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Chi è Pence, il vice di Trump (e chi sono i protagonisti della convention-circo)

A Philadelphia, alla fine del mese, sul palco della convention democratica ci sarà qualche oratore brillante e popolare. Non sappiamo esattamente bene chi e quando, ma un primo elenco ce lo abbiamo già: Hillary Clinton, Joe Biden (che è un battutista di prima grandezza), Bernie Sanders, Bill Clinton, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, campionessa della sinistra e tra le aspiranti vice presidente, Julian Castro, la faccia giovane dei latinos d’America che ha il difetto di non parlare spagnolo. E poi il miglior oratore su piazza: il presidente Obama. A questi, come sempre, si aggiungeranno figure locali, testimonial d’eccezione, star dello show-business e dello sport. Ogni comunità, ogni famiglia politica del partito e della sinistra americana avranno spazio. E la sinistra-sinistra avrà un trattamento speciale grazie alle trattative tra Bernie e Hillary e al ruolo cruciale di Elizabeth Warren.
Se paragoniamo questo parterre de roi con la lista diffusa dal partito repubblicano, il partito che candida Trump fa quasi pena. Il vicepresidente, secondo indiscrezioni sarà Mike Pence, governatore dell’Indiana che non aveva sostenuto Trump alle primarie. La notizia circola da pochi minuti. Pence, scherzavano alcuni, ha fatto di tutto per essere scelto dopo aver scelto Ted Cruz alle primarie perché, scherzano alcuni, è fortemente a rischio di non essere rieletto governatore a novembre. L’Indiana è in parte conservatore, e l’elettorato repubblicano lo è molto (35% di religiosi): la scelta è caduta su Cruz proprio perché Pence cercava il sostegno degli evangelici come governatore a novembre. Ora non avrà più questo problema. Avrà invece il problema di spiegare ai cronisti le frasi dette sull’impreparazione di Trump a fare il presidente.

Pence copre Trump a destra, ma, sembra, è uno che tende ad avere toni meno sopra le righe. Sebbene si sia lasciato andare a dichiarazioni altrettanto controverse di quelle di TheDonald. A differenza di quello che sarà il candidato presidente, il governatore dell’indiana è duro su ogni questione che riguarda i diritti LGBT ed ha sostenuto che occorresse interrompere i finanziamenti a «gruppi che contribuiscono alla diffusione dell’Aids». Da rappresentante dell’Indiana in Congresso, il vice di Trump ha votato per la guerra all’Iraq, si è opposto all’accordo con l’Iran e alla chiusura di Guantanamo. Sull’immigrazione ha presentato una proposta di riforma che prevedeva il ritorno a casa, pessima, ma criticata dalla destra del suo partito. Ma su quella c’è Trump a spararle grosse. Tra le battute eccessive del governatore dell’Indiana c’è quella in cui paragona l’approvazione della riforma sanitaria Obama da parte della Corte Suprema all’11 settembre. Su questo si è dovuto scusare.

Quanto ci ha provato Pence a diventare vice di Trump? Basta guardare questo elenco di tweet in serie, commentati da chi li ritwitta, che è stato uno dei personaggi chiave della campagna di Bernie Sanders e scherza: «Trump si è impossessato dell’account twitter di Pence» (i tweet di Pence sono tutti: dai, dai dai, Trump è il migliore, uniamoci e fermiamo Hillary). Il disperato tentativo di essere scelto è stato molto criticato sia in Indiana – che i democratici puntano a riprendere – sia molto commentato come inusuale. Né i suoi concorrenti, né i democratici di cui si fanno i nomi hanno mai detto nulla sull’eventualità di diventare il vice di Hillary.

Come la foto che vedete qui sopra, del casinò inaugurato ad Atlantic City nei primi ’90 e dopo varie crisi passato ad altri proprietari. Le uniche vere punte di diamante sono alcuni veterani e due sopravvissuti all’attacco dell’ambasciata Usa a Bengasi, che avranno modo di attaccare Clinton su un punto delicato: quello dell’aver sottovalutato i pericoli e a la mancata capacità di difendere la missione statunitense. Poi un paio di star del partito come Paul Ryan e Chris McConnel (i leader di Camera e Senato), una serie di avversari di Trump alle primarie, a partire dal nemico e ultra conservatore Ted Cruz, passando per il chirurgo evangelico e nero Ben Carson e il pastore evangelico ed ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee, che negli ultimi anni ha condotto uno show su FoxNews. E poi Rudy Giuliani, che nel 2008 non arrivò al 5% dei voti correndo alle primarie e puntando tutto sulla Florida.

Con Chris Christie

Tra i papabili vice in ticket con Trump ci sono Chris Christie, governatore corpulento del New Jersey, che potrebbe portare qualche voto e che è una figura che piace – per quanto abbia perso peso nel suo Stato, dove le cose non vanno così bene – e Newt Gingrich, speaker della Camera ai tempi di Clinton, il nemico giurato di Bill che non andò granché bene quando corse per le primarie contro Romney. Un modo per dire, li abbiamo battuti un tempo, lo rifaremo. Dall’elenco manca Sarah Palin che aveva sostenuto Trump dall’inizio. Attenzione: più della metà degli speaker nei mesi scorsi ne hanno dette di tutti i colori su Trump e la lista sembra un tentativo di tenere assieme alcune componenti e di corteggiare i conservatori, pezzo cruciale dell’elettorato a cui il miliardario newyorchese proprio non va giù.

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Newt Gingrich ai tempi d’oro della guerra totale a Bill Clinton

Chi altri? Quattro, dicasi quattro figli di TheDonald, Jerry Falwell jr., figlio di una delle figure chiave dell’evangelismo americano che ha accompagnato il 30ennio repubblicano, lo sceriffo David Clark, afroamericano di Milwuakee, che ha vinto le primarie democratiche più di una volta (in Usa gli sceriffi si eleggono) e oggi appoggia Trump, attacca Black Lives Matter e ha condotto uno show radiofonico su The Blaze, il network di proprietà di Glenn Beck, che fino al 2010 era la star Tv della destra. Tra i businessman ci sarà un gestore di casinò di Las Vegas e il co-fondatore di PayPal, tra le celebrities il modello Anthony Sabato e Kimberlin Brown, che probabilmente non vi dirà nulla, ma che è una delle protagoniste di Beautiful. Il personaggio perfetto per una convention che oggi incorona Trump. Adatta a un pubblico non più giovane. Per i giovani con testosterone c’è la presidente dell’Ultimate Fight Championship, un campionato a regole zero dove ci si picchia in Tv.

Nel complesso un parterre fiacco, con qualche possibile sorpresa e Donald al centro della scena: tra i rappresentanti del business anche la direttrice delle Trump Winery, l’etichetta di vini di Donald. Una costruzione che davvero somiglia a quelle dei tempi d’oro si Silvio Berlusconi a cui in molti Oltreoceano hanno paragonato Trump. Come per la piattaforma repubblicana, che in alcuni passaggi relativi a matrimonio gay e famiglia utilizza toni apocalittici su quel che i democratici vogliono far dimenticare gli Usa, passaggi non in linea con il “modello Trump” più laico, smargiasso, piacione, la convention si annuncia come una via di mezzo tra i toni peggiori della destra americana che abbiamo conosciuto da quando Obama è divenuto presidente e le pacchianate di The Donald. Con una particolarità: c’è una lista molto lunga di senatori, governatori e figure di primo piano che a Cleveland non si vogliono far vedere e non presenzieranno. Trovano troppo imbarazzante Trump, troppo a destra o hanno una paura tremenda di non venire rieletti e nei prossimi mesi cercheranno di far dimenticare chi è il loro candidato. Il più famoso, sebbene non candidato, è Mitt Romney. Nemmeno la famiglia Bush sarà a Cleveland.

A Cleveland ci saranno anche proteste, sostenitori di Trump, gruppi di estrema destra e altro ancora. Il Dipartimento di polizia è terrorizzato, ma ha deciso di non sospendere il Secondo emendamento, quello che consente di portare armi mentre si cammina per strada. Quando si dice una scelta razionale.

Istat: povertà in aumento al Nord. Tra la popolazione, i minori i più colpiti

20081222- ROMA -SOI- ISTAT: 5,3% FAMIGLIE NON HA SOLDI PER IL CIBO - Un anziano fruga tra i rifiuti del mercato di piazza S. Cosimato a Trastevere, oggi a Roma. Secondo l'ultima indagine dell'Istat, a fine 2007 e' salito dal 4,2% al 5,3% il numero delle famiglie che ha dichiarato di avere avuto nel corso dell'anno ''momenti con insufficienti risorse per l'acquisto di cibo''. ANSA /GUIDO MONTANI/DEB

L’incidenza di povertà assoluta aumenta al Nord. A dirlo è il rapporto annuale dell’Istat che segnala che ad essere più colpite sono le famiglie numerose, chi vive in città e tra la popolazione, i minori più degli anziani.

Secondo la stima dell’Istituto nazionale di statistica,  le famiglie residenti in condizioni di povertà assoluta in Italia, nel 2015, sono 1 milione e 582 mila e gli individui 4 milioni e 589 mila. Il dato più alto dal 2005. A crescere, precisa l’Istat, è l’indice di povertà misurata in termini di persone che ha raggiunto il 7,6 % della popolazione residente. Statisticamente non rilevante, invece, la variazione annua stimata sulle famiglie che si è mantenuta costante nell’arco degli ultimi tre anni (6,1% nel 2015 5,7% nel 2014 e 6,3% nel 2015). Questo andamento si deve soprattutto all’aumentare del numero di famiglie che, nelle parole dell’Istituto di statistica, faticano a “conseguire uno standard di vita minimamente accettabile”. Famiglie per lo più numerose, molte di soli stranieri.

Segnali di peggioramento si registrano, poi, nell’aeree metropolitane, tra la popolazione più giovane e in riferimento al titolo di studio. Ecco quindi che in Italia la povertà colpisce i giovani più degli anziani e la popolazione meno scolarizzata. Sono 1 milione 131 mila i minori e 1 milione 13 mila i giovani compresi tra 18 e 34 anni a non aver accesso a beni e servizi considerati essenziali contro 538 mila anziani, pari ad 4,1% del totale. L’incidenza di povertà assoluta diminuisce tra la popolazione diplomata, rappresentando più di un terzo di quella rilevata per chi ha al massimo la licenza elementare.

Stabile nel 2015 anche la povertà relativa. Al contrario dell’incidenza assoluta che viene calcolata sulla base di una soglia corrispondente alla spesa minima sostenuta dalle famiglie per sostenere uno standard di vita essenziale, quella relativa viene misurata su di una soglia convenzionale di spesa per i consumi di base.
Nel 2015, la povertà relativa è risultata stabile rispetto al 2014 passando dal 10,3 al 10,4% pari a 2 milioni 678 mila le famiglie, per un totale di 8 milioni 307 mila individui.
Se l’incidenza della povertà assoluta aumenta al nord (dal 4,2 del 2014 al 5,0%), l’intensità di quella relativa aumenta nel Mezzogiorno. Il dato registrato per il sud infatti è pari a 1 milione e 666 mila famiglia contro le 346 mila del centro e le 667 mila del nord d’Italia.

E rispetto al resto d’Europa? L’Italia è il Paese Ue con più poveri. I dati di Eurostat pubblicati in aprile, avevano registrato un abbassamento del tasso di povertà  sul totale dei cittadini europei, sceso dal 9 del 2014 al 8,2%. Un abbassamento risultato solo marginale in Italia che ha livelli più bassi dei grandi, Francia e Germania, che hanno un tasso rispettivamente del 4,5 e del 5%.

Intanto è stata previsto per oggi, 14 luglio, alla Camera l’esame del disegno di legge per le norme a contrasto della povertà e per il riassetto delle prestazioni e del sistema degli interventi e dei servizi sociali (collegate alla legge di stabilità del 2016). Il disegno di legge presentato dal ministro del lavoro e delle politiche sociali Poletti introduce un sistema nazionale a contrasto della povertà che prevede l’istituzione presso il Ministero di un coordinamento nazionale del sistema dei servizi sociali e la promozione di accordi locali tra servizi sociali e enti che si occupano dell’inserimento lavorativo, la salute e l’istruzione.

“Cartoline” da Aleppo. Le foto e il video che mostrano la città prima e dopo la guerra in Siria

David Wolfe, un ragazzo di Los Angeles, ha realizzato un video in cui mette a confronto le foto di Aleppo prima e dopo la guerra civile che ha devastato negli ultimi 5 anni la Siria. In brevissimo tempo il video, postato su facebook da Wolfe, è diventato virale sui social realizzando più di 13 milioni di visualizzazioni.


Gli scatti che ritraggono la città più grande del Paese, definita anche la Capitale del Nord, prima e dopo il conflitto sono stati realizzati dallo staff dell’Olympia Restaurant, un ristorante di Aleppo che su facebook ha postate un album fotografico in cui mostra passo passo la distruzione della città. «Queste 124 immagini – scrive il proprietario – mostrano come era la nostra amata Aleppo e come è invece ora dopo aver subito assalti, distruzione, saccheggi, incendi di monumenti e siti storici, case antiche, moschee, chiese, il vecchio mercato di Souks. Tutti luoghi considerati patrimonio dell’umanità dall’Unesco a partire dal 1986»

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Guardando le foto infatti è impossibile non accorgersi della devastazione causata in particolare, oltre che dalla guerriglia urbana e dai vari bombardamenti aerei, soprattutto dall’uso delle cosiddette “barrel bomb”, barili esplosivi riempiti di chiodi e resti metallici che vengono lanciati dagli elicotteri causando moltissimi morti fra la popolazione e distruggendo gran parte della Città Vecchia di Aleppo considerata patrimonio dell’Unesco.
Qui sotto un video realizzato da Aj+ mostra cosa accade quando viene sganciata una barrel bomb e quali sono gli effetti che questo tipo di arma improvvisata causa.

Morte di un mafioso. Caffè del 14 luglio 2016

Sì, ho alzato la paletta, dice Vito Piccarreta e la sua immagine, con la paletta verde in mano, appare oggi su tutti i giornali. Una faccia da democristiano -si sarebbe detto un tempo- fiero della divisa, soddisfatto dei pellegrinaggi della moglie a Medjugorje, bonario. I treni erano in ritardo, ne è arrivato uno: paletta verde, e poco dopo un’altro, nella stessa direzione. Questo secondo, però, si sarebbe dovuto fermare perché intanto, da Corato si era mosso un treno per Andria, questo in orario. Il fonogramma è partito? Piccarretta non lo ha letto? Il “collega” a Corato non si è fatto problemi perché il suo, di treno, era arrivato all’ora giusta? 23 famiglie distrutte, troppe altre ferite, nella carne viva o nell’anima. Pare che costasse appena 4 milioni il congegno automatico che blocca i treni, se vanno uno contro l’altro. È obbligatorio sulle reti pubbliche, non su quelle private. Ma -si dice ora- quella ferrovia privata “era un fiore all’occhiello della Puglia”. Certo, ma senza l’obbligo di comprare e istallare quel dispositivo. La Puglia non è il sud abbandonato. È anche vero, ma in Puglia, come in tutta Italia, una cosa è l’alta velocità, un’altra sono i treni per pendolari. Il profitto conta, e il cliente che paga bene merita rispetto. Ma in un paese civile viaggiare in treno è un diritto. E uno stato, che prende le tasse, deve garantire diritti e pubblico servizio. Perciò il dolore si trasforma in rabbia. “Chi comanda – politici, capi delle ferrovie, imprenditori degli appalti- non prende il treno”. Se deve andare ad Andria o Corato, usa l’alta velocità, o prende aereo fin dove è possibile, poi lo aspetta una macchina con autista. È populismo, questo? È come dire: piove governo ladro? Probabile, ma non è del tutto falso.
È morto Binnu, Bernardo Provenzano, il corleonese “buono”. Nel 1958 era uno dei “viddani” di Luciano Liggio, che avevano alzato la testa e ammazzato il medico condotto Navarra, capo mafia crudele e vile di Corleone. Tuttavia Provenzano continuava a portare rispetto verso chi stava in alto. Per esempio -lo racconta La Licata sulla Stampa- continuava a dare del lei al compaesano Vito Ciancimino, sindaco e assessore a Palermo. Corda lunga e cappello in mano: l’importante sono gli affari. Nel 69 la “cupola” di Palermo chiese aiuto ai corleonesi per sbarazzarsi di Michele Cavataio, un mafioso troppo intraprendente che aveva messo le cosche una contro l’altra. Fu Binnu a spaccargli il cranio col calcio della pistola, che si era inceppata. “Spara come un dio ma ha un cervello di gallina”, sentenziò il boss Di Cristina. E Liggio scelse Riina come successore, che riteneva che la mafia dovesse smettere di portare pazienza e farsi ubbidire col sangue e il terrore dalle “eccellenze”, politici o magistrati.Provenzano accettò la leadership del del compaesano, ma senza entusiasmo per i suoi modi troppo brutali, per la fila troppo lunga dei politici ammazzati e per lo “scrusciu”, dell’attentato di Capaci. Da quel momento ogni intermediario tra politica e mafia, ogni sbirru o carrubineri che voleva limitare il danno, si sarà messo a cercare Binnu, come chiave per far ragionare la mafia. Non so che cosa Provenzano abbia in realtà dato in questa trattativa, certo qualche cosa ha ottenuto; se viveva da latitante, tra Mondello e Monreale, non come un ricercato speciale ,a come un normale travet dello Stato-Mafia. È morto, silenzio tombale.
Downing Street ha un nuovo inquilino. Si chiama Theresa May: dopo l’inchino alla regina ha detto che farà “un governo contro i privilegi”. Non le crede Ken Loach: “vedrete, dice a Repubblica, abbasserà le tasse alle Corporation per compensarle dei vantaggi che hanno perso a causa della Brexit”. Voi, se volete, credetele pure ma a come potreste credere, qui da noi, alla “destra sociale” o alla Meloni. Come si può credere a un Trump che grida contro Wall Street. La vera cifra del governo May sta nella nomina a ministro degli esteri di Boris Johnson, lo stesso che aveva invitato gli inglesi a votare Leave per non trovarsi un domani sotto il tallone di un’Europa “nazional socialista” perché a guida tedesca. Dal punto di vista geo strategico la cosa è piuttosto semplice, Finanza e multinazionali, dopo aver svuotato l’autorità degli stati nazione, promosso il neo liberismo, gonfiato l’anti politica, ora vorrebbe al governo una sinistra globalista e perbenismo, alla Valls, alla Renzi o alla Clinton. Purtroppo questa sinistra sa ormai di casta, è interconnessa all’establishment, non incanta le periferie dove vivono in maggioranza gli elettori. Così il vuoto viene coperto dalle destre nazionaliste, le quali cercano un compromesso tra interesse del capitale e protezione del popolo di casa. Destre che guardano in cagnesco i migranti, il sud del mondo, il capitalismo cinese, ma anche il vicino e concorrente. Inghilterra e Francia contro Germania. Come nel secolo breve, che fu tale perché accorciato da due guerre mondiali ed europee.

Mps, corsa contro il tempo per lo stress test del 29 luglio

Corsa contro il tempo per liberare il Monte dei Paschi del “peso” di 10 miliardi di crediti deteriorati che non potranno essere recuperati. È la cifra richiesta dalla Bce all’istituto di credito toscano in una lettera di cui ha dato notizia Repubblica qualche giorno fa. In totale i crediti deteriorati sono 47 miliardi ma quei 10 miliardi sono proprio le sofferenze nette, per le quali non c’è nessuna speranza di rientro. Il lavoro sotterraneo che si sta operando nella grande finanza italiana, ha l’obiettivo di far arrivare Mps nelle condizioni migliori alla fatidica data del 29 luglio, il giorno dello stress test da parte dell’Eba, l’European Banking Authority che dovrà passare al vaglio 51 banche europee, di cui 5 italiane: Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi di Siena, Banco Popolare e Ubi.

Lo stress test, ricordiamo, è una valutazione su quale tipo di reazione ha una banca di fronte a una crisi economica, se insomma ha una struttura tale da poter reagire. Nel caso di banche sistemiche, lo stress test è particolarmente importante perché permette di verificare se c’è rischio di un fallimento o meno. Con tutte le conseguenze per i risparmiatori chiamati a rispondere direttamente secondo le regole del bail-in.
In soccorso di Mps dovrebbe arrivare il fondo privato Atlante bis, per il quale adesso è partita la raccolta della somma necessaria a intervenire. Il nome Atlante già dice tutto, perché riprende il mito del gigante che reggeva la volta celeste. Il fondo è nato ad aprile ed è gestito da Quaestio Sgr, una società di gestione del risparmio presieduta da Alessandro Penati, l’economista che spesso scrive su Repubblica. Di Atlante fanno parte banche, casse previdenziali private, fondazioni e tra i sottoscrittori c’è anche Cassa depositi e prestiti. Atlante, in sintesi, serve per ricapitalizzare e intervenire sulle sofferenze delle banche. Il primo intervento è stato sull’aumento di capitale di Banca Popolare di Vicenza. E adesso, secondo quanto riporta il Sole 24 ore, Atlante, una volta terminata la raccolta, riuscirebbe a smuovere almeno 10 miliardi di sofferenze del Monte dei Paschi.

Approfondimenti su banche e Mps su Left da oggi online e in edicola dal 16 luglio 

 

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Nemmeno le firme

Un momento del referendum a Napoli per una iniziativa a favore del No al referendum costituzionale, 15 GIUGNO 2016. ANSA / CIRO FUSCO

Ma questo referendum costituzionale esattamente cosa sta diventando? È la pallina anti stress di un’opposizione che blandamente si oppone? È l’esercizio retorico di noi che lavoriamo con le parole e partecipiamo al Circo Barnum girando per il Paese provando a iniettare un po’ di serotonina politica? È la scenetta di chi vorrebbe governare e poi non sa compilare i moduli? Andiamo con ordine.

I primi dati dicono che per il referendum sulla riforma Boschi di ottobre (o novembre, o dicembre o quando a Renzi parrà maturo) il Comitato del Sì (il Pd, per intendersi) ha raggiunto le 500.000 firme necessarie mentre il Comitato del No (il resto del mondo, per intendersi) si è fermato a 300.000 e consegnerà gli scatoloni, dicono, come “gesto simbolico”. Simbolico di cosa poi, se non di inettitudine, è tutto da capire.

In modi spicci si può dire che Renzi e il suo tribolatissimo partito sono riusciti a fare ciò che l’appuntitissimo Movimento 5 Stelle, la roboante Lega salviniana, l’archeologica sinistra italiana e destrorsi vari non riescono a raggiungere nemmeno sommandosi. 300.000 firme, per intendersi, sono meno di quanto Civati e Possibile (praticamente in solitaria) l’anno scorso sono riusciti a raccogliere sui quesiti referendari per Jobs Act, Italicum e Buona Scuola. Per dire.

La sensazione è che l’occasione del referendum per molti si limiti alla possibilità di qualche agenzia stampa in più, a qualche goccia di antirenzismo a casaccio o a qualche foto in posa da difensori della Costituzione mentre in gioco c’è il futuro equilibrio della democrazia del Paese. Questo referendum è un’occasione politica per proiettare un’idea di Paese: in bene o male. E finora non è un granché.

Non ci piacciono i musulmani, i Rom (e nemmeno gli ebrei). L’opinione pubblica italiana fa spavento

Cosa siamo diventati e cosa stiamo diventando? Qualche giorno fa la morte di Emmanuel Chidi Nnamdi, pestato dopo che sua moglie era stata definita una scimmia dal troglodita razzista di turno. Negli stessi giorni questi dati, che sono solo numeri frutto di un’indagine a campione, ma il segnale è anche questo pessimo. Il Paese dei Normanni, degli arabi, di Venezia la cosmpolita, delle dominazioni straniere torna a essere l’Italietta autarchica, terrorizzata dalle invasioni e presa dalla voglia di chiudersi in se stessa? Le cause sono molte, alcune paure legate a come va il mondo e a come staremo domani hanno un fondamento reale. Altre sono totalmente infondate. La percezione delle minoranze e degli immigrati, è una di queste. Non perché l’integrazione non prsenti problemi, ma perché non è qualche migliaio di siriani (o di Rom) che ci ha reso più poveri e insicuri del futuro. Eppure, a giudicare dal sondaggio annuale del Pew Research Centre su identità, immigrazione, minoranze, questo è quanto pensiamo.

Tra i dieci Paesi europei interrogati dai sondaggisti del Pew, i più chiusi, timorosi e respingenti siamo noi, gli ungheresi, i polacchi e i greci. Una differenza tra l’Italia e questi altri Paesi è presto fatta: due sono parte dell’ex blocco sovietico e hanno una storia democratica più corta – l’altro pure, ed è anche in preda a una crisi feroce da diversi anni. Tutti, tranne la Polonia, hanno conosciuto la crisi dei rifugiati in maniera più lunga e visibile che altrove – ma non un’invasione, che in altri Paesi di destinazione finale i numeri sono più alti.
Vediamo le tabelle segnalando che: non ci piacciono i rifugiati, la nostra propensione nei confronti del musulmani è peggiorata. I dati insomma somigliano a quelli del rapporto 2015, ma sono più brutti.

Chi ha una visione negativa dei musulmani?
Views of Muslims more negative in eastern and southern Europe

Non solo: il 46% degli italiani, il 37% degli ungheresi, il 35% dei polacchi e il 30% dei greci ritiene che i musulmani nei loro Paesi siano ben disposti verso l’Isis e gli altri gruppi terroristici. E qui, oltre alla politica e ai tweet diffondi paura di Salvini c’entra l’informazione: siamo il Paese mai colpito da terrorismo islamico, qui non ci sono frange radicalizzate come in altri Paesi, o almeno non così visibili, eppure noi più di tutti gli altri pensiamo che ai musulmani tutti piaccia l’Isis. Complimenti al sistema dei media e alla Tv nazionale.

Le differenze, ovunque, incrociano anche lo spettro politico: più sei di destra e più probabilmente avrai una visione negativa dell’immigrazione e dei rifugiati.
La tabella qui sotto, come quella dello scorso anno, è quella più preoccupante e grave:

Quanti hanno un’opinione negativa delle minoranze (Rom, musulmani, ebrei)?
Negative opinions about Roma, Muslims in several European nations

Sui Rom siamo primi in classifica, sui musulmani secondi e sugli ebrei – cioé una popolazione che non aumenta, non desta preoccupazione, non chiede l’elemosina, non organizza attentati terroristici e altri pregiudizi possibili riguardani musulmani e rom – siamo quinti, con un quarto della popolazione che dice che “non li vede bene”. Un quarto è tantissimo.

L’ultima tabella che riportiamo riguarda quelle che, nella media dei Paesi (non solo l’Italia, quindi), sono ritenute le questioni cruciali per appartenere a un Paese. Nell’ordine: Parlare la lingua, conoscere costumi e tradizioni, essere nato nel Paese, essere cristiano. In questo caso non sono medie e, tutto sommato, l’apprendimento della lingua locale è davvero importante. Ma il numero due, “conoscere costumi e tradizioni” esattamente cosa significa? Che non si fa pipì per strada – anche se al sabato sera è pieno di giovani maschi che la fanno – oppure che bisogna saper fare il ragù (o l’impepata di cozze o la amatriciana, o il risotto) e ballare il saltarello (o la tarantella, la pizzica)? E visto che si tratta di una media, con gli ungheresi in testa, le tradizioni sono il gulash e il tokai o andare a cavallo come un guerriero ungherese dei bei tempi che furono?

Cosa rende tale l’identità nazionale?

Language crucial to national identity

Finiamo con la tabella che aggrega i quattro indicatori qui sopra e che ci segnala, per l’ultima volta coma Ungheria, Polonia, Grecia e Italia siano, almeno nell’opinione, nella teoria, i meno propensi all’accoglienza. Gli svedesi, che ci vedono lungo, pensano invece che i rifugiati potrebbero anche essere un beneficio per l’economia (giallo è più preoccupato per l’identità nazionale, verde meno preoccupato).

Views about national identity vary across Europe

L’unica nota positiva dei dati del Pew, ma questo non lo dicono i ricercatori, è che gli italiani tendono a non votare troppo partiti estremisti di destra. Forse anche perché a sinistra tutti tendono a non manifestarsi in maniera abbastanza chiara, netta, a parlare con parole inequivoche. Il caso di Calderoli e dell’orango Kyenge, che i deputati Pd hanno pensato bene di non censurare con il voto in aula, è lì a ricordarcelo.

(PS il campione di Pew è di circa 1000 persone sopra i 18 anni per ogni Paese)

Baobab, Saltamartini annuncia visita. I volontari: «Fuori i seminatori d’odio»

Una soluzione all’orizzonte per il Baobab di via Cupa, a Roma, dove centinaia di richiedenti asilo sono ospitati in condizioni di estrema precarietà. Eppure aumenta il nervosismo. A Fiumicino, pochi giorni fa, alcuni cittadini hanno protestato contro l’arrivo di una cinquantina di migranti in una struttura a Isola Sacra. Oggi la notizia dell’arrivo, nel pomeriggio, della deputata leghista ex Ncd Barbara Saltamartini al Baobab. Sarà, dice la parlamentare, «un sopralluogo con i cittadini nella tendopoli di via Cupa… creata ad hoc dagli attivisti del Baobab sulla pelle dei cittadini al solo fine economico di ottenere la concessione di un immobile».

Non si fa attendere la reazione dei volontari che assieme al Medu e a pochi cittadini solidali tentano di portare sollievo alle persone ospitate in via Cupa. «Questa signora sappia che se fino ad oggi abbiamo sopportato con fatica le bugie sue e dei razzisti come lei da oggi non siamo più disposti a farlo». Gli attivisti di Baobab Experience invitano Saltamartini a rinunciare al sopralluogo – «Non è giornata di seminatori d’odio» – e spiegano che in serata è previsto un denso programma di attività con una cena offerta dalla comunità argentina di Roma in occasione del 200esimo anniversario dell’Indipendenza del Paese sudamericano e un mediatore che racconterà ai migranti africani il debito storico dell’Argentina nei confronti dei migranti da tutto il mondo, tra i quali tanti italiani.

«Non chiediamo nè soldi nè immobili» spiegano i volontari. «Noi la coscienza ce l’abbiamo ed è più pulita di quella di chi soffia sul fuoco del razzismo, dell’intolleranza e del pregiudizio». Alla serata del Baobab, concludono, «è invitata la Roma solidale, accogliente, democratica, popolare, antirazzista ed antifascista. A questo evento è invitato tutto il quartiere che così tanto, nonostante i problemi, ci ha sostenuto e continua a sostenerci». Saltamartini non è tra questi.

Massimo Percossi/Ansa
Massimo Percossi/Ansa

Baobab, via Cupa, Roma. Massimo Percossi/Ansa
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Baobab, via Cupa, Roma. Massimo Percossi/Ansa
Massimo Percossi/Ansa

Baobab, via Cupa, Roma. Massimo Percossi/Ansa
Massimo Percossi/Ansa

 

Baobab, via Cupa, Roma. Massimo Percossi/Ansa
Massimo Percossi/Ansa

È morto Bernardo Provenzano e anche questa volta ci lascia a bocca asciutta

Muore Bernardo Provenzano, il capo dei capi, il boss di Cosa Nostra che capì per prima che per fare affari e sopravvivere la mafia doveva imparare a sommergersi. S’è raffinato, Provenzano nel corso della sua carriera criminale: da ladro di bestiame ed esperto di macellazione clandestina sotto l’ala protettrice di Luciano Liggio agli inizi degli anni cinquanta Provenzano il “ragionere” (come lo chiamavano per non citarne il nome gli appartenenti di Cosa Nostra durante la sua latitanza) è arrivato fino al trono più alto della consorteria criminale siciliana.

Lo chiamavano ‘u tratturi per la ferocia con cui eliminava i nemici. Negli annali della storia rimane la scena con cui il 10 dicembre del 1969 uccise il boss Michele Cavataio nella cosiddetta “strage di viale Lazio” stordendolo prima con il calcio della sua Beretta e poi finendolo a colpi di pistola.
Provenzano è stato, assieme a Totò Riina, la guida della seconda guerra di mafia che ha portato i corleonesi da semplici villani a capi indiscussi di Cosa Nostra. Erano gli anni ’80 quando Riina e Provenzano insediarono la nuova “commissione” composta da uomini fedeli alla loro linea.

Poi ci furono le stragi, il ’92, Falcone e Borsellino e poi gli attentati del ’93. L’Italia scossa da una controffensiva mafiosa che sembrava non voler finire. Quando in quell’anno arrestarono Totò Riina (che dentro Cosa Nostra sono in molti a pensare che “fu venduto” proprio dallo stesso Provenzano) zio Binnu prende in mano il comando e comincia a confezionare la mafia moderna: basso profilo, usare meno pallottole possibile, niente stragi e un lento processo di immersione che diventa poi normalizzazione. Cosa Nostra diventa liquida e Provenzano un fantasma.

Quarantatré anni di latitanza però non avvengono per caso: Provenzano forse non doveva essere preso e il cordone di sicurezza che ne garantiva l’anonimato e la protezione non fu composto solo da mafiosi. Quando nel 1993 il pentito Cancelli si costituisce e dichiara di essere disponibile a fare da esca per un appuntamento con il capo dei capi i Carabinieri decisero di non muoversi. Diranno che lo pensavano morto.

Poi c’è la vicenda ancora non del tutto chiarita del boss Ilardo: il reggente mafioso di Caltanissetta divenne confidente del colonnello Michele Riccio svelando il luogo della latitanza di Provenzano a Mezzojuso. Dice Ilardo che il Colonnello Mario Mori non gli dette uomini e mezzi per poter intervenire. Ilario viene ammazzato. E il fantasma di Corleone rimane libero.

Una serie di circostanze che rimangono senza risposta: se Provenzano è rimasto in libertà così a lungo forse a qualcuno, nelle stanze dei bottoni, faceva comodo così: il processo sulla trattativa Stato – Mafia indaga anche su questo.
Poi c’è l’arresto del 2006. Quelle immagini così poco confacenti all’epica del personaggio: un vecchietto ammuffito rinchiuso in un casolare nei pressi di Corleone circondato da formaggi, santini e i pizzini, i minuscoli foglietti scritti a macchina con cui comunicava all’esterno. È proprio la fitta rete di postini dei pizzini a tradirlo e a permetterne la localizzazione.

Ma anche in carcere, Provenzano, è stato un punto interrogativo: prima lascia intendere di essere disposto a parlare (durante un incontro con il senatore Beppe Lumia e l’europarlamentare Sonia Alfano e poi interrogato dai magistrati di Palermo) e proprio quando sembra possibile vedere un filo di luce e verità ecco la malattia: Provenzano peggiora, dicono che abbia tentato il suicidio con un sacchetto di plastica, racconta al figlio di essere stato picchiato in carcere fino a diventare vegetale. E oggi muore. Come sempre con un tempismo perfetto.

Tutte le ragioni (o quasi) per non scaricare Pokémon Go

Gotta catch’em all, altrove. Pokémon Go entra nell’Holocaust Memorial Museum di Washington e l’amministrazione si oppone: «È estremamente irrispettoso».
Lanciato dalla Nintendo il 6 luglio, Pokémon Go ha trasformato il museo in una Pokéstop, un luogo in cui gli utenti possono ottenere gratuitamente alcuni oggetti di gioco. Ironia amara per un luogo che custodisce testimonianze e simboli della memoria dello sterminio nazista. E mentre il museo ha richiesto formalmente che la propria posizione venga rimossa tra quelle incluse nel gioco, Pokémon Go continua a crescere, trasformandosi in un fenomeno mondiale. Da lunedì scorso, l’applicazione per iOs e Android è stata scaricata milioni di volte, continuando ad aumentare così velocemente da rendere impossibile una stima precisa dei download e, soprattutto, facendo crescere il valore di mercato del colosso giapponese di circa 9 miliardi di dollari in una sola settimana. Ma che cos’è Pokémon Go e quali rischi comporta per la privacy dei suoi utenti?

Poké Balls nel bagno di casa: realtà aumentata e geolocalizzazione

Per i nati tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni duemila, Pokémon ha fatto una generazione. Gioco per GameBoy, cartone animato di culto che ha dato vita a una serie infinita di gadget (ricordate la mania per Pikachu?), carte da gioco e ora è diventato un gioco compatibile con gli smartphone dal successo immediato e strabiliante.  Lanciato nel 1996 per Gameboy, il gioco ha come obiettivo la cattura di 150 mostri tascabili. Tra battaglie e addestramenti, Pokémon catturati e da catturare, in questi dieci anni l’evoluzione del gioco ha seguito quella delle console Nintendo, si è passati così dal Nintendo 64 alla Wii U fino ad approdare nel regno delle app e degli smartphone che secondo molti sarebbero il futuro del gaming.

La vera svolta è avvenuta nel 2015, quando il colosso giapponese dei videogiochi, ha trovato nella Niantic il suo nuovo partner commerciale. La compagnia, originariamente appendice di Google, crea giochi e applicazioni in Realtà aumentata che sfruttano la posizione degli utenti. In parole povere funziona così: con la fotocamera dello smartphone inquadri quello che ti sta attorno, proprio come se dovessi scattare una foto, l’app riconosce il luogo e mostra sullo schermo del cellulare qualsiasi cosa sia stata geolocalizzata in quel punto. Un Pokémon per esempio.

Delle schermate che mostrano come funziona il videogame in Augmented Reality Pokémon Go
Tre schermate di uno smartphone che mostrano come funziona il videogame in Augmented Reality Pokémon Go

Ma Pokémon Go non è il primo gioco in Augmented reality realizzato dalla Niantic, nel 2012 infatti la casa di produzione aveva già lanciato Ingress. Il gioco, permetteva ai suoi utenti di sfruttare la propria posizione e l’ambiente circostante per cercare ed accedere a portali (contraddistinti da luoghi reali come statue, parchi, palazzi) per estendere il proprio controllo sullo spazio circostante. Profanamente, un pronipote iper-interattivo di Risiko.
Sfruttando le intuizioni e le mappe pensate per Ingress, Pokémon Go è stato sviluppato in modo molto simile. Ciascun giocatore è rappresentato da un avatar che si muove in uno spazio mappato allo stesso modo in cui lo sono i percorsi registrati dai navigatori. Come per Waze – applicazione di navigazione stradale che permette l’interazione tra gli utenti – il gioco localizza la posizione dell’utente e gli permette di interagire con l’ambiente circostante, segnalando luoghi e altri utenti. Con Pokémon Go dunque, grazie all’ Ar (augmented reality), luoghi reali e virtuali si mescolano – ecco che un museo storico può trasformarsi in una stazione di rifornimento per Pokémon – e così i Pokemon per essere catturati compaiono direttamente sullo schermo.
Il grande merito di queste applicazioni, se ne beano i creatori, e quello di aver costretto i propri utenti ad abbandonare la console e la sua naturale propaggine – il divano – per uscire di casa ed interagire con il mondo esterno. Peccato però che siano stati taciuti i rischi per la privacy di quegli stessi utenti. Individuare la posizione di un giocatore significa aumentare la tracciabilità dell’utente, significa produrre un’infinita mole di dati che viene custodita e commercializzata dalle compagnie che possiedono l’applicazione. Se risulta inappropriato vedere comparire Squirtle ad un funerale o nei corridoi di un museo, quanto può essere pericoloso svendere gratuitamente la propria privacy ad una grande corportations?

Pikachu is watching you: quant’è sicuro Pokémon Go?

«Mi ha beccato mentre catturavo Pokémon mentre ero a casa della mia ex». Così si giustifica il fidanzato sbugiardato dall’applicazione, la cui testimonianza è stata raccolta dal Guardian in un articolo che commenta alcuni dei casi più curiosi raccontati dagli utenti. Tra il ritrovamento accidentale di un cadavere e professionisti cacciatori di Pokémon che vendono le proprie abilità tra gli utenti, l’articolo sembra tratteggiare la trama di un romanzo distopico in cui un videogioco si fa padrone di una società intera e acquisisce controllo e potere.
Secondo Adam Reeve, architetto informatico che si occupa di sicurezza e sorveglianza di massa, Pokémon Go fornisce a Niantic l’accesso all’account Gmail dei propri utenti. Non soltanto quindi la propria posizione, ma anche l’invio e la lettura di mail, l’accesso alla cronologia e ai propri documenti nel drive di google sarebbero garantiti alla compagnia attraverso la registrazione al gioco. Ninatic in un comunicato ufficiale ha smentito ogni mira di controllo sugli utenti e ha assicurato che chiederà a Google di poter aver accesso soltanto a quelle informazioni di base che permettono la fruibilità del gioco.

C’è chi traccia e chi cracca: Pokémon Go in Italia

Sebbene il gioco sia scaricabile legalmente soltanto negli Stati Uniti, in Australia e in Nuova Zelanda, Pokémon è diventato trend internazionale – battendo anche il porno! – , spingendo curiosi di tutto il mondo a scaricarlo illegalmente e diventando di gran lunga più utilizzato dagli utenti di Twitter e WhatsApp.
In attesa di vedere quanto durerà la Pokémon mania (e che l’app sbarchi in Europa, manca pochissimo) ecco un video tutorial su youtube che vi insegna come scaricare l’applicazione senza aspettare un minuto di più. Il tutto ovviamente a vostro rischio e pericolo, noi vi abbiamo avvisati.