplici ai cittadini che esisteva una relazione tra quanto noi denunciavamo a livello globale e quello che il cittadino pagava nel quotidiano. Ad esempio, il fatto che le aziende venissero spostate in Romania piuttosto che nell’Estremo oriente era frutto di quei meccanismi di formazione del mercato globale e della sua progressiva finanziarizzazione che come conseguenza ha prodotto, in particolare in occidente, la perdita di numerosissimi posti di lavoro. Per fare un altro esempio: noi non siamo riusciti a spiegare come l’aumento del costo del cibo fosse legato ad alcuni meccanismi di speculazione finanziaria. Quando è arrivata la crisi che noi avevamo compreso prima di tutti, la popolazione ha trovato più facile seguire il populismo di destra.

In alcuni Paesi europei si è provato a creare una mobilitazione, pensiamo a Syriza, Podemos, e Nuit debout. In Italia no, perché?

In Italia alcuni fenomeni si sono sviluppati precedentemente. Un movimento così forte e diffuso come quello che noi abbiamo avuto nel 2001 non c’è stato negli altri Paesi europei. Noi abbiamo avuto la nascita della Lega Nord prima di altri partiti xenofobi in Europa. Per certi versi alcuni dei fenomeni a cui assistiamo oggi (l’avanzata del populismo, la repressione) da noi sono avvenuti prima. Però noi paghiamo comunque lo stesso prezzo degli altri. Le politiche di austerità non fanno altro che impoverire un numero sempre più alto di cittadini e provocano la distruzione del ceto medio; ed infatti oggi, per fare un solo esempio, il 46% del popolo italiano ha rinunciato, per ragioni economiche, ad almeno una cura medica.
Le radici di Syriza stanno pienamente dentro la vicenda genovese, questo i dirigenti di Syriza lo hanno sempre detto: Tsipras era sulla nave che nel luglio 2001 trasportava gli attivisti greci ad Ancona da dove poi avrebbero dovuto raggiungere Genova. Ma non vi arrivarono mai: la polizia italiana li caricò quand’erano ancora in porto, prima che riuscissero a toccare terra. Così come Podemos: anche i suoi leader erano a Genova. Ovviamente poi c’è stata un’evoluzione.
Qual è la lezione che arriva dalla Grecia? Che un movimento, in un solo Paese non ce la può fare. Abbiamo bisogno di un grande movimento globale, sovranazionale perché oggi l’avversario è sovranazionale. Le politiche di austerità contro le quali si sta battendo il movimento francese sono sì politiche nazionali, ma sono simili alle politiche che ci sono in Grecia, in Italia e in Portogallo. Lo scenario è globale. Il problema è che noi oggi non riusciamo ad organizzare una risposta significativa e capace di travalicare i confini di un singolo Paese.
Oggi i cittadini europei stanno pagando le scelte che i governi hanno fatto quindici anni fa quando hanno represso quel grande movimento che aveva compreso quello che sarebbe accaduto se il modello di sviluppo dominante non fosse stato modificato in profondità. Se ci avessero ascoltato oggi non saremmo travolti da questa tremenda crisi economica e sociale. A Genova dicevamo che non era accettabile che il 20% della popolazione controllasse l’80% delle risorse mondiali. Oggi l’8,7% controlla l’86% della ricchezza, siamo in un mondo che è molto più ingiusto di quello che denunciavamo allora.

Quanto pesa, oggi, l’assenza di un movimento globale come quello del 2001?

L’assenza di un movimento globale antiliberista ha lasciato lo spazio perché si sviluppassero movimenti populisti, razzisti, xenofobi e di estrema destra.
L’impegno delle forze politiche ed economiche nel distruggere il movimento del 2001, nel lasciare che le primavere arabe del 2010/2011 e i movimenti giovanili che in Turchia si erano opposti a Erdogan venissero schiacciati, ha aperto la strada da un lato ai populismi, dall’altro al terrorismo integralista. Oggi l’ unica alternativa politica possibile, in una parte  dei Paesi della sponda sud ed orientale del Mediterraneo, pare essere tra il governo militare e l’integralismo religioso. Il soggetto che manca è proprio un movimento forte e globale; coloro che hanno distrutto quello che si era sviluppato nel primo decennio degli anni 2000 dovrebbero sentirsi almeno corresponsabili della situazione attuale.
Il movimento altermondialista era l’unica alternativa che avrebbe potuto garantire un cambiamento tale da assicurare a tutti un futuro e una coesistenza pacifica.

«Carlo Giuliani è morto inculato». Senza giustizia come Cucchi, Regeni e gli altri

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«Era un porco e si è meritato la fine che ha fatto». «Mi piace ricordarlo con un buco in testa e steso sull’asfalto». Commenti di questo tipo hanno inondato la pagina facebook di ZeroCalcare ieri, sotto il post dell’iniziativa di Genova nell’anniversario del G8 del 2001 e della morte di Carlo Giuliani. Finché Facebook non ha messo fine al delirio: «Quando ho provato ad accedere mi è stata mostrata una schermata in cui mi si diceva che i miei account erano stati oscurati per colpa di quel post. Riattivando tutto il post è stato eliminato in automatico dalla pagina», dice ZeroCalcare.

Perché tanta ferocia? Perché, in fondo, «Se l’è andata a cercare» e «Non si dovrebbe rievocare un delinquente». Che importa, poi, se la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia, perché «le autorità italiane non hanno condotto un’inchiesta adeguata sulle circostanze della morte del giovane manifestante» e perché nessuna inchiesta è stata avviata per identificare «le eventuali mancanze nella pianificazione e gestione delle operazioni di ordine pubblico». E che importa se a quindici anni da quel massacro, alla Diaz e alla caserma di Bolzaneto, il nostro Paese non ha ancora introdotto il reato di tortura ma, anzi, fa marcia indietro per bocca del ministro dell’Interno.

alcuni commenti al post di ZeroCalcare
alcuni commenti al post di ZeroCalcare

Ricordo ancora una scritta – «Carlo Giuliani è morto inculato» – che imperava su un muro della mia città, Reggio Calabria, in quei giorni di quindici anni fa. Le scritte erano sui muri allora, le incontriamo anche sui social network oggi. Resta il contagio di quell’ignoranza arrogante e di quella superficialità feroce che esplode nei cervelli ingabbiati dentro i piccoli polpastrelli che sentenziano su una tastiera. La stessa che ricorre ogni qualvolta c’è da ribaltare la realtà, invertendo le vittime e i carnefici: così Carlo da essere umano si riduce a estintore, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva o Giulio Regeni a gente che se la va a cercare, esseri umani di second’ordine, come le migranti e i migranti che vengono rinchiusi nei lager d’Europa.

Carlo Giuliani è morto ammazzato esattamente 15 anni fa. Ma la verità, forse, è che Carlo non lo hanno ammazzato del tutto. E che i fatti di Genova no, non sono mai finiti. E serve a poco alimentare odio e confusione, prima o poi il nostro Paese dovrà fare i conti con Genova.

Colpo di stato, guerra civile e crisi Nato. Caffè del 20 luglio 2016

50mila persone sospese o arrestate, Repubblica. “Epurazioni di massa dentro scuole e moschee”, La Stampa. “Erdogan caccia i professori”, Corriere. Che c’è più da dire? Erdogan sta compiendo un colpo di stato: è il suo quello vero, non il tentativo fallito dei militari. Wikileaks ha pubblicato 295mila mail dell’Akp, il partito di Erdogan. Quando saranno studiate, forse riveleranno i piani di questo golpe, preparato con tutta evidenzada tempo. Non si improvvisano liste di proscrizione nelle moschee e nelle università, fra i poliziotti e nell’esercito, fra i giudici e i giornalisti. In più il colpo di stato di Erdogan ha scatenato una guerra civile (per ora, solo per ora, virtuale). Ronde di suoi seguaci pattugliano le strade di Istanbul, un popolo di funzionari, di spie, di aspiranti Imam e di incolti docenti è pronto a occupare le caselle che le epurazioni di massa hanno lasciato vuote. Per ora l’altra parte di questa guerra civile è silente, annichilita dai fatti di venerdì scorso e dall’uso che l’Akp ne sta facendo. Ma è solo questione di tempo: reagiranno i curdi, reagiranno i turchi che non vogliono diventare wahhabiti, reagiranno generali o colonnelli che si ritenevano fiore all’occhiello della Nato e si trovano un dittatore che li porta verso un patto del Mar Nero con la Russia di Putin, domani magari anche del Mar Caspio con l’Iran. Reagiranno, prima o poi. Perché violenza e demagogia non cancellano la memoria storica. La Turchia di Kemal Ataturk -il cui ritratto Erdogan vuole sempre dietro di sé- non è questa cosa qua. Non è questo Sultanato ottomano, che seppe mantenere un equilibrio tra dominatori e dominati. Nè lo è, certo, la grande civiltà bizantina il cui ricordo si respira ancor oggi in riva al Bosforo.
Ma il colpo di stato turco può avviare un disastro più grande. Si guardi al silenzio impotente della ex superpotenza americana. Obama ha chiamato Erdogan per dirgli che non sapeva del colpo di stato e per consigliargli prudenza. Di più non può fare perché ormai è un’anatra zoppa. Uno dei due candidati alla Casa Bianca, Donald Trump, è talmente modesto da rovinarsi da solo la festa del suo “trionfo” a Cleveland: manda sul palco l’ex modella slava che si è presa in moglie ma lei legge lo stesso discorso che fu fatto da Miclelle Obama 8 anni prima. You’re fired, sei licenziato, griderà Donald al ghost writer che ha filato a Melania quel testo. Qualcuno avrebbe dovuto dirlo a lui, prima che ereditasse vent’anni di stolida propaganda reazionaria e anti Washington, prima che scalzasse dal proscenio il Tea Party e i leader della destra fondamentalista cristiana, prima che ottenesse l’appoggio della lobby che spaccia armi da guerra. Trump può solo far male all’America. Hillary Clinton somiglia troppo all’America che sta in alto, che corteggia gli gnomi di Wall Street, che è parte del sistema del complesso economico- militare. Di questi tempi, è difficile farla votare, nonostante la buona volontà di Bernie Sanders. La Nato e i generali del pentagono, la Cia e i servizi segreti? Musi lunghi e facce di circostanza. Sapevano o no del pronunciamento dei militari turchi? E ora che Erdogan corre da Putin, cosa faranno? Hanno mantenuto, anzi accentuato negli anni, una cortina militare ed economica anti russa, che non tiene più. Dopo aver perso l’iniziativa in Siria, lascando a Mosca spazi inimmaginabili, si rassegneranno ora a mollare la presa sull’alleato turco, quello che schiera il secondo esercito della Nato? Non c’è che dire: è in crisi il sistema di alleanze politico-militare che per 70 anni ha garantito la pace, in occidente.
Dell’Europa non parliamo, per carità. Merkel e Gentiloni minacciano di chiudere le porte dell’Unione alla Turchia se reintrodurrà la pena di morte contro i golpisti. Che anime belle! Per non dire altro. Cosa gli fa pensare che il sultano voglia entrare a far parte della fragilissima -dopo la Brexit- Unione europea? Ad Ankara basta vender prodotti in Europa, basta ottener visti per i turchi in cambio dei servigi turchi in cambio di campi di concentramento turchi per bloccare i profughi siriani. Per il resto il nuovo dittatore di Istanbul ritiene che l’equilibrio geo politico si stia spostando a est. E scommette che i metodi di governo diventeranno ovunque più brutali e autocratici. L’europa si metta in fila.
Renzi respira: sui giornali non si parla di lui. È quasi un paradosso per un premier che aveva fondato la leadership sulla capacità di porsi al centro dell’attenzione. Ma il mondo cambia e dopo il voto di Roma e Torino la tendenza della politica italiana è a riposizionarsi. D’Alema -intervista di ieri l’altro a In Onda- sfida il premier a tutto campo: chiede che si voti No al referendum costituzionale, dimostra il pressappochismo della riforma, sostiene che se Renzi verrà battuto sarà addirittura più facile ridurre il numero dei parlamentari, superare il bicameralismo e trovare un’intesa sulla legge elettorale che non deprima la rappresentanza. Schifani lascia Alfano, sperando che risorga il centro destra. I voti di Verdini diventano così ancora più necessari per sorreggere il governo. Tanto più che Alfano fa l’Alfano, ricatta e impone il rinvio -sine die- dell’esame di un provvedimento contro la tortura. Fornaro e Speranza (minoranza Pd) propongono una legge uninominale, con primio da spartire in parti disuguali tra maggioranza e opposizioni. In sostanza si eleggerà un solo deputato per ognuno dei 475 collegi: fine del vantaggio per i fedeli del premier, ritorno delle primarie e ritorno nei giochi per le strutture locali del Partito. I renziano prendono tempo per ridurre il danno: votate sì al referendum -dicono- poi vedremo di cambiare la legge elettorale.

Caldo in aumento e ghiacci artici ai minimi. I record pericolosi del riscaldamento globale

Aumenta ancora la temperatura della superficie terrestre e si riduce ai minimi mai registrati l’estensione del ghiaccio artico. Con i loro modelli meteo e le osservazioni dal satellite, le agenzie statunitensi Nasa e Noaa continuano a registrare record infranti in tema di surriscaldamento del Pianeta. A partire da quello di giugno 2016: il 14esimo mese in cui la temperatura media sale rispetto al precedente. Non si era mai rilevata una serie di temperature record così lunga.

Il mese scorso la temperatura ha superato di 0,9 gradi centigradi la media dell’intero XX secolo e con +0.02 gradi rispetto allo stesso mese del 2005, si è rivelato il giugno più caldo dal 1880, anno in cui ha avuto inizio il rilevamento dei dati sulla temperatura. Anche il semestre gennaio-giugno 2016 segna un primato: quello del più caldo di sempre, con una temperatura più calda di 1,3 gradi rispetto alla media del XIX secolo.


La serie di primati nell’aumento delle temperature mensili ha avuto iniziato nel mese di aprile dello scorso anno, ed è stata “spinta” da un potente El Niño, il fenomeno climatico che per tutto l’inverno, a partire da ottobre 2015, ha diffuso acque calde attraverso l’Oceano Pacifico. «Ma ora gli effetti di El Niño sono cessati» spiega Gavin Schmidt, direttore del Giss della Nasa, il Goddard Institute for Space Studies di NewYork. «Dunque gli effetti del riscaldamento globale sono chiari: è la tendenza di fondo che sta producendo questi numeri record».

TEMPERATURA MEDIA DELLA SUPERFICIE TERRESTRE
(gennaio-giugno)
Temperatura media della superficie terrestre

Gli fa eco il collega della Nasa Walt Meier, secondo il quale le temperature globali sono state influenzate dalle temperature estreme nell’Artico, dove si registra il minimo storico dell’estensione dei ghiacci marini.

L’estensione del ghiaccio marino al culmine della stagione estiva artica copre il 40% in meno superficie rispetto a fine anni Settanta, inizio Ottanta. Il punto più basso della stagione è stato registrato a settembre, quando i ghiacci del mare Artico si sono ridotti a del 13,4% rispetto al decennio precedente.

Daniele Vicari: «La nostra è una democrazia incompiuta». Genova 2001, 15 anni dopo

Daniele Vicari, regista di Diaz - Don't Clean Up This Blood

Di Carlo Giuliani preferisce non parlare, Daniele Vicari. «Non ne parlo per puro pudore, ma sono accanto alla sua famiglia». Di quelle giornate «ho scelto di raccontare la sospensione dei diritti della persona, ho raccontato la tortura attraverso atti incontrovertibili. Raccontare l’indicibile, sia per i poliziotti che per le vittime». E l’indicibile è quanto accaduto a Genova 2001: «Non è stata semplicemente la rottura di un patto sociale ma la riemersione degli elementi più reazionari dello Stato che per un momento, per un giorno, per una settimana, hanno mostrato a tutti cos’è uno Stato autoritario. E i cittadini si sono schierati da una parte o dall’altra, come in un colpo di Stato». Dice Daniele Vicari, quindici anni dopo i fatti di Genova 2001: 7 processi, 100 imputati condannati, più di 300 udienze, 170 anni di reclusione comminati, 8 pubblici ministeri impegnati, 120 avvocati. E 12 milioni di euro di danno patrimoniale e all’immagine dello Stato provocato dal comportamento della polizia, quantifica la Corte dei Conti.

Proprio in queste ore, il ministro dell’Interno Alfano ha chiesto che il testo della legge sul reato di tortura venga rivisto alla Camera, «per evitare ogni possibile fraintendimento riguardo l’uso legittimo della forza da parte delle forze di polizia».
Se la traduciamo, la frase del ministro significa: dobbiamo usare la tortura perché siamo in guerra. Ha rivendicato la necessità della tortura, una cosa di una gravità incredibile.

Al regista di Diaz. Non pulire questo sangue è d’obbligo chiedere se è rimasta traccia di quel sangue oggi, quindici anni dopo.
Resto convinto che la tortura – e la pratica della tortura di massa da parte di centinaia di persone in divisa, che rappresentano lo Stato italiano – sia un vulnus alla democrazia così macroscopico da diventare uno dei motivi per cui oggi lo Stato è in crisi. E la politica è in crisi, perché ha perso totalmente di credibilità e non solo agli occhi delle vittime. È il segno di un periodo storico nel quale i diritti della persona umana passano in secondo piano rispetto a questioni come l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale. Siamo nel bel mezzo di uno “Stato di eccezione”, e Genova è uno dei pilastri della sua costruzione. Genova ci ha fatto vedere l’abisso.

E noi abbiamo avuto paura di guardarci dentro, giusto?
Il nucleo fondante della questione di Genova va al di là del merito delle questioni politiche poste dal movimento in quei giorni. Anche perché il movimento si muoveva dentro una compatibilità politica ampiamente accettata: il Genoa Social Forum prese anche finanziamenti pubblici per organizzare quella manifestazione, venne finanziato dall’allora governo Prodi e la stessa Diaz non era occupata ma era stata data in concessione dalla Provincia. Era tutto legale quello che avveniva a Genova in quei giorni, mentre quello che è accaduto dentro la Diaz quella notte e dentro la caserma di Bolzaneto nei due o tre giorni dopo appartiene al baratro che abbiamo fatto fatica a individuare come il nocciolo della questione.

Ti riferisci a noi italiani o anche al movimento e alle vittime?
Per motivi anche etico-politici, le vittime hanno posto in secondo piano questo aspetto sostenendo di essere stati massacrati perché avevano ragione politicamente. Ma se questo fosse vero vorrebbe dire che nell’azione di queste centinaia di poliziotti c’era una ratio, e non credo ci fosse una ratio se non quella di interpretare l’intento liquidatorio di un problema, qualunque esso sia, che si era presentato in un determinato momento storico. Non è stato un atto specificatamente contro quelle persone lì, ma contro una certa idea di democrazia partecipata e contro il desiderio dei cittadini di partecipare alla distribuzione di diritti e doveri di una società. Quindi, qualcosa di ancora più grande.

«Questo è il primo movimento di massa della storia che non sta chiedendo niente per se stesso». Del resto, è a queste parole che hai affidato l’incipit del tuo film.
Sì, perché quel movimento non faceva una lotta per il potere, era un movimento diseguale e frastagliato, anche pieno di contraddizioni, ma che non chiedeva nulla per sé. Non pretendeva di andare al governo o di partecipare alle elezioni, poneva problemi sul fatto che le merci siano libere di muoversi e gli uomini no. Lo chiamerei movimento “umanistico”. E se un movimento di questo tipo viene schiacciato nel sangue vuol dire che la logica adottata a Genova è intrinseca a uno Stato che non è completamente uno Stato di diritto, e che avrebbe potuto manifestare quell’attitudine autoritaria anche in altri contesti. Cosa che poi effettivamente avviene tutti i giorni all’interno delle caserme o degli ospedali psichiatrici, certo non sotto gli occhi delle telecamere. La nostra è una democrazia incompiuta. E quando dico la nostra non intendo solo italiana, ma europea. La sospensione dei diritti civili all’interno dei Paesi democratici è avvenuta con il benestare di tutti i capi di Stato, quantomeno europei.

E sulla pelle di manifestanti di ogni parte del mondo.
Quando sono andato a Seattle a presentare il mio film era presente in sala il padre di una ragazza americana. Aveva da poco ingaggiato una grossa polemica con un giornalista che recensendo il mio film aveva scritto che i fatti riportati non erano veri e lui era anche intervenuto sul giornale per replicare. Venne alla presentazione di Diaz per raccontare che sua figlia era lì e che le erano state massacrate le mani, che fino ad allora quella splendida ragazza era una grafica e una musicista, e che non ha più potuto esercitare nessuna delle sue due passioni a causa delle torture ricevute dentro la Diaz. Vedi? Per questo penso che nel caso Regeni noi italiani possiamo manifestare fino a un certo punto la nostra disapprovazione nei confronti dello Stato egiziano per aver praticato la tortura. Noi siamo uno degli Stati del mondo che non ha ancora introdotto il reato di tortura.

Insomma, siamo un Paese incoerente, e ipocrita. E le piazza si sono svuotate. Genova rappresenta anche la fine del movimento No Global, la sua sconfitta?
Si è sconfitti finché non si riconosce fino a che punto si è stati vittime. Se si finge di non essere stati torturati, si rifiuta questo fatto non solo psicologicamente ma anche politicamente. Le ragioni del movimento No Global non potevano bastare a giustificare quella reazione, quel movimento non esprimeva nessun tipo di conflittualità militare. Sì, è vero che una parte di questo movimento – quelli che sono stati definiti Black bloc – la praticava, ma era indubbiamente una parte minoritaria. Eppure quella minoranza è servita a dare il via da parte delle forze dell’ordine alla repressione generalizzata.

Da anni ripeti che «è necessario guardare in faccia l’inguardabile». Qualcuno lo ha fatto?
Una resistenza civile è stata messa in campo. La cosa più importante accaduta durante i processi non è tanto che alcuni magistrati, ai quali dobbiamo senz’altro dire grazie, hanno istruito dei processi. Ma che siano venuti a testimoniare da tutta Europa degli anarchici, nonostante non credano nelle istituzioni borghesi e quindi nello Stato così come lo conosciamo noi oggi. Eppure, nonostante questo, hanno testimoniato la propria sofferenza inflitta atrocemente da organi pubblici: io testimonio sul mio corpo i segni di questa attitudine a essere non-democratico. Segni che dopo anni hanno ancora addosso, all’interno dei tessuti del proprio corpo: i polmoni sfondati, i testicoli schiacciati. Scusa se parlo di queste cose, ma è di questo che stiamo parlando… e perciò bisogna ringraziare questi anarchici, perché hanno superato la vergogna di essere vittime e di essere stati umiliati. E così facendo hanno fatto un regalo alla civiltà di diritto alla quale nemmeno credono. Mentre molti poliziotti hanno mentito durante il processo.

E per questo sono stati puniti: il capo della polizia ha comminato una sanzione di 47 euro e 57 centesimi, l’equivalente di una giornata di retribuzione…
Non è questo che rimprovero al capo della polizia, ma di non aver smentito il comunicato stampa che i dirigenti nazionali della polizia hanno diramato quella notte, secondo cui dentro la Diaz c’erano solo Black bloc e persone con ferite pregresse. Durante il processo si è dimostrato che era falso, ma la verità giudiziaria non è sufficiente, per sanare la ferità tra lo Stato e i cittadini è necessario che quel comunicato venga smentito, che venga ammesso che era diffamatorio nei confronti delle vittime. Solo allora crederò nelle loro parole.

A proposito di credere nelle parole altrui, il tuo film ha fatto informazione su fatti che rischiavano di essere raccontati – da dietro le scrivanie dei giornali – solo attraverso comunicati come quello…
Pensa che quando Mark Covell (giornalista inglese, ndr) è tornato in Inghilterra sua madre aveva letto sui giornali che era un terrorista e che aveva preso le botte per questo. Ancora oggi chi era dentro la Diaz è visto come un “terrorista”. Perciò quel comunicato è grave, quanto le torture, perché resta sulla testa di queste persone per tutta la vita.

Come lo rifaresti oggi Diaz?
Mi è sempre più chiaro che abbiamo indovinato il nocciolo della questione, perciò oggi lo farei più asciutto, ma non so dirti cosa toglierei perché non l’ho più rivisto. Questo film mi è costato non poco dal punto di vita umano e professionale, è stato un film problematico per me. Ma resto convinto di un’idea di cinema che non accetta alcuna mediazione se non quella che il film sia il più efficace possibile.

Da quattro anni viene proiettato in scuole, piazze e centri sociali. Ha cambiato la visione a molti, Diaz. Ha cambiato anche te?
Non il film, Genova mi ha cambiato. Ero molto meno disilluso prima, dopo Genova faccio fatica a credere nella politica, ad andare a votare. E questo “stato di eccezione” coinvolge anche chi in Italia è solo di passaggio, viene dall’Africa ed è diretto al Nord Europa. Penso alle persone che vivono sull’asfalto in Via Cupa, a Roma. È questa mancanza di vicinanza con i cittadini tutti, italiani e stranieri, mette in crisi la civiltà in cui noi dovremmo credere. Anche la cittadinanza, con uno Stato così, diventa subito oppositivo, perché uno Stato che non comprende i conflitti e manda avanti la polizia, non è uno Stato democratico. Da almeno 25 anni viene delegata alla polizia la risoluzione dei conflitti, i partiti politici se ne lavano le mani, ed ecco che gli organi dello Stato suppliscono e, a quel punto, rivendicano un primato, se non una supremazia. Persino dinanzi alla democrazia.

A cosa ti aggrappi per resistere alla disillusione?
Resto in via Cupa: al Baobab centinaia di persone si occupano tutti i giorni di alleviare le sofferenze di altre persone. È questo per me il riferimento, sono loro.

Pena di morte, epurazioni, espulsioni. La lunga notte della Turchia

epa05430977 Protesters carry an effigy of Turkish Muslim cleric Fethullah Gulen, founder of the Gulen movement, during a demonstration at Taksim Square, in Istanbul, Turkey, 18 July 2016. Gulen has been accused by Turkish President Recept Tayyip Erdogan of allegedly orchestrating the 15 July failed coup attempt. Turkish Prime Minister, Binali Yildirim, announced on 18 July that of the 7,500 detainees involved in the coup attempt, there were 6,000 soldiers, 100 police officers, 755 judges and prosecutors and 650 civilians. Among the detained army officials included 103 generals, almost one third of the 356 generals in the Turkish Army. At least 290 people were killed and almost 1,500 injured amid violent clashes on July 15 as certain military factions attempted to stage a coup d'etat. EPA/SEDAT SUNA

Il tentativo di colpo di Stato in Turchia si è trasformato in un’enorme macchina della repressione messa in campo dal presidente Erdogan. Sono già più di 50mila i soggetti – magistrati, militari, rettori, insegnanti, giornalisti – destinatari di provvedimenti restrittivi, dalla sospensione al carcere passando per il divieto di espatrio. Le “purghe” di Erdogan gettano nella tensione ampie fasce della popolazione: i militari sono tenuti sotto stretto controllo dalla polizia, notoriamente più vicina al “sultano” ma anch’essa oggetto di provvedimenti restrittivi, e dai servizi di Hakan Fidan, fedelissimo di Erdogan.

Il Paese “laico e democratico” fino a tempo fa candidato a far parte dell’Unione europea, tanto da abolire la pena di morte, oggi potrebbe essere in procinto di reintrodurre le esecuzioni capitali e perfino – auspicano i leader religiosi più radicali che ora risollevano il capo – l’uso obbligatorio del velo da parte delle donne. Il regime turco ritiene vicini all’imam “cospiratore al soldo degli Usa” Fethullah Gulen 6mila militari, 8mila poliziotti, 3mila giudici, 21mila insegnanti, 1.500 rettori universitari.

Chi è Gulen lo spiega al New York Times James F. Jeffrey, ex ambasciatore Usa in Turchia ora presso l’Istituto di Washington per la Politica del Vicino Oriente. Secondo lui non si hanno informazioni solide sul suo peso sugli obiettivi, ma è risaputo che ha forti legami con le istituzioni statali turche,in particolare magistratura e polizia. “Si tratta di uno Stato nello Stato”, ha detto Jeffrey di Gulen, ritenuto dagli Usa un leader islamico moderato che promuove il dialogo interreligioso, guida una rete mondiale di associazioni di beneficenza e scuole laiche, favorisce buone relazioni con Israele e si oppone movimenti islamici più radicali come i Fratelli musulmani e Hamas.

Dopo aver lasciato il paese nel 1999, quando la vecchia élite laica della Turchia lo ha accusato di un tentativo di golpe, Gulen è approdato negli Stati Uniti aiutato dalla Cia. Ora il predicatore mistico del ramo sufi dell’Islam vive in Pennsylvania. Erdogan lo accusa di un nuovo complotto e il primo ministro Binali Yildirim chiede agli Stati Uniti di consegnarlo alla Turchia, promettendo di inviare i fascicoli con le prove del suo ruolo nella cospirazione. E minaccia: “Potrebbe essere anche messa in discussione la nostra amicizia”.

 

Soldati turchi seminudi e ammanettati dopo l'arresto all'indomani del tentativo di golpe fallito nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016, in una foto postata sul profilo Twitter di Military Advisor, sito di osservazione e analisi militare focalizzato sugli sviluppi delle crisi in Siria, Iraq e Yemen. Roma, 18 luglio 2016. +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO'ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++
Soldati turchi seminudi e ammanettati dopo l’arresto all’indomani del tentativo di golpe fallito nella notte tra il 15 e il 16 luglio, in una foto postata sul profilo Twitter di Military Advisor, sito di osservazione e analisi militare focalizzato sugli sviluppi delle crisi in Siria, Iraq e Yemen.

epa05431813 Turkish Prime Minister Binali Yildirim (C) visits a destroyed part of the Turkish Parliament in Ankara, Turkey, 19 July 2016. Turkish Prime Minister Yildirim reportedly said that the Turkish military was involved in an attempted coup d'etat. Turkish President Recep Tayyip Erdogan has denounced the coup attempt as an 'act of treason' and insisted his government remains in charge. Some 104 coup plotters were killed, 90 people - 41 of them police and 47 are civilians - 'fell martrys', after an attempt to bring down the Turkish government, the acting army chief General Umit Dundar said in a televised appearance.who were killed in a coup attempt on 16 July, during the funeral, in Istanbul, Turkey, 17 July 2016. Turkish Prime Minister Yildirim reportedly said that the Turkish military was involved in an attempted coup d'etat. Turkish President Recep Tayyip Erdogan has denounced the coup attempt as an 'act of treason' and insisted his government remains in charge. Some 104 coup plotters were killed, 90 people - 41 of them police and 47 are civilians - 'fell martrys', after an attempt to bring down the Turkish government, the acting army chief General Umit Dundar said in a televised appearance. EPA/STR
Il primo ministro turco Binali Yildirim visita una parte distrutta del Parlamento ad Ankara il 19 luglio. EPA/STR

epa05431067 Protesters carry an effigy of Turkish Muslim cleric Fethullah Gulen, founder of the Gulen movement, during a demonstration at Taksim Square, in Istanbul, Turkey, 18 July 2016. Gulen has been accused by Turkish President Recept Tayyip Erdogan of allegedly orchestrating the 15 July failed coup attempt. Turkish Prime Minister, Binali Yildirim, announced on 18 July that of the 7,500 detainees involved in the coup attempt, there were 6,000 soldiers, 100 police officers, 755 judges and prosecutors and 650 civilians. Among the detained army officials included 103 generals, almost one third of the 356 generals in the Turkish Army. At least 290 people were killed and almost 1,500 injured amid violent clashes on July 15 as certain military factions attempted to stage a coup d'etat. EPA/SEDAT SUNA
Manifestanti portano un manichino raffigurante Fethullah Gülen – accusato da Erdogan di aver ispirato il golpe – a piazza Taksim, Istanbul. EPA/SEDAT SUNA

 

epa05430766 Relatives of the victims who were killed in the coup attempt on 16 July, mourn during a funeral at Kocatepe Mosque in Ankara, Turkey, 18 July 2016. Turkish Prime Minister Yildirim reportedly said that the Turkish military was involved in an attempted coup d'etat. Turkish President Recep Tayyip Erdogan has denounced the coup attempt as an 'act of treason' and insisted his government remains in charge. Some 104 coup plotters were killed, 90 people - 41 of them police and 47 are civilians - 'fell martrys', after an attempt to bring down the Turkish government, the acting army chief General Umit Dundar said in a televised appearance.who were killed in a coup attempt on 16 July, during the funeral, in Istanbul, Turkey, 17 July 2016. Turkish Prime Minister Yildirim reportedly said that the Turkish military was involved in an attempted coup d'etat. Turkish President Recep Tayyip Erdogan has denounced the coup attempt as an 'act of treason' and insisted his government remains in charge. Some 104 coup plotters were killed, 90 people - 41 of them police and 47 are civilians - 'fell martrys', after an attempt to bring down the Turkish government, the acting army chief General Umit Dundar said in a televised appearance. EPA/STR
I parenti delle persone uccise nel tentativo di colpo di Stato il 16 luglio durante il funerale ad Ankara. EPA/STR

epa05430776 Turkish commanders-in-chief of armed forces and mourners pray near coffins of the victims who were killed in the coup attempt on 16 July, during a funeral at Kocatepe Mosque in Ankara, Turkey, 18 July 2016. Turkish Prime Minister Yildirim reportedly said that the Turkish military was involved in an attempted coup d'etat. Turkish President Recep Tayyip Erdogan has denounced the coup attempt as an 'act of treason' and insisted his government remains in charge. Some 104 coup plotters were killed, 90 people - 41 of them police and 47 are civilians - 'fell martrys', after an attempt to bring down the Turkish government, the acting army chief General Umit Dundar said in a televised appearance.who were killed in a coup attempt on 16 July, during the funeral, in Istanbul, Turkey, 17 July 2016. Turkish Prime Minister Yildirim reportedly said that the Turkish military was involved in an attempted coup d'etat. Turkish President Recep Tayyip Erdogan has denounced the coup attempt as an 'act of treason' and insisted his government remains in charge. Some 104 coup plotters were killed, 90 people - 41 of them police and 47 are civilians - 'fell martrys', after an attempt to bring down the Turkish government, the acting army chief General Umit Dundar said in a televised appearance. EPA/STR
Le bare delle vittime del tentativo di colpo di Stato il 16 luglio, durante un funerale nella Moschea di Kocatepe ad Ankara, EPA/STR

Il presidente Erdogan parla alla folla epa05431627 A handout picture provided by Turkish President Press office on 19 July 2016 shows, Turkish President Recep Tayyip Erdogan waving during his rally in Istanbul, Turkey, midnight 18 July 2016. Turkish Prime Minister Yildirim reportedly said that the Turkish military was involved in an attempted coup d'etat. Turkish President Recep Tayyip Erdogan has denounced the coup attempt as an 'act of treason' and insisted his government remains in charge. Some 104 coup plotters were killed, 90 people - 41 of them police and 47 are civilians - 'fell martrys', after an attempt to bring down the Turkish government, the acting army chief General Umit Dundar said in a televised appearance.who were killed in a coup attempt on 16 July, during the funeral, in Istanbul, Turkey, 17 July 2016. Turkish Prime Minister Yildirim reportedly said that the Turkish military was involved in an attempted coup d'etat. Turkish President Recep Tayyip Erdogan has denounced the coup attempt as an 'act of treason' and insisted his government remains in charge. Some 104 coup plotters were killed, 90 people - 41 of them police and 47 are civilians - 'fell martrys', after an attempt to bring down the Turkish government, the acting army chief General Umit Dundar said in a televised appearance. EPA/TURKISH PRESIDENTAL PRESS OFFICE / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES
Il presidente Erdogan parla alla folla il 18 luglio. EPA/TURKISH PRESIDENTAL PRESS OFFICE / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

L’agenda politica di Trump a Cleveland: demolire Clinton

La seconda giornata della convention repubblicana in corso a Cleveland doveva essere quella in cui i repubblicani nominavano Donald Trump loro candidato e spiegavano al Paese cosa intendono fare per l’economia che, a loro parere, è in uno stato disastroso. La prima parte è andata in porta con meno intoppi del previsto: non ci sono state proteste plateali, ma solo quanche delegazione che non ha assegnato i suoi delegati a TheDonald. Per il resto, non sappiamo cosa vogliono i repubblicani in economia. Tutti o quasi gli speaker importanti della serata, a partire dai leader di Camera e Senato Paul Ryan e Mitch McConnell e dal governatore del New Jersey, Chris Christie si sono lanciati in attacchi, più o meno virulenti, contro Hillary Clinton.

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Christie ha parlato 15 minuti, per 30 secondi si è introdotto, poi ha parlato di quanto lui ammiri Trump per altri 30 e, dopo un minuto e dieci ha cominciato quella che lui stesso ha definito «requisitoria e voi sarete la giuria». Bugiarda, senza principi, ha messo i suoi segreti prima della sicurezza nazionale usando un server di mail privato, ha negoziato il peggior accordo possibile con l’Iran, «Il mondo  attraversato da una violenza senza precedenti, guardiamo a ciascuna regione infettata dalle sue valutazioni sbagliate»…e così via. Il verdetto è, naturalmente, colpevole, con la gente che urlava «In galera, in galera».
La risposta via twitter di Hillary non è male: Se pensate che Christie possa fare lezione di etica, abbiamo un ponte da vendervi» – il riferimento è a quando la campagna del governatore fece chiudere il Washington Bridge, che collega il New Jersey a New York per sfavorire un sindaco che non lo sosteneva alle elezioni, lo scandalo è stata un po’ una pietra tombale sulle sue aspirazioni politiiche.

In generale i gestori degli account di social media di Hillary stanno facendo un lavoro di grande qualità. Ad esempio rintracciando i video e le citazioni di tutti coloro che la attaccano da podio in cui questi ne elogiano la capacità e la preparazione. Paul Ryan, che detesta Trump e teme per la maggioranza alal Camera che lui guida (e pensa già al 2020), ha anche lui parlato di Clinton, nominando il candidato repubblicano poco e associandolo sempre a Mike Pence, il vicepresidente candidato, più digeribile per i conservatori che Ryan rappresenta. Il suo stare non contro Trump, ma non proprio a favore è un cattivo gioco politico, lo mostra per l’opportunista che è e ne sta minando la credibilità.

In generale, le ragioni per cui non c’è un’agenda repubblicana sono tre. Il partito al momento non ne ha una chiara perché tra l’ideologia anti tasse e anti Stato di Ryan e la non ideologia di Trump non c’è una sintesi chiara. Non si sa cosa trump voglia o farebbe da presidente e non lo si può enunciare se non con proclami.
A una parte importante del partito Trump non piace e, dunque, è meglio unirsi contro Hillary che cercare di far vendere un prodotto di cui si è poco convinti.
La sensazione generale è che questa tornata elettorale sarà “contro”, molti elettori voteranno Hillary perché temono TheDonald e i repubblicani, che pure sanno che Clinton non è popolare, devono cercare di portare molta gente a votare contro di lei. Eppure gli elettori indipendenti più moderati – non nel senso di centro politico, ma meno partigiani – difficilmente si faranno convincere da una retorica così sanguinolenta. La scommessa repubblicana per ora è quella.

Il messaggio di Trump dopo la nomina

L’altra scommessa è di ripetere l’effetto Reagan. Quando il presidente mito del partito – che pure alzò le tasse e fece cose che oggi i repubblicani vedono come il diavolo – partecipò al primo dibattito contro Carter fece lo sforzo di portare con sè numeri, idee di leggi da approvare, eccetera. Al secondo dibattito, su consiglio del suo stratega Roger Ailes, passò all’attacco e parò, come si dice “al cuore”. Niente idee specifiche ma discorsi retorici. E stravinse (nel frattempo Ailes è diventato capo di Foxnews, la Tv che fa di questo schema un palinsesto e, proprio in queste ore, sta per essere licenziato dopo che diverse conduttrici hanno dencunciato le sue molestie sessuali). L’idea di Trump, oltre agli attacchi a Hillary, sembra essere quella: vendere un futuro migliore a un’America scontenta, senza dargli una forma.

Ieri questo compito è toccato al figlio più grande, lo stratega vero di Donald assieme a se stesso. Del resto, entrambi si chiamano Donald.
«Mio padre ottiene risultati e quando qualcuno gli dice, non si può fare, è allora che lui riesce. Il Paese è in crisi e i figli staranno peggio dei genitori. Ma mio padre farà tornare le cose com’erano. Anzi, meglio di come erano». Ecco, questo è più o meno il programma economico dei repubblicani. La seconda giornata è stata migliore della prima, ma da qui a dire che c’è un’idea di Paese che non sia solo rancorosa, beh, non ci siamo ancora. Donald Trump e quello che lui definisce il suo movimento, si preso il partito repubblicano. Cosa voglia farne proprio non lo vuole dire. Forse non lo sa.


Il momento in cui Donald Trump jr. annuncia il voto della delegazione di New York che rende la nomina di suo padre ufficiale

Tortura e Turchia: il giorno in cui sono marciti i diritti

Ma esattamente a cosa ci serve spendere chili di retorica, organizzare catene di conferenze, inzuppare depliant elettorali, cucire contrizioni a favore di telecamera, tessere rapporti con i famigliari delle vittime, srotolare conferenze parlamentari, richiamare ambasciatori, travestirsi da pacifisti con le paci degli altri, trasmettere speciali lacrimevoli, stendere bandiere, imbalconare lenzuola, essere tutti ogni giorno un ammazzato in giro per il mondo, inondare i social, trafugare tragedie, fotografare uomini incaprettati in batteria, spacciare foto di facce sformate dalle botte, intitolare vie, esibire pornografici minuti di silenzio o spacciare lacrime?

A cosa serve tutto questo se in un giorno solo, nello stesso giorno, in Turchia si apparecchia la tavola per la pena di morte e in Italia si affossa il reato di tortura?

A che serve Laura Boldrini che ulula per il disabile preso a cazzotti mentre il Parlamento segue le effusioni militari di un ministro dell’interno,  Angelino Alfano, che per esistere ha bisogno di leccare gli istinti paramilitari dei poliziotti che si stagliano violenti, potenti e impuniti?

Come può il senatore Manconi chiedere all’Egitto la verità su Regeni mentre sta in una maggioranza che gli ha ricacciato il reato di tortura in gola?

Come può l’Europa calpestare la Grecia per una cifra fuori posto e intanto assistere alla decimazione dei diritti nell’amica Turchia?

Come può Renzi inalberarsi per una battuta sfortunata di un suo ex senatore e poi dormire tranquillo in un’Italia in cui si muore per le botte in divisa?

Giorno nero, ieri. Anche se ci si ostina a rinchiudersi al mare dentro la propria casa dai muri blu.

Buon mercoledì.

Così la ‘ndrangheta gestiva il business del Terzo Valico

Un fermo immagine diffuso dalla Dia in relazione all'operazione 'Alchemia' che ha portato all'emissione di una quarantina di provvedimenti in tutta Italia di nei confronti di soggetti ritenuti affiliati alle cosche reggine Raso-Gullace-Albanese e Parrello-Gagliostro. Gli indagati sono, a vario titolo, associazione per delinquere di stampo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione, intestazione fittizia di beni e società. Roma, 19 luglio 2016. ANSA/ US DIA +++ NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Dopo la cupola segreta, gli appalti. Le mani della ’ndrangheta sul cantiere del Terzo Valico: 40 arresti in tutta Italia. Preceduta dagli arresti dei giorni scorsi relativi alla struttura segreta infiltrata in ambienti politici ed economici, l’inchiesta ha oggi interrotto le attività dei clan Raso-Gullace-Albanese e Parrello-Gagliostro, che hanno esteso il loro business al Ponente ligure. Quaranta arresti su ordine della Dda di Reggio Calabria. Le ndrine della provincia reggina si sono infiltrate anche negli appalti – valore: 6,2 miliardi – del Terzo Valico, la linea ad alta velocità Genova-Milano in fase di realizzazione. Secondo i magistrati reggini, i clan erano giunti a finanziare anche i comitati per il Sì Tav. Ancora una volta, le ndrine avrebbero agito con il supporto di esponenti politici locali, regionali e nazionali calabresi, tra cui il senatore di Gal Antonio Caridi, già raggiunto da richiesta d’arresto nell’operazione Mammasantissima sulla cupola massonico-mafiosa. Caridi è indicato dai magistrati come l’uomo delle strategie, delle relazioni e dello scambio di voti contro favori alla criminalità organizzata. Arresto negato dal gip, che ha ritenuto insifficiente il quadro indiziario, per il parlamentare del gruppo misto Giuseppe Galati, che sarebbe stato corrotto da Girolamo Raso per sbloccare lavori edili in una zona vincolata del Parco naturale di Decima Malafede, a Roma, ma anche per appalti nel trasporto pubblico e nello smaltimento rifiuti a Roma. Indagato anche Francesco D’Agostino, vicepresidente del consiglio regionale della Calabria considerato «una delle pedine di cui si servivano i clan per portare a termine i loro affari». I clan gestivano affari in tutto il Nord: aziende agrituristiche, di igiene ambientale e industriale, movimento terra e perfino immobili in Costa Azzurra, Canarie e Brasile.

Caso Cucchi, l’avvocato: «Dopo questa sentenza pensiamo di ritirarci»

Ilaria Cucchi all'esterno della Procura di Roma per incontrare il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, 3 novembre 2014. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«È una lotta contro i mulini a vento. A questo punto pensiamo di ritirarci. Anche perché questa sentenza può essere un assist per l’altra inchiesta nei confronti dei carabinieri indagati». Tanta amarezza nelle parole dell’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. È il giorno dopo la sentenza di assoluzione in appello dei cinque medici dell’ospedale Pertini accusati di concorso in omicidio colposo per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta all’ospedale romano il 22 ottobre 2009. Dopo che la Cassazione a dicembre 2015 aveva chiesto un nuovo processo, annullando la precedente assoluzione, ieri la sentenza d’appello: tutti assolti perché il fatto non sussiste.

«Questa sentenza sembra che dica che Stefano è morto per causa sua, per causa naturale, l’unico responsabile delle sua morte è lui stesso», aggiunge Anselmo. L’assoluzione dei medici poi potrebbe avere ripercussioni sull’altra inchiesta, quella bis aperta dalla Procura di Roma a gennaio 2015 e che a settembre contava nel registro degli indagati cinque carabinieri, due per falsa testimonianza e tre per lesioni aggravate. «La sentenza emessa ieri – continua l’avvocato Anselmo – fa pensare che possa costituire un assist nei confronti dell’inchiesta relativa ai carabinieri. Rischia di trovare nella sua motivazione la “certezza” che Stefano è morto per colpa sua». «Visto l’atteggiamento del Procuratore generale, verso cui va la mia più profonda gratitudine, vista la sentenza, a questo punto cogliamo un chiaro segnale di fronte al quale ci si chiede la resa».

Tutto finito? Possibile che un caso come quello di Stefano Cucchi che ha sollevato mezza Italia, che ha aperto una riflessione generale sull’operato delle forze dell’ordine e sulla necessità che il nostro Paese vari una legge sul reato di tortura – ancora lontano dall’essere introdotto – finisca nel silenzio senza un responsabile, senza una motivazione? Sette anni di battaglie infinite, con la sorella Ilaria sempre in prima linea a chiedere giustizia per quel fratello fermato il 15 ottobre 2009 dai carabinieri. Ilaria Cucchi nelle manifestazioni, in tv, nelle aule parlamentari, con le foto del fratello dal volto tumefatto a chiedere di far luce su una inenarrabile odissea. Prima la caserma, poi il carcere a Regina Coeli, poi l’ospedale Fatebenefratelli per un accertamento, poi di nuovo il carcere e infine l’Ospedale Pertini dove muore il 22 ottobre.

Ieri Ilaria ha pubblicato su facebook la foto del corpo nudo del fratello, un corpo sul tavolo anatomico. Quasi uno scheletro. Facebook ha bloccato quella foto, troppo dura. Ma l’immagine è dura anche perché “parla” di una morte ancora senza un responsabile. L’unico fatto certo per il momento è che Stefano è morto mentre si trovava affidato a uomini dello Stato.